N.05
Settembre/Ottobre 2006

Credere all’amore di Dio: l’opzione fondamentale della vita cristiana

«Abbiamo creduto all’amore di Dio: così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita»: è l’introduzione dell’Enciclica Deus caritas est ad invitarci, nella sua semplice profondità, ad una ripresa “originale” della riflessione sulla vocazione sia sotto il profilo di una sua rigorizzazione teologica, sia nella capacità di offrire opportune considerazioni sulla condizione attuale dell’esperienza cristiana. 

Lo svolgimento della sintetica tesi espressa da Benedetto XVI trova sviluppo all’interno dell’intero percorso dell’Enciclica, incrociando tutte le relazioni fondamentali che definiscono e qualificano in senso cristiano l’esistenza del credente, assumendo l’amore come loro cifra interpretativa ed unificante: la relazione di prossimità, la relazione all’interno del più vasto organismo sociale ed ecclesiale, quella con Dio e quella intrapersonale[1]. È così possibile cercare di articolare i contenuti del presente contributo come altrettante declinazioni di un’unica questione fondamentale: cosa significa credere all’amore di Dio a partire da quei legami che dicono dell’uomo, della sua storia, delle decisioni con cui prende corpo, attraverso il tempo, la sua vita? Tale domanda è fondamentale nel duplice senso già segnalato e sul quale sembra costituirsi la trama del testo papale, in quanto porta alla luce un elemento essenziale e caratterizzante l’affidabilità del Dio cristiano e l’ipotesi di una dedizione piena da parte dell’uomo alla sua causa. Ma fondamentale, altresì, nel senso di istituire una lettura più radicale della stessa crisi culturale, anche quella in rapporto alla vocazione e alle sue forme raccomandate dalla Tradizione ecclesiale, che pare essere di qualità diversa rispetto alle pur rispettabili documentazioni offerte dalle scienze psico-sociali e affonda più direttamente le radici sul terreno dell’antropologia e della comprensione della fede cristiana. 

Cercherò di articolare questa provvisoria pista di riflessione attorno ad alcuni elementi che, corrispondendo a precise sollecitazioni offerte dalla Deus caritas est, possono rappresentare altrettante forme di risposta alla questione basilare, sollevata fin dalle prime battute del testo di Benedetto XVI. 

 

L’amore cerca una storia per disporre la vita: credere all’amore 

L’insistente richiamo presente nell’Enciclica alla tradizione giovannea, particolarmente quella della Prima Lettera, si concentra sulla duplice polarità dell’affermazione teologica “Dio è amore”, in stretta connessione alla percezione del credente di essere costituito, in forza dell’agape divina, un “dimorante nell’amore” (cfr. 1 Gv 4, 16)[2]. Custodire il segreto della propria vita, acceso dall’agape divina, sta in questa possibilità aperta all’uomo di trovare in essa la propria dimora e la propria permanenza. La fiducia fondamentale è di non disperare né sospettare di questo amore e, insieme, di pensare ad esso non come l’illusione sentimentale di un attimo, ma come forza, quella di Dio, resasi disponibile per l’uomo in modo definitivo. Una potenza che sostiene e indirizza l’esistenza, dandole consistenza e storia. In questa luce, ancora tutta da esplorare, il testo di Benedetto XVI sembra portare in evidenza una difficoltà, forse di sempre, ma particolarmente accentuata nelle dinamiche socio-culturali contemporanee, circa l’esistenza cristiana e la sua dimensione vocazionale. 

La vita di molti credenti, certamente, conosce slanci generosi, ma ancora non sa prendere le distanze dalle sue illusioni e delusioni; si lascia illuminare dalla grazia del momento, ma non ha né parole, né gesti per dare continuità ordinata all’esistenza. La fede non cessa di marcare affettivamente il vissuto, ma non ha la tenacia per disporsi a diventare una storia. Il Papa invita attraverso le sue sobrie parole ad accorgersi di una diffusa debolezza nella coscienza dei credenti. Una debolezza che si nutre, sul terreno della teologia e della fede, in modo più radicale rispetto agli abituali indicatori di crisi allestiti nelle ricerche socio-psicologiche: quella di “credere all’amore”, confidando nel senso buono della promessa di Dio e sapendola custodire in quanto dono – e non conquista dell’uomo – affidato per la vita e per cui la vita può meritare di essere spesa. 

Dire di sì a Cristo è, infatti, affermare per sé l’unità di una vicenda individuale certamente originale, ma i cui tratti di riferimento sono da ritrovare all’interno di una storia di amore che tocca Dio e l’uomo, così come ci è consegnata nella Parola di Dio. Essa scompagina l’usuale pensiero religioso, mettendo in primo piano, senza corromperle, sia l’immagine di Dio che quella dell’ uomo (cfr.DCE 9. 11). Solo all’interno della cifra complessiva dell’amore, infatti, possono essere intese le dimensioni della grazia divina e della libertà umana, che sono all’inizio della vocazione e debbono richiamarsi reciprocamente, perché siano entrambe interpretate in modo giusto, senza sfocature di sorta. Certamente l’agape divina è grazia, sorprendente nel suo disporsi nei confronti dell’uomo e nella tenacia del suo riproporsi, nonostante la durezza e il sospetto che egli non cessa di avere nei suoi confronti. Il fatto che essa venga in luce già nella letteratura profetica del Primo Testamento, come esemplarmente proposto dall’Enciclica in riferimento a Osea ed Ezechiele, dà ragione di tale qualità: proprio nel momento in cui si dimostra di dubitare nei confronti di Dio, affidandosi o ritornando a prestare fiducia agli “altri dei”, la Parola si piega fino a diventare un giudizio che si misura non con la vendetta per un patto tradito, ma ponendo nuovamente davanti all’uomo l’amore, nella sua qualità più intima e sponsale, come dono inesausto e sempre intatto nella sua freschezza originaria. 

È l’atto di amore che Dio ripropone continuamente nelle svolte della storia della salvezza e avviene in vista di nient’altro che questo: perché l’uomo scopra «la gioia nella verità, nella giustizia, la gioia in Dio che diventa la sua essenziale felicità» (DCE 9)[3]. Dio non chiede altro all’uomo, non pone subdoli ricatti per attentare alla sua libertà. Invita piuttosto a pensare la libertà della creatura non in alternativa, ma nel solco di un atto del suo amore, offrendole un orientamento, perché essa non si svolga in modo distruttivo, ma possa diventare storia e vita vissuta. 

Credere all’amore divino come origine della libertà dell’uomo significa per Israele, ma anche per il fedele di ogni tempo, riconoscere che il Tu divino vive lasciando essere la sua creatura, scegliendo di non riempire in modo totalizzante lo spazio dell’essere. Una libertà che non è semplicemente qualcosa di divino dato all’umanità, ma è un dono “a caro prezzo”, con il quale Dio ha scelto di esprimere la sua onnipotenza rinunciando a riempire di sé il tutto, lasciando esistere un “altro”, creando un’altra libertà, l’uomo, di fronte a lui[4]. O, secondo l’espressione dell’esegeta André Wénin: «avere libertà e vita vuol dire impegnarsi in modo assoluto nei confronti di colui che non pretende di assolutizzarsi, poiché suscita di fronte a sé un partner libero. Vivere libero significa scegliere di dare un’importanza assoluta a colui che non dimostra nessuna pretesa di essere tutto, poiché pone di fronte a sé un “tu” responsabile»[5]

La prima e radicale forma di sottrazione nei confronti della responsabilità per essere e per vivere, l’archetipo di non corrispondenza alla vocazione per una storia di amore è implicato nello stesso racconto delle origini. La domanda di Dio nel giardino: “Adamo dove sei?” (Gen 3, 9), non risuona minacciosa, ma vive del pathos di Dio nei confronti della sua creatura. Sottrarsi alla parola e al volto di JHWH, nascondersi a lui, sono manifestazioni esterne di un sospetto pauroso più profondo che ormai si agita nel cuore dell’uomo. 

La domanda di Dio alla ricerca di relazione con l’uomo finisce per portare alla luce la sfiducia ed il sospetto di quest’ultimo, chiuso narcisisticamente in sé e ormai diffidente di ogni offerta buona per il vivere che venga da altri se non da lui stesso. «La piega della sua introversione narcisistica si accompagna sempre ad una qualche variazione sul tema del sospetto ostile, al quale Adamo è sensibile, circa l’amore originario»[6]

L’insinuazione della tentazione di diffidare di una storia di libertà, assicurata dall’amore di Dio, può così rappresentare la forma di sfiducia dell’uomo di sempre; tuttavia essa appare nei suoi contorni più evidenti nella nostra cultura che ha finito per associare al nome di Dio e alla sua fedeltà l’idea della mortificazione del desiderio di felicità e della libertà dell’uomo. Fare dell’agape divina la scelta fondamentale dell’esistenza cristiana significa allora costruire (e custodire) la propria libertà a partire dalla promessa di Dio. In tale prospettiva, «quella che chiamiamo grazia – la potenza dell’agape divina – è la conferma che esiste sempre, grazie a Dio, un margine di azione per la libertà e uno spazio di dignità»[7] per l’uomo, anche quando la storia di vita sembra gettare pesanti ipoteche sulla qualità della promessa e sulla possibilità del suo compimento buono per la vita. Credere all’amore, espressione di una retta professione di fede, diventa così anche criterio per l’ortoprassi, cioè per la capacità di dare forma storica a quelle relazioni giuste e doverose che l’amore raccomanda. 

Tuttavia, prima ancora che nell’agire effettivo, l’azione dell’agape divina, che forma la libertà dell’uomo, si organizza attorno ad alcune polarità che rappresentano altrettanti punti di forza per l’esercizio della vita e che, ugualmente, costituiscono precisi ambiti osteggiati dalla cultura-ambiente contemporanea: il superamento della logica dell’investimento di sé secondo la dinamica dell’utile; il superamento di forme più o meno larvate di onnipotenza e di accumulo illusorio di forza, senza la capacità di integrare il limite come condizione propria dell’esistenza; l’attenzione a pensare il bene della propria vita in una prospettiva più ampia che includa la cura per il bene comune e da condividere secondo criteri di fratellanza e di prossimità. 

Come si può facilmente notare, tutti questi aspetti hanno strettamente a che fare con l’idea di vocazione e con elementi di verifica dell’opzione di fondo che predispone ad una scelta matura di vita. Essi trovano il terreno di cultura nella capacità di vincere la paura dell’Adamo di sempre: quella di sottrarsi alla Parola che lo chiama ad un investimento pieno dell’esistenza, attraverso tutti quei legami che affettivamente hanno a che fare con un senso buono per la vita e domandano di essere tenacemente custoditi perché possano costituire la traccia affidabile della propria storia.

 

Al cuore dell’amore di Dio: la forma drammatica dell’amore 

Credere all’amore significa, secondo la confessione di fede cristologica, entrare interamente nel mistero di un atto di dono con cui il Figlio si consegna all’umanità e al Padre: «da questo abbiamo conosciuto l’amore: egli ha dato la sua vita per noi» (1 Gv 3, 16). 

La densa sintesi della Prima Lettera di Giovanni, cui si rifà nell’Introduzione della Deus caritas est lo stesso Benedetto XVI, va al cuore della forma drammatica dell’amore. Ciascuna espressione apre orizzonti decisivi in ordine alla comprensione dell’esistenza cristiana. Va notata, così, la particolare pregnanza del verbo “conoscere” che, com’è noto, nel lessico di Giovanni fa riferimento ad una sensibile manifestazione di tale amore che colpisce l’uomo che ne fa un’esperienza viva. Conoscere è essere stati immessi all’interno di un evento, esserne compresi, avvertirne la ripercussione del suo pathos che non può lasciare intatta, ma segna profondamente, la vita. Significa, ancora, essere portati da questa conoscenza a comprendere se stessi a partire da essa, in quanto si è impressa corporalmente nel discepolo: «colui che abbiamo udito, colui che abbiamo veduto con i nostri occhi, colui che contemplammo e che le nostre mani toccarono, cioè il Logos della vita» (1 Gv 1, 1)[8]. Occorre, però, assumere tutta la pregnanza del termine “esperienza”, spesso confuso con la molteplicità degli esperimenti e delle possibilità della vita, senza che essi, tuttavia, istruiscano in modo adeguato circa il senso della vita. Sotto questo profilo, la raccomandazione insistente a vivere esperienze non si salda su un’adeguata volontà di conoscere qualcosa di sé attraverso l’esperienza. La sovrapposizione di esperienze, anche quelle collegate alla fede, porta non alla sapienza di vita, ma alla consumazione multipla e rapida di possibilità differenti, per le quali non si dispone di un’adeguata criteriologia di apprezzamento. «In greco – ricorda il filosofo Salvatore Natoli – esperienza si dice empeiría, con la radice péras, che vuol dire confine. L’esperienza è dunque la modalità attraverso la quale l’uomo, vivendo, traccia confini, comincia ad elaborare una mappa del mondo, ma anche di sé»[9]. Il conoscere attraverso l’esperienza, cui allude l’espressione giovannea, per essere apprezzato in tutta la sua forza, deve rifarsi a questo significato suggestivo introdotto dall’etimo greco. 

È l’amore di Dio, manifestato nel Signore Gesù e svelatosi nella sua vicenda pasquale di croce e resurrezione, il punto di riferimento a partire dal quale il credente traccia la mappa per il proprio cammino, rende domestico a sé il mondo, lo dota di senso affinché possa abitarlo. «Egli ha dato la sua vita»: è questo per il cristiano l’asse di orientamento della sua esistenza, a partire dal quale ad ampi raggi disporre la trama dei significati e andare alla ricerca della verità dei gesti di cui si compone la vita. È degno di nota l’utilizzo, nel testo greco, del verbo “dare” al perfetto, forma con cui si allude sia alla storicità dell’evento condensato nella Pasqua di Gesù, sia al permanere degli effetti di tale atto di donazione sul presente della vita del credente. Egli sa di incontrare Cristo anche oggi nel suo donarsi, non lo conosce se non come colui che dà la sua vita. 

Tale esperienza fa del dono un punto di riferimento nella costruzione dell’esistenza: il desiderio di donarsi di Gesù diventa il suo, è la chiave per interpretare il proprio vissuto, per abitare la terra vivendo di quella fede per cui il suo Signore si è consegnato al Padre e agli uomini integralmente, fino all’ultimo respiro. Lo spazio aperto della vita viene così iscritto non dentro la logica di dominio e di affermazione; essa non appare il progetto del credente nel Dio-Agape. Egli, nel Figlio, non ha scelto di compiacere se stesso, ma si è esposto, svuotandosi della stessa “forma divina” (cfr. Fil 2, 6-8) e ponendosi all’umile servizio dell’umanità. O, altrimenti, secondo la forte affermazione di Benedetto XVI, «nella sua morte in croce si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale egli si dona per rialzare l’uomo e salvarlo – amore, questo, nella sua forma più radicale» (DCE 12). 

Tale atto di donazione, infine, è “per noi”. La pregnanza del termine diventa la cifra complessiva dell’esistenza di Gesù come pro-esistenza; là dove la verità di ogni gesto, proposto nella narrazione evangelica, trova il suo “simbolo”, cioè l’elemento che lo tiene insieme al tutto restituendogli la verità complessiva, proprio nel mistero della croce. È dunque importante per il discepolo, che si scopre “dimorante nell’Agape”, apprendere che l’agire di Dio nel Figlio non ha secondi fini, se non quello dell’amore, restituendo all’uomo il gusto della sua umanità e della sua relazione con Dio. Il dono di sé, “l’amore fino alla fine” di Gesù (cfr. Gv 13, 1), cioè nella sua forma pienamente compiuta, è per il credente la garanzia dell’affidabilità della promessa di Dio. Essa non è contro l’uomo, non mortifica la sua esistenza. 

La fede del credente è tutta compresa in questo essere “per-noi” di Dio. Ne offre una descrizione efficace Pier Angelo Sequeri: «la fede chiesta e offerta, predicata e praticata da Gesù, non ha prima di tutto la forma della rassegnazione alla dura necessità di consegnarsi a ciò che non si può vedere, apprezzare, decidere. Al contrario, il suo principio è l’evidenza del gesto della liberazione dal male. La sua forma è quella di una relazione con Dio affidata alla tenace manifestazione della sua promessa originaria: restituita alla sua paradossale evidenza nel Figlio crocifisso. Il personale affidamento e la libera fedeltà dell’uomo sono il sigillo della sua qualità»[10]. Hans Urs von Balthasar, riconoscendo nell’inquietudine del cuore lo stigma del desiderio umano che vuole comprendere se stesso, pone al centro della Rivelazione la credibilità dell’amore, con la sua manifestazione nella Pasqua di Gesù, forma drammatica dell’essere “per noi” di Dio: «essa [la Rivelazione] chiaramente precisa che questo cuore giunge a comprendere se stesso soltanto quando ha scorto quell’amore che il cuore divino prova per lui sino a giungere a morire per noi, trafitto sulla croce».[11] 

La sintetica affermazione di “credere all’amore” non si consegna, in tal modo, ad una deriva sentimentalistica, né rappresenta una cattura emotiva accattivante, ma intercetta la dimensione matura della fede che impegna la totalità dell’uomo; in tale dimensione si apre l’appello ad una risposta creativa di amore, quella stessa raccomandata dal comandamento che, prima ancora di un “dovere” morale, suggerisce la possibilità per la persona di disporre di sé e della qualità del suo agire, assumendo in modo creativo la dinamica del dono.

 

L’impronta creatrice di una storia: il comandamento e la dimensione creativa dell’amore
Non può sfuggire la “paradossalità” del comandamento dell’amore, là dove si istituisce, a livello ingenuo, una connessione improbabile tra ciò che è sentito come atto di libertà (l’amore, appunto) e ciò che è espresso nella forma di un comandamento esterno, percepito come imposto e alternativo alla libertà stessa. 

Questa eccedenza e sovrabbondanza dell’amore è stata acutamente intuita da Paul Ricoeur, il quale ha sottolineato come esso, pur presentandosi nella Rivelazione cristiana nella forma di un comandamento, sia ben più di un precetto o di un dovere morale: il suo statuto è quello di introdurre in un’economia superiore alla logica dell’uguaglianza e dello scambio reciproco nella sua degenerazione utilitaristica, anzi precede e sorregge ogni espressione della Legge. «È la parola che l’amante rivolge all’amata: “Amami”. Questa inattesa distinzione tra comandamento e Legge ha senso solo se si ammette che il comandamento d’amare è l’amore stesso, raccomandante se stesso. […] L’amore è oggetto e soggetto del comandamento, o, in altri termini, è un comandamento che contiene le condizioni della sua propria obbedienza grazie alla tenerezza dell’esortazione “Amami!”»[12]

Tale considerazione appare subito pertinente con la natura propria del comandamento secondo la prospettiva biblica: l’ingiunzione ad amare non suona come limitazione della libertà, ma come invito ad assaporare fino in fondo la libertà donata da Dio e la liberazione dall’angoscia e dalla paura nei confronti dell’altro, oltre che a riconoscerne la sua forza e a sperimentarne la sua audacia. L’atto di liberazione – consegnato nelle pagine dell’Esodo – è per Israele esperienza sorprendente di essere stati portati “su ali di aquila”, fino a contemplare l’ampiezza e l’orizzonte aperto di un dono che non cessa di sorprendere. 

Così è della gioia degli uomini e delle donne che hanno incontrato la potenza dell’amore manifestata in Gesù, come attestato nei racconti di “miracolo”. Tale forza d’amore ha riabilitato integralmente la loro persona in un modo ben più profondo e inatteso della restituzione alla salute fisica, rinnovando in loro il senso di un’esistenza donata. Per questo – ricorda Benedetto XVI – «il “comandamento” dell’amore diventa possibile solo perché non è soltanto esigenza: l’amore può essere “comandato” perché prima è donato» (DCE 14). E ancora, in riferimento alla sua declinazione nei confronti di Dio e del prossimo: «amore di Dio e amore del prossimo sono inseparabili, sono un unico comandamento. Entrambi però vivono dell’amore preveniente di Dio che ci ha amati per primo. Così non si tratta più di un “comandamento” dall’esterno che ci impone l’impossibile, bensì di un’esperienza dell’amore donata dall’interno, un amore che, per sua natura, deve essere ulteriormente partecipato ad altri. L’amore cresce attraverso l’amore» (DCE 18). 

Tale risposta all’amore ricevuto non attua un puro scambio tra la prestazione di Dio e quella richiesta all’uomo. Ciò che scaturisce dall’esperienza dell’amore divino per l’uomo non può essere altro che un atto creativo che impegna la libertà; e, come tale, è espressione della possibilità e del volere umano, in un senso ben più radicale del puro dovere, ma attraverso una piena identificazione di sé nell’atto di amare, entrando così in dialogo con Dio secondo la sua modalità di rivelarsi all’uomo, “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (cfr. Dt 6, 4-9). Tale sottolineatura, consegnata alla fede di Israele nella pratica della preghiera quotidiana, non suona come un rafforzativo enfatico, ma designa precise modalità a partire dalle quali l’esperienza di amore ricevuta diventa riconoscimento e dono, fino ad attraversare tutte le direttici a partire dalle quali si comprende l’uomo. 

L’amore del cuore è quello della dimensione intima, colpita e segnata a fuoco, come nel sigillo sponsale del Cantico dei Cantici, dalla presenza interiorizzata di Dio: è principio decisionale che unifica in sé la persona e dà unità agli atti della sua vita. Esso segue dunque la dinamica spaziale, dall’esterno all’interno; dall’intimità “abitata” dal desiderio di Dio e della sua promessa, alla dimensione esterna dei gesti di cui si compone l’esistenza. L’amore dell’anima è quello del tempo, cioè della durata, fino alla fine, fino a restituire a Dio il respiro e l’alito che è suo dono. Esso consiste nell’amare fino a rendere la vita, avendone riconosciuto il suo essere donata. L’amore con tutte le forze fa riferimento alla capacità di disporre di ciò che è proprio (anche gli stessi beni di cui ciascuno è dotato) come se non li si possedesse e come se non si vantasse su di essi un diritto ultimo di proprietà. 

Si percepisce allora che la lettura delle qualificazioni dell’amore nei confronti di Dio rimanda già alla loro ripresa cristologica. Il Cristo è colui che ha compiuto perfettamente questo amore del cuore, dell’anima e delle forze. In lui il credente è chiamato, su di esso, a misurare la propria vita: egli ha ricevuto in dono lo Spirito per maturare la fede di Gesù e dare testimonianza della forza di questo amore. 

L’unificazione e l’interazione proposta da Gesù tra amore di Dio e amore del prossimo non ne sopprime, tuttavia, una possibile articolazione allusa in particolare nella versione matteana del duplice comandamento (Mt 22, 3440). Il “più grande e primo” comandamento, quello dell’amore di Dio, unisce a sé il “secondo” che gli è “uguale” (ómoios). Si istituisce una duplice criteriologia: quella tra il “primo” e l’altro che gli è “secondo”, e quella di “uguaglianza”, di pari valore, tra di essi. «Il primo comandamento – ha notato con finezza Bruno Maggioni – è assoluto per se stesso, non è simile a nessun altro. Il secondo, invece, è assoluto perché simile al primo. Qui sta il segreto dell’uguaglianza e della differenza, dell’identità e della distinzione. […] Il legame che unisce i due amori – in un rapporto ovviamente asimmetrico – non si aggiunge loro dall’esterno, ma sorge dal loro interno, dalla loro natura, se così si può dire. Uguali non in quanto tutti e due necessari per abbracciare l’intero ambito dei doveri, quelli verso Dio e quelli verso gli altri; ma perché il primo si riproduce nel secondo, e il secondo riceve la sua importanza nel primo»[13]. È all’interno della dinamica che lega il credente nell’amore di Dio che trova la sua significazione cristiana l’amore del prossimo, comprendendosi nella stessa radicalità che lo rende uguale, ma anche traendo la sua qualità specifica a partire dal primo. Fino ad abbracciare quella sua espressione radicale per cui non si ama solo l’amabile, ma si estende al nemico, all’ostile, all’indifferente. Una siffatta possibilità è solo di chi viene colpito nell’affetto da un amore, quello divino, che ha amato sorprendentemente ciascuno di noi mentre eravamo “nemici e peccatori” (cfr. Rm 5, 10).

La percezione dell’altro, quella che, secondo la suggestione della parabola lucana del buon samaritano, invita a pensare la prossimità nell’ottica del farsi incontro, del diventare prossimo per l’altro in difficoltà e di chi è sentito come estraneo o minaccia alla mia integrità, è possibile, anzi è fondata, sul riconoscimento dell’Altro, di Dio. Il comandamento dell’amore di Dio specifica la prima parola del Decalogo, che impone di riconoscere l’alterità irriducibile di Dio contro ogni tentazione idolatrica e preserva la fede da ogni forma di schiavitù nei confronti di un’anonima e capricciosa volontà di Dio. «Il primo comandamento – ricorda con incisività Sequeri – parla il linguaggio della passione e dell’affezione, inequivocabilmente. Non comanda semplicemente l’obbedienza, né prescrive semplicemente l’assenso. Raccomanda l’affezione del cuore come la forma propria dell’obbedienza e dell’assenso. Della fede insomma. L’obbedienza senza affezione è conformità senza intelligenza, senza libertà, senza relazione effettiva che corrisponda alla verità del rapporto. Riconoscimento ingiustificato. Nell’intenzione di “Dio”, in realtà, un simile rapporto è senza giustizia. Ferisce l’onore di Dio, gli riconosce una pretesa legittimamente dispotica e consegna la fede ad un’antropologia dell’assoggettamento»[14]

La presenza di un Dio che ama lasciando esistere l’uomo come libertà responsabile si rifrange sull’amore del prossimo, intendendo questo “secondo” comandamento come la Parola che invita a custodire l’identità dell’altro da sé, irriducibile ad ogni indebita estensione e colonizzazione del mio “io” autoritario nei suoi confronti. È quanto con delicatezza insinua Benedetto XVI, ricordando che ogni gesto altruistico non può misurarsi solamente sull’effetto che persegue, ma sulla capacità di proteggere e onorare la dignità dell’altro: «l’intima partecipazione personale al bisogno e alla sofferenza dell’altro diventa così un partecipargli me stesso: perché il dono non umili l’altro, devo dargli non soltanto qualcosa di mio ma me stesso, devo essere presente nel dono come persona» (DCE 34). 

Nei confronti dell’altro, del prossimo, si attualizza la stessa modalità di offerta di sé nell’amore, che sostanzia e anima segretamente ogni progetto di vita: «vi esorto fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo, gradito a Dio» (Rm 12, 1; cfr. anche Rm 6, 13). Così ogni forma di vita, in Cristo, partecipa e visibilizza, nella sua verità più radicale, l’offerta integrale di sé, il dono proprio del Signore Gesù. Esso trova continuità nel discepolo che, fedelmente, prima di osservare la doverosità della carità, sa di custodirla, anzi di essere custodito da essa e, dunque, di poterla esprimere dando forma e unità alla sua intera esistenza, ritrovando in essa la sua “opzione fondamentale”.

 

Un epilogo sulla soglia di un mistero sfiorato… 

In una prolungata meditazione su Gli atti dell’amore, Sören Kierkegaard ha lasciato uno dei capolavori più intensi della sua produzione di scrittore religioso. Comprendendo in senso paolino che solo l’amore “edifica” (cfr. 1 Cor 13), ponendo le basi per una costruzione integrale della vita cristiana, e, in particolare, commentando il passo di Luca 6, 44 (“Ogni albero si conosce dai suoi frutti”), nel primo Discorso offre pagine suggestive sulla vita segreta dell’amore, dando la sua personale interpretazione su ciò che comporta per l’uomo “credere all’amore”. Se ogni vocazione rappresenta una fioritura, che si lascia apprezzare nella visibilità testimoniale e grazie alla quale la vita trova la sua forma piena, nondimeno appare importante custodirne le radici, tutelare quell’opzione fondamentale su cui ha insistito Benedetto XVI e che si è cercato di illustrare per accenni e intuizioni in queste pagine. Alla parola del filosofo danese lascio il congedo, consapevole di aver appena sfiorato – nella speranza di non averlo sperperato – il segreto profondo di ogni vocazione di vita cristiana: 

«Credi all’amore! Questa è la prima e l’ultima parola che si deve dire dell’amore, se si vuole conoscerlo. […] È proprio questa la nuova espressione per la profondità dell’amore, che quando si è imparato a conoscerlo dai frutti si deve far ritorno al primo punto, cioè ritornare a ciò che è il vertice: credere all’amore. È vero che l’amore si conosce dai frutti che lo manifestano, ma la vita è più di un singolo frutto e più di tutti i frutti insieme che tu potessi contare in un momento. Il criterio ultimo, il più beato, assolutamente il più convincente dell’amore, resta pertanto l’amore stesso che l’amore conosce in un altro. Il simile è conosciuto soltanto dal simile. Solo colui che permane nell’amore, può conoscere l’amore, così come il suo amore può essere conosciuto» [15]

 

 

Note 

[1] Per un primo accostamento all’Enciclica Deus caritas est cfr.: BENEDETTO XVI, Deus caritas est. Enciclica, Introduzione e commento di A. SCOLA, Siena, Cantagalli, 2006; G. ANGELINI, Deus caritas est. Una preziosa sollecitazione al pensiero teologico, in «Teologia», 31 (2006), pp. 3-10; G. COLZANI, Lettura di un’epoca e programma di un pontificato. L’enciclica Deus caritas est, in «La Rivista del Clero Italiano», 2006, 5, pp. 327-340; P. IDE, La distinction entre éros et agapè dans Deus caritas est de Benoît XVI, in «Nouvelle Revue Théologique», 128 (2006), pp. 353-369. 

[2] Per una sintesi teologica sul tema dell’amore di Dio cfr. P. CODA, L’agape come grazia e libertà. Alla radice della teologia e prassi dei cristiani, Roma, Città Nuova, 1994 (Collana di teologia, 26). 

[3] A commento delle espressioni utilizzate da Benedetto XVI nell’enciclica sulla “metafora nuziale” valgano queste acute osservazioni di Pier Angelo Sequeri: «La parola di Dio istruisce sulla qualità del simbolo nuziale appropriandosene con un’intensità che non è riservata a nessun’altra figura di relazione. E con ciò la poesia di eros è riscattata dalla sua instancabile ricaduta nell’orizzonte di una concupiscenza priva di agape. Ma al tempo stesso, risplende pure l’attitudine impensabile di eros a rappresentare il grembo che istruisce e nutre ogni risonanza affettiva (cioè umanamente effettiva) dell’amore di Dio», in P.A. SEQUERI, Non ultima è la morte. La libertà di credere nel Risorto, Milano, Glossa, 2006 (Sapientia, 22), p. 28. 

[4] Il tema del “dono” è oggetto di ampie riletture sia da parte del pensiero teologico che di quello filosofico. Per un primo accostamento, attento al pensiero contemporaneo, cfr. S. LABATE, La verità buona. Senso e figure del dono nel pensiero contemporaneo, Assisi, Cittadella, 2004 (Orizzonte filosofico). 

[5] A. WÉNIN, L’uomo biblico. Letture del Primo Testamento, Bologna, EDB, 2005 (Epifania della Parola. Nuova serie, 8), p. 105. 

[6] P.A. SEQUERI, Op. cit., p. 59. 

[7] IDEM, Le radici dell’etica, l’idea del bene. Intersezioni e tensioni fra cultura, religione, cristianesimo, in “Etica del plurale. Giustizia, riconoscimento, responsabilità”, a cura di E. Bonan, Vigna, Milano, Vita e Pensiero, 2004 (Filosofia morale, 20), p. 236.

[8] «Il Logos, la ragione primordiale è al contempo un amante con tutta la passione di un vero amore» (DCE 10). Penso sia meglio mantenere intatta nel conio greco l’espressione Logos, assumendone così tutta la sua forza. 

[9] S. NATOLI, Guida alla formazione del carattere, Brescia, Morcelliana, 2006 (Filosofia. Nuova serie, 30), pp. 36-37. Un’interessante lettura teologica sulla “capacità di fare esperienza”, con un’attenzione alla riflessione del teologo tedesco R. Schaeffer, in A. COZZI, Testimonianza e speranza nell’incontro con Gesù Risorto. Dimensioni dell’esperienza pasquale, in «La Scuola Cattolica», 134 (2006), pp. 297-314: «Fare esperienza […] non significa soltanto provare, sentire, percepire qualcosa. L’uomo fa esperienza strutturando un contesto in cui inserire i fenomeni sperimentati, cioè costruendo un mondo di oggetti di esperienza, e inscrivendo gli avvenimenti in una storia, ossia nella continuità di un “io” che percepisce e conosce» (qui p. 299). 

[10] P. A. SEQUERI, Non ultima è la morte, p. 81. 

[11] H.U. VON BALTHASAR, Solo l’amore è credibile, Roma, Borla, 1991, p. 148. Lo scritto, composto nel 1963, potrebbe essere oggetto di una più attenta considerazione per un confronto con la Deus caritas est di Benedetto XVI, con cui condivide alcuni temi e idee di fondo. 

[12] P. RICOEUR, Amore e giustizia, Brescia, Morcelliana, 2000, p. 16. 

[13] B. MAGGIONI, L’amore del prossimo nel Nuovo Testamento, in “La carità e la chiesa. Virtù e ministero”, Milano, Glossa, 1993, pp. 34-35. 

[14] P. A. SEQUERI, Non ultima è la morte, p. 55. 

[15] S. KIERKEGAARD, Gli atti dell’amore, a cura di C. Fabro, Milano, Rusconi, 1983, p. 161. L’opera in edizione originale è datata 1847.