N.05
Settembre/Ottobre 2006
Studi /

Giovani chiamati alla verità e all’amore

Il filosofo C. Taylor ne “Il disagio della modernità” (Laterza 1994) mette in guardia contro l’eccessivo elogio della cultura individualistica, propria della modernità, che pone al primo posto nella vita il benessere e la gratificazione personale, così che gli esseri umani diventano “individui rinchiusi nei loro cuori”. Si realizza in tal modo l’eclisse dei fini di fronte al dilagare della “ragione strumentale”, finalizzata al conseguimento dei propri scopi edonistici. Il sociologo C. Lasch ne “La cultura del narcisismo” (Bompiani 1981) aveva segnalato nell’individualismo esasperato uno dei connotati più spiccati della società americana degli anni ’70-80, con la diffusione di personalità narcisistiche, rinchiuse nella sfera privata, psicologicamente immature ed emotivamente povere. Questa situazione di decadenza spirituale si è diffusa negli anni ’80, contagiando anche l’Europa occidentale e a tutt’oggi non si vede un’inversione di tendenza. Lasch, poi, ne “L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti” (Feltrinelli 1985), scrive che l’io, vivendo in stato d’assedio per le vicissitudini, si riduce ad un nucleo difensivo, armato contro le avversità. Per l’individuo, la difesa dell’equilibrio psichico impone la contrazione di un io minimo, al fine di poter meglio fronteggiare le imprevedibili avversità. Si tratta di un io che ha perduto fiducia nel futuro e si occupa della propria sopravvivenza, cercando di adattarsi nel miglior modo possibile alle situazioni, ricorrendo ad un’ironia protettiva, al disimpegno emotivo e alla riluttanza a stringere legami affettivi a lungo termine. Non indugia sul passato, non guarda troppo avanti nel futuro: si concentra sul qui e ora, sul momento immediato, cercando di superare gli ostacoli che si trovano sul cammino giornaliero. Vive alla giornata, pianificando la vita momento per momento, lasciando cadere progettazioni a largo respiro.  Sembra proprio che l’io si scavi una piccola nicchia, da cui fuoriesce solo per cogliere quanto gli fa piacere e ritirarsi poi nel privato, indifferente a quanto succede all’esterno, restando libero il più possibile da condizionamenti. Ma resta anche vuoto di ideali e di valori, vivendo all’insegna del piacere immediato. 

Il sociologo Z. Bauman, dopo aver pubblicato “Modernità liquida” (Laterza 2002), secondo cui nulla è fisso, nulla è certo e, mancando i punti di riferimento solidi, tutto è fluttuante, tutto è liquido, ha pubblicato anche “Vita liquida” (Laterza 2006), che è la vita vissuta nella liquida modernità e di questa porta il segno. La vita liquida è la vita precaria, vissuta in condizioni di costante incertezza, nella paura di rimanere indietro e nell’assillo di doversi modernizzare per non soccombere. Ora, nel mondo contemporaneo, che – come abbiamo rilevato dai pensatori sopra citati – conosce l’individualismo edonistico e il presentismo pragmatico, con la caduta di riferimenti ideali e la conseguente emergenza della vita liquida e precaria, senza l’orizzonte aperto sul mistero e sul trascendente, è necessario un supplemento di audacia per osare proporre ai giovani – che sono la cartina di tornasole della società – la vocazione come dono di Dio e risposta dell’uomo, che fa dono giorno per giorno e per sempre della vita. 

Nel 2005 il Centro di orientamento pastorale (COP) ha promosso un’indagine, compiuta poi dall’Istituto IARD Franco Brambilla, su “La religiosità giovanile in Italia: come i giovani italiani vivono il rapporto con la religione, come la religione influisce sulle scelte e sui comportamenti quotidiani”, mentre l’Istituto Eurisco ha realizzato, sempre nel 2005, la ricerca su “I giovani e la chiamata”, riportata in “Chiamati a scegliere” (a cura di F. Garelli, San Paolo, 2006). Ebbene noi, qui, tenendo presente il clima culturale attuale e avvalendoci dei dati emersi dalle due ricerche, intendiamo fare ai giovani una proposta che miri alla promozione dell’intelligenza, che va alla verità, e alla promozione della volontà e del cuore, che si dedicano all’amore. Attingeremo i contenuti dai molteplici insegnamenti di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, colti in modo particolare da due Encicliche: dalla “Fides et ratio” di Giovanni Paolo II trarremo gli spunti per la chiamata dei giovani alla verità e dalla “Deus caritas est” di Benedetto XVI quelli per la chiamata all’amore. 

Innanzitutto esaminiamo i dati riguardanti la religiosità e la vocazione dei giovani che emergono dalle due ricerche, cercando di potenziare i segni di speranza e di neutralizzare i lati lacunosi. 

 

Identikit dei giovani in riferimento alla religiosità e alla vocazione 

Garelli, nell’introduzione a “Chiamati a scegliere”, fa notare che per i giovani l’idea di vocazione è associata ad una forma di autonomia, di emancipazione, di autenticità espressiva: la chiamata permette di realizzare se stessi. Almeno teoricamente, molti giovani riconoscono il valore di una chiamata che richiede impegno e selettività, ma in pratica prevale l’esigenza di legare la propria vita a progetti minimi, con ancoraggi deboli e determinati soggettivamente; hanno un’idea di vocazione più a portata di mano, con apertura alle varie opportunità e con flessibilità; sembrano riconoscersi in una concezione “secolarizzata” di vocazione, piuttosto che ispirata ad una visione di fede. I giovani vanno modulando la vita momento per momento, con itinerario esistenziale modificabile, con risposte variabili e rivedibili in base alle situazioni, senza preoccuparsi di dare un senso complessivo alla vita, un senso trascendente. Manca il radicamento nell’Assoluto, che dà il senso esauriente della vita. Occorre, del resto, notare che alle nuove generazioni mancano spesso punti di riferimento validi, figure capaci di richiamarli ad un’idea alta di vocazione. Però, secondo la nuova indagine, curata da Garelli-Palmonari-Sciolla “La socializzazione flessibile. Identità e trasmissione dei valori tra i giovani” (Il Mulino, 2006), risulta che i giovani “flessibili” si rivelano innamorati dei padri, degli insegnanti e dei sacerdoti, se questi sono stati coerenti coi loro insegnamenti, così da divenire modelli di identificazione. 

Dalla indagine sulla religiosità risulta che il 70% dei giovani italiani si dichiara cattolico e il 30% ritiene la religione molto importante, ma solo poco più del 15% degli intervistati partecipa assiduamente alle funzioni religiose. Molto diffusa è la preghiera individuale, quasi quotidiana. Alla domanda “escludendo la Messa e le altre funzioni religiose, le capita di pregare?”, il 20,2% ha risposto “sì, tutti i giorni”, il 36,6% “senza continuità”, il 19,3% “occasionalmente”. Un buon 79%, quindi, in qualche maniera prega. C’è però uno spostamento verso una dimensione sempre più soggettiva, centrata attorno alla preghiera individuale. I tempi e le modalità di relazione con il divino tendono ad essere gestite liberamente dal singolo fedele. I giovani intervistati credono e pregano, ma non praticano. La sfida pastorale è quella di lavorare sulla loro soggettività. Circa la visione del futuro, invece, ritengono sia importante avere obiettivi e mete (77%) e credono anche sia meglio tenersi aperte molte possibilità (78%); il 57% crede nella reversibilità delle scelte compiute. La cultura giovanile si presenta allora come un puzzle o come un cocktail di valori piuttosto relativizzati, di atteggiamenti e di comportamenti che vengono applicati in luoghi e gruppi di appartenenza differenti. È da notare che i testimoni richiesti dai giovani sono compagni di viaggio, che partecipano alle difficoltà della vita e sono capaci di indicare loro il cammino, ma soprattutto sono capaci di ascolto. Può essere utile citare, di passaggio, un’indagine del Censis di qualche anno fa, che evidenziava come i giovani italiani siano assetati di senso e di testimoni di vita, ma nello stesso tempo non si facciano attivi ricercatori della verità (CEI-Censis-2002: “I giovani e la cultura nell’era della comunicazione”, p. 22).

 

I giovani chiamati alla verità e all’amore 

Vogliamo fare una proposta educativa, incentrata sulla verità e sull’amore, ai giovani che, come abbiamo visto sopra, vivono in una cultura “liquida” e piuttosto individualista, legati alla famiglia e ai padri, nomadi e “mendicanti di senso”, ma non attivi ricercatori della verità, promotori della propria soggettività e desiderosi di usufruire di molte opportunità, con appartenenze plurime e con reversibilità delle scelte, estimatori delle progettazioni ideali, ma in pratica ancorati a progetti minimi e feriali, con tendenza al piacere immediato. 

Partiamo da quanto Benedetto XVI ha detto al Convegno Ecclesiale di Roma, lo scorso 5 giugno: “Insieme al bisogno di amare, il desiderio della verità appartiene alla natura stessa dell’uomo. Perciò, nell’educazione delle nuove generazioni, la questione della verità non può certo essere evitata: deve anzi occupare uno spazio centrale. Ponendo la domanda intorno alla verità allarghiamo infatti l’orizzonte della nostra razionalità, iniziamo a liberare la ragione da quei limiti troppo angusti entro i quali essa viene confinata quando si considera razionale soltanto ciò che può essere oggetto di esperimento e di calcolo. E proprio qui avviene l’incontro della ragione con la fede… Nell’educazione delle nuove generazioni non dobbiamo avere alcun timore di porre la verità della fede a confronto con le autentiche conquiste della conoscenza umana… E voi, cari sacerdoti ed educatori, non esitate a promuovere una vera e propria pastorale dell’intelligenza, e più ampiamente della persona, che prenda sul serio le domande dei giovani – sia quelle esistenziali sia quelle che nascono dal confronto con le forme di razionalità oggi diffuse – per aiutarli a trovare delle valide e pertinenti risposte cristiane, e finalmente a far propria quella risposta decisiva che è Cristo Signore”[1]. L’uomo, secondo la Fides et ratio, può essere definito come essere che, per natura, cerca la verità sul senso della vita, della storia e del mondo. Questa ricerca non è destinata solo alla conquista di verità parziali, fattuali o scientifiche; egli non cerca soltanto il vero bene in ogni sua azione. La sua ricerca tende verso una verità ulteriore che sia in grado di spiegare il senso della vita e alla fin fine la sua ricerca tende all’Assoluto[2]. Giovanni Paolo II nell’Enciclica rivolge un invito, perché alla parresìa, alla chiarezza e schiettezza della fede, corrisponda l’audacia della ragione, nella convinzione che la medesima può giungere alla verità. Bisogna ridare centralità alla filosofia, che deve cercare di orientare la ragione alla contemplazione della verità, alla ricerca del fine ultimo dell’uomo, evitando di ridurre la razionalità a “ragione strumentale” al servizio di fini utilitaristici, di fruizione o di potere [3]. In campo educativo è necessario promuovere lo sviluppo dell’intelligenza, che si dedica ad una conoscenza scientifico-positiva della realtà, studiando la natura empirica delle cose e come avvengono i fenomeni: è la conoscenza dell’homo faber, propria della scienza, che si dedica ad una conoscenza intuitivo-significativa della realtà, cogliendone il significato profondo e studiando il senso ultimo della vita; è la conoscenza dell’homo sapiens, propria dell’arte, della poesia e della filosofia, che si dedica ancora alla conoscenza esplorando il mistero in cerca dell’Assoluto; è, infine, la conoscenza dell’homo religiosus, cercatore di Dio, “capax Dei”: capace, cioè di conoscerlo con la ragione, la quale poi verrà aiutata dalla fede. 

Benedetto XVI, nel discorso ai partecipanti alla Sessione Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 10 febbraio 2006, diceva che “Gesù Cristo è la verità fatta persona, che attira a sé il mondo. La luce irradiata da Gesù è splendore di verità. Ogni altra verità è un frammento della Verità che egli è ed a lui rimanda. Gesù è la stella polare della libertà umana: senza di lui essa perde il suo orientamento, poiché senza la conoscenza della verità la libertà si snatura, si isola e si riduce a sterile arbitrio. Con lui, la libertà si ritrova, si riconosce fatta per il bene e si esprime in azioni e comportamenti di carità… Solo la verità è infatti capace di invadere la mente e di farla gioire compiutamente. È questa gioia che allarga le dimensioni dell’animo umano, risollevandolo dalle angustie dell’egoismo e rendendolo capace di amore autentico. È l’esperienza di questa gioia che commuove, che attira l’uomo ad una libera adorazione, non ad un prostrarsi servile, ma ad inchinare il cuore di fronte alla verità che ha incontrato”[4]. Praticamente dall’incontro con la verità nasce la libertà di accogliere e godere della verità e di fare il bene. In termini cristiani, viene superata la concezione della libertà come libero arbitrio, in favore della libertà come possibilità di scelta, che esige di attuarsi secondo la verità. La libertà non si può realizzare, se non accettando la verità, obbedendo alla verità su Dio e sull’uomo. Per il cristiano la libertà si esprime come obbedienza amorosa alla verità: in tal modo la libertà può essere definita come “responsabilità” nei confronti della verità. Nel “sacrario” della coscienza, quasi tempio spirituale interiore, l’uomo ascolta la voce di Dio e studia liberamente la risposta alla voce divina (Gaudium et spes, n. 16). Nella Centesimus annus (nn. 41.46) troviamo il nesso verità-obbedienza-libertà così delineato: la Chiesa offre ciò di cui è depositaria: la verità sull’uomo e la verità su Dio. Su tale verità si radica la libertà, che è “accettazione della verità”, anzi è “obbedienza alla verità”. Il cristiano, obbedendo alla verità, è capace di dominare i suoi istinti, di vincere le passioni, di superare i condizionamenti, di essere veramente libero e realizzare la sua personalità. Si auspica che i giovani cerchino di aderire con libertà alla verità, che si traduce in carità; che sappiano coltivare un’attenta ricerca culturale e spirituale, coniugando in modo armonioso fede e cultura; che riscoprano la bellezza di avere Cristo come maestro e di mettersi alla sua sequela. 

La seconda direzione della proposta educativa consiste nell’educazione del cuore all’amore e della volontà al bene. Se l’intelligenza è chiamata alla scoperta e contemplazione della verità, la volontà e il cuore sono presi dall’amore al bene e dalla gioia di fare il bene. L’uomo è dotato di intelligenza e volontà e realizza la sua personalità, dedicandosi alla verità e donando la vita per amore. Sul tema dell’amore è incentrata l’Enciclica Deus caritas est, amore che sempre attinge a Dio, che è Amore.  L’Enciclica parte dal significato del termine “amore”, una delle parole più usate ed abusate nel mondo, che possiede un vasto campo semantico: amore di patria, amore per il lavoro, amore per i figli… e rileva che, fra tutta la molteplicità dei significati, emerge come archetipo di amore per eccellenza quello tra l’uomo e la donna. Tale amore nell’antica Grecia era qualificato come eros, parola mai usata nel Nuovo Testamento, che preferisce invece agape (amore oblativo). Secondo Nietzsche, l’agape avrebbe avvelenato l’eros, rendendo amara la cosa più bella e gioiosa della vita. La nuova visione dell’amore, che costituisce la novità del cristianesimo, non di rado è stata valutata, infatti, in modo negativo, come rifiuto dell’eros e della corporeità. Anche se tendenze di tale genere ci sono state, il senso autentico della novità è questo: l’eros, posto nella natura dallo stesso Creatore, abbisogna di disciplina, di purificazione (che non è il suo avvelenamento, bensì la guarigione) e di maturazione, per non perdere la sua dignità originaria e non degradare a puro sesso. Il Papa non pone in contrasto l’eros, come amore mondano o “amor concupiscentiae”, con l’agape, come amore oblativo o “amor benevolentiae”, espressione dell’amore fondato sulla fede e plasmato da essa. Eros e agape esigono di non essere mai separati completamente l’uno dall’altro. Isolati, portano alla disumanizzazione dell’amore, alla sua caricatura; invece quanto più ambedue, pur in dimensioni diverse, trovano il giusto equilibrio, tanto più si realizza la vera natura dell’amore. Anche se l’eros inizialmente è soprattutto bramoso e possessivo, nell’avvicinarsi all’altra persona cercherà sempre più la felicità dell’altro, si preoccuperà sempre più di lui, si donerà e desidererà “esserci per l’altro”: così l’agape si inserisce in eros e si afferma (cf DCE 7). 

Va osservato che la novità assoluta della rivelazione cristiana sta nella persona stessa di Gesù, che è l’amore incarnato di Dio e fa dono della vita al Padre. E il cristiano è chiamato, sull’esempio di Gesù che fa dono totale della vita, all’amor di Dio e all’amor del prossimo. Sull’onda del messaggio che proviene dalla Deus caritas est, è bene portare i giovani ad entrare nella logica di dover sviluppare il talento della vita in nome di Dio, a servizio dei fratelli, consapevoli che nel dono della vita troveranno la pace del cuore e la vera gioia, memori del monito di Paolo: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”. Giovanni Paolo II, nel Messaggio per la XXXIII Giornata Mondiale di preghiera per le Vocazioni (1996), così si rivolgeva direttamente ai giovani: «Vorrei, cari giovani, ripetervi con affetto: siate generosi nel donare la vita al Signore. Non abbiate paura! Lasciate che cresca in voi il desiderio di progetti grandi e nobili. Mettete a disposizione delle vostre comunità i talenti che la Provvidenza vi ha elargito. Più sarete pronti nel donare voi stessi a Dio e ai fratelli, più scoprirete l’autentico senso della vita…». E nel Messaggio per l’XI Giornata della Gioventù (1996), dopo aver ricordato che i cristiani vivono immersi nel mondo, con il compito dell’edificazione del Regno di Dio, fautori dell’avvento della “civiltà dell’amore”, a fronte di quella che sembra oggi la “disfatta della civiltà”, così parlava ancora ai giovani: «A voi, giovani, che naturalmente e istintivamente fate della voglia di vivere l’orizzonte dei vostri sogni e l’arcobaleno delle vostre speranze, chiedo di diventare “profeti della vita”. Siatelo con le parole e con i gesti, ribellandovi alla civiltà dell’egoismo, che spesso considera la persona umana uno strumento anziché un fine… La vita è un talento affidatoci perché lo trasformiamo e lo moltiplichiamo, facendone dono agli altri. Nessun uomo è un “iceberg” alla deriva, nell’oceano della storia; ognuno di noi fa parte di una grande famiglia, all’interno della quale ha un posto da occupare e un ruolo da svolgere. L’egoismo rende sordi e muti, l’amore spalanca gli occhi e apre il cuore (alla carità)… Cari giovani, vi ho invitato ad essere “profeti della vita e dell’amore”. Vi chiedo anche di essere “profeti della gioia”: il mondo ci deve riconoscere dal fatto che sappiamo comunicare ai nostri contemporanei il segno di una grande speranza già compiuta, quella di Gesù, per noi morto e risorto». 

È un’appassionata e avvincente proposta cristiana fatta ai giovani, oggi, tendenzialmente orientati a vivere alla giornata, piuttosto egocentrici, rifuggenti le responsabilità ed il sacrificio (affetti dal vizio di Narciso e dalla “sindrome di Pilato e di Peter Pan”), perché non vivano con le “ali spezzate”, ma sappiano “volare alto”, “sognare in grande” la vita, alla scoperta di Dio e nella generosa dedizione ai fratelli. E ci piace concludere il lavoro, proponendo ai giovani che vivono in un tempo nel quale, cadute le ideologie religiose o politiche, i sistemi di valore si sono relativizzati e frammentati, di tornare a ritrovare le coordinate elementari della vita cristiana, ad appropriarsi dei “fondamentali”. Il Catechismo di Pio X ci insegna che “Dio ci ha creato per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita…”. L’uomo è dotato di intelligenza e volontà, chiamato a conoscere la verità e ad aprire il cuore e la volontà all’amore e al bene. 

Pico Della Mirandola, nel “Discorso sulla dignità dell’uomo”, scrive che la dignità dell’uomo consiste nello sforzo di capire il senso delle cose, nella filosofia, intesa come ricerca e amore. Maritain, ne “L’educazione al bivio”, definisce l’uomo come “persona che si possiede per mezzo dell’intelligenza e della volontà!. Kierkegaard esclama: “è magnifico essere uomini”, con intelligenza e volontà. Ulisse, nel Canto XXVI (119-120) di Dante, incita i compagni alla folle impresa, appellandosi alla loro capacità: “fatti non foste ad essere come bruti, ma per seguire virtute e conoscenza”. L’uomo risulta grande nella sua dignità, dotato di intelligenza e volontà, anelante al vero e amante del bene; per il cristiano l’attività intellettuale viene coronata dalla fede e l’attività morale culmina nella carità. Possiamo qui ricordare la figura di Newman che centra la sua riflessione sull’io, persona, che nel dare il proprio assenso a un credo, alla verità, compie un atto di “ragionevolezza” e di libertà. Edith Stein, per tutta la vita ricercatrice della verità, afferma: “chi cerca la verità, cerca Dio, che lo sappia o no… Dio è la verità”. E Rosmini, da ricercatore e testimone della verità, approda all’intelligenza dell’amore, alla “docta caritas”, che coniuga in sé la fede che illumina la carità e in questa trova il suo compimento. 

Il Catechismo della Chiesa Cattolica ricorda nella Prefazione: “Tutta la sostanza della dottrina e dell’insegnamento deve essere orientato alla carità che non avrà mai fine. Infatti sia che si espongano le verità della fede o i motivi della speranza o i doveri dell’attività morale, sempre e in tutto va dato rilievo all’amore di Nostro Signore, così da far comprendere che ogni esercizio di perfetta virtù cristiana non può scaturire se non dall’amore, come nell’amore ha d’altronde il suo ultimo fine”. 

La Novo Millennio Ineunte afferma che tante cose nel nuovo secolo saranno necessarie per il cammino storico della Chiesa, ma se mancherà la carità (agape), tutto sarà inutile. La carità è davvero il “cuore della Chiesa”, come aveva ben intuito Teresa di Lisieux, proclamata Dottore della Chiesa, proprio perché esperta della scientia amoris

L’augurio finale che porgo agli educatori è allora quello di annunciare con passione e con fiducia ai giovani d’oggi la vocazione come chiamata alla Verità che culmina nell’Amore. 

 

Note 

[1] L’Osservatore Romano, 7-6-2006, p. 7.
[2] GIOVANNI PAOLO II, Fides et ratio, 31-33.
[3] Ibidem, 47-48.
[4] L’Osservatore Romano, 11-2-2006, p. 5.