N.05
Settembre/Ottobre 2006
Studi /

La testimonianza ecclesiale dell’agape-carità come via vocazionale

Il tema proposto va al cuore della vita cristiana ed esige qualche ancoraggio preliminare che renda conto del significato di concetti e parole che utilizzeremo. 

– Per agape-carità, nel senso cristiano di amore, non intendiamo una solidarietà generica, e tanto meno una semplice elemosina, ma piuttosto un nuovo modo di essere, uno stile di vita, sull’esempio di Gesù: si tratta piuttosto di un dono d’amore nella reciprocità, per incidere sul costume e sulla vita comunitaria e sociale. In altri termini, il comando di Gesù “che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati”, esige oggi un cambiamento di mentalità e di cultura. È un dovere di carità e di giustizia, per restituire ad ognuno la propria dignità di persona, la libertà di figlio dell’unico Padre ed il diritto di vivere dignitosamente. E Gesù, nel venticinquesimo capitolo di Matteo, ci avverte che sono peccato e oggetto di condanna non solo le azioni compiute contro i fratelli, ma anche le omissioni volontarie, cioè l’amore negato al fratello.

– La testimonianza ecclesiale dell’agape-carità si propone di restituire al mondo l’incontro con Gesù Cristo in tutta la sua pienezza: “Il pane della Parola e il pane della carità, come il pane dell’Eucaristia, non sono pani diversi: sono la stessa persona di Gesù che si dona agli uomini e coinvolge i discepoli nel suo atto di amore al Padre e ai fratelli” (ETC 1). È per questo che la testimonianza della carità, secondo lo stile tipicamente cristiano della prossimità, rappresenta senza dubbio una permanente forma di educazione vocazionale, intesa come opportunità più piena per l’uomo di essere compiutamente se stesso. 

– Anche il prossimo è inteso nel senso più ampio e comprensivo della fraternità umana, come frutto della comune paternità divina, per cui davvero “ogni uomo è mio fratello”; e al suo diritto di essere trattato come tale corrisponde il mio dovere di non sottrargli mai nulla della sua dignità umana, in un circuito di gratuita reciprocità che non può conoscere limiti. L’obbligo di amare è il passaggio più ostico del Nuovo Testamento, perché in genere l’amore è inteso come un impulso, un sentimento, una passione. Al cristiano, invece, è chiesto di amare l’altro comunque, senza ulteriori precisazioni di simpatia o di inimicizia: l’amore è una misura colma che compensa anche l’odio dei nemici. Ed è questa la ragione per cui, fuori del circuito della fede, il precetto della carità risulta incomprensibile, persino innaturale.

– La carità cristiana, inoltre, che si ancora al modello evangelico, implica l’opzione preferenziale per i poveri. Sia nei nostri contesti territoriali che nella prospettiva più ampia del mondo è importante, però, avere presente un triplice volto di povertà:

* una povertà generata da non risposta a bisogni primari, quali: cibo, vestito, casa, lavoro, salute, studio, …; 

* una povertà generata da non risposta a bisogni relazionali a causa di: solitudine, abbandono, trascuratezza, dimenticanza, … (ad es.: anziani, malati mentali, carcerati, handicappati, famiglie monoparentali, minori, adolescenti, … cittadini invisibili); 

* una povertà generata da non senso, non significato e non valore dato alla propria e altrui vita: adolescenti, giovani che si autodistruggono (droga, alcol, bulimia, anoressia, eccessi di velocità, spericolatezze, shopping compulsivo); maniaci dell’esercizio fisico (o del sesso); attaccamento patologico al lavoro; gioco d’azzardo; cyberdipendenza, come espressione di un’attrazione incontrollata per lo strumento informatico; invasività della telefonia mobile, … 

 

L’esercizio della carità nella Chiesa 

“L’amore del prossimo radicato nell’amore di Dio è anzitutto un compito per ogni singolo fedele, ma è anche un compito per l’intera comunità ecclesiale, e questo a tutti i suoi livelli: dalla comunità locale alla Chiesa particolare fino alla Chiesa universale nella sua globalità” (DCE 20). 

Tutta la storia della salvezza ci dice che “Dio è amore” (1Gv 4,8.16): un Dio che sceglie, perdona e rimane fedele al suo popolo, nonostante i tradimenti. Ma fino a che punto Dio è amore e quale amore egli sia, lo si scopre solo in Gesù Cristo e nella sua morte di croce per la salvezza degli uomini. Lo “spettacolo” della croce capovolge la vita. Fa contemplare la profondità inaudita dell’amore di Dio, e fa comprendere che la nostra vita deve assomigliare alla vita di quel Crocifisso che si dona senza riserve; che, rifiutato, ama e perdona, e non rompe la solidarietà con chi lo rifiuta. Mostrandoci l’amore di Dio per noi, l’evento della croce di Gesù ci rivela dunque chi è Dio. Credere che “Dio è amore” è confessare che egli, nella croce, si rivela a noi come infinito, gratuito e totale dono di sé. L’uomo, creato “ad immagine e somiglianza di Dio” (Gen 1,26), è se stesso se ama, poiché è nel dono reciproco di sé, realizzato per l’amore che viene da Dio, che “si riassume tutta l’antropologia cristiana” (Dominum et vivificantem 59). 

 

Quale volto ha la Chiesa? 

La domanda non è priva di rilevanza se vogliamo pensare ad una pastorale e una testimonianza di Chiesa in termini di risposta vocazionale al dono e all’appello del Signore; ad una risposta che ha bisogno di essere verificata nella realtà, ma che non può prescindere dalle intenzioni. Intenzione fondamentale è anzitutto quella di voler essere Chiesa che non si rinchiude in un’introversa difesa della propria identità, ma che vuole spendersi dentro la storia; di voler essere una Chiesa che, innamorata perdutamente del suo Signore, osa pensare in termini progettuali per promuovere percorsi nuovi, per incontrare Cristo e diventare ogni giorno più cristiani. Tale prospettiva è maturata nella Chiesa italiana attraverso le grandi linee e gli orientamenti che ci hanno guidati nei decenni scorsi fino ad oggi. In questi cammini c’è una precisa consapevolezza dell’urgenza dell’evangelizzazione, un asse di sintesi attorno al quale le nostre comunità si sono protese per rinnovare educativamente il loro volto alla scuola del Concilio. Al Convegno Ecclesiale di Palermo, nel 1995, si chiese un salto di qualità congiungendo una più intensa spiritualità e una più coraggiosa presenza di Chiesa nelle vicende della storia: contemplazione e missione, appunto. 

Da questo volto di Chiesa, intenzionalmente più contemplativo e missionario, scaturiscono alcune scelte che possono delineare, per oggi e per domani, il profilo della Chiesa in Italia: 

– cresce la sete di ascolto, di incontro e di relazione; 

– cresce l’esigenza di frequentare gli spazi di vita della gente per provocarli, per “iniziarli” al Vangelo; 

– emerge l’esigenza di una Chiesa più aperta al confronto e alla presenza culturale; 

– si sente il bisogno di dare un respiro nuovo al rapporto con il Paese nel sociale e nel servizio proprio della politica; 

– cresce l’esigenza di preservare e rilanciare la natura popolare della Chiesa, soprattutto attraverso un’atten-zione più missionaria della parrocchia. 

 

La pratica personale e comunitaria della carità 

“Se la comunità ecclesiale è stata realmente raggiunta e convertita dalla parola del vangelo della carità di Cristo, non può non continuare nelle tante opere della carità testimoniata con la vita e con il servizio” (ETC 28). È una pedagogia dei fatti che trova nella pastorale della carità la sua espressione comunitaria, che coniuga in sé volontà di animazione e necessità di intervento, in alcuni fondamentali impegni attraverso i quali la persona (e la comunità) dice se stessa al territorio: 

 

Costruire la vita di comunione con i fratelli nella fede 

I cristiani sono chiamati ogni giorno a costruire il vivere insieme fraternamente, per essere lievito e segno dentro la società nelle sue diverse espressioni: “da questo sapranno che siete miei discepoli: se vi amerete gli uni gli altri”. È nella cura delle espressioni particolari del nostro pensare, sentire, dire e agire che si gioca il compito della comunità cristiana ad essere segno di comunione e di corresponsabilità tra fratelli nella fede a livello personale e familiare, nel condominio e nel contesto delle relazioni quotidiane oppure tra gruppi di operatori pastorali impegnati nei diversi ambiti della pastorale ordinaria: catechesi, liturgia e servizi di carità.

 

Vivere la solidarietà del quotidiano: le opere di misericordia corporali e spirituali

Frequentemente si pensa che per avere una comunità cristiana a servizio dell’uomo bisogna costruire opere, costituire e avviare gruppi di volontariato in risposta a specifici bisogni, avviare iniziative organizzate da sostenere nel tempo con impegni sempre più gravosi. Certamente tutto questo è doveroso e va fatto, quando risulta necessario. Ma la maggior parte dei credenti non sarà mai nella possibilità né sarà mai chiamata a fare queste cose. E allora… dovranno delegare gli altri? L’esercizio della carità non è delegabile, perché essenziale alla vita cristiana, proprio come il nutrirsi ed il respirare non sono delegabili, perché essenziali alla vita. Gesù indica in modo chiaro e semplice che cosa concretamente va testimoniato, dentro ogni momento e ogni occasione della nostra vita quotidiana. Dopo averci preavvertiti che alla fine della nostra vita ci dirà: “Avevo fame… avevo sete…” dice anche: “Ogni volta che avete fatto questo al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me”. Ed egualmente: “Ogni volta che non l’avrete fatto al più piccolo dei miei fratelli non l’avete fatto a me” (Mt 25). Occorre fermare seriamente l’attenzione su quell’avverbio temporale: ogni volta. Questi passaggi del Signore accanto a noi non sono opere programmate e organizzate, né sono programmabili: sono momenti-occasioni di vita scomodi e disturbanti, che provocano il nostro “quieto vivere”. È a questi passaggi, a queste presenze del Signore che occorre dire di sì, ogni volta. Se prendiamo sul serio la Parola del Signore e incominciamo a dire di sì, cioè a farci carico delle sofferenze e delle necessità spicciole dei fratelli che incontriamo, certamente la nostra vita cambia, diventa linguaggio visibile e testimonianza, perché parla anche al cuore e alla vita degli altri. Solo attraverso questa solidarietà di base è possibile segnare l’intera nostra esistenza di carità e quindi renderla linguaggio visibile, vivo per gli altri. 

 

Vivere da “cittadino credente” 

Nell’essere cittadino credente la testimonianza di carità si esprime attraverso alcune doverose scelte di vita, che coniugano insieme carità e giustizia. Il Concilio Vaticano II ci invita a “non dare per carità ciò che deve essere dato per giustizia” (AA 8). Il documento Evangelizzazione e testimonianza della carità indica l’impegno dei cristiani nel sociale e nel politico come una delle tre vie preferenziali per annunciare e testimoniare il Vangelo della carità. Dice infatti: “Sono aumentati tra i cristiani… l’attenzione e la volontà di impegno riguardo ai problemi attuali della politica, dell’economia, della società nel suo insieme. Appare quindi ridimensionata una certa tendenza a limitare l’orizzonte del servizio sociale a coloro con cui sia possibile un rapporto diretto e che versino in necessità immediate” (ETC 50). 

La coscienza cristiana è chiamata a confrontarsi con le sfide attuali, tenendo sempre presente il dovere di amare il prossimo come riferimento essenziale. Pur sapendo che non raggiungerà mai la pienezza del compimento, non può sottrarsi all’impegno. Benedetto XVI, nella sua prima Enciclica, afferma a questo proposito che: “La costruzione di un giusto ordinamento sociale e statale, mediante il quale a ciascuno venga dato ciò che gli spetta, è un compito fondamentale che ogni generazione deve nuovamente affrontare. Trattandosi di un compito politico, questo non può essere incarico immediato della Chiesa. Ma siccome è allo stesso tempo un compito umano primario, la Chiesa ha il dovere di offrire attraverso la purificazione della ragione e attraverso la formazione etica il suo contributo specifico, affinché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili” (DCE 28 a). 

Lungo tale itinerario di ricerca, l’incontro con gli uomini di buona volontà – categoria in disuso, ma da rivisitare – va perseguito senza confusioni, ma con grande fiducia. Per quanto i percorsi siano e restino differenti, non si può negare che esistono intrecci positivi di valori e di intenzioni che possono far crescere la coscienza della fraternità. Il confine, allora, passa tra chi si fa carico del destino dell’uomo e chi ad esso rimane indifferente. Cambieranno i termini: si parlerà di solidarietà o di coesione sociale, ma la diversità delle parole non ostacola il tragitto da fare insieme. Sappiamo, infatti, come ha detto Teilhard De Chardin, che “quanti guardano all’uomo finiranno con l’incontrarsi”.  

 

Impegnarsi nelle molteplici esperienze di volontariato 

Il territorio e la comunità cristiana hanno a che fare ogni giorno con molteplici bisogni, che vanno considerati in modo continuativo, con un minimo di preparazione e possibilmente dentro forme e servizi strutturati, per garantire in modo corretto dei servizi alle persone in situazione di particolari bisogni e necessità. Le forme di volontariato, in gruppi e associazioni, già presenti nel territorio e nelle parrocchie, sono luoghi opportuni per imparare a mettere a disposizione non solo “qualcosa”, ma anche il proprio tempo e le proprie abitudini, le proprie attitudini e sensibilità, le proprie amicizie e relazioni. In questo modo la vita cristiana e la propria appartenenza alla comunità si esprime concretamente, si visibilizza, in tempi e modalità di intervento messi a disposizione dei bisogni concreti della comunità, non solo quelli dei servizi catechistici e liturgici, ma anche, e soprattutto, nella costruzione della famiglia di Dio.

 

Comunione e comunità: un dono da ricercare e spendere nella storia 

Questa dimensione “familiare” trova un terreno particolarmente fecondo all’interno della parrocchia, Chiesa da immaginare e costruire come casa e scuola di comunione e missione, e quindi fonte di autentica via vocazionale. Trovandosi concretamente tra case di persone diverse per età, per cultura e per fede, la parrocchia è chiamata a farsi laboratorio di relazioni, che aiuta i singoli e le comunità a costruire legami e a tessere amicizie. Sono le relazioni, infatti, a sostenere la vita parrocchiale, a qualificare la celebrazione domenicale e a costruire la comunità. Un tessuto che si ordisce nella prossimità e nella solidarietà spicciola – anche quando non si vede – frutto dell’azione dello Spirito, che costruisce la Chiesa nella comunione tra i suoi membri. Deve essere una preoccupazione prioritaria far sì che questa comunità si ritrovi e crei gruppo, educando prima di tutto ad atteggiamenti di carità tra i membri del piccolo gregge. Da qui, e dal desiderio di “esserci” nelle situazioni attuali (di confusione, di disagio, di conflitto…) scaturisce la scelta di investire sulle relazioni: «L’azione pratica resta insufficiente se in essa non si rende percepibile l’amore per l’uomo, un amore che si nutre dell’incontro con Cristo. L’intima partecipazione personale al bisogno e alla sofferenza dell’altro diventa così un partecipargli me stesso» (DCE 34). 

Rileggere il vasto mondo delle parrocchie e dei territori nella prospettiva del “laboratorio di relazioni” significa ribadire la centralità dell’uomo – che nella relazione e nell’educarsi agli affetti realizza la sua vocazione di cristiano e la sua identità di persona – e la funzione storica di una “Chiesa esperta in umanità”. Questo presupposto conduce all’individuazione di alcuni principali ambiti di lavoro pastorale che possono essere scelti come laboratori di sperimentazione, all’interno della comunità, a servizio della cura delle relazioni: 

 

La cura delle relazioni in famiglia e tra famiglie 

La famiglia appare oggi profondamente segnata da conflittualità e separazioni, abbandoni e distanze, disagio ed esclusione. Particolare cura deve essere rivolta alle famiglie segnate dal dolore, dalla separazione dei coniugi e/o da relazioni parentali frantumate e confuse, soprattutto per i minori. Le comunità cristiane sono chiamate a valorizzare le “opportunità di contatto” per impostare cammini di ascolto e accompagnamento e per costruire il tessuto di una parrocchia che si fa famiglia di famiglie e realizza, soprattutto nei contesti più ampi, nuove storie di prossimità e di missionarietà. Lo dimostrano, pur nella ordinarietà e nella semplicità dei cammini, le numerose esperienze di famiglie solidali, che vivono in comunione di beni, condividono la cura dei figli e degli anziani e trovano la forza di accogliere chi è nel bisogno.

 

La cura delle relazioni in parrocchia e tra parrocchie 

Parlare di parrocchia come laboratorio di relazioni e come famiglia di famiglie sarebbe riduttivo, se si trascurasse la ricchezza delle altre espressioni carismatiche che prendono vita al suo interno (le comunità religiose, i gruppi, i movimenti, le associazioni, …). Essendo doni suscitati dallo Spirito, queste esperienze sfidano la parrocchia a farsi “insieme di laboratori”, comunione di comunità che parlano un linguaggio comune, che permette a ciascun uomo e a ciascuna cultura di capirsi e di capire l’orizzonte storico della salvezza. Altro elemento fondamentale di cui tener conto è che la parrocchia appartiene alla Chiesa locale e vanno quindi favorite la relazione, l’interazione e l’integrazione tra parrocchie.

 

La cura di un rinnovato tessuto di relazioni sociali 

La comunità cristiana può assumere il ruolo di soggetto che realizza cammini di collaborazione e proposte educative per promuovere un modello fraterno di relazioni sociali che diventi cultura, stile, civiltà diffusa e condivisa. Nell’assumere questa responsabilità educativa, la comunità è chiamata a ricomprendersi quale soggetto di cittadinanza territoriale, che si confronta in rete con le diverse organizzazioni della società civile intorno alla costruzione di risposte alle istanze comunitarie. I cristiani diventano così costruttori e tessitori di legami forti. Rientrano in quest’ambito anche le relazioni con le istituzioni del pubblico e del privato, in cui le comunità non possono rinunciare alla funzione di sentinelle nei confronti del territorio e di tutti quelli che lo abitano, in particolare dei poveri.

 

La scelta di animare attraverso la pedagogia dei fatti e la spiritualità della carità 

Gli operatori e gli animatori della carità «…devono essere persone mosse innanzi tutto dall’amore di Cristo, persone il cui cuore Cristo ha conquistato con il suo amore, risvegliandovi l’amore per il prossimo. Il criterio ispiratore del loro agire dovrebbe essere l’affermazione presente nella Seconda Lettera ai Corinzi: “l’amore del Cristo ci spinge” (5,14)» (DCE 33).

 

La pedagogia dei fatti 

Benedetto XVI ci esorta a “camminare nella carità” caratterizzandola di concretezza e immediatezza, di competenza e passione, di progettualità e gratuità. Gesti concreti, impegni personali e familiari, accoglienza e ospitalità nella propria casa o nei luoghi di accoglienza comunitaria, disponibilità gratuita del proprio tempo e delle proprie capacità, impegno da parte della comunità cristiana in un servizio continuativo, legami durevoli nel tempo con una comunità del Sud del mondo, interventi di solidarietà nelle emergenze, …possono essere tutte occasioni per crescere come famiglia di Dio e per aprirsi ad una fraternità sempre più ampia. Agire nel quotidiano, sporcarsi le mani con i poveri, progettare insieme le risposte e riflettere sul senso di quello che si fa, interrogarsi su che cosa cambia nella vita degli ultimi e della comunità che li accoglie, …sono orizzonti che si aprono percorrendo la via della prossimità, del servizio e del dono di sé. 

 

La spiritualità della carità 

Perché le diverse forme della testimonianza possano assumere una reale portata di via vocazionale, un’attenzione particolare dovrà essere presente in tutti i progetti, in tutte le presenze dentro il mondo dei poveri, nella comunità e nel territorio: quella di una spiritualità di speranza, che interroga la vita dell’intera comunità, recuperando il senso profondo delle sue attività ordinarie e di gesti spesso dati per scontati (dal segno di pace alla frazione del pane). Una spiritualità capace di restare salda di fronte alle prove e agli insuccessi; che accetta la fatica del servizio meno gratificante e vede un cammino di salvezza anche nelle situazioni umane più degradate; che mette in crisi l’efficienza paga dei suoi risultati. La spiritualità che nasce dall’esercizio della carità è una spiritualità di grande respiro, con un movimento e una dinamica missionaria che fa dell’incontro, del rapporto e del dialogo i suoi capisaldi, perché è capace di scorgere la presenza e l’opera di Dio dentro le realtà create. È una spiritualità che concerne l’uomo, e non solo i suoi problemi, ma la sua intera esistenza personale e sociale: la scuola, l’ambiente di lavoro, la comunità politica, la salute e la malattia, l’amore e la famiglia, come pure i valori della pace e della mondialità, del servizio e della solidarietà, della giustizia e della carità. È una spiritualità che si traduce e si avvale della pedagogia dei fatti, non tanto nella ricerca esasperata di essere presenti e attivi ovunque, quanto piuttosto nella certezza che la fede non si esaurisce nella sua professione, ma nella sua incarnazione.

 

Sperimentare un itinerario di conversione 

Da quanto finora detto si coglie l’esigenza di sperimentare un cammino di conversione per le nostre comunità, perché la testimonianza di carità sia via di evangelizzazione e risposta vocazionale. Si tratta di impegnarsi a compiere almeno sette passi: 

1) Dalla carità individuale alla carità a dimensione comunitaria. Occorre dare un minimo di organizzazione alla pastorale della carità: Caritas parrocchiale, centro di ascolto, osservatorio delle povertà e risorse, casa-opere della carità, …

2) Dall’aiuto occasionale, emotivo, una tantum all’aiuto di virtù di carità. Occorre educare alla virtù della carità: sentimenti, pensieri, parole e opere di carità, …

3) Dall’elemosina alla solidarietà. Occorre attuare costantemente il passaggio da una carità-elemosina ad una carità-politica: carità e giustizia coniugate insieme. 

4) Dalla carità ecclesiale alla carità di rete con le istituzioni pubbliche. Noi con loro, noi con le realtà dell’intero territorio, noi nello stile della partecipazione, collaborazione e corresponsabilità territoriale: cittadini credenti.

5) Dall’aiuto materiale all’attenzione alla persona in tutta la sua globalità: ascolto, osservazione, ospitalità, accoglienza, prossimità, relazione, farsi carico, condivisione, … 

6) Dalla solidarietà alla fraternità. Si tratta di riconoscere l’altro come fratello, come portatore di dignità e di dono: non solo, quindi, destinatario di dono, ma soggetto di dono, …

7) Dall’assistenza alla promozione: azioni non solo di assistenza ma di promozione, di accompagnamento, di liberazione, …

 

Lo sguardo dei piccoli, profezia per i grandi 

Mi piace concludere con un piccolo testo biblico tolto dal primo libro dei Re : “In quei giorni, Elia disse ad Acab: su, mangia e bevi, perché sento un rumore di pioggia torrenziale. Acab andò a mangiare e a bere. Elia si recò alla cime del Carmelo; gettatosi a terra, pose la sua faccia tra le ginocchia. Quindi disse al suo ragazzo: vieni qui, guarda verso il mare. Quegli andò, guardò e disse: non c’è nulla! Elia disse: tornaci ancora per sette volte. La settima volta riferì: Ecco, una nuvoletta, come una mano d’uomo, sale dal mare. Elia gli disse: Va’ a dire ad Acab: attacca i cavalli al carro e scendi perché non ti sorprenda la pioggia. Subito il cielo si oscurò per le nubi e per il vento; la pioggia cadde a dirotto…”. (1 Re 18, 41-46) Che anche a noi sia dato di procedere, dentro la storia che ci appartiene e che ci responsabilizza, con la stessa spiritualità che il testo della Parola di Dio ci suggerisce e cioè con lo “sguardo dei piccoli-poveri della terra”. Solo così, giovani e adulti, laici e religiosi, saremo capaci di dare forma alla nostra vocazione, scrutando il futuro.