N.05
Settembre/Ottobre 2006

L’uomo nell’agape divina: una comunione che custodisce e porta a compimento la sua identità

La bambola di sale è una novella che spesso si usava negli incontri del nostro CDV anni ’70. Vi si narra di una bambola – tutta di sale – che, affascinata dall’oceano di cui ha sentito parlare, pur senza averlo mai visto, intraprende un lungo viaggio. Arrivata alle sue meravigliose sponde, il fiato mozzato dai riflessi multicolori, trova il coraggio di porre la domanda: Chi sei? «Il mare», si sente rispondere ed allora esclama: Io voglio conoscere il mare! E l’onda stessa porta la risposta: «entra, tocca, fa’ esperienza». La bambola di sale, esitante, pian piano si avvicina e ripete, ad ogni onda, la propria domanda; ma, ad ogni onda, pur perdendo qualcosa di sé ed avvertendo il dolore di quella perdita, resta insoddisfatta. Ha bisogno di conoscere di più, di sapere di più cosa sia il mare. E, proprio quando l’ultima ondata la sta sommergendo e sciogliendo, esclama: ora ho capito cosa è il mare: il mare sono io

Anch’io ho usato questa novella, ma restando sempre un po’ perplessa su quella vena di panteismo che la pervade: perdersi in Dio fino ad annullarsi non mi è mai sembrato il cuore della novità evangelica. Con buona pace della bambola di sale, oggi non la racconto più, ma neppure la demonizzo! La metafora del viaggio e dell’immensità, della bellezza che attrae e del prezzo da pagare per farne esperienza sono temi importanti per affrontare una riflessione sul senso della nostra vita. Tuttavia, non “perdersi” fino a sciogliersi in un indefinito mare, ma “perdere la propria vita per Gesù” e ritrovarsi come soggetti amati immensamente: questo è significato e significante per la nostra vita! 

A cosa siamo, dunque, chiamati? Restando nella metafora dell’oceano, riprendiamo e cerchiamo di meditare l’affermazione espressa da Papa Benedetto XVI al n. 10 della Deus caritas est: «Esiste una unificazione dell’uomo con Dio – il sogno originario dell’uomo –, ma questa unificazione non è un fondersi insieme, un affondare nell’oceano anonimo del divino; è unità che crea amore, in cui entrambi – Dio e l’uomo – restano se stessi e tuttavia diventano pienamente una cosa sola». 

 

Impossibile affondare nell’oceano anonimo del divino per chi accoglie la novità annunciata da Gesù! In un discorso[1] pronunciato il 23 gennaio scorso, il Papa – quasi facendo personalmente la prefazione all’Enciclica che sarebbe stata resa nota due giorni dopo – spiega perché ha scelto l’amore come tema della prima Enciclica: «volevo tentare di esprimere per il nostro tempo e per la nostra esistenza qualcosa di quello che Dante nella sua visione ha ricapitolato in modo audace. Egli narra di una “vista” che “s’avvalorava” mentre egli guardava e lo mutava interiormente[2]. Si tratta proprio di questo: che la fede diventi una visione-comprensione che ci trasforma. Era mio desiderio di dare risalto alla centralità della fede in Dio – in quel Dio che ha assunto un volto umano e un cuore umano». Papa Benedetto si sofferma sull’escursione cosmica dantesca, che porta il lettore a godere di quella luce che è “amor che muove il sole e l’altre stelle” e suggerisce di riflettere sul rapporto tra la teologia sottesa al pensiero di Dante e le intuizioni di Aristotele «che vedeva nell’eros la potenza che muove il mondo». E prosegue: «In realtà, ancora più sconvolgente di questa rivelazione di Dio come cerchio trinitario di conoscenza e amore [3] è la percezione di un volto umano – il volto di Gesù Cristo – che a Dante appare nel cerchio centrale della luce». Il volto: Gesù volto di Dio, volto luminoso, volto “ri-volto” a noi, che ci narra «la novità di un amore che ha spinto Dio ad assumere carne e sangue, l’intero essere umano». Il n. 10 della Deus caritas est si spinge, proprio alla luce dell’Incarnazione, fino ad affermazioni ardite. Vi si parla di eros di Dio per l’uomo; del suo amore appassionato, talmente grande, da rivolgere Dio contro se stesso: «Dio ama tanto l’uomo che, facendosi uomo egli stesso, lo segue fin nella morte e in questo modo riconcilia giustizia e amore». Un Dio che pur restando «in assoluto la sorgente originaria di ogni essere» è «al contempo un amante con tutta la passione di un vero amore». 

A questo punto papa Benedetto condensa in un’espressione felice e provocatoria la verità di Dio che si fa uomo per noi e, con ciò, ci svela la nostra vocazione: «l’eros è nobilitato al massimo, ma contemporaneamente così purificato da fondersi con l’agape». Non quindi – come già chiarito nei numeri precedenti – una dicotomia fra due amori che rischierebbe di produrre una frattura tra la forza dell’eros, umana e sperimentabile, ed una spiritualistica (più che spirituale) forza agapica, tutta protesa ad un troppo alto dono di sé.  Nel già citato articolo, il Papa chiarisce il proprio pensiero: «Volevo mostrare l’umanità della fede, di cui fa parte l’eros – il sì dell’uomo alla sua corporeità creata da Dio». 

 

Il sì dell’uomo alla sua corporeità creata da Dio è, insieme, realizzazione del sogno dell’uomo e dell’eterno sogno di Dio su ogni uomo e su ogni donna. Rispondere a Dio con il tutto di sé, molto prima che imperativo etico, è accoglienza della verità su di sé. Quella “vista che s’avvalora”, di cui parlava Dante, diviene, nella rilettura del Pontefice, lo sguardo della fede che consente una comprensione nuova dell’identità della persona umana, proprio in forza della centralità della fede «in quel Dio che ha assunto un volto umano e un cuore umano». La corporeità creata da Dio è il luogo in cui siamo chiamati ad amare, compiendo la sintesi esistenziale fra le forze di eros ed agape. Come in una corsa primaverile tra i vigneti o in una ricerca notturna tra i vicoli della città, per usare il linguaggio del Cantico dei Cantici «diventato, nella letteratura cristiana come in quella giudaica, una sorgente di conoscenza e di esperienza mistica»[4]. Si tratta di “restituire al mistero la sua laicità più bella”[5] rileggendolo a partire dalla vita, secondo la sapienza che scaturisce dalla Parola fatta carne. Potremmo affermare che «il mistero è categoria che appartiene al tempo e ai luoghi. Spazio abitato dalla divina presenza, dove i corpi sono rivelazione, cosciente o no, di altre dimensioni»[6]

Veramente l’amore umano parla di Dio. Il Cantico canta l’amore umano, impetuoso e travolgente, ricco di colori e di profumi, inebriante; un amore così corposo ed esperienziale da non essere metafora esangue: l’amore di Dio è “erotico”, afferma Benedetto XVI! Riprendo, e condivido, a questo proposito, l’affermazione di Ceronetti ripresa da Ravasi nel suo commento: «La lettura in chiave erotica del Cantico è la più sicura, ma non ha senso se il letto degli amori non è illuminato da una piccola lampada che rischiari, attraverso quei trasparenti amori, il Nascosto». È in questo senso, mi pare, che il Pontefice vede nel matrimonio un compimento a quel sì che l’uomo e la donna dicono alla propria corporeità, in modo tale che nel matrimonio «avviene che l’eros si trasforma in agape – che l’amore per l’altro non cerca più se stesso, ma diventa preoccupazione per l’altro, disposizione al sacrificio per lui e apertura anche al dono di una nuova vita umana»[7]. 

La vocazione all’amore è scritta dentro al bisogno di amare, direi quasi “alla voglia” di amare ed essere amati. Creati a immagine del Dio-Amore, siamo chiamati ad amare sui due registri dell’amore: erotico e agapico. Papa Benedetto è molto forte nell’esprimere questa sintesi: «eros e agape – amore ascendente e amore discendente – non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro» [8] e se, inizialmente la vocazione ad amare si esprime con la voce potente e possessiva dell’eros deve poi divenire la suadente persuasione dell’agape, e ciò proprio per rispondere alla vera natura dell’eros. Infatti «se si volesse portare all’estremo questa antitesi [eros/agape] l’essenza del cristianesimo risulterebbe disarticolata dalle fondamentali relazioni vitali dell’esistere umano e costituirebbe un mondo a sé»[9]

 

Quali sono le fondamentali relazioni vitali dell’esistere umano? Per usare un linguaggio metaforico direi: sono relazioni di diastole e sistole. Sono come un cuore pulsante che attira e purifica e ossigena e poi spinge, invia, ripara e ritorna in un movimento che non ha sosta. Il nostro cuore vive di diastole e sistole, come tutta la nostra vita, intessuta di relazioni e di silenzi, di incontri e di distacchi. 

Anche il grande corpo che è la Chiesa, mistico corpo del Signore Risorto, vive in questa dimensione di dare e ricevere, umana e divina insieme. Teresa di Lisieux ha usato la metafora del cuore per esprimere la propria vocazione nella Chiesa e vorrei rilanciare questa sua intuizione per tentare un parallelo tra il sì alla propria corporeità che pronuncia chi è chiamato al matrimonio e chi ad amare con cuore indiviso. Nessuno dei due nega l’eros, nessuno dei due si preclude il cammino dell’agape. Lo spessore corporeità, con la sua forza e la sua tentazione possessiva, segna di esigenze precise la risposta di ciascuno. Il processo di virginizzazione insito in chi risponde alla chiamata del Dio-Amore passa attraverso un percorso di innamoramento simile e distinto: il vergine immediatamente è attratto dal volto di Cristo, lo sposo da quello della sposa e insieme si volgono al Signore; ma tutti devono riconoscere e amare Gesù nei fratelli. L’unico amore deve condurre il credente, qualunque sia la sua vocazione, a quell’intimo incontro con Dio che giunge fino alla comunanza del volere e del pensare: «la volontà di Dio non è più per me una volontà estranea, che i comandamenti mi impongono dall’esterno, ma è la mia stessa volontà in base all’esperienza che, di fatto, Dio è più intimo a me di quanto lo sia io stesso»[10]

Ciascuno di noi, per rilanciare ancora le parole del Papa, può lasciare che l’incontro con Dio giunga fino a toccare il sentimento: «imparo a guardare quest’altra persona non più soltanto con i miei occhi e con i miei sentimenti, ma secondo la prospettiva di Gesù Cristo […] Io vedo con gli occhi di Cristo e posso dare agli altri ben più che le cose esternamente necessarie: posso donargli lo sguardo di amore di cui egli ha bisogno»[11]. Uno sguardo attraverso il quale passa “il sentimento” cioè non una vaga carità, ma una volontà infiammata dallo Spirito di Cristo. 

 

Dicendo questo siamo giunti alla mistica. Papa Benedetto ci ha condotto qui. Tutti. Ben oltre quelle abituali remore che erigono steccati per “addetti ai lavori”. Mistica come visione semplice e affettuosa del Dio presente, quotidiano, fatto carne. «Il mistero si sente, non solo si pensa, si guarda timidamente, ma si sente, si porta dentro. È qui che possiamo inserire la ricerca del significato profondo dell’affettività non come ciò che si oppone al gioco segreto delle energie del mistero, ma piuttosto ciò che le accompagna e rivela»[12]

E questo mistero, di cui stiamo argomentando, è il Dio che ha rivelato il suo nome: Amore. «L’amore è “divino” perché viene da Dio e ci unisce a Dio e, mediante questo processo unificante, ci trasforma in un Noi che supera le nostre divisioni e ci fa diventare una cosa sola, fino a che, alla fine, Dio sia “tutto in tutti” (1Cor 15, 28)»[13]. Siamo invitati a fare esperienza della capacità che ha l’amore, accolto e vissuto, di generare amore, perché “l’amore cresce attraverso l’amore”, ribadisce il Papa. Il mistero del mistico Corpo di Cristo di cui siamo membra si rende fruibile nei gesti di carità della comunità che si è nutrita del Corpo eucaristico del suo Signore. «I santi hanno attinto la loro capacità di amare il prossimo, in modo sempre nuovo, dal loro incontro col Signore eucaristico»[14]: mistica e mistero trovano in loro i mistagoghi, coloro che ci prendono per mano e ci conducono verso il mistero. La vita diviene celebrazione: di un incontro e di un’attesa. Ritorna qui la polarità delle due forme di amore, verginale e sponsale, che sono nello stesso tempo e sponsali e verginali per quell’incompiutezza che segna ciascuno di noi, pellegrini nella storia. 

 

Per riassumere il percorso compiuto ed offrire un sussidio alla memoria, le accomuno nel simbolo liturgico della velatio, il flammeum della tradizione latina, il velo rosso come un amore che si compie, custodito dalle spose e gelosamente conservato dalle vergini anche nel momento del martirio. 

La liturgia del matrimonio – seguita nei primi secoli e ripresa nella recente riforma del rito italiano – cristianizzava usi antichi, soprattutto ebraici, e consisteva essenzialmente nella velatio della sposa, che era accompagnata da una preghiera di benedizione nel corso dell’Eucaristia [15]. Anche nella Liturgia della Consacrazione delle vergini, i cui inizi risalgono al IV secolo, troviamo velatio, benedizione, eucaristia. L’identica struttura liturgica delle due velatio indica che matrimonio e verginità consacrata sono percepiti come due momenti dell’unico mistero di Cristo Sposo della Chiesa[16]. Ad unificarli, nel rito liturgico, è il segno del velo, simbolo biblico ricco e diversificato, tessuto da richiami che vanno dalla delicatezza della femminilità all’abbraccio di Dio che avvolge con il cielo la terra; dalla nube (sposare è “nubere”, cioè coprire) che vela lo sguardo e si frappone fra noi e la contemplazione del mistero, allo Spirito che si posa sull’eletto e lo trasforma [17]. La velatio rimanda quindi alla dimensione sponsale della comunità ecclesiale: Chiesa vergine e madre, sposa ricca di figli e vergine che attende il ritorno dello Sposo. 

Le celebrazioni delle nozze, come le consacrazioni delle vergini, sono momenti vertice che ripropongono allo sguardo della nostra fede ciò che ogni liturgia eucaristica celebra e rende attuale: la vocazione ad amare, scritta nella carne di ogni uomo e di ogni donna, si compie nel mistero di Gesù che ci dà la sua carne da mangiare. La tensione fra eros e agape è finalmente risolta nello sguardo che accoglie l’acqua e il sangue sgorgati dal costato trafitto. Da quelle labbra è stato consegnato a noi lo Spirito, «potenza interiore che armonizza il nostro cuore col cuore di Cristo»[18]. Da qui scaturisce un nuovo modo di essere per ciascuno e per la comunità ecclesiale nel suo insieme. La scelta di porsi al servizio degli altri non è una delle possibilità che si presentano davanti a noi. È la possibilità unica di realizzare compiutamente la nostra umanità. Fatti ad immagine di Dio-Amore, scegliamo i suoi progetti e assumiamo le sue scelte, fino a divenire, come i santi, uomini e donne di speranza e di amore, per tutti [19]

 

Note 

[1] BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti all’Incontro internazionale promosso dal Pontificio Consiglio “Cor unum”, Città del Vaticano, 23 gennaio 2006. 

[2] cfr. DANTE ALIGHIERI, Paradiso, XXXIII, 112-114. 

[3] “O luce eterna che sola in te sidi / sola t’intendi, e da te intelletta /e intendente te ami e arridi”, Paradiso, 124-126. 

[4] DCE 10. 

[5] L’affermazione è tratta da un interessante articolo di A. POTENTE, Dimensione mistica e forza creativa dell’affettività: il gioco delicato tra mistero e mistagogia, in: AA.VV., “Questo nostro corpo”, Centro Studi USMI, Roma 2003. 

[6] Ibidem, p. 72. 

[7] BENEDETTO XVI, Discorso citato

[8] DCE 7. 

[9] Ivi. 

[10] DCE 17. 

[11] DCE 18. 

[12] A. POTENTE, a. c. 

[13] DCE 18. 

[14] cfr. DCE 18. 

[15] Una testimonianza artistica particolarmente toccante è il “cubicolo della velatio”, nelle catacombe di Priscilla, che ritrae una donna velata, orante, al centro dell’arcosolio. Ai suoi lati due scene di vita vissuta: a sinistra la celebrazione nuziale presieduta dal Vescovo e a destra la tenera immagine della donna col bimbo in braccio. 

[16] Nella prima edizione del Rito del matrimonio del 1969 (ed. italiana 1975), riformato secondo le direttive conciliari, al n. 17 dei Praenotanda era detto: «Avvenuta la consegna degli anelli, si può fare, secondo la consuetudine del luogo, o l’incoronazione o la velazione della sposa». L’indicazione è ripetuta nella seconda edizione del 1990 al n. 41,5 con la precisazione che la velazione può essere compiuta su ambedue gli sposi. L’edizione italiana ha recepito questa possibilità suggerendo la modalità del gesto e le formule appropriate. Si tratta di due gesti tradizionali nel mondo biblico-giudaico e greco-romano che la liturgia cristiana ha recepito, privilegiando tuttavia in Occidente la velazione e in Oriente l’incoronazione. Ambedue i gesti erano diffusi in tutta l’area mediterranea, ma sembra che sull’uso cristiano abbia influito maggiormente la tradizione biblica e giudaica. 

[17] Mi pare utile riportare questo excursus di Pietro Sorgi, apparso nel suo articolo “Velazione e incoronazione” in: “Rivista Liturgica”, 6/2004: «Il velo che nasconde e rivela con discrezione, filtra e protegge la personalità femminile […] per questo Rebecca, alla vista del promesso sposo Isacco, si copre con il velo, mostrando così di riconoscersi a lui legata (cfr. Gn 24, 65). Così Susanna, sposa di Joakim, portava il velo (cfr. Dn 13, 32). Ma il velo che copre, nasconde e rivela, nella Bibbia è anche simbolo del cielo che Dio stende per abbracciare e proteggere la terra (cfr. Is 40, 22), delle nubi che nascondono il Dio altissimo (cfr. Gb 22, 14) e in mezzo alle quali Dio si rivela sul monte (cfr. Es 19, 16; 20, 21; 34, 5), ma anche del lutto (cfr. Is 47, 2) o dell’ignoranza che impedisce di vedere il volto del vero Dio (cfr. Is 25, 7). Può essere simbolo dell’ipocrisia che, sotto il pretesto della libertà, nasconde la malizia. Il velo serve ad attenuare la luce abbagliante del roveto che brucia senza consumarsi (cfr. Es 3, 6) e quella che risplende sul volto di Mosè quando si è intrattenuto con Dio (cfr. Es 34, 35). Per questo, nella tenda e poi nel tempio, nasconde il Santo dei santi alla vista degli Israeliti (cfr. Es 26, 31; 40, 21; Lv 16, 2; Nm 18, 7; 1Mac 1, 22; Eb 9, 3; 10, 20). Il velo richiama pure la nube luminosa che copre la tenda e la riempie, simbolo della presenza gloriosa di Dio (cfr. Es 40, 34-38; Nm 9, 18-22; 10, 34). E nel Nuovo Testamento la potenza dello Spirito Santo che adombra Maria (cfr. Lc 1, 35) e la nube luminosa che avvolge con la sua ombra i testimoni della trasfigurazione di Gesù (cfr. Mt 17, 5) e quindi il ciborio che adombra l’altare, simbolo dello Spirito che viene invocato sui doni offerti e su coloro che vi prenderanno parte». 

[18] cfr. DCE 19. 

[19] cfr. DCE 40.