N.06
Novembre/Dicembre 2006

Gli Istituti di vita consacrata e i CDV: quale provocazione per una pastorale unitaria?

 

 

 

TAVOLA ROTONDA

 

ANNA MARIA BERTA

delegata della Presidente della CIIS

 

Iniziare il Forum con una Tavola rotonda ci mette nel cuore del tema scel­to per questo Forum. Subito si affron­ta la tematica da angolature diverse per una visione completa. Le relazio­ni che seguiranno, in un certo senso, per noi saranno illuminate dalla testi­monianza di chi opera nell’animazione vocazionale.

Il tema proposto nel Forum è at­tuale e lancia una vera sfida: “Come accogliere e annunciare insieme la vocazione alla vita consa­crata nella Chiesa locale?”.

Nel titolo stesso abbiamo tre pa­role che ci possono fare da guida:

– accogliere

– annunciare

– insieme

 

Accogliere: è esigenza di ogni vocazione accogliere la chiamata. Ogni chiamato è scelto da Dio e sce­glie a sua volta Dio come pienezza delle sue aspirazioni. Frutto dell’accoglienza è la gioia.

 

Annunciare: chiamati all’annuncio e al coraggio della proposta vocazionale.

 

Insieme: nella logica della comu­nione si annuncia e si fanno proposte nel respiro ecclesiale. Si uniscono le forze, per metterle al servizio del Re­gno.

 

È bene sottolineare l’importanza dell’INSIEME come Chiesa. Il docu­mento Ripartire da Cristo, al n. 16, parla chiaramente di questo impegno nel servizio alle vocazioni:

“Il servizio alle vocazioni è una delle ulteriori nuove e più impegnati­ve sfide che la vita consacrata si tro­va oggi ad affrontare… L’intera Chie­sa locale, vescovi, presbiteri, laici, persone consacrate, è chiamata ad assumere la responsabilità di fronte alle vocazioni di particolare consacra­zione”.

Viene sottolineata la dimensione della comunione e dell’impegno di tut­ti per tutte le vocazioni: tutta la Chie­sa, in una collaborazione armonica, per l’unico fine. Per vivere questo è ne­cessario aprirci ed educarci ad un’autentica comunione, nella conoscenza approfondita delle varie forme di vita consacrata. Solo così potremo fare pro­poste significative ed orientare chi è chiamato, rispettando il cammino che Dio ha tracciato per ciascuno. In que­sto modo renderemo un vero ed au­tentico servizio alle vocazioni.

Giovanni Paolo II, nella Lettera Apostolica Novo Millennio Ineunte, al numero 43 e 46, così scrive: “Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che ini­zia… promuovere una spiritualità del­la comunione, facendola emergere come principio educativo in tutti i luo­ghi dove si plasma l’uomo e il cristia­no, dove si educano i ministri dell’altare, i consacrati, gli operatori pasto­rali, dove si costruiscono le famiglie e le comunità… È necessario ed urgente imposta­re una vasta e capillare pastorale del­le vocazioni, che raggiunga le parroc­chie, i centri educativi, le famiglie, suscitando una più attenta riflessione sui valori essenziali della vita, che tro­vano la loro sintesi risolutiva nella ri­sposta che ciascuno è invitato a dare alla chiamata di Dio, specialmente quando questa sollecita la donazione totale di sé e delle proprie energie alla causa del Regno”.

Siamo allora chiamati, in questa sede, a riflettere su come possiamo portare avanti insieme la pastorale vocazionale, nel respiro ecclesiale, per accogliere con gioia e annunciare con coraggio, insieme nella Chiesa con la Chiesa e per la Chiesa!

 

 

MONS. FRANCESCANTONIO NOLÈ

 Vescovo di Tursi-Lagonegro e

Segretario della Commissione Episcopale Clero e Vita Consacrata

 

Sono oggi con voi nella doppia veste di osservatore, sia come religio­so conventuale che come Vescovo per cui devo dire che, come Vescovo, ho bisogno di informarmi di più, capire di più, formarmi di più sulla vita consa­crata.

Ricordo quando andai a Roma dal Cardinal Re a dirgli: “ma perché non lasciate in pace noi religiosi, dal momento che, chiamandoci all’episcopato, ci portate fuori dalle comunità religiose?” e lui rispose: “la Chiesa ha bisogno di una presenza religiosa, nel­le conferenze episcopali, che dica la necessità di questa comunione”.

Devo dire che, nel mondo dei re­ligiosi e dei consacrati, c’è la parte femminile che vuole tornare al carisma fondazionale e soprattutto allo spirito del fondatore. Però oggi il rischio è quello di fare tutti la stessa cosa. È dif­ficile individuare una spiritualità at­traverso il servizio pastorale che si fa: più o meno, tutti hanno gli stessi com­piti nella Chiesa. Allora, qual è il pro­blema? È farlo con spirito diverso. Molti fondatori e fondatrici, infatti, hanno introdotto nella Chiesa un nuo­vo carisma, con delle peculiarità pro­prie, per venire incontro ai bisogni del tempo, per esempio le scuole. Allora dobbiamo porci una domanda fonda­mentale: qual è il nostro carisma? Ovvero: quali sono le sfide di oggi, a cui bisogna rispondere? Questi sono piccoli riferimenti che riguardano la parte femminile, anche se non in ma­niera esaustiva.

Per quanto riguarda, invece, la parte maschile, dobbiamo dire che oggi i Vescovi hanno sempre più bisogno di sacerdoti per la pastorale, spesso non rendendosi conto che così metto­no una comunità nelle condizioni di non vivere una vita di comunione e di fraternità. Voi comprendete cosa signi­fichi, per un religioso, lasciare il con­vento e gestire una parrocchia esterna al convento o alla casa religiosa? Si hanno due superiori: il provinciale e il Vescovo. Spesso capita di non se­guire né l’uno né l’altro e di essere un po’ indefiniti.

Una prima provocazione è quella di dire ai Vescovi: “fateci fare i religio­si”.

Io ammiro tanto un Vescovo che, alla mia domanda provocatoria: “cosa vuole da noi religiosi?” (avevamo, in­fatti, tre frati e tre parrocchie, tutte fuo­ri dal convento), rispose: “voglio che facciate i religiosi. Se per farlo è ne­cessario togliervi qualche parrocchia, lo farò. La Chiesa non è mia, è di Dio: ci penserà lui”. Questo è un discorso che rispetta il carisma e dimostra ca­pacità di intuire e di andare lontano, perché i problemi non si risolvono dandogli una risposta immediata e contingente, ma guardando lontano.

D’altra parte, però, ci vuole an­che la capacità dei consacrati a vivere bene anzitutto la vita comunitaria. Ma non basta: perché io posso anche vi­vere bene la vita comunitaria, come insieme di doveri da assolvere con im­pegno e fedeltà, ma non amare i miei fratelli. Occorre allora vivere la vita comunitaria in comunione, consapevo­li che solo dall’Eucaristia, dalla Parola e dalla preghiera fatte insieme nasce la comunione. Dobbiamo custodire ge­losamente questi tre momenti, perché altrimenti perdiamo la vita di comunio­ne delle comunità, che sono sempre più assottigliate come numero e sem­pre più centripete, cioè esposte a tan­te sollecitazioni esterne, per cui ci ac­corgiamo che nell’apostolato più dia­mo e più ci viene richiesto.

Oggi, nella famiglia, la figura che manca non è quella della madre, ma quella del padre: è il papà che non sa dire e non sa dare la retta via, che non sa dire le cose giuste, concordate con la moglie evidentemente. Ci deve es­sere uno che dica l’ultima parola; for­se il ruolo del superiore, del modera­tore o del guardiano, come volete chia­marlo, va oggi riscoperto e rivissuto. È un richiamo e una sofferenza conti­nua per chi è stato superiore: è una sof­ferenza richiamare il fratello a ciò che egli ha promesso a Dio e alla Chiesa.

Non c’è bisogno di fare tante al­tre cose: la comunità, che è comunio­ne vivente, diventa essa stessa testi­monianza e quindi evangelizza, per­ché diventa capacità d’attrarre. Attrar­re non verso una singola persona del­la comunità, ma attrarre al carisma della Vita religiosa. Questo difficilmente av­viene in Occidente, anche per l’esiguità del numero e per le necessità della Chie­sa locale, che è costretta a richiederci tanti servizi pastorali; avviene più facil­mente dove comincia a nascere la Chie­sa, nei paesi di missione.

Penso che tutti voi consacrati sia­te consapevoli che le vocazioni stan­no venendo da altre parti, mentre da noi diminuiscono. Questo crea a volte qualche problema.

Nella Regola francescana c’è scritto che chi vuole andare in missio­ne deve chiedere al Provinciale, il qua­le dà il permesso. È l’unica volta in cui San Francesco non mette l’obbedienza. Ricordo un episodio di quando ero Provinciale: chiamai un frate filippino a dare tre anni del suo ministero nel nostro ambiente, anche come integra­zione e aggiornamento. Passati tre anni, gli chiesi: “Vuoi continuare?”. Mi rispose: “No. Devo tornare, non voglio più fare il missionario”. “Come in Italia?” gli dissi. “Sì! Perché io ho lasciato come voi casa, affetti e patria e sono venuto qui come missionario”.

Ecco lo spirito con cui vengono e con il quale dobbiamo accoglierli: in spirito missionario.

E mentre noi parliamo di prima evangelizzazione dei laici, forse dob­biamo stare attenti che una prima

evangelizzazione della vita consacra­ta non debba arrivare dall’esterno. Il Concilio Vaticano II diede un’indicazione fondamentale agli Istituiti e agli Ordini religiosi: ristudiare il carisma, tornare alle fonti e ai fondatori. Il sug­gerimento è sempre valido e sempre vivo. Ci vuole coraggio: c’è tanta sof­ferenza nel ridisegnare la nostra pre­senza nelle Diocesi, perché c’è da ta­gliare e da potare, per programmare in maniera intelligente la nostra presen­za. Non possiamo, ad esempio, avere comunità con meno di tre persone e questo significa riprendere un discor­so di risignificavità.

Occorre, infatti, uno sguardo con­creto e realistico: altrimenti faremmo tanti discorsi e propositi, guarderem­mo a tutti i Documenti della Chiesa, ma ci passeranno sempre sopra.

Nella mia Diocesi, che conta 135 mila abitanti, non ho molti religiosi e consacrati, ma i paesi sono piccoli. Non abbiamo una strategia voca­zionale, ma abbiamo la fortuna di ave­re sacerdoti che sono dei veri testimo­ni e ogni anno ci sono ordinazioni sa­cerdotali.

Da quando ci sono io, un sacer­dote, dopo 8 anni, è diventato frate minore, mentre un giovane, dopo l’an-no propedeutico nel Seminario Regio­nale, è diventato frate minore. Ho detto al Nunzio, che mi diceva che da noi i sacerdoti diventano frati, che io ne ho un danno e una beffa insieme: il dan­no perché se ne vanno, la beffa perché non sono conventuali.

Questo vuol dire che in questi anni sono state curate, e stanno conti­nuando, la testimonianza e la significatività, che sono fondamenta­. Se vogliamo lavorare insieme dobbiamo farlo nella verità: ognuno deve portare se stesso nella verità, senza nascondersi e senza camuffarsi. E al­lora potremo dire ai Vescovi: “Fateci fare i religiosi, fateci essere segno di questa presenza di comunione”.

Termino con una battuta di Savino Pezzotta, che è stata tra le più applaudite a Verona. Egli, riferendosi ai Movimenti ecclesiali, ha detto: “Ba­sta con il federalismo ecclesiale”. Io oggi dico: “Basta con il federalismo religioso della vita consacrata”. Spes­so nelle diocesi vivono tanti carismi, ma non si conoscono; non vivono in­sieme per motivi diversi, ma forse trop­po impegnati a fare e troppo poco a conoscersi, come si diceva, per vivere il proprio carisma mettendolo in comu­nione. Dobbiamo avere più coraggio per fare questo: lo dobbiamo preten­dere come religiosi e lo dobbiamo pre­tendere dai Vescovi. Anzi, occorre aiu­tare i Vescovi a capire di più questo bene grande, che il Signore ha fatto alla Chiesa: non è colpa di nessuno, ma forse un passo in più da parte di tutti farebbe bene anche alla Chiesa.

 

 

SR ELISABETTA TORINI

delle Suore Stabilite della Carità

 

Nel rispondere all’interrogativo che il titolo di questa Tavola rotonda ci propone, vorrei con forza sottoline­are quanto sia fondamentale che all’interno dei CDV si respiri una forte dimensione di ecclesialità, proprio per­ché, come evidenziava don Nico dal Molin nel Forum del 2005, “le diverse vocazioni sono presenti non da spet­tatrici, ma in maniera attiva e dinamica, da sentirsi così tutte coinvolte e valo­rizzate”. Certo, per far sì che questo avvenga, i CDV devono essere organi rappresentativi della Chiesa locale. Alle volte devo costatare che, nono­stante i continui richiami da parte delle nostre Chiese, noi religiosi siamo re­stii a parteciparvi, crediamo di perdere tempo, convinti che è meglio lavorare nel nostro orticello per la paura che le vocazioni non arrivino e così via. Al­cune volte, e non abbiamo paura ad ammetterlo, la partecipazione a questi organismi diocesani è solo una sensi­bilità del singolo, che crede fortemen­te ad un cammino di comunione, ma è solo, cioè non ha alle spalle la Comu­nità, per cui tanta ricchezza va persa, per l’Istituto e per la Chiesa tutta.

Capita anche che noi consacrati non sappiamo se nelle nostre Chiese locali esistono i CDV. Quante volte Mons. Ladisa, durante i Convegni, durante i corsi per animatrici vocazionali o questi stessi Forum ci ha invitato ad andare a bussare alle porte delle nostre curie diocesane per sapere se esistevano i CDV e, se c’erano, di farne parte. Questo evidenzia che anche da parte nostra c’è disinformazione e – lasciatemelo dire – disinteresse. Il “fai da te” è ancora una formula molto diffusa. Eppure il CDV può diventare, per gli Istituti, una straordinaria esperienza di comunio­ne che non sottrae energie, ma riceve ricchezza e stimolo, offre un’apertura sempre nuova e apre ad orizzonti sco­nosciuti.

In concreto, tutto questo come si realizza? Se penso alla mia realtà diocesana, vedo che uno dei primi pas­si percorsi è stato proprio quello com­piuto sulla strada della conoscenza reciproca dei vari membri. Per un anno non abbiamo avuto una sede fissa, ma ci siamo riunite nelle varie case religio­se, per conoscerne la spiritualità cari­smatica e come questa venisse appli­cata nella nostra terra fiorentina. Que­sto nomadismo ci ha permesso di cre­are legami più veri che oggi ci consen­tono di instaurare rapporti sempre più profondi.

Dopo un percorso del genere, è naturale conseguenza un lavoro di équipe nel preparare e nel condurre insieme, a livello diocesano, gli eser­cizi spirituali per giovani, una scuola di preghiera con adorazione eucaristica mensile, l’animazione di giornate di preghiera e di condivisione nelle parrocchie dei Vicariati, il lavo­ro per allestire e seguire il monastero invisibile, che prenderà il via anche a livello regionale, la preparazione e la proposta comunitaria della Veglia vocazionale in vista della GMPV. Tutti questi momenti vissuti insieme non solo offrono alla vita consacrata l’opportunità di collaborare, ma manife­stano una specificità carismatica, pro­pria delle diverse spiritualità.

Se il CDV cammina nella giusta direzione, consente una piena valorizzazione dei singoli carismi, nel­la bellezza di una comunione fra tutte le vocazioni, ed è come se ognuna prendesse luce e bellezza dalla luce e bellezza delle altre. In effetti, è all’interno della realtà del CDV che le inizia­tive dei singoli Istituti trovano ampio spazio e hanno la possibilità di divul­garsi nell’ambito della Chiesa locale, molto di più di quanto il singolo Istitu­to possa fare da solo.

Quelle Congregazioni che coinvol­gono i loro membri nella realtà dei CDV – supponendo che ci siano dei CDV che lavorano con passione ed entusia­smo, e che non si limitino solo al lavoro di due o tre persone che si riuniscono una volta all’anno per preparare qual­cosa per la GMPV – sperimentano che non lavorano in un angusto spazio pri­vato, ma offrono tempo ed energie nel­la vigna del Signore e riescono a racco­gliere frutti che forse non sono secon­do le loro aspettative, ma senz’altro sono secondo la legge della gratuità. Inoltre hanno l’occasione di sperimen­tare che il “fare insieme” richiede meno dispendio d’energie e dà la certezza di non aver corso invano.

Concludendo questo mio inter­vento, auguro a tutti noi, consacrati e non, che quanto detto fino ad ora di­venti speranza e la speranza diventi possibile e vivibile: e questo sarà vero solo se noi stessi, per primi, ci crede­remo. Perciò l’unione di CDV, vita consacrata e Chiesa locale è una real­tà che va creduta con passione e colti­vata con amore, affinché diventi se­gno visibile e concreto per una pasto­rale unitaria.

 

 

FRANCESCO FEDATO

membro di un Istituto secolare

 

Sono stato invitato a questa Ta­vola rotonda come persona apparte­nente alla “categoria” dei laici consa­crati. Siamo persone che vivono que­sta vocazione non individua­listicamente, ma facendo parte di “co­munità spirituali”, con un’organizzazione interna tale da offrire ai propri mem­bri il sostegno personale e comunitario per vivere responsabilmente il proprio essere nel mondo e nella Chiesa. Siamo riconosciuti dalla Chiesa come “Istituti Secolari”, laicali o sacer­dotali. Molti hanno il riconoscimento pontificio, altri quello diocesano. Sia­mo particolarmente presenti in Italia, ma estesi in tutto il mondo.

Come membro di un Istituto seco­lare laicale, mi accingo a parlare pro­prio di questi, cercando di spiegare il senso e la concretizzazione di una con­sacrazione unita alla secolarità. La caratteristica che accomuna questi Istituti è quella di essere com­posta da persone che, rispondendo alla chiamata del Signore Gesù, sentono di essere invitati a “coniugare la piena consacrazione a Dio e la secolarità a 360 gradi”.

-Viviamo da laici, prevalente­mente in famiglia, oppure da soli o in piccoli gruppi.

-Condividiamo il vivere e l’operare di tutti gli altri uomini e donne, laici “comuni”, svolgendo quelle pro­fessioni lavorative che l’indole, la pre­parazione personale e il mercato del lavoro permettono.

-Siamo disponibili ad assumere ogni altra responsabilità e ruolo nell’ambito sociale, amministrativo, poli­tico, del tempo libero, ecc., nel rispetto delle sensibilità e capacità personali, oltre che delle regole che presiedono tali contesti.

-Fine di questo stile di vita è testimoniare che il progetto di Dio sull’uomo e sul mondo è una gran bella “in­venzione”, possibile da realizzare; è mostrare che vivendo, in Cristo, la pie­na relazione con Dio, è possibile arriva­re, per dono suo, ai massimi vertici della “carità”, vale a dire della santità.

-Per noi è molto espressivo è pregnante ciò che si legge in Gn 3, 8 e 10: l’uomo e la donna riconoscevano il passo di Dio, che scendeva, nella brez­za della sera, a conversare con l’uomo. Il che significa che era abituale per Dio e per l’uomo incontrarsi al termine del­la giornata “lavorativa”, per dialogare sul “vissuto” della giornata… È così che ci piace pensare alla preghiera di Gesù, non solo negli anni della vita pubblica, quando essa sarà registrata con chiarezza, ma anche nei primi 30 anni del suo vivere fra gli uomini.

-Ad animare e sostenere il laico consacrato nell’essere e nell’operare dentro al mondo sono la piena con­sacrazione a Dio e la mediazione del proprio Istituto.

-È naturale che, portando nel cuore, senza segni esterni – di vestito, ruoli, case, opere, ecc. – la ricchezza di una consacrazione così vissuta, pos­sa accadere di essere richiesti per dei servizi all’interno della Chiesa. A que­ste possibili chiamate possiamo e vo­gliamo rispondere, senza lasciarci però completamente assorbire “ad intra”, per non cadere nel tranello di snatura­re la nostra caratteristica peculiare che è di “fare buone tutte le nostre opere”, nel nostro quotidiano, in modo che così si dia gloria al Padre che è nei cieli.

-Questo stile di vita ci porta ad essere “sempre pronti a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi”, come dice Pie­tro nella sua Prima lettera. Non può essere considerata questa la peculiare “nuova evangelizzazione” della quale, come laici, siamo responsabili?

 

 

Cinquant’anni di storia nell’aiuto al discernimento vocazionale

Un’esperienza importante all’interno della vita del mio Istituto è quella dei “Corsi d’orientamento vocazionale”, iniziati già 50 anni fa dal prof. Giuseppe Lazzati e poi assunti come modalità di proposta spirituale anche da altri mem­bri dell’Istituto. Si trattava di un’esperienza di tre/quattro giorni, in cui si pre­sentava la vita come vocazione e le quattro vocazioni principali con te­stimonianze dirette sul matrimonio, sul sacerdozio, sulla consacrazione religio­sa e sulla vocazione del laico consa­crato. Questo servizio è cominciato in Lombardia e poi si è esteso anche in diverse altre diocesi. Da questa propo­sta sono scaturite molte vocazioni an­che di speciale consacrazione.

Si è ben presto capito che prima di ciò, o meglio insieme a ciò, biso­gnava far crescere umanamente e spiritualmente i giovani per essere in grado di pensare ed accogliere la pro­pria vocazione, con libertà e responsa­bilità. Da qui la proposta di ritiri men­sili e dell’accompagnamento persona­le, iniziativa che da alcuni anni è con­dotta in collaborazione con l’Azione Cattolica.

Negli ultimi anni, però, non è sta­to più possibile realizzare dei corsi d’orientamento. Attualmente, nell’orientamento/ proposta vocazionale, ci muoviamo in questo modo:

-L’incontro con i giovani in ri­cerca nasce dalla testimonianza del no­stro stile di vita e quindi dalla cono­scenza diretta di qualcuno di noi op­pure da segnalazioni di altri che ci co­noscono: sacerdoti, religiosi/e, lai­ci, ecc.

-Rispondiamo a richieste, per­sonali o di gruppo, per la conoscenza della vocazione del laico consacrato e della specificità del nostro Istituto. Lo facciamo partendo dall’identità e dal ruolo del laico cristiano nella Chiesa e nel mondo.

-Da tre anni circa diffondiamo un depliant che parla della nostra vo­cazione.

-Abbiamo aggiornato il nostro sito Internet in più lingue e questo ci per­mette di avere varie richieste d’informazioni, più dall’estero che dall’Italia.

-Per i giovani più interessati alla conoscenza della nostra realtà vocazionale, siamo disponibili ad un accompagnamento personale o di gruppo, per un discernimento che porti

all’individuazione e alla scelta di ciò che il Signore propone.

-Siamo presenti in alcuni CDV, con piena disponibilità alla collabora­zione. Consideriamo quest’organismo un luogo importante per far conoscere anche la nostra vocazione. Forse do­vrebbe essere ripensato il suo ruolo all’interno delle diocesi.

 

 

Spunti di riflessione

Quando nella proposta vocazio­nale operiamo come singoli Istituti o come Seminario diocesano, tutti affer­miamo di presentare, nel dovuto modo, tutte le vocazioni, ma poi ciascuna real­tà vocazionale sospetta della “parziali­tà” del servizio che fanno gli altri, come se ciascuno si muovesse pro domo sua. In base alla mia lunga esperienza, io ri­tengo che questo sospetto sia ancora abbastanza presente. Purtroppo, qua­lora ciò rispondesse alla realtà, ci tro­veremmo di fronte ad un fatto grave: ad un sostituirsi, in pratica, alla chiamata del Signore, finendo anche per rendere più difficile la vita del chiamato (in pro­posito avrei degli esempi recenti e mol­to indicativi).

Credo sia urgente, invece, offri­re ai giovani tutto l’aiuto necessario: umano, spirituale, psicologico, ecc. perché possano maturare dentro di sé una risposta cosciente, libera, adeguata a ciò che il Signore “suggerisce” nell’intimo, così che la propria scelta/risposta possa corrispondere il più pos­sibile al sogno, al desiderio… all’invito che il giovane si porta dentro.

Inoltre, credo che un cammino ordinario di formazione dei giovani non possa prescindere dall’orienta-mento/discernimento vocazionale, condotto sui tre livelli del processo di crescita del giovane credente: la vita come vocazione, la vita cristiana come vocazione, la vocazione specifica. Ciò è necessario anche per orientarsi al matrimonio.

Ultima nota, che considero molto seria e che sta alla base dell’orientamento vocazionale per tutte le voca­zioni, è che quando si presenta al gio­vane – ma anche agli adulti – la voca­zione del laico cristiano, così com’è descritta dal Concilio Vaticano II e in tutto il Magistero ufficiale della Chie­sa, fino all’Enciclica di Benedetto XVI, essa è colta quasi sempre come novità per la maggioranza delle persone. Ciò, a livello ecclesiale, è inconcepibile e fa sorgere delle domande: che tipo di cri­stiani formiamo? Per che cosa? Quan­to e come potrà essere compresa dal giovane in ricerca la vocazione del “lai­co consacrato” se trova un retroterra di questo tipo?

 

 

Un’ultima notazione

Vorrei infine segnalare una mia esperienza particolare d’orientamento vocazionale a Treviso. Si tratta di un’esperienza partita quaranta anni fa, con la costituzione di un “Gruppo Diocesano”, riconosciuto sia dalla diocesi che dal CDV, costitui­to da persone del Seminario diocesano, dell’A.C., religiosi/e, missionari, spo­si, laici consacrati. Questo gruppo ope­rava proponendo corsi d’orientamento vocazionali residenziali, di più giorni, e con la proposta di proseguimento del cammino in ritiri mensili per un anno, che terminavano con un’esperienza prolungata di preghiera. Dopo alcuni anni, per chi aveva bisogno di un ulteriore cammino, si era organizzato un percorso triennale d’approfondimento della vocazione alla vita cristiana.

Questa seconda esperienza è terminata qualche anno fa, perché sono venute meno le collaborazioni, ma da questi cammini sono scaturite parecchie vocazioni particolari, oltre a bei matrimoni e laici aperti al servizio nel mondo e nella Chiesa.

 

 

 “ Vivere nella Chiesa, al giorno d’oggi, le parole, i gesti, gli insegna­menti di Gesù. Farlo semplicemente, un po’ alla lettera, come farebbe la gente che ascoltasse il Vangelo per la prima volta. Come fanciulli che hanno fiducia e non domandano spiegazioni, che non hanno obiezioni da fare; come inna­morati che vogliono esaudire anche il più piccolo desiderio di colui che ama­no… Tutto ciò di cui noi facciamo uso, è di colui che incontriamo, se ne ha bisogno: questo è il punto di arrivo della nostra povertà. Una disponibilità sempre in azione è il risultato della nostra vita senza famiglia. Il servizio del bene di tutti è il risultato della nostra obbedienza”.

(MADELEINE DELBREL, Comunità secondo il Vangelo, ed. Gribaudi, frase citata da Anna Maria Berta a conclusione della Tavola rotonda)