N.06
Novembre/Dicembre 2006

Sentire con la Chiesa… quando la Chiesa chiama[1]

Prima di entrare nel vivo del tema affidatomi, vorrei esplicitare una consa­pevolezza di fondo, che muove da una breve interpretazione della “memoria delle cose che rimangono”[2], cioè una lettura sapienziale di un’esperienza non solo personale, ma anche istituzionale, sviluppata attraverso un con­fronto con le sorelle che prima di me e con me, all’interno della mia famiglia religiosa, hanno vissuto l’avventura di una pastorale vocazionale nella Chiesa locale. Attingo quindi, in gran parte, alla “sapienza dell’esperienza”.

Nella consapevolezza di non poter esaurire in tale contesto il non facile tema che mi è stato chiesto, spero di ravvivare il gusto della ricerca e della ri­conoscenza delle cose di Dio (cf Fil 1,9-10: «E prego che la vostra carità sovrabbondi sempre più in conoscenza e in ogni senso, perché possiate ricono­scere ciò che è meglio»), o meglio ancora il sapore della relazione vitale con lui (cf Sal 33,9: «Gustate e vedete che il Signore è buono») che si sperimenta quando si lavora per il suo Regno.

 

Con gli occhi del cuore

Nella logica di una pedagogia biblica, impariamo a ricordare i passi del vissuto[3] per una sorta di esercizio del cuore, considerato il centro della persona e la sede dei suoi pensieri profondi: «Tu, o Dio, conosci i pensieri del mio cuore» (Dn 2,30). Anche la tradizione patristica parla di ricordo come redire ad cor (=ritorno al cuore) al punto che potremmo concludere che “ricordare è pensare con amore”[4]. La lettura sapienziale del cammino vocazionale del mio Istituto vuole muovere proprio da questo tipo di esercizio della memoria, in analogia all’anamnesi, ovvero a quell’azione propriamente liturgica con la quale si vuole celebrare il passato e il futuro in un tempo presente[5].

Si tratta per me, infatti, non solo di ricordare in modo vivo e dinamico le esperienze pastorali vissute ma, come lo scriba del Vangelo, di trarre dal “tesoro” dell’esperienza le “cose antiche e nuove”, in un esercizio di discernimento che sa intravedere i limiti delle “cose già fatte” ed è aperto all’innovazione, senza cedere all’illusione delle novità a tutti i costi.

 

Stare a Nazaret

Parto da un episodio biblico, a tutti ben noto, che è il movimento – oserei dire – quasi plastico, del ritorno di Gesù a Nazaret: il suo smarrimento nel tempio di Gerusalemme e il successivo ritrovamento da parte dei suoi genitori, che lo inducono a rientrare a “casa”. Questo episodio evangelico, che si esaurisce in poche battute, ha il potere di farmi posizionare da subito nella prospettiva cari­smatica del mio Istituto, consacrato alla contemplazione dell’Incarnazione del Figlio di Dio in una famiglia umana per realizzare il progetto salvifico del Padre: fare del mondo una sola grande famiglia di suoi figli.

L’esperienza di Gesù, che rimane a Nazaret per trent’anni sotto le cure di Maria e Giuseppe e cresce «in età, sapienza e grazia» (Lc 2,52) come vero uomo, pur essendo vero Dio, mi fornisce il modello educativo proprio della mia spiritua­lità di vita consacrata: una spiritualità dell’incarnazione, della presenza e del dialogo che fa perno non tanto sulla quantità delle opere quanto sull’ascolto dei bisogni e sull’impegno ad offrire risposte alla ricerca di senso. È nel silenzio e nell’operosità di questa “casa” che noi Suore della S. Famiglia di Spoleto an­diamo a lezione (cf il Discorso di Paolo VI, pronunciato il 5 gennaio 1964 a Nazaret [6]) di come dobbiamo stare pastoralmente nella Chiesa, con un esplicito riferimento alla Chiesa locale: essere religiose non come risorsa aggiuntiva o riserva in casi di emergenza, ma come componente essenziale nella missione che è propria di ogni battezzato cioè l’evangelizzazione e la testimonianza del­la carità.

Il mio fondatore, don Pietro Bonilli, sacerdote diocesano beatificato da Giovanni Paolo II il 24 aprile 1988, amava ripetere che ogni suora della S. Famiglia di Spoleto dovrebbe comportarsi come «un angelo che va e che vie­ne» da quel luogo teologico che è la casa della S. Famiglia, piccola Chiesa: entra in essa per attingere «nuove grazie e virtù» e torna nello spazio più ampio della missione apostolica per spargerle a piene mani[7]. Nell’orizzonte di comprensione della “casa della S. Famiglia, piccola Chie­sa” – quasi descrizione di un affresco absidale – rileggo con voi il senso di un cammino vocazionale, o più propriamente il valore degli itinerari di pastorale vocazionale proposti dal mio Istituto, come una sorta di “pellegrinaggio verso lo stato adulto dell’essere credente, chiamato a decidere di sé e della propria vita in libertà e responsabilità, secondo la verità del misterioso progetto pensa­to da Dio per lui”[8]. È ancora una volta una frase di don Pietro che mi aiuta a fare chiarezza: «La grandezza, l’eccellenza, la perfezione di un uomo consiste nel compiere la missione che Dio gli ha affidato nel mondo e nel compierla con tutta la diligenza e premura; a misura che questa missione è aspra, difficile e piena di sacrifici, altrettanto è meritevole chi l’adempie con puntualità e solerzia»[9]. E se per Gesù sia Maria che Giuseppe si sono fatti «maestri e gui­da»[10], tanto più dobbiamo ritenere auspicabile che ci sia per ogni chiamato la presenza di un fratello o di una sorella maggiore nella fede, capace di diventare compagno di cammino: in tal modo questo riferimento alla storia della salvezza mi aiuta anche ad inquadrare la presentazione di ogni proposta vocazionale in quella prospettiva di “cammino comunitario” che ben si accorda con la logica dell’interdipendenza tra le diverse vocazioni nella Chiesa[11].

Del resto, la vita religiosa ha la prerogativa di essere vita di comunità e come tale diventa testimonianza storico-culturale e sociale, nonché proposta vocazionale, di un cammino dell’unità nel rispetto dell’individualità, quando agisce secondo l’intelligenza della convivenza, nello stile esistenziale adottato dal Figlio di Dio nella sua incarnazione, che è la condivisione. Risulta ora ancor più facile capire quanto sia utile che, nel corso di questa mia relazione, spenda in ultimo qualche parola anche sul valore di una pastorale vocazionale ben progettata e programmata per lo scopo di far giungere ogni persona alla misura della statura della pienezza di Cristo[12] e potrei dire – in doverosa assonanza con il Convegno Ecclesiale della Chiesa Italiana appena svoltosi in questo mese a Verona – per aiutarla ad essere segno credibile di speranza nel mondo. In sintesi, mi preme chiarire da subito che parlando in termini di vita con­sacrata o di vita religiosa in relazione alla Chiesa locale (qual è più precisamen­te il mio argomento), intendo rimanere nell’ottica di un’ecclesiologia di comu­nione, interpretata come ricerca del bene comune, che è il presupposto più che necessario per una verificabile ecclesiologia di missione[13].

 

 

“Sentire ecclesiam”

Lo sforzo di rinnovamento che il mio Istituto sta facendo, per rileggere il rapporto istituzione-carisma, in questi ultimi anni è andato nella direzione di una riscoperta-rilettura della propria identità, proponendola alla e nella Chiesa locale come offerta di una specifica ricchezza carismatica a servizio di una pastorale organica, in funzione dell’unica missione. Questa disponibilità è il frutto di un atteggiamento di costante conversione nella quale l’Istituto si è posto fin dalla fondazione, mosso dal desiderio di farsi “mediazione” tra Chie­sa locale e territorio, per essere cioè “prossimo”, superando la logica dell’autoreferenzialità, che purtroppo ha radici profonde nella storia di ogni Isti­tuzione di vita consacrata. In questa collocazione ecclesiale, rinnovata nei tempi e nelle culture, per sentire non solo cum et in ecclesia, ma anche sentire ecclesiam, abbiamo privi­legiato il territorio-parrocchia, riletto teologicamente e antropologicamente come spazio offerto per un reale esercizio della vita cristiana, luogo di autentica umanizzazione e socializzazione[14]. La parrocchia, che può definirsi la prima co­munità ecclesiale dopo la famiglia, è scuola di fede, di preghiera e di catechesi; è il campo della carità ecclesiale e il luogo più adatto per far maturare la risposta vocazionale. Anche per la sua caratteristica di superare le appartenenze settoriali, il territorio-parrocchia ci ha aiutato a realizzare cammini ed iniziative di pastorale vocazionale con particolari accenti sul senso di appartenenza ecclesiale e sulla solidarietà con i più poveri, elementi co-essenziali nella costruzione di uno spazio relazionale che non tiene conto dei confini propriamente geografici[15].

La nostra presenza di religiose sul territorio, spesso e volentieri, si è giocata sull’abilità di “produrre relazione” per far passare i valori del Vangelo e per poterli vivere come novità e profezia. Si è trattato di condividere non tanto risorse o energie, che spesso purtroppo scarseggiano, quanto più di offrire idee e strategie innovative, sia all’interno di un dialogo cosiddetto culturale, che ben si accompagna alla nostra spiritualità dell’incarnazione, come ascolto del vissuto quotidiano di ogni persona, sia in una rete tra carismi, per vivere la reciprocità della Chiesa-comunione sul modello originario del dialogo trinitario[16].

Mi sembra utile riprendere, seppur brevemente, l’immagine citata della collaborazione in rete che, pur essendo semplice da capire, grazie alle ormai diffuse conoscenze dei sistemi informatici, probabilmente è da decifrare per quanto riguarda la prassi pastorale: parto dalla considerazione che la comunità parrocchiale, pur essendo un riferimento primario per il popolo cristiano, e non solo per esso, non è il tutto della Chiesa perché senza una rete di parrocchie la Chiesa locale resta un incompiuto[17]; inoltre la Chiesa, pur soddisfacendo il criterio di concretezza nel rendersi visibile come comunità, assume l’effettivo valore di Chiesa-comunione nella misura in cui mette in relazione le varie vo­cazioni che la compongono e in particolare le famiglie, che sono il primo grem­bo vitale di quella esperienza di interazione alla quale essa rimanda. Ecco per­ché in una prospettiva di percorsi vocazionali, dunque formativi, è necessario allargare costantemente il quadro di riferimento e puntare su un progetto vocazionale che getta le basi prima nella famiglia e poi nella parrocchia, per permettere un confronto e un arricchimento ancora più ampio fra tutte le voca­zioni. Questa esplicitazione non è superflua, poiché risulta attuale il problema che la maggior parte dei giovani non conosce la differenza tra le varie vocazio­ni ecclesiali e tanto meno la specifica identità di ciascuna, alla quale possono essere loro stessi chiamati. Da una recentissima indagine, infatti, risulta che essi possono incontrare anche quotidianamente noi religiosi, magari nei confini degli oratori, ma non sanno definirci altro che “simpatici sconosciuti, portatori di uno stile di vita e di una visione del mondo sostanzialmente ignoti” (cf Documento-sintesi in preparazione alla 46a Assemblea generale CISM, che si terrà ad Olbia dal 6 al 10 novembre 2006, p. 8). Il dato è sintomatico, e a dir poco allarmante, se pensiamo ai tanti sforzi realizzati dalla pastorale vocazionale italiana; ma può essere di stimolo a cercare i “mediatori” tra l’universo dei religiosi e il variegato mondo giovanile, conside­rando anche il drammatico indebolimento dell’istituto familiare e della socializzazione religiosa con la conseguente azione di delega (alla scuola, alla parrocchia nella migliore delle ipotesi, oppure al cosiddetto “fai da te”) della tradizionale missione genitoriale di trasmettere i contenuti valoriali e comportamentali della fede cristiana[18].

A partire da queste sensibilità le nostre proposte vocazionali ci offrono la possibilità di vivere la consacrazione religiosa nella Chiesa locale da apostole, ma soprattutto da “sorelle” nella fede per tanti adolescenti, giovani o anche adulti.

 

 

Una ricetta per tutti i gusti

Nell’intento di una “lettura sapienziale”, propongo alcune esperienze di pastorale vocazionale vissute dal mio Istituto soprattutto a favore dei giovani; linee guida che, senza pretese, possono risultare utili ad altri Istituti di vita religiosa che desiderano interagire con la Chiesa locale. Come tutti sanno, nella pastorale vocazionale distinguiamo due momenti: l’animazione e l’accompagnamento vocazionale.

L’animazione vocazionale nel nostro Istituto è annuncio e proposta dell’invito di Gesù: “vieni e vedi”, fatto a tutti senza timore, come invito ad entrare nel mistero di Nazaret, dove si possono conoscere la ricchezza e il senso della kenosi di Cristo. L’accompagnamento, invece, è la fase che sostiene il chiamato dal momento in cui percepisce l’invito del Signore a seguirlo più da vicino, fino alla decisione vocazionale: questo movimento interiore potrebbe essere ricondotto alla frase evangelica “e tornò a Nazaret, e stava loro sottomesso”. Nella prassi di un percorso vocazionale questi due ambiti non sono così netta­mente distinti, pur essendo individuabili, e la reciproca influenza si trasforma in occasione di poter coniare proposte accessibili a tutti, nelle diverse fasi della vita, umana e di fede. L’obiettivo di entrambi è quello di fornire un aiuto nel discernere il progetto di Dio sulla persona, favorendo un processo di crescita a tutti i livelli, per arrivare alla decisione (= risposta) libera e responsabile di impegnarsi al servizio di Dio e dei fratelli, nella Chiesa e nel mondo, secondo uno specifico carisma: “e cresceva in età, sapienza e grazia, obbediente a Maria e Giuseppe”.

Innanzitutto, ogni iniziativa muove dalla convinzione che è necessario su­scitare nei giovani la domanda vocazionale: “cosa voglio dalla vita?”… “cosa sto cercando?”… “cosa vuole il Signore da me?”. Spesso e volentieri la crisi dei giovani del nostro tempo ha radici in questa scarsa volontà di conoscere ciò che si vuole dalla propria esistenza, prima ancora di quello che Dio ha pensato sapientemente per noi: Dio non fa nascere nessuna creatura senza prima avere consegnato ad essa una specifica vocazione![19]

Alla ricerca di senso, innescata attraverso queste basilari domande esi­stenziali, corrisponde l’offerta delle nostre proposte di pastorale vocazionale, che annualmente rileggono in chiave carismatica la tematica vocazionale scelta dalla Chiesa italiana: la logica di ricezione ed interpretazione dei messaggi eccle­siali in corrispondenza agli itinerari si traduce molto concretamente nella creazio­ne di documenti “personalizzati”, che vanno dal dépliant promozionale e infor­mativo al particolare sussidio di accompagnamento giornaliero della proposta, dai canti opportunamente selezionati agli originali gadgets da consegnare a ricordo dell’esperienza vissuta. Credo che, a confronto anche con altre espe­rienze, questa rimanga la strategia primaria per entrare in sinergia con la Chiesa particolare, senza indebolire l’identità dell’Istituto[20].

Movendo un passo in avanti, entro nella presentazione specifica delle nostre iniziative vocazionali offerte al mondo adolescenziale e giovanile. La prima urgenza che ci muove a lavorare oggi in questa direzione non è il reclu­tamento di “potenziali” vocazioni alla vita consacrata, bensì la missione di “es­sere e dare famiglia” nei confronti di coloro che spesso e volentieri sono resi orfani dei necessari riferimenti esistenziali. Per offrirvi un quadro cronologicamente rispondente alla prassi, parto dal­la ben nota proposta del campo-adolescenti, che talvolta viene “snobbata” a livello di Istituti religiosi perché considerata onerosa e meno vantaggiosa. Non nego che lavorare con e per gli adolescenti è una fatica e una sfida, a causa delle problematiche che questa fase dell’esistenza umana porta in sé – accentuate dalle tendenze culturali e dagli eventi di cronaca che la influenzano – e tutto ciò spesso causa la fatidica mentalità di delega.

Nel caso del mio Istituto, il campo-adolescenti nasce generalmente come esigenza di porre un punto di inizio nel cammino vocazionale, anche se non sempre la realtà corrisponde all’intenzione, poiché ultimamente si registra il notevole innalzamento di età di coloro che ci accostano, ci conoscono e deside­rano condividere con noi un tempo e un’opportunità di crescita. Dal punto di vista della collaborazione con la Chiesa locale, il nostro stile di impegno ci favorisce, poiché scegliamo di entrare nel tessuto vivo di una parrocchia attra­verso la catechesi, la liturgia e la carità; accostiamo soprattutto le famiglie e in esse quei ragazzi che cercano di conoscere e scoprire la bellezza della propria identità cristiana. Il tempo della cosiddetta “moratoria”, più o meno lungo, che inizia in questa età, facilita l’annuncio della vocazione alla vita e della vocazio­ne a dare la vita, così da rendere più comprensibile il messaggio evangelico, opportunamente mediato dall’esperienza del fondatore e dell’Istituto che ne ha assunto la forma.

La nostra proposta alla famiglia, e più ampiamente alla parrocchia, riletta nell’ottica di “famiglia di famiglie”, tiene conto fondamentalmente dell’esperienza di Gesù a Nazaret: questa è la fase del silenzio della crescita e della fatica di fare silenzio. La virtù nazarena del silenzio, che sembra ancora tanto lontana dall’esperienza del quotidiano (anche nei nostri ambienti religiosi, purtroppo) è ciò che costruisce l’uomo e la donna del domani come soggetto capace di ascol­to, e dunque di ob-audire al progetto divino pensato per lui o lei dall’eternità. La sottomissione alla quale Gesù si presta, per imparare l’arte dell’obbedienza (cf Eb 5, 8: “[…] pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì”), si traduce non solo in regole da rispettare, in cui incanalare le dirompenti energie mentali e istintuali dell’adolescenza, ma anche in libertà di impiegare forze e volontà per correggere pensieri e atteggiamenti, nonché per scoprirli e valorizzarli come risorse in vista della futura vocazione-missione.

Nell’universo giovanile, invece, come già accennavo in precedenza, si regi­stra una vera e propria “ignoranza vocazionale”, cioè una non-percezione del valore della vita come chiamata-risposta, accompagnata da una sorta di amne­sia per quante e quali vocazioni esistono nella Chiesa di Dio; ancor più essa si rende manifesta in quella lettura giovanile del mondo ecclesiale che si esprime attraverso un linguaggio standardizzato, incapace di andare oltre i titoli di pre­te, frate e suora per identificare i diversi gradi di appartenenza e che salta a pie’ pari ogni specifico carismatico. Osservando, ad esempio, la vita religiosa fem­minile essi sembrano rilevare i soli registri del fare e dell’obbedire, senza alcun interesse a scoprire che a fondamento della vita di una donna consacrata c’è un essere e un fraternizzare[21]. I giovani che accostiamo in Italia sono maggior­mente “quelli della prima ora”, mentre nei luoghi delle nostre missioni ad gentes o nelle giovani Chiese si riesce generalmente a interagire anche con i cosiddetti ultimi[22].

La nostra proposta si fa “seriamente” vocazionale (con un campo di servi­zio o di orientamento o con il più conosciuto campo-giovani) quando si prefig­ge di ripresentare ai giovani il mondo come il luogo della propria scelta di vita, anziché lo spazio del divertimento o del disimpegno. Per trasmettere tale conte­nuto, che focalizza il senso della chiamata di Dio e della risposta dell’uomo, si privilegia l’esperienza degli esercizi spirituali, proposti annualmente e alterna­tivamente a quella di un campo-servizio, dal taglio specificatamente più caritativo; l’obiettivo comune è far vivere al giovane l’esperienza di Dio-Amore, cioè di Dio Creatore che si fa prossimo ad ogni sua creatura per “costituire famiglia” con lei.

Nel rispetto della nostra identità di religiose missionarie, diventa per noi una priorità vocazionale-carismatica anche impiegare idee e forze per realizza­re iniziative che coinvolgano giovani italiani nelle chiese di recente evangelizzazione, proponendo esperienze periodiche di inserimento in concre­te realtà di povertà per un servizio ai più poveri. Questo tipo di offerta, che prevede una graduale ed organica preparazione nella modalità di week end missionari, non si può esaurire nei tempi più o meno lunghi impiegati a condi­videre situazioni e luoghi di disagio in paesi meno fortunati del nostro. Essa ha di mira una meta qualitativamente più alta: si tratta di trasformare l’esperienza personale in ricchezza da riversare nel tessuto ecclesiale, e ciò avviene provvi­denzialmente ad opera degli stessi giovani partecipanti, che si impegnano a rileggerla a 360 gradi dopo il “ritorno in patria”, integrandola con quegli impe­gni quotidiani ai quali non ci si può sottrarre.

È certamente una missione ad gentes (ultimamente molto ricercata dai giovani), che non si ferma al fascino che emanano i viaggi in culture differenti dalle nostre, ma si prefigge di ottimizzare il tempo e le energie dei giovani per smuoverli dal loro torpore ed aprirli ai più ampi confini del Regno; sono oriz­zonti tanto diversi da quelli individuati dalla loro ordinaria visuale, spesso inscatolata in pagine web o in webcam pur opportunamente puntate sulle po­vertà del mondo, ma che spesso escludono ogni coinvolgimento personale.

Un approfondimento a parte merita l’ulteriore proposta di accompagna­mento personale nel discernimento vocazionale e in questa area di impegno inserisco dunque i nostri campi di orientamento, che si svolgono attraverso iniziative dedicate al confronto tra i partecipanti nonché al dialogo interpersonale, che ha tempi e luoghi molto soggettivi e che aiuta a crescere “in sapienza e grazia”, come Gesù e con lui. Si tratta, comunque e sempre, di ac­compagnare i giovani in un cammino di conformazione a Cristo che li stimoli ad aprirsi alla scelta di dedicare l’intera esistenza alla causa del Vangelo, seppur in varie forme. Infatti, è importante curare – soprattutto nei giovani in ricerca – il passaggio dall’intenzione alla concretezza della scelta, assumendo la logica della totalità del dono di sé. Questo perché non avvenga che qualcuno si avven­turi in una vocazione rimanendovi “a tempo determinato” e assumendo uno stile che potrebbe trasformare anche il coinvolgimento più importante in una elegante forma di egoismo, motivato dal “…perché io devo arricchirmi, …per­ché io devo conoscere, ….perché io devo realizzarmi…”.

Per questo, ancora una volta, è d’obbligo saper e poter interagire, come Istituto, con la Chiesa locale: una delle modalità più efficaci rimane l’inserimento nel Centro Diocesano Vocazioni di un nostro referente, che può essere l’animatrice vocazionale, in comune accordo con la comunità dalla quale è in­viata; essa deve rendersi capace di tenere aperto il confronto con l’Istituto nel ravvivare la collaborazione tra le “articolazioni vocazionali” del corpo eccle­siale, quali possono essere gli uffici di pastorale giovanile, le parrocchie o i movimenti. Spesso e volentieri l’effettiva osmosi con la Chiesa locale ci ha così salvato dal pericolo di proposte saltuarie e sovrapposte ad altre ugualmen­te importanti e arricchenti e ci ha preservato dal rischio di un eventuale frain­tendimento sugli obiettivi: mi riferisco specialmente a quello di essere giudica­te più propense a sottrarre i giovani dagli ambiti parrocchiali e/o diocesani piut­tosto che attente ad impegnarci a promuovere ed orientare il loro coinvolgimento in essi. Tuttavia, nella lettura del vissuto, non posso mancare di registrare anche qualche fallimento: pur essendoci fortemente impegnate a realizzare questo tipo di interazione ecclesiale, certe volte abbiamo ottenuto l’unico risultato di essere lasciate sole, obbligate ad agire come “battitori liberi”, per il semplice fatto di aver avuto il coraggio di proporre in Diocesi il nostro stile carismatico; questa è una verità che ha diritto di cronaca, ma che non può farci desistere dall’impegno di continuare ad operare comunque nella linea della reciprocità, a noi particolar­mente cara.

Un’ulteriore, ma non ultima, via di coinvolgimento e di semina vocazionale sono le settimane di sensibilizzazione alla vita consacrata, che nei limiti del possibile facciamo coincidere con i tempi di animazione promossi dal Centro Nazionale Vocazioni; altrimenti le organizziamo in vista di una professione religiosa o di un particolare evento ecclesiale. Forse sono modalità meno effi­caci della cosiddetta pastorale vocazionale ordinaria, a causa della discontinuità che le caratterizza, ma gli strumenti di annuncio sono gli stessi e nel concreto vanno dall’incontro di preghiera all’animazione dei luoghi primari di aggrega­zione, quali possono essere: la scuola, l’oratorio, i gruppi parrocchiali, i centri sociali e, perché no, il famoso muretto o la piazza.

Mi piace completare questo excursus esperienziale citando altre due no­stre modalità di fare pastorale vocazionale nella Chiesa locale, che sembrano lontane dalla comune impostazione, ma che effettivamente possono rientrarvi ed essere di grande aiuto per trovare nuove vie da percorrere. Mi riferisco sia all’accompagnamento formativo di giovani in preparazione al matrimonio, sia alla catechesi vocazionale per famiglie che hanno figli prossimi alla celebra­zione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana. Tali iniziative, ben inquadrabili nell’ambito di una pastorale familiare, hanno una connotazione prettamente vocazionale se entrano nella logica dell’amore cristiano vissuto come opzione fondamentale: nell’amore e per l’amore, tutti, anche se in diversi modi, siamo chiamati a donare la vita, in vista di una nuova vita e di una novità di vita.

L’accompagnamento dei fidanzati, realizzato con il nostro inserimento nelle équipes diocesane di formazione, è assunto dall’Istituto come tappa dell’itinerario vocazionale quando viene proposto come percorso di fede. Se la prepara­zione al matrimonio cristiano parte dalla presentazione delle differenti voca­zioni nella Chiesa, per arrivare al confronto delle rispettive esperienze, diventa essenzialmente un “tempo di grazia”, utile alla crescita e al discernimento per­sonale e di coppia. In tal modo si gettano le basi per una cultura della vocazio­ne, che porterà a suo tempo anche i frutti di “nuove e sante vocazioni al sacer­dozio e alla vita consacrata” (come spesso citano le orazioni).

Allo stesso modo può essere interpretato l’obiettivo di lavorare con le fa­miglie più o meno giovani che vivono un tempo di preparazione catechetica assieme ai figli. Oggi si parla tanto di “nuova catechesi” e altrettanto la si speri­menta, ma in fondo altro non è che un accompagnamento dell’intero nucleo familiare in un percorso di evangelizzazione. Ciò che contraddistingue il nostro impegno è lo sforzo non solo di far riscoprire ai genitori la propria scelta di vita cristiana, ma anche di porre il “germe” della vocazione alla vita consacrata nel cuore di quei progetti che una famiglia elabora fin dal suo primo nascere nei confronti dei figli. Suscitare negli sposi l’interesse a rileggere la scelta matrimo­niale come vocazione, serve a non dare per scontata l’eventuale scelta dei propri figli. In concreto, diveniamo animatrici vocazionali “itineranti”, cioè ci rendiamo disponibili ad intervenire con contenuti e testimonianze nei momenti e luoghi di preparazione ai sacramenti dei ragazzi, soprattutto con incontri dedicati a gruppi di genitori nelle parrocchie (e da queste generalmente partiamo per proporre poi incontri nazionali per famiglie, secondo il nostro specifico taglio carismatico): il servizio diventa una vera e propria opportunità, perché si tratta di riuscire ad alimentare in questi genitori il senso della fiducia in Dio che chiama e, allo stesso tempo, di aiutarli a coltivare la libertà di accogliere il dono della vocazione di un proprio figlio, senza reagire con pregiudizi che possono ostacolare la libertà di una scelta di vita.

 

Le chiavi di casa

Ho condiviso con voi un esercizio di memoria del cuore e le orme del tempo sembrerebbero far credere che “non c’è niente di nuovo sotto il sole”, come dice Qoelet. Tuttavia è possibile ricordare il vissuto in modo nuovo. Il nuovo, in tal caso, non è ciò che non possiede passato, ma è ciò che rimane conforme al disegno di Dio e quindi possiede futuro. Nel contesto di una “lettura sapienziale” rimane la convinzione che la pa­storale vocazionale, se ben progettata e programmata, non serve a far contenti gli operatori del settore (i pastoralisti, i sociologi o quant’altro), ma “serve meglio l’uomo”: non si tratta quindi di viverla quasi fosse un optional, ma di assumerla con un atteggiamento di rinnovamento che stimola a trovare costantemente le vie migliori per essere fedeli all’uomo e raggiungere le profondità del suo cuore. “La Sapienza si è costruita la casa” (Pro 9,1), cioè il cuore stesso dell’uomo, la sua identità profonda che ha fondamento nell’amore di Dio. In questa prospettiva, provo a riformulare la famosa frase che Giovanni Paolo II ha co­niato nella Redemptor hominis 23: “la via della Chiesa è l’uomo”. Richiamo l’immagine iniziale della “casa di Nazaret”, luogo dove si è vissuta in modo auten­tico la grazia della comunione nel dono di sé, dell’intimità con Cristo Figlio di Dio fatto uomo: si potrebbe ugualmente dire che la porta della casa di Nazaret è l’uomo e che la chiave per aprire la porta del suo cuore può essere anche la pastorale vocazionale. Alla vita consacrata sono state consegnate le “chiavi” di questa casa, in segno di fiducia e di responsabilità al tempo stesso: a noi Suore della S. Famiglia di Spoleto sono state consegnate, in particolare, le chiavi del­la familiaritas Dei o, come amiamo chiamarla, della “familiarità nazarena”. Frequentando Nazaret “teniamo aperto il cuore”, per sostenere ogni progetto pastorale, tanto più quello vocazionale, perché impariamo dalla S. Famiglia a “pensare” e a “guardare la vita” dal punto di vista di Dio, con lo sguardo di Dio.

La pastorale vocazionale è un luogo possibile di esperienza della familia­rità con Dio, mistero che deve esser reso accessibile, perché la nostra casa non venga “scassinata”. Questa eredità, che noi abbiamo ricevuto da don Pietro Bonilli, è un “tesoro” che sentiamo di condividere. In particolare, in sintonia con la Chiesa locale, noi Suore della S. Famiglia desideriamo anzitutto essere presen­za orante per le vocazioni, a servizio di questa Chiesa, e testimonianza di carità, per dare ragione della nostra speranza.

 

Note

[1] Le proposte di pastorale vocazionale delle Suore della S. Famiglia di Spoleto nascono dal desiderio di offrire, ad adolescenti, giovani e… famiglie, un itinerario di maturazione umana e spirituale che rispecchia l’esperienza di Gesù a Nazaret: nel nascondimento del quotidiano egli cresceva in età, sapienza e grazia con l’ausilio di Maria e Giuseppe, educatori nella fede, nella speranza e nell’amore. Chi accoglie il nostro stile e le iniziative che organizziamo si pone sulla scia del Beato Pietro Bonilli, nostro fondatore, che ha scelto di fare della sua vita semplice e povera, feriale, un inno di lode alla S. Famiglia e un canto di amore a Dio Trinità Santissima. Ogni proposta costruisce un itinerario per un progressivo orientamento vocazionale, ovvero conduce gradualmen­te ad una scelta di vita che tiene presente lo stile di essere, dare e costruire famiglia nel mondo di oggi e per il mondo di domani.

[2] Cf M.I. RUPNIK, Dall’esperienza alla sapienza. Profezia della vita religiosa, Lipa, Roma, 2002, p. 79ss.

[3] Cf per es. l’invito biblico “ricordati” in: Dt 7,18; 8,18; 24,9; Tb 4,5; Sal 77,4; Qo 12,1.

[4] Cf A. CAMICI – A. ORLANDI, La fonte e il cuore. Cristianesimo e Iniziazione, Ed. Appunti di

Viaggio, Roma 1998, pp. 138-139.

[5] Di memoria del cuore si parla in tutta la tradizione religiosa universale; infatti, allo stesso modo di quella cristiana, anche la tradizione induista e quella islamica, per citarne alcune dell’universo religioso, presentano il cuore come l’organo recettivo per eccellenza del mistero divino, disposto alla sua “memoria”. Rimando anche al testo di A. GENTILI, I nostri sensi illumina. Saggio sui cinque sensi spirituali, Ancora, Milano 2002, per un interessante sviluppo del discorso sulla memoria a partire dall’esercizio dei sensi interiori.

[6] Cf Evangelizzazione e testimonianza della Carità 29: “L’inserimento organico degli istituti religiosi nel tessuto vivo della pastorale della Chiesa particolare rappresenta un contributo insostituibile per rendere operosa e feconda l’azione della Chiesa”.

[7] Cf P. BONILLI, La S. Famiglia e le Suore a lei consacrate, in “La Famiglia Cattolica”, gennaio 1913: «[…] Ma non vi illudete, o carissime. Prima nella piccola casa formatevi, come Gesù, alle virtù sode, modeste, sicure, dell’obbedienza, della carità, del sacrificio, del lavoro, del silenzio, della preghiera; poi uscite fiduciose nel mondo. Voi siete gli angeli fortunati della casa di Nazaret che vengono e vanno: vengono per attingere nuove grazie e virtù; vanno per spargerle a larga mano sulla terra».

[8] Cf AA.VV., «Nel solco del territorio… per il mondo…“simile al lievito che fermenta tutto l’impasto”(cf Mt 13,33)», Atti Assemblea CISM, Roma 2004, p. 91.

[9] P. BONILLI, Elogio funebre in morte di don Ludovico Pieri, 22 gennaio1881.

[10] Cf P. BONILLI, La S. Famiglia e le Suore a lei consacrate, in “La Famiglia Cattolica”, gennaio 1913: «[…] Voi siete chiamate ad adempiere nel mondo gli uffici altissimi di Maria e Giuseppe: voi li avete per maestri e per guida».

[11] Cf Vita Consacrata 66 e 67; Elementi Essenziali II, 47; Christifideles laici 55.

[12] Cf Ef 4, 14: “sino all’uomo perfetto, a quello sviluppo che realizza la pienezza di Cristo”.

[13] Cf Christifideles laici 32-44.

[14] Cf Ecclesia in Europa 16. Questa è l’immagine offerta dal Vaticano II, passata nel vigente Codice di Diritto Canonico (CIC 515 §1), che non pone più l’accento sul territorio, ma sul suo carattere di comunità di persone.

[15] Il territorio, inteso come habitat umano “aperto”, nell’epoca della globalizzazione può essere interpre­tato ancor più come luogo teologico, in cui collocare la ricchezza dell’offerta carismatica della vita consacrata, non tanto come offerta di servizi, quanto piuttosto come presenza per un dialogo costruttivo senza “complessi di inferiorità”.

[16] Questa affermazione si fa più comprensibile dal mio punto di vista carismatico, se parto dalla riflessio­ne sull’esperienza di convivenza della S. Famiglia, definita ormai senza problemi anche “Triade terrena”, per cui è possibile pensare che in essa si sia data una prima applicazione pratica del modello dialogico trinitario che informa la Chiesa.

[17] Cf Christifideles laici 26.

[18] Leggevo ultimamente, in alcuni articoli dedicati ai giovani, la significativa notizia della scelta sempre più diffusa di cercare e trovare risposte alle domande di senso o spazi di ascolto dei propri sentimenti attraverso Internet, su blog o spazi web simili, cioè dedicati a confidenze personali con ipotetici consulenti psicologici.

[19] Cf S. Paolo in Ef 1, 3-4 quando dice che noi siamo stati pensati in Cristo nei cieli prima di tutte le cose e siamo stati destinati ad essere santi e immacolati nell’amore. Per un approfondimento, invece, rimando sia alla voce del Dizionario di Pastorale Vocazionale (a cura del Centro Internazionale Vocazionale “Rogate”), Itinerari vocazionali, Editrice Rogate, Roma, pp. 577-589, sia all’ultima ricerca sociologica italiana sui giova­ni e la scelta vocazionale in F. GARELLI (a cura di), Chiamati a scegliere. I giovani italiani di fronte alla vocazione, Ed. San Paolo, 2006.

[20] Basti pensare all’efficacia che può avere l’inserzione, anche solo semplicemente visiva, del titolo di una nostra proposta così rielaborata in un elenco più o meno ricco di iniziative vocazionali diocesane a cura del CDV.

[21] Cf AA.VV. (a cura del CRV Lombardia), Luce sul mio cammino. Giovani consacrate e promozione delle vocazioni, Editrice Ancora Milano, 1994.

[22] Con il termine ultimi si possono qui definire coloro che a fatica riescono a vivere e a scoprire la gioia del vivere, senza distinguere piano materiale e piano spirituale.

[23] Redemptor hominis 13.