N.02
Marzo/Aprile 2007

Chiamati a scegliere: i giovani di fronte alla vocazione

Che cosa evoca nei giovani d’oggi l’idea di “vocazione”? Come reagi­scono ad essa? Come la interpretano? Si tratta di un concetto distante dalla loro condizione di vita, che richiama significati antichi e difficil­mente componibili con la cultura emergente, oppure di un termine che può esse­re declinato in forme nuove e vicine a quella “cultura del sé” che caratterizza il tempo presente? È diffusa l’idea che ogni individuo ha una vocazione da com­piere, oppure prevale una concezione ristretta di vocazione, che si applica sol­tanto a particolari scelte e percorsi di vita?

Infine: che ne è della vocazione religiosa? Come valutano i giovani questo tipo di scelta in rapporto alle molte opportunità di realizzazione oggi a disposi­zione? Quali tipi di vocazione religiosa apprezzano maggiormente? L’idea di una vita consacrata esercita un qualche richiamo per i giovani d’oggi ed eventual­mente in che condizioni e circostanze?

È attorno ad interrogativi come questi – in genere non considerati nelle molte indagini svolte nel nostro paese sulle nuove generazioni – che è stata progettata la ricerca promossa lo scorso anno dai Paolini e i cui principali risul­tati sono contenuti nel volume (a mia cura): “Chiamati a scegliere. I giovani italiani di fronte alla vocazione”, San Paolo, Milano, 2006. L’indagine è stata condotta su un campione rappresentativo di giovani italiani di età compresa tra i 16 e i 29 anni, scelto in modo tale da rispecchiare la distribuzione della popo­lazione nazionale di questa età, a seconda delle principali variabili socio­demografiche, ambientali e di orientamento culturale.

È da questa indagine che intendo anzitutto ricavare (nella prima parte di questo mio intervento) gli elementi conoscitivi più importanti circa l’atteggiamento dei giovani sul tema della vocazione, per poi proporre (nella seconda parte) alcuni spunti di riflessione per quanti oggi si pongono l’obiettivo di valo­rizzare questa idea nel loro rapporto con le nuove generazioni.

Per il tema che affronta e per gli obiettivi che si pone, si tratta dunque di una ricerca del tutto innovativa nel panorama delle indagini orientate a monitorare la conoscenza dell’universo giovanile: l’interesse di fondo è di cogliere i tratti culturali emergenti nelle nuove generazioni, utilizzando però a questo scopo un punto di ingresso inedito e non ancora approfondito, rappresentato appunto dal modo in cui i giovani si pongono di fronte all’idea di vocazione.

Anche se può essere piegata a nuove e più accomodanti interpretazioni, questa idea conserva in sé un alto richiamo etico e normativo per gli individui, indicando la disposizione d’animo che induce l’uomo a determinate scelte nell’ambito dei possibili stati di vita. L’idea di vocazione dunque è strettamente connessa all’attitudine delle persone ad operare un qualche discernimento nella propria vita, a riconoscere l’importanza di un progetto, a mantenersi fedeli nel tempo all’impegno o alla missione intravista; tutti aspetti che sembrano oggi particolarmente carenti nelle giovani generazioni, che risultano più orientate a vivere con intensità le occasioni di realizzazione che si presentano loro nella vita quotidiana, piuttosto che ad armonizzare le loro esperienze attorno ad un pro­getto di alto respiro. Del resto, in molti campi, i giovani sperimentano quella precarietà del vivere che impedisce loro di mirare a grandi obiettivi, mentre li spinge a trovare motivi di soddisfazione più immediati. Dunque, la prassi e l’esperienza prevalgono di gran lunga rispetto agli ideali e ai progetti? Confrontando i risultati della presente indagine con quelli prevalenti nelle ricerche sui giovani, emergono molte conferme, ma anche non poche novità.

Una prima novità ci dice che le nuove generazioni non sembrano refratta­rie all’idea di vocazione, intendendo per essa un progetto o un’idea di fondo a cui ancorare la propria esistenza. I giovani, certo, non hanno una concezione univoca di vocazione, in quan­to la loro visione della realtà riflette la molteplicità dei significati oggi attribuibili a termini densi come quello qui considerato. Molti di loro, quando pensano alla vocazione, si riferiscono anzitutto ad un’inclinazione o ad una qualità naturale che caratterizza una persona e le facilita la riuscita in una determinata profes­sione o arte o nello studio di una particolare disciplina. Ma oltre a ciò, a questi stessi giovani l’idea di vocazione richiama anche altri significati, come l’impegno per un ideale o per una causa o per un progetto di realizzare; o come la “chiamata alla vita religiosa”.

È poi diffusa nei giovani la convinzione che ogni individuo abbia una vocazione, mentre risultano minoritarie le posizioni sia di quanti ritengono che tale termine sia applicabile soltanto a scelte di vita particolari (in campo profes­sionale o religioso o di impegno sociale) sia di coloro che negano che la vita delle persone sia interpretabile come una vocazione (preferendo considerarla come una sommatoria di scelte individuali).

Ancora, analizzando una serie di professioni e scelte di vita, la maggioran­za dei giovani riconosce ad esse un diverso livello di vocazione. Così, una mag­gior intensità vocazionale viene rilevata in quanti si indirizzano verso la vita sacerdotale e in subordine in chi sceglie la professione di assistente sociale o di scrittore; mentre un livello intermedio di “chiamata” sembra coinvolgere un imprenditore, fino a far ritenere alla grande maggioranza dei giovani che non è necessario scomodare il termine “vocazione” per rendere ragione della scelta (o della necessità) di occupare una posizione impiegatizia nella società. In que­sta analisi di professioni diverse i giovani sembrano indicare i criteri di fondo di un’idea di vocazione: l’essere chiamati ad intraprendere un determinato per­corso di vita (in luogo di trovarvisi per caso) e la possibilità di scegliere un certo itinerario (che negli esempi riportati riguarda il campo professionale) per finalità sociali ed autoespressive, invece di adottarlo con un atteggiamento stru­mentale (come può essere un lavoro di routine, in cui non si mette nulla di sé, come quello dell’impiegato). Essere chiamati e scegliere: le due dimensioni si ritrovano nella convinzione che la vocazione risponda alla natura più profonda del soggetto, a ciò che gli permette di essere maggiormente se stesso e di offrire un contributo sociale d’un certo rilievo.

Più in generale, poi, si osserva che il concetto di vocazione evoca in molti giovani dei sentimenti e delle valutazioni positive: il termine richiama, infatti, più l’idea della realizzazione che dell’imposizione, più la cifra della soddisfazione che quella della rinuncia; e per molti giovani questa idea è connessa più ad una scelta definitiva che temporanea e più ad una dimensione sacrale che profana. Come a dire che – almeno in termini astratti – i giovani riconoscono il valore realizzante e soddisfacente che può essere sotteso a vocazioni caratterizzate da grande impegno e da forte orientamento, che pur sembrano difficili da attuare nelle condizioni ordinarie di vita.

Sono sufficienti questi accenni per comprendere come l’orizzonte di si­gnificato dei giovani non sia chiuso a grandi prospettive di impegno e di realiz­zazione, anche se le possibilità di attuarle nella vita quotidiana risultano scarse e difficili. Almeno teoricamente, molti giovani riconoscono il valore di una “chiamata” che richiede impegno e selettività e che può essere fonte di grandi soddisfazioni. Gli ideali e i progetti mantengono il loro fascino anche per una generazione che sembra avere poche risorse per farli propri e per realizzarli; o che esprime una cultura che dà grande risalto alla reversibilità delle scelte, at­teggiamento questo che sembra difficilmente compatibile con percorsi di vita impegnativi e costringenti.

A fronte di questo riconoscimento, emerge poi in molti giovani l’esigenza di ancorare la propria vita ad un progetto minimo, ad una qualche idea fondante, ad un significato distintivo. Sovente si tratta di deboli ancoraggi, determinati soggettivamente dagli individui, che interpretano l’idea della vocazione per lo più come realizzazione personale, come ricerca delle buone ragioni capaci di rendere apprezzabile l’esperienza di vita. Rientrano in questo quadro la doman­da di autenticità nei rapporti, la coltivazione del proprio potenziale umano, l’ampliamento delle possibilità espressive, il perseguimento di interessi e di stili di vita particolari. Molti giovani riconoscono che è importante porsi degli obiettivi nella vita, anche se sono refrattari a maturare delle scelte che precludono loro opportunità ed esperienze. In sintesi: è diffusa nei giovani un’idea feriale di vocazione, come un reper­torio di significato teso a nobilitare le scelte ordinarie della loro vita; ma a fianco di questo orientamento, si registra una chiara tendenza a riconoscere l’importanza delle vocazioni più impegnative, come una sorta di nostalgia di grandi oriz­zonti, che si produce anche in chi è costretto a vivere nel mare (coinvolgente e limitante) della quotidianità.

A questo punto sorge un interrogativo: per i giovani, la vocazione riguarda più la dimensione del senso o quella del progetto? In altre parole, il riconosci­mento di una valenza vocazionale alle diverse scelte esistenziali (in campo sco­lastico, professionale, affettivo, relazionale, ecc.), significa che i giovani inter­pretano queste diverse opzioni in una logica progettuale, di pianificazione e di costruzione della propria vita, o piuttosto evidenzia un’aspirazione ad un senso complessivo della biografia che non comporta però necessariamente l’adozione di un chiaro progetto di vita? Con questa indagine si è prestata attenzione anche ai compagni di viaggio dei giovani, per valutare l’eventuale presenza al loro fianco di persone di rilie­vo, in grado di accompagnarli nel percorso di maturazione e di rappresentare un punto di riferimento per le scelte di vita. La maggior parte dei giovani ha difficoltà ad individuare intorno a sé delle figure capaci di richiamarli ad un’idea alta di vocazione, il cui stile di vita testi­moni una missione o un progetto da compiere. Parallelamente, non pochi sog­getti dichiarano di non essere mai stati aiutati da alcuno a comprendere le pro­prie aspirazioni o a meglio perseguirle, anche se i più riconoscono il ruolo po­sitivo svolto a questo livello dalla propria famiglia o dagli amici più stretti.

Il quadro che emerge circa i punti di riferimento delle nuove generazioni non è particolarmente confortante: le figure che esercitano un maggior suppor­to a questo livello sono quelle della cerchia amicale e parentale, che sovente però privilegiano rapporti più orientati alla conferma e alla rassicurazione che allo stimolo e al confronto dialettico. Tuttavia, non mancano casi di giovani che non trovano nemmeno nell’ambito della socializzazione ristretta (in famiglia e con gli amici) quel sostegno di base che li aiuti a meglio orientarsi nella realtà. Più in generale, la carenza di riferimenti è assai evidente nei rapporti sociali allargati, per la difficoltà da parte dei giovani di individuare delle figure vocazionali significative nei luoghi ordinari in cui essi trascorrono l’esistenza (a scuola, nel lavoro, nelle realtà associative, ecc.).

Ne emerge un quadro umano e sociale non particolarmente stimolante e coinvolgente per dei giovani che proprio dal confronto con vocazioni “riuscite” possono trovare motivi di arricchimento della propria esperienza e dei propri orizzonti di vita. La situazione non è comunque omogenea tra i giovani, variando sensibilmente a seconda della condizione sociale e del capitale culturale di base. Chi proviene da una famiglia culturalmente più elevata e chi è inserito in ambienti sociali più stimolanti ha maggiore probabilità di esprimere una concezione vocazionale della vita, mentre chi è privo di queste risorse tende perlopiù a interpretare la sua esistenza in modo meno finalizzato.

Un altro dato sorprendente della presente ricerca è rappresentato dal nu­mero dei giovani che dichiarano di aver pensato – nel corso della loro breve esistenza – di abbracciare la vita religiosa, in una delle forme in cui essa si realizza nel nostro ambiente sociale. L’idea di diventare sacerdote o membro di un ordine o congregazione religiosa (di vita attiva o contemplativa) ha coinvolto circa l’11% dei giovani italiani: una quota di popolazione assai ampia, che non sembra confermare l’opinione del tutto prevalente nell’immaginario collettivo (sia sociale che ecclesiale) che le nuove generazioni siano insensibili ad una chiamata alla vita religiosa o che vi sia una crisi culturale nei confronti di questa prospettiva di vita. O meglio, la crisi sembra connessa più alla realizzazione di questa chiamata che alla sua nascita.

Guardando ai grandi numeri, infatti, il dato qui rilevato indica che circa un milione di giovani di età compresa tra i 16 e i 29 anni (che è l’arco di età su cui è stata svolta la nostra indagine) hanno manifestato nella loro vita una sia pur fugace idea di farsi prete o religioso/a. Se si tiene conto che oggi, in Italia, i giovani che si stanno formando al sacerdozio o alla vita religiosa sono poche migliaia di unità, appare evidente il grande gap che esiste in questo campo tra la diffusione di un’aspirazione iniziale e la possibilità di coltivare nel tempo que­sta scelta o orientamento. Per i più sembra essersi trattato di un’intenzione dal fiato corto, come quelle che si maturano nell’infanzia o nella preadolescenza, che riflettono per lo più il ristretto ambiente di vita che si frequenta e che non sono state ancora passate al vaglio dalla varietà delle esperienze. Così, molti di questi giovani affermano di aver avuto quest’idea negli anni del catechismo o nella frequentazione degli ambienti e dei gruppi ecclesiali; o di aver pensato a questa scelta per meno di un anno. Ma a fianco di questi casi, ve ne son altri che hanno protratto nel tempo questa intenzione: quasi il 20% dei giovani che sono stati interessati da questa prospettiva, vi ha riflettuto per più di 3 anni. Proiettando questi dati sull’insieme dei giovani italiani, si ricava un’indicazione di grande rilievo: per circa 200.000 giovani l’opzione ad una vita consacrata non sembra essere stato il sogno di un mattino, una toccata e fuga dalle deboli conseguenze per il proprio orizzonte di senso.

L’idea di vocazione religiosa appare dunque ancora sufficientemente dif­fusa nell’universo giovanile contemporaneo, anche se poi ha difficoltà a man­tenersi nel tempo e a concretizzarsi, anche per il carattere impegnativo e selettivo di questo tipo di scelta. Gli ambienti e le figure religiose continuano ad esercitare un certo fascino su una quota non irrilevante di ragazzi e di adolescenti, mentre hanno molte più difficoltà ad accompagnarli nel loro percorso di crescita e di maturazione. Se comunque la scelta di una vita religiosa è riconosciuta come una delle manifestazioni più alte della vocazione e viene presa in considerazione – come opzione di vita – da una certa quota di giovani (anche se per un arco limitato di tempo), questa rivalutazione va collocata sullo sfondo di una sensibilità cultura­le che valorizza tutte le scelte individuali in quanto espressione del diritto alla autodeterminazione. Si assiste peraltro ad una crescente equiparazione della vocazione religiosa alle forme di vocazione laicale, di cui possono farsi interpreti le persone che vivono nel mondo. Anche tra i giovani che manifestano un più marcato orientamento religioso, la possibilità che qualcuno nella propria cerchia di relazioni opti per una vita consacrata è accolta positivamente, ma nello stesso tempo è diffusa la convinzione che un profilo esistenziale di alto impegno sia egualmente possibile per un laico così come per un religioso. In qualche modo, quindi, i giovani testimoniano un silenzioso mutamento culturale a favore di una democratizzazione delle scelte di vita: ciò che contraddistingue un’esistenza votata ad una chiamata, ad una causa o alla coltivazione di un talento, non è il fine verso cui è diretta (sacro o profano), bensì l’intensità e la qualità dell’impegno che richiede, la sua natura di scelta radicale ed esigente. Un sacerdote e un’assistente sociale, una suora missionaria e un medico realizzano delle vite di pari valore sul piano vocazionale. Di più, la stessa vocazione religiosa viene rivalutata soprattutto quando si traduce in forme di servizio di frontiera, ai mar­gini della società o al cuore di problematiche sociali emergenti.

Dai dati della ricerca si possono ricavare molti spunti, non soltanto sugli orientamenti culturali dei giovani in tema di vocazione, ma anche sulle atten­zioni che quanti operano nel campo vocazionale devono tener presenti per me­glio impostare la loro proposta formativa ed educativa.

Un primo elemento di fondo su cui far leva è l’indubbia apertura dei giovani circa l’idea e la prospettiva della vocazione. Molto più di quanto emerga nell’immaginario collettivo e a livello di senso comune, l’insieme dei giovani d’oggi non è insensibile ai grandi richiami e progetti, guarda con am­mirazione le scelte di vita impegnative, riconosce il valore delle persone che si dedicano con continuità e coerenza a grandi cause. È pur vero che in molti casi questi grandi riconoscimenti si mescolano a scelte di piccolo cabotaggio, da parte di giovani che sembrano avere difficoltà a porsi delle mete impegnative per la vita e che risultano carenti di strumenti per perseguirle. Tuttavia, già l’avvertire il fascino di impegni rilevanti è un indizio che le nuove generazioni non hanno smesso di sognare, sono in grado di distinguere le cose che più con­tano, non sono del tutto appiattiti su una quotidianità che li costringe a fare i conti con i vincoli e i condizionamenti.

Questa constatazione chiama in causa il nostro modo di rapportarci ai gio­vani d’oggi, che invece di interpellarli con grandi prospettive sembra perlopiù orientato a non alimentare le loro attese e a giustificare esistenze ed esperienze caratterizzate da bassa tensione. Ciò per dire che l’incapacità di una parte dei giovani di tendere a mete impegnative può essere imputabile al deficit di propo­ste e di stimoli che si riscontra in tutta la società e in particolare tra gli adulti che più sono a contatto con le nuove generazioni. Molti adulti conducono una vita troppo grigia e priva di significato per riuscire a interpellare i giovani in modo significativo. Altri adulti non avvertono la responsabilità che deriva loro dal rapporto quotidiano con i giovani; e ciò in famiglia, nella scuola, nel mondo del lavoro, nelle associazioni, nelle istituzioni, ecc. In vari casi i giovani interagiscono di fatto con figure adulte che non li richiamano a dare il meglio di sé nelle diverse circostanze, non in grado cioè di rappresentare per le nuove generazioni dei punti di riferimento in campo professionale, morale, a livello di senso civico, in termini di fiducia nel futuro, ecc.

Questo discorso chiama in causa gli “imperativi culturali” con cui cre­scono i nostri giovani, i messaggi di maggior rilievo che la società offre loro come punti di riferimento per la vita. Riprendo qui alcune considerazioni che ho fatto di recente in un editoriale per il quotidiano “La Stampa”, in cui invita­vo a riflettere sul clima culturale in cui crescono i giovani italiani, che li orienta più al disimpegno o al debole investimento nei rapporti sociali, che al gusto della sfida e alla fiducia nel futuro.

Alcuni anni fa, due ricercatori di Chicago hanno pubblicato un libro sulla gioventù americana, descrivendola come “The Ambitious Generation”; un li­bro che non è stato tradotto in Italia, per l’improponibilità da noi di considerare in tal modo i nostri giovani. In America, come si sa,  non esistono soltanto i giovani ambiziosi, ma anche le gang dei quartieri violenti delle metropoli e molti altri casi marginali. Ma accanto a questa povertà culturale e umana, si coglie anche che molti giovani intendono esercitare la loro leadership nella società, e si usa questa immagine trainante per richiamare tutti alle loro respon­sabilità. Da noi, invece, prevalgono altri richiami, per cui l’idea dei giovani è per lo più associata a quelle del disagio, del rischio, dell’assenza di prospettive, del condizionamento sociale. Si mette molto più l’accento sui problemi che sugli stimoli, con il rischio di disagiare la condizione giovanile nel suo complesso, di creare degli alibi anche in quanti hanno risorse e potenzialità. Questo atteggia­mento assistenzialistico è tipico di una società in cui troppi adulti si comportano nei confronti dei giovani come degli addetti della protezione civile, come dei pompieri troppo ingombranti perché i giovani facciano delle loro scelte e diano il meglio di sé nelle diverse circostanze.

Oltre che modificare i messaggi sociali che oggi vengono inviati ai giovani, occorre anche impegnarsi a livello educativo perché i giovani stessi maturino degli atteggiamenti congruenti con grandi scelte e con opzioni impegnative. Occorre far leva – a questo livello – sulle molte risorse educative ancora presenti nel mondo cattolico, rappresentate da famiglie, gruppi e associazioni, comunità, che si dedicano all’animazione e alla formazione delle nuove generazioni. Sono questi gli ambienti in cui i giovani possono far propri quegli orientamenti di fondo che li aprono a un diverso modo di sentire e di vivere nella società, più orientato ad una presenza attiva e all’assunzione di responsabilità che alla ricer­ca di soddisfazione nella sfera privata e nei rapporti sociali ristretti.

Si tratta, per vari aspetti, di insistere su un modello formativo capace di alimentare nei giovani degli atteggiamenti culturali controcorrente rispetto a quelli socialmente prevalenti. Oggi si dà grande risalto ai bisogni di sicurezza e di garanzia, alla cultura dei diritti e della rivendicazione, all’individualismo del vivere, al gusto del particolarismo, ecc. Occorre avere il coraggio di proporre degli stili di vita che, pur rispondendo al bisogno di identità e alla domanda di distinzione dei singoli, li aiutino a maturare delle visioni di realizzazione più ampie, in cui l’attenzione alle proprie esigenze non sia mai disgiunta dal valore degli altri e dalla prospettiva della comunità. È fondamentale, dunque, tradurre i grandi valori in scelte pratiche, in esperienze di gruppo e di vita che amplino gli orizzonti delle persone. Si tratta, in altri termini, di far riassaporare ai giova­ni il gusto delle sfide, di invitarli ad osare di più, di aiutarli a prendere coscien­za dei loro “carismi”, di far loro riscoprire il fascino e il valore aggiunto di una vita ancorata ad un “progetto” e a una “vocazione”, di convincerli della bontà di una scelta di vita fondata sulla semplicità del cuore e sulla “ricchezza” delle cose che contano. I giovani interiorizzeranno questi messaggi solo se ne faran­no esperienza positiva nei diversi ambienti in cui sono chiamati a vivere.

Questi dovrebbero essere gli obiettivi di fondo che si pongono con rin­novato vigore gli ambienti ecclesiali che più sentono la responsabilità educativa nei confronti dei giovani. I giovani che frequentano i gruppi cattolici, che ap­partengono alle nostre famiglie, che interagiscono nelle diverse realtà ecclesia­li, dovrebbero incontrare figure e proposte e vivere esperienze che di fatto li aprono a questi grandi valori. È vivendo in modo positivo in questi ambienti che essi si aprono poco a poco ai valori della comunità, della solidarietà, dell’impegno costruttivo, della fiducia nei confronti degli altri, del senso del pro­getto e della vocazione personale, del gusto della semplicità del vivere, ecc.: tutti aspetti che prefigurano un modo diverso e più responsabile di pensare alla propria realizzazione personale e alla presenza nella società.

L’ultima riflessione riguarda la specificità di una vocazione religiosa. Si è visto che molti giovani non sono insensibili all’idea di una vocazione religiosa, apprezzando chi compie questa scelta, anche se non sempre ne comprendono appieno le ragioni e le intenzioni ultime. Non mancano poi giovani che hanno sentito nella loro vita il fascino di questa chiamata, pur non dando seguito ad essa per vari motivi e condizionamenti. Al riguardo occorre considerare i fattori che possono ostacolare la disponibilità di una parte dei giovani nei confronti di questa opzione. Nei modelli concreti di vita sacerdotale o religiosa oggi preva­lenti, vi possono essere degli elementi che “fanno problema” ai giovani, che vengono da loro avvertiti come troppo distanti dai valori e dai modelli di realiz­zazione in cui più si riconoscono. In generale i giovani non sono refrattari a compiere scelte impegnative o a fare sacrifici; ma prestano molta attenzione alle condizioni umane e sociali in cui queste scelte possono realizzarsi, alla possibi­lità di interagire con figure stimolanti e significative, al fatto di inserirsi in am­bienti caratterizzati da particolare coinvolgimento e calore umano. Quanto la proposta vocazionale ai giovani tiene presente anche questi aspetti, che posso­no aiutare quanti avvertono una chiamata interiore a perseverare in questo cam­mino e ad approfondirlo?

 

Bibliografia di riferimento

  1. Garelli, Chiamati a scegliere. I giovani italiani di fronte alla vocazione, San Paolo, Milano, 2006.
  2. Garelli, L’Italia cattolica nell’epoca del pluralismo, il Mulino, Bologna, 2006.
  3. Garelli, La chiesa in Italia, il Mulino, Bologna, 2007.