N.02
Marzo/Aprile 2007

Dal Convegno Ecclesiale di Verona alla vita quotidiana del presbitero per una comunità cristiana a servizio di tutte le vocazioni

 

 

 

 

 

RIFLESSIONE AL MOMENTO DI PREGHIERA ALL’INIZIO DEL CONVEGNO

È quanto mai significativo inizia­re il nostro Convegno affidandolo a Maria, madre e modello di ogni voca­zione, e ispirandoci al suo itinerario vocazionale. I testi biblici ascoltati ed accolti, come Maria accolse il Verbo di Dio, ci hanno accompagna­to nella liturgia prenatalizia. Nello spi­rito e nella finalità del nostro Conve­gno la testimonianza di Maria ci vie­ne incontro come una “icona vocazionale” nella quale sono già scritti e racchiusi tutta la teologia ed il mistero della chiamata e della rispo­sta a Dio di ogni uomo e di ogni don­na. Nel “sì” di Maria all’angelo Ga­briele possiamo contemplarla come la “creatura in cui il dialogo tra la libertà di Dio e la libertà dell’uomo avviene in modo perfetto, così che le due li­bertà possono interagire realizzando in pieno il progetto vocazionale; una cre­atura che ci è data perché in lei pos­siamo contemplare un perfetto dise­gno vocazionale, quello che dovreb­be compiersi in ciascuno di noi.

È Maria, «l’immagine riuscita del sogno di Dio sulla creatura»” (NVNE 23). Anzitutto balza in evidenza come non ci sia alcun ostacolo che l’angelo Ga­briele debba superare per raggiungere Maria e portarle l’annuncio a lui affi­dato da Dio: nessuna porta da aprire, nessun muro da abbattere… un sem­plice presentarsi a lei ed essere accol­to. In Maria l’Amore trinitario mani­festa in pienezza la sua libertà elettiva: l’iniziativa gratuita di Dio. “Ti saluto, o piena di grazia” (Lc 1,28 ), diventa nella possibile traduzione dal testo greco: “colei che è stata colmata di grazia”. È Dio che ha agito, che ha colmato di grazia l’anima di Maria. L’iniziativa è totalmente divina. Maria ascolta umilmente, accoglie l’iniziativa di Dio senza altra pretesa personale, se non quella di servire ed essere fede­le al suo Signore. Per noi, impegnati nell’annunzio ed accompagnamento vocazionale, ogni nostra proposta necessita di un previo e mai scontato atto di fede: come la scelta divina di Maria è fin dall’eternità – come dice san Bernardo commentando il mes­saggio dell’Annunciazione: “questa non è una vergine trovata all’ultimo momento, né per caso” (In Laudibus Virginis Matris, “Homilia” II,4, Opera IV) – così la chiamata di ogni creatura rinvia alla libera scelta che di Dio, che è fin dall’eternità.

All’educatore alla fede e alla persona chiamata – alla luce di un sano realismo e sereno discerni­mento – si domanda il coraggio di fi­darsi e confidare nell’azione dello Spirito! Nel “sì” di Maria si manife­sta la libertà umana, condizione pure essenziale per la veridicità e l’autenticità della chiamata divina: Dio ha bisogno di trovare la persona “li­bera” di accogliere la sua proposta. Maria è il segno vivente di una li­bertà accogliente,  maturata in un quotidiano ed orante ascolto della Parola di Dio, nell’apertura e confi­denza nell’azione gratuita dell’Amore di Dio, nel dono di sé nel servizio gratuito al prossimo. In questo – di­remmo oggi – itinerario vocazionale, Maria diventa il segno di ciò che Dio può fare quando trova la persona libe­ra d’accogliere la proposta divina. Il nostro Convegno, mentre si apre con­templando l’icona del “sì di Maria”, c’impegna come Chiesa, madre di vo­cazioni, a riprendere coscienza che Dio le vocazioni “le fa nascere al suo inter­no, nella vita della Comunità cristiana, con la potenza del suo Spirito, le pro­tegge, le matura e le sostiene…

Questa funzione mediatrice la Chiesa esercita quando aiuta e stimola ogni credente a prendere coscienza del dono ricevuto e della responsabilità che il dono porta con sé” (NVNE 19/d). È il dono che, come Chiesa italiana impegnata nell’accompagnamento dei giovani chiamati a sce­gliere di fronte alla vocazione, voglia­mo impetrare da Maria, mentre la no­stra ricerca si concentrerà in questi gior­ni sulla vocazione e missione del presbitero educatore, formatore e ac­compagnatore per una Chiesa ricca di vocazioni.

 

 

 

CONCLUSIONI AL TERMINE DEL CONVEGNO

A conclusione del nostro Convegno annuale, su un tema così vitale per la vita della Chiesa, desidero offrire non tanto delle “conclusioni”, ma un piccolo contributo di riflessione, che vada ad unirsi a quelli autorevoli già accolti in queste giornate di preghiera e di studio condivise insieme.

Mi propongo ciò “interfacciando” i nostri lavori con il Convegno Eccle­siale di Verona,  cogliendone alcune suggestioni che illuminino ulteriormente l’ interrogativo che ci ha accompagnati in questi giorni: “Quale presbitero per una comunità cristiana a servizio di tutte le vocazioni?”

 

Il presbitero “uomo di comunione” in una chiesa “comunione di vocazioni”: la “coralità” del servizio presbiterale

La Chiesa italiana si è data appuntamento a Verona per ripensarsi e ripen­sare la propria missione nell’attuale contesto storico, attorno ad un tema speci­fico: Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo. Una tale scelta ha voluto fare sintesi tra l’annuncio della speranza cristiana e la condizione comune dei credenti come testimoni. «La speranza del Risorto prende forma nella testimo­nianza del credente e della Chiesa»[1].

Attorno a questo nucleo, la Chiesa italiana ha inteso privilegiare e coltiva­re in modo nuovo e creativo la caratteristica “popolare” del cattolicesimo italia­no. «“Popolarità” del cattolicesimo non significa la scelta di basso profilo di un “cristianesimo minimo”, ma la sfida che la tradizione tutta italiana di una fede presente sul territorio sia capace di rianimare la vita quotidiana delle persone, di illuminare le diverse stagioni dell’esistenza, di essere significativa negli ambienti del lavoro e del tempo libero, di plasmare le forme culturali della coscienza civile e degli orientamenti ideali del paese»[2].

Proprio per questo, la Chiesa italiana, dopo il Convegno di Verona, ha necessità di interrogarsi sui modi con cui tutte le vocazioni, i ministeri e le missioni della Chiesa costruiscono la comunità credente come segno vivo del Vangelo per il nostro tempo e per la nostra società.

In questo orizzonte, allora, non è opportuno isolare la vita e il ministero del presbitero dalla “coralità” della vita della comunità, per regolare meglio il suo compito e il suo ruolo. «Al tempo della puntigliosa ricerca e affermazione della propria identità deve seguire uno sforzo corale dove ciascuno cerca di scorgere sul volto degli altri ciò che manca alla propria vocazione»[3].

La prima indicazione che proviene da Verona, per la  vita e il ministero dei presbiteri, è quella di: sentirsi  parte di una Chiesa comunione che, in ma­niera “corale”, intende farsi testimone del Risorto, speranza del mondo, nella concretezza dell’oggi. D’altra parte, proprio questa “coralità” della testimonianza cristiana richiede di evidenziare alcune sottolineature della vita del presbitero; sottolineature che possono aiutare almeno ad incrinare quel «parzialismo individualistico» e quello «spirito aziendale» (per usare un’espressione di S.E.Mons. Enrico Bartoletti, già Segretario Generale della Cei), che spesso attraversano la vita e il sevizio del presbitero.

Il presbitero testimone di Gesù Risorto speranza del mondo

Un primo tratto di vita cristiana che il presbitero è chiamato a condividere con la sua comunità è l’essere testimone del Risorto.

La Risurrezione di Gesù è stata «un’esplosione di luce, un’esplosione dell’amore che scioglie le catene del peccato e della morte. Essa ha inaugurato una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge un mondo nuovo, che penetra continuamente nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé»[4].

Questa esplosione di luce giunge a noi mediante la fede e il Battesimo, che è realmente morte e risurrezione, rinascita, trasformazione in vita nuova. È l’apostolo Paolo a rilevarlo: «Non sono più io che vivo, in me vive Cristo» (Gal 2,20). Commen­tando queste parole, così si esprimeva Benedetto XVI a Verona: Per il fatto che Cristo vive in me, in forza della sua Risurrezione, «è stata cambiata la mia identità essenziale e io continuo ad esistere soltanto in questo cambiamento. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande, nel quale il mio io c’è ancora, ma trasformato, purificato, “aperto” mediante l’inserimento nell’altro, nel quale ac­quista il suo nuovo spazio di esistenza. Diventiamo così “uno in Cristo” (Gal 3,28), un unico soggetto nuovo… “Io, ma non più io”: è questa la formula dell’esistenza cristia­na fondata nel Battesimo, la formula della Risurrezione dentro al tempo, la formula della “novità” cristiana chiamata a trasformare il mondo»[5]. Il presbitero ricorda alla sua comunità questa trasformazione operata dalla Ri­surrezione del Signore. Il presbitero, infatti, con la sua consacrazione, è destinato a Dio con tutto il suo essere e con tutto il suo esistere; è radicato in lui, sorgente di ogni vita; è immerso in lui, oceano senza fine; è fatto suo servo, per vivere al suo cospetto adorante notte e giorno.

La seconda indicazione che proviene da Verona per la vita e il ministero dei presbiteri è quella del “presbitero testimone”: il presbitero testimone ricorda alla sua comunità che Gesù, il Crocifisso Risorto, è il tutto del nostro pensare, faticare, spera­re, amare!

In qualità di testimone del Risorto, il presbitero si ricorda di essere, non lo sposo, ma “l’amico dello Sposo”, colui che nella comunità indica con il “dito steso”, come già fece Giovanni Battista, la pienezza della rivelazione: Cristo, l’Agnello immolato. In questo senso, il presbitero è chiamato a “diminuire”, perché cresca unicamente il Risorto e tutti possano scoprire che solo lui è il sovrano unico del cuore di ogni uomo.

 

Il presbitero uomo tra la gente

La Chiesa italiana, al Convegno Ecclesiale di Verona, ha accolto di essere Testimone di Gesù risorto speranza del mondo, in una maniera “innovativa” rispet­to al Convegno di Palermo.

Il card. C. Ruini, ha espresso così questa novità: «Il nostro Convegno, con la sua articolazione in cinque ambiti di esercizio della testimonianza, ognuno dei quali assai rilevante nell’esperienza umana e tutti insieme confluenti nell’unità della persona e della sua coscienza (affettività; lavoro e festa; fragili­tà; tradizione; cittadinanza), ci ha offerto un’impostazione della vita e della pastorale della Chiesa particolarmente favorevole al lavoro educativo e formativo. Si tratta di un notevole passo in avanti rispetto all’impostazione pre­valente ancora al Convegno di Palermo, che a sua volta puntava sull’unità della pastorale, ma era meno in grado di ricondurla all’unità della persona, perché si concentrava solo sul legame, pur giusto e prezioso, tra i tre compiti o uffici della Chiesa: l’annuncio e l’insegnamento della Parola di Dio, la preghiera e la liturgia, la testimonianza della carità»[6].

Ma cosa significa ancora più concretamente privilegiare gli ambiti esi­stenziali ai tre compiti o uffici della Chiesa? Così si è espresso Franco Giulio Brambilla nella relazione che ha aperto il Convegno: «La rappresentazione diffusa delle funzioni della pastorale (annuncio, ce­lebrazione, carità, missione, animazione culturale, presenza sociale, lavoro, tu­rismo, migrantes, ecc.) ha sovente preso nella pratica un andamento molto settoriale e autoreferenziale. I settori della vita e dell’azione pastorale della Chiesa sono così diventati motivo per documenti e interventi talvolta senza ascolto reciproco e interdipendenza pratica. Il danno prevedibile è di perdere non solo l’unità della vita cristiana e della missione ecclesiale, ma di non riusci­re a servire la vita quotidiana della gente»[7].

È il passaggio dalle strutture alle persone; è il passaggio dall’organizzazione pastorale all’attenzione alle persone, colte nella loro semplice quotidianità. Per le nostre comunità questa è una bella sfida. Si tratta di imparare a condividere la vita umana delle persone ponendola sotto la luce luminosa della speranza cristiana che viene dall’incontro con il Risorto; un incontro reso pos­sibile dallo Spirito Santo. Questo passaggio, dalle strutture alle persone, interpella anche il presbitero. Anche lui è chiamato a crescere in una particolare diakonia: farsi “uomo tra la gente”; farsi compagno di strada delle persone concrete, accompagnandole con la sua sensibilità e con la sua capacità di discernimento.

Per crescere in questa diakonia, il presbitero ha necessità di maturare un particolare atteggiamento; un atteggiamento che Henri J.M. Nouwen – un prete cattolico, autore di testi di spiritualità e morto nel 1996 – ha espresso in questo modo: il presbitero è chiamato ad essere tra la sua gente un “guaritore ferito”[8]. Il presbitero non è un professionista delle relazioni e neppure un assistente so­ciale o un incantatore; il presbitero è un uomo che avverte la sua piccolezza, la sua vulnerabilità, la sua ferita e mette questa sua sensibilità a servizio degli altri. Il presbitero, in qualità di “guaritore ferito”, tenta, nella fede, di “abitare” le proprie ferite esistenziali e di farsi, a sua volta, ministro delle ferite altrui. Aiuta le persone ad “abitare” i loro problemi, le loro gioie, le loro fatiche; le aiuta ad “abitare” gli affetti, il lavoro e la festa, le fragilità, la tradizione, la cittadinanza e a confrontarle con la Parola di Dio che salva. L’incontro con il Risorto – stella luminosa del mattino – nella concretezza dell’esistenza quo­tidiana dona una tonalità sempre nuova anche alla notte più oscura. Il presbitero, in qualità di “guaritore ferito”, sperimentando quotidiana­mente la compassione di Dio e dei fratelli su di sé, tenta di ridonare la medesi­ma compassione ai fratelli, perché anch’essi provino a liberarsi dalle loro cate­ne, dalle loro paure per incamminarsi sulla via del perdono e della riconcilia­zione vicendevole, nella libertà e nella speranza del Risorto.

La terza indicazione che proviene da Verona  per la vita e il ministero dei presbiteri è la seguente: i presbiteri sono uomini che stanno “con” e “tra” la gente vivendo il loro ministero sacerdotale come un’esperienza di reciprocità.

Così si esprime Nouwen: «Non siamo noi (i presbiteri) a guarire, a ri­conciliare, a dar la vita. Noi siamo soltanto peccatori, malati, vulnerabili e abbiamo bisogno che ci si interessi di noi, come noi ci interessiamo degli altri. Sta qui la misteriosità del ministero: che proprio noi siamo stati scelti per trasmettere, mediante il nostro amore così limitato e condizionato, l’amore illimitato e incondizionato di Dio. Perciò il vero ministero deve essere reciproco»[9].

 

Il presbitero uomo della Chiesa: responsabile del suo popolo e sua guida spirituale verso la radicalità evangelica

La testimonianza di Gesù Risorto, speranza del mondo, domanda pure un forte radicamento ecclesiale; radicamento richiesto, oggi in particolare, al presbitero. In qualità di uomo di Chiesa, uomo della comunità, il presbitero è solleci­tato a due passaggi: il primo più squisitamente spirituale, il secondo pastorale.

–  Primo passaggio: il presbitero, per radicarsi nell’ekklesìa ha necessità di ma­turare il passaggio dalla soggettività alla responsabilità. La soggettività è un aspetto certamente significativo dell’esistenza umana; un “tratto” che fa perce­pire la peculiarità e il valore di se stessi di fronte all’altro, come di fronte a Dio. C’è però un’altra dimensione da assumere nell’esperienza umana e cri­stiana: è la dimensione della responsabilità, intesa come l’immersione nella moltitudine, come l’assunzione di una “personalità corporativa”. Mosè è l’icona biblica più nitida di colui che passa dall’io al noi. Tutta la sua vita è un intenso e faticoso cammino che lo porta a diventare “un popolo”: la sua co­scienza, la sua voce, la sua sofferenza, la sua speranza.

Il presbitero è chiamato a percorrere la medesima strada di Mosè: a tra­sformare la sua soggettività in responsabilità nei confronti del suo popolo. Il popolo diviene il suo «altro» che trasforma la sua identità personale e lo rende concretamente persona in comunione.

–  Secondo passaggio: il presbitero, in questo momento storico, è chiamato a non appiattire il suo servizio ministeriale sulla semplice “cura pastorale” rivolta a tutti. Questa è certamente importante, ma non può esaurire la testimonianza cristiana. Insieme alla sua comunità, il presbitero, in forza del sacramento ricevuto, è chiamato a passare continuamente dalla “cura pastorale” alla ricerca della “radicalità evangelica”; radicalità che si esprime in una più profonda qualità spirituale della vita di fede, di speranza, di carità. Difatti, «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva»[10]. È il prologo della prima enciclica di Benedetto XVI, Deus caritas est, che deve diventare, oggi più che mai, il prologo della vita e del ministero del presbitero e della sua comunità.

La quarta indicazione che proviene da Verona per la vita e il ministero dei presbiteri è quella di sentire e vivere fortemente la responsabilità di guida del popolo di Dio a “incontrare il Signore” e a condividere con esso la ricerca della radicalità evangelica.

Concludendo: questi tratti della vita e del ministero del presbitero sono ampiamente emersi dai nostri lavori. Sono certo che la conversione di noi presbiteri e consacrati, sollecitata dallo Spirito in questi giorni, non mancherà di edificare e sostenere anche i nostri fratelli presbiteri che operano con noi, nelle nostre comunità, verso una sempre più autentica testimonianza, per l’edificazione di una comunità cristiana a servizio di tutte le vocazioni.

 

Note

[1] BRAMBILLA, Relazione su “Un cristianesimo popolare dentro la vita cristiana” 3, p. 1

[2] IDEM, p. 8.

[3] ivi.

[4] BENEDETTO XVI, Relazione al Convegno Ecclesiale di Verona “Rendete visibile il grande sì della fede”, p. 2.

[5] ivi.

[6] C. RUINI, Relazione al Convegno Ecclesiale di Verona, “Cattolici toccati da Dio, risorsa morale per l’Italia” n. 4.

[7] BRAMBILLA, op. cit., p. 12-13.

[8] H. J. M. NOUWEN, Il guaritore ferito – Il ministero nella società contemporanea, Queriniana, Brescia 1982.

[9] IDEM, Nel nome di Gesù, Queriniana, Brescia 1990, 45.

[10] BENEDETTO XVI, Deus Caritas Est, n.1.