N.02
Marzo/Aprile 2007

Il prete seminatore, educatore, formatore e accompagnatore vocazionale

In questo mondo problematico, anche quello delle nostre realtà ecclesiali e religiose, si commette spesso un certo errore quando si parla proprio dei problemi, del prete o della pastorale: l’errore di fare una sorta di lista di situazioni difficili, le une staccate dalle altre, in una convulsa sovrapposizione continua e infinita di problematiche inedite e improvvise, oppure vecchie e incancrenite, ma spesso con la pretesa, da parte d’ognuna d’esse, di venir con­siderata come la prima, la più grave o la più urgente, col suo pacchetto di presta­zioni e competenze da presentare al presbitero e pretendere da lui come un conto da pagare in tempi di solito stretti. La conseguenza è che in tal modo la lista s’allunga sempre più, perché di problemi ne spuntano continuamente, almeno a ogni riunione presbiterale o a ogni incontro di formazione permanente e, mentre l’esperto di turno tuona che “il vero problema non è quello, ma quell’altro…” e il vescovo scrive l’ennesima lettera pastorale piena di (giuste) raccomandazioni, il povero prete non sa più da che parte cominciare e a che santo appellarsi.

Ma in ogni caso ha di fronte a sé varie vie di fuga, più o meno intelli­genti e praticabili. Quella, ad es., di fare di testa sua (“in parrocchia sono io vescovo e papa…”) o della chiusura in se stesso, quasi un abbandono del campo di battaglia, a volte con ricaduta depressiva e ammissione della pro­pria sconfitta; o la via compensativa dell’enfatizzazione della figura e del ruolo del prete in chiave spirituale o celebrativo-liturgica, e cancellazione del resto; oppure la vera e propria fuga dalla disperazione (o dalla confusio­ne) cercando riparo in posizioni dottrinali più securizzanti, ove il ruolo del don è ben definito e i limiti dei suoi interventi chiari, ma col risultato che i problemi arrivano attutiti fino a sparire del tutto, e col rischio dunque di igno­rare un’intera realtà problematica. Ma c’è anche il prete eroe che decide di buttarsi dentro ai problemi, magari animato da sacri furori e candidi eroismi, col piglio del conquistatore o del salvatore. E allora non è da escludere, in questo caso, che tutto finisca con il cosiddetto stress psichico da pastorale o col famoso burn-out presbiterale.

Cercherò di non commettere questo errore, cui ho pensato quando ho letto il sottotitolo-pista proposto dal CNV: Come aiutare i presbiteri, immersi nella pastorale delle nostre parrocchie, ad essere attenti ad accompagnare personalmente il cammino di fede vocazionale dei singoli battezzati? E dunque cercherò di non parlare di problematica vocazionale come nuova frontiera, come nuovo problema, come urgenza drammatica da anteporre a tutte le altre e comunque da aggiungere a tutte le altre, come emergenza che ha la priorità su tutto il resto, altrimenti moriamo tutti, come serie di pensieri, preoccupazioni, attività da inventare, preti da smuovere e svegliare, giovani da cercare, animazione da far partire… Parlerò, al contrario, di problematica vocazionale non come problema in più, ma come qualcosa che sgorga dalla natura dell’esser prete o è perfettamente in linea con la sua identità, qualcosa che richiama il prete a …tornare al centro e a darsi un centro, un punto di riferimento, una linea unitaria e coesiva alla sua identità e alla sua pastorale.

L’intento, insomma, sarebbe questo: parlare di problematica vocazionale non come problema e complicazione in più, ma come occasione positiva, come opportunità provvidenziale per ribadire identità (teologica) e ruolo (pa­storale) del presbitero. A qualcuno sembrerà un cambio solo apparente, quasi un gioco di parole che non migliora granché la sostanza della situazione e della problematica. Ma credo comunque che valga la pena tentare quanto meno di provarci a dare questo tipo di impostazione alla nostra riflessione.

Si tratta, allora, di dare indicazioni per aiutare i presbiteri, immersi nella pastorale delle nostre parrocchie, ad essere attenti ad accompagnare perso­nalmente il cammino di fede vocazionale dei singoli battezzati. Dunque ci rivolgiamo non a dei tecnici dell’accompagnamento, ma a credenti che lo fanno dentro la pastorale normale, o che danno attenzione in tal senso, e lo fanno a livello personale, nei confronti del singolo. E siamo anche convinti che in tal modo daremo indicazioni utili non solo al prete, ma ad ogni credente che opera nella Chiesa di Dio con senso di responsabilità e di responsabilità vocazionale.

Per muoverci nella direzione proposta, occorre allora anzitutto che iden­tifichiamo quel centro o quell’idea forte attorno alla quale ruota tutto l’essere e l’agire del prete, dal punto di vista soprattutto pastorale.

 

 

ATTUALITÀ E CENTRALITÀ DEL MINISTERO EDUCATIVO

Quando si parla di pastorale si fa riferimento inevitabile all’attualità, a qualcosa di adeguato al momento storico che si sta vivendo. Essendo la pasto­rale ogni mediazione culturale dei contenuti della fede, espressi in una forma, o il tentativo di traduzione nella vita d’ogni giorno del messaggio della salvezza, attraverso percorsi a livello liturgico, celebrativo, catechetico, caritativo, che incrocino i reali percorsi degli uomini e delle donne d’oggi, sembra ovvio che la pastorale sia strettissimamente legata alla vicenda esistenziale della comunità che vive in questo tempo storico.

Ebbene, qual è l’emergenza più drammatica di questa nostra società, emer­genza che viviamo tutti, nella quale siamo sommersi e che – potremmo dire, senza temere di esagerare – rischia di schiacciarci?

 

Emergenza educazione (o latitanza delle agenzie educative)

È l’emergenza educativa, causata dalla latitanza delle normali agenzie educative. Chi non se n’accorge?

Latitanza è termine dal vago sapore mafioso o comunque illegale; si usa per dire del malfattore che non si fa prendere, di chi si nasconde e teme di venire alla luce; è metafora di mancanza di coraggio nel sostenere dinanzi agli altri la propria posizione, dunque di pusillanimità e irresponsabilità, di debolezza delle proprie idee e d’incoerenza radicale. È quel che succede oggi, particolarmente a chi dovrebbe invece assumere, in modi diversi, un ruolo educativo. Vediamoli in rapida rassegna.

 

L’ambiente culturale

Partiamo da lontano, e comunque da un agente di fondamentale importanza e notevole impatto: dalla cultura circostante o dalla mentalità dominante. Insuperabile mi sembra l’immagine usata dal documento del congresso vocazionale europeo, che paragona l’attuale società all’antico Pantheon dei Romani, ove in allegra confusione “tutte le divinità erano presenti”; così nel tempio della cultura odierna c’è tutto e il contrario di tutto: “valori diversi e contrastanti sono copresenti e coesistenti, senza una gerarchizzazione precisa; codici di lettura e di valutazione, d’orientamento e comportamento del tutto dissimili tra loro”[1].

Detto in altri termini: viviamo in una cultura latitante sul piano educativo, perché non ha più il coraggio di dire ciò che è bene e ciò che è male, poiché sembra demodé procedere a questa netta distinzione in tempi di pensiero debo­le, in una cultura in cui vige la più solenne confusione etica e che non sa più proporre, ai giovani soprattutto, un significato dell’esistenza, modelli credibili e valori convincenti che rendano la vita bella e degna d’esser vissuta e ogni essere umano degno di viverla fino in fondo. Anzi, in questa cultura della mar­mellata, ove tutto è confuso e indistinto, sembra demodé qualsiasi distinzione, qualsiasi differenza, persino quella sancita dalla natura, dalla fisiologia; un tem­po si diceva “proibito proibire”, oggi si dice “proibito distinguere”: è tutto uguale, tutto appiattito, tutto sfumato, tutto grigio…, che poi conduce al “tutto è possibile, tutto è lecito, tutto è concesso…”.

Ma una cultura ove tutto è grigio e indistinto fa nascere una società senza colore e speranza, poiché trasmette l’idea che non vi sia una verità oggettiva, qualcosa di bello e luminoso, definito e vincolante per tutti, e che è interesse di tutti cercare e poi osservare. Con espressione molto forte, Andreoli parla di quegli adulti che si sono “prostituiti” a questa cultura del nulla interiore e del vuoto di speranza, che inocula poi come veleno l’illusione di riempire vuoto e disperazione con compensazioni effimere e indegne dell’uomo[2]. Ma è la conclusione inevitabile di quella latitanza educativa che finisce per metter sullo stesso piano famiglia e qualsiasi tipo di convivenze, istru­zione e televisione, affermazione di sé e violenza sull’altro…, e confonde vita concreta e fiction, o riduce il senso della vita a un concorso di bellezza, mettendo in testa a una ragazzina che sarà qualcuna solo se farà la velina, o a un ragazzo che si farà rispettare solo se saprà fare il bullo, eroe del nulla sul teatrino dell’insignificanza. Ovvio che, come ancora dice il documento vocazionale europeo, una cultura così renderà debole anche la capacità progettuale del singolo giovane di fronte al suo futuro.

 

La scuola

Il clima socio-culturale confuso e ambiguo si riflette fatalmente su quelle che dovrebbero essere le classiche agenzie educative, ad es. sulla scuola. I “cat­tivi maestri” oggi non sono necessariamente i sottili istigatori al male o alla violenza, o addirittura coloro che esplicitamente provocano in tal senso (ma ci sono anche questi oggi), ma chi s’accontenta di… insegnare senza educare, di dare e far ripetere nozioni senza trasmettere la passione per la verità o il gusto della ricerca; o chi presume di fare il prof e non sa impegnare i suoi allievi nella fatica umile e discreta del “pensarci su”; o chi si dimentica o finge di dimenti­care che il tempo dell’esperienza scolastica è momento in cui si formano la stima di sé, la conferma della propria identità, la certezza d’esser in cammino verso la propria autonomia, la scoperta che nulla è raggiungibile senza sacrifi­cio…, momento in cui c’è un assoluto bisogno di modelli come punti vitali di riferimento, che non siano solo amici o amiconi.

E così va a finire che oggi abbiamo molti professori, ma pochi maestri; i veri maestri latitano… Mentre la scuola langue, stiracchiata ora da una parte ora dall’altra a seconda del vento (politico), ma senza mai il coraggio di assumere in pieno la sua enorme valenza educativa. A partire dalla formazione degl’insegnanti, preparati nel loro ambito, ma non abilitati ad esser educatori, come se bastasse la laurea in matematica per esser formatore di coscienze giovanili. Ep­pure così dovrebb’essere, perché l’insegnante è prima di tutto un educatore, indipendentemente dalla materia che insegna e prima di tutto con la sua perso­nalità. Ma è poi la scuola stessa che mostra in modo evidente questa latitanza educativa anche sul piano dei contenuti o della sua stessa identità e finalità, sempre più squilibrata sul versante della formazione tecnica, dell’insegnamento di materie che servano per trovare un impiego e fare un lavoro, e sempre meno attenta a fornire a chi sta entrando nella fase decisiva della vita gli elementi fondamentali per imparare a vivere e convivere. Non si spiega diversamente l’assenza quasi totale (altra latitanza) d’un insegnamento sistematico relativo ai principi della crescita psichica, sul piano della maturità affettiva, sessuale, deci­sionale, intellettuale, relazionale, morale, religiosa, ecc. Non tocca forse alla scuola trasmettere l’idea che prima ancora delle leggi o dei principi di algebra o fisica vi sono delle leggi precise inscritte nella natura, quella “grammaticadi cui ha parlato recentemente il Papa, scritta dal Creatore nel cuore della creatura, e che è fondamento del retto vivere e del retto giudicare[3] circa la nostra crescita a vari livelli, che nessuno può ignorare o modellare a suo(illusorio) piacimento? Se la scuola non fa questo, diventa diseducativa e disorientante.

 

Il gruppo

Altro soggetto educativo rilevante è il gruppo o l’esperienza relazionale coi propri pari, vero tramite e filtro interpretativo d’ogni messaggio educativo, ma anche luogo della scoperta e dell’espressione dell’io, dell’allenamento alla re­lazione e all’accettazione dell’altro-da-sé, del confronto stimolante per la cre­scita, nella sintesi equilibrata tra identità e appartenenza. Ma oggi il gruppo sta sparendo, anch’esso, come soggetto o luogo educativo o tramite in tal senso. Non è più banda, come un tempo, ove si configuravano ruoli e personalità diverse che, spontaneamente, interagivano tra loro produ­cendo una crescita reciproca, proprio in forza dell’alterità (pur con discreta conflittualità a volte), ma incline al branco, ove tutti i componenti sono uguali al sé di ciascuno e ciascuno cerca d’essere specchio dell’altro. Branco di consu­matori degli stessi prodotti, ad esempio, tutti ordinatamente in fila ad acquista­re l’oggetto reclamizzato e firmato; o di telespettatori degli stessi programmi, pronti ad applaudire o sforzarsi di ridere in TV alla solita ossessiva battuta cretina sul sesso; o branco di trasgressori delle stesse norme sociali, infischiandosene con manierata sufficienza delle regole sociali, e in realtà ob­bedientissimi a qualcun altro (il “neo-pecoronismo”)[4]. Così tutti restano quel che sono, senza aiutarsi a vicenda e anzi, per certi versi, peggiorando, poiché il gruppo-branco tende ad annullare il singolo nella massa e a renderlo sempre più succube d’essa.

Capita così che, in una società che non sa più distinguere il bene dal male, il branco diventi coalizione del “tutto è possibile”, luogo dell’antinorma e dell’orrido, ove son tolti i freni inibitori del ragazzetto, che può prendere una coetanea e farle violenza e, se non ci sta, farla fuori. C’è un che di animalesco, infatti, nel concetto di “branco”. Si va nel branco per fare quel che da soli non si riesce a fare e scoprirsi, esaltandosi di fronte agli altri, eroi del niente o del male, e addirittura esibendosi nella rete; col risultato che il comportamento esibito crea perversi effetti emulativi e il branco diventa scheggia impazzita antisociale, mentre il sin­golo conosce sempre più il lato oscuro e persino mostruoso della sua personalità[5].

 

La famiglia

È forse la latitanza più grave e sconcertante, ma ormai difficilmente negabile. Non solo per il progressivo indebolimento dell’istituto familiare, sempre più precario, incerto, instabile, ferito. Ma perché la famiglia sta progressivamente rinunciando al suo ruolo naturale e primordiale, quello d’essere educatrice di coloro che essa stessa ha chiamato alla vita. Vi rinuncia quando anch’essa respira e subisce quella confusione etica che rende indistinte le aree del bene e del male, e non ha più il coraggio di dire con chiarezza cosa va fatto in ogni caso o cosa si debba evitare perché comunque non accettabile. Vi rinuncia quando una malintesa idea di libertà e di rispetto per quella dei figli porta i genitori a non offrir loro alcun punto di riferimento, alcuna idea forte per la vita, alcun esempio bello e trainante…, o quando non si ha il coraggio di dire alcun no, di indicare la rinuncia come via insostituibile di autorealizzazione. Il permettere tutto e il sod­disfare sistematicamente ogni richiesta è vera e propria latitanza educativa, è come un esser assenti o insignificanti nella vita dei figli, è crudeltà psicologica.

Ma c’è un’altra confusione all’origine della latitanza educativa della fami­glia: è la confusione dei ruoli. Vi sono bambini che si comportano da adulti e adulti che si comportano da bambini; piccoli cui tutto è lecito e che tutto pre­tendono, forse più precoci e disinibiti dei bambini d’un tempo, tanto da sem­brare nemmeno così bambini e fin troppo simili agli adulti; e che poi sembrano destinati a divenire giovani che non se la sentono d’andar via di casa, di assu­mersi responsabilità, di compromettersi con un altro/a per sempre, di scegliere in modo definitivo… e che restano eterni “figli di famiglia”, fragili e inconclu­denti. Precoci prima e ritardati poi! Così pure avremo genitori che sembrano “fuggire” dal loro ruolo e sottrarsi al compito di dare ragione di ciò chiedono o danno ai figli e preferiscono imporre e basta; oppure genitori che cercano pate­ticamente di dissimulare il naturale loro ruolo di autorità con una strategia fraternalistica e complice, atteggiandosi ad amici dei loro figli, magari imitan­doli e mostrandosi a tutti i costi “giovani” o giovanili. O, ancora, vi saranno padri che giocano a fare da madre, rincorrendo e copiando modalità relazionali materne o femminili, e rischiando di perdere autorevolezza e credibilità. Il ri­sultato di questo improbabile gioco “dei quattro cantoni” sarà un generale disorientamento educativo dei figli: a un padre “fuggitivo” corrisponde sempre un figlio adulto-mancato, senza stima di sé né spina dorsale; a un padre che non ha saputo assumere a suo tempo l’autorità corrisponderà un figlio che non ha punti di riferimento né sa dare un orientamento alla sua vita; un padre, infine, che ha giocato a far da madre avrà un figlio con problemi d’identità, quanto meno, e di relazione con l’altro-da-sé. In ogni caso la latitanza educativa della famiglia crea persone a sua volta incapaci di ricoprire ruoli genitoriali, d’esser padre e madre, o che a loro volta ripeteranno gli stessi errori, e la stessa latitan­za. E il ballo in maschera continua… E non parliamo degli scenari futuri della famiglia, ove l’interrogativo non sarà relativo al suo ruolo educativo, ma alla sua stessa sopravvivenza…

 

La Chiesa

Forse qualcuno non sarà del tutto d’accordo, ma credo che anche la Chie­sa, da sempre impegnata nel campo dell’educazione a vari livelli, risenta oggi d’un certo condizionamento culturale che non solo la disturba o le si oppone nella sua azione educativa, ma la frena, la inibisce, scoraggiandola dall’assumere posizione in tal senso, o vanificando la sua azione. Che forse è molto peggio dell’opposizione netta e dichiarata.

Il ruolo formativo della Chiesa è rapportabile a quello della famiglia: anche la Chiesa ha il compito di educare coloro che ella stessa ha chiamato alla vita soprannaturale. Ma tale naturale vocazione educativa sembra oggi debole e appannata. Per questo parliamo di latitanza educativa ecclesiale. Vedi, ad es., la patente contraddizione tra l’enfasi teorica con cui si promuove il tema della direzione spirituale (che è vera e propria educazione del singolo e della sua coscienza) e la sua realizzazione pratica, di fatto piuttosto povera: la recente ricerca di Garelli – come vedremo poi meglio – lo conferma: la grande maggio­ranza di ragazzi e giovani, anche tra quelli più sensibili e interessati a un discor­so vocazionale, non hanno poi trovato modo di proseguire il loro discernimento con un fratello o una sorella maggiore[6]. Oppure vedi la costante disattenzione non solo a definire norme di condotta o ideali da raggiungere, ma anche a forni­re i percorsi pedagogici che ad essi conducano (per cui all’“ipertrofia dei fini” corrisponde una sconcertante povertà di metodi), e a saper indicare pure le motivazioni profonde, “educative”, che stanno dietro a certe indicazioni morali comportamentali (per cui la Chiesa, quando non riesce a segnalare e render evidenti a tutti queste motivazioni, appare di fatto come colei che è contraria a una visione positiva e aperta della sessualità); altra latitanza educativa è l’incapacità, da parte di larga parte della comunità credente, di tradurre il messaggio cristiano in etica anche socialmente valida, per mostrarne l’incidenza positiva per l’educazione dell’uomo nuovo e la costruzione d’una civiltà degna di lui (e non solo questa traduzione è ancora in buona parte da fare, ma molti credenti non ne avvertono nemmeno la necessità). Altro segno di questa latitanza è la poca incisività della testimonianza dei credenti, la loro quasi insignificanza a livello cul­turale, l’incoerenza tra messaggio annunciato e condotta dell’annunciatore, come singolo e come gruppo, l’abbandono di strutture educative (oratori, scuole…) o la loro interpretazione riduttiva (oratori divenuti ricreatori, o una scuola che fa più didattica che formazione vera e propria). O ancora è Chiesa latitante quella in cui non c’è il coraggio di chiamare, tutti e ovunque, superando certi steccati; o dove ci si accontenta di educare solo i bambini o chi si lascia educare o chi viene a chiedere l’intervento. Mentre occorrerebbe osare un po’ di più: fare il primo passo e andare ovunque, dare ragione della speranza cristiana senza temere rifiuti, ma con la cer­tezza d’aver qualcosa di molto bello e importante da consegnare a ciascuno.

La Chiesa deve soprattutto educare al desiderio di Dio, al bisogno di cer­carlo come colui che unico può indicare la strada da percorrere insieme. “Mi spaventa – dice un laico come Andreoli – una società che non cerca più Dio…, poiché significa non ricercare quel principio che impone di comportarsi con coerenza e con determinazione e persino con sacrificio”[7]. Poiché se non si cerca più Dio si smarrisce anche l’uomo, e non c’è più alcun futuro.

 

Attesa frustrata (o segnale non pervenuto)

Il dato nuovo, per certi versi sorprendente, è quello emerso dalla già citata ricerca dell’équipe di F. Garelli, su cui il Convegno ha potuto ascoltare le os­servazioni acute dello stesso ricercatore. Io vorrei solo sottolineare qualche aspetto, in relazione col nostro tema. A quanto pare, ed è per molti un dato assolutamente inaspettato, non è in crisi la vocazione di speciale consacrazione, se è vero che l’11% dei giovani confessano d’averci pensato, ma la sua realizzazione, se è vero che “nessuno degli intervistati ha indicato l’opzione su invito di un sacerdote o padre spirituale”[8]. E questo è già un fatto assolutamente nuovo; forse dovremo abituarci a cambiare modo di pensare e pure di esprimerci al riguardo: non possiamo più parlare di crisi vocazionale, quanto di crisi di accompagnamento vocazionale (o degli accompagnatori vocazionali). Da un lato, il dato della ricerca è positi­vo, se così tanti giovani prendono sul serio l’ideale vocazionale in maniera del tutto autonoma e libera (in questo la ricerca conferma una realtà sulla quale il CNV ha costruito in questi anni tutta la sua proposta d’animazione vocazionale, anche quando pochi sembravano crederci…), dall’altro lato il dato messo in evidenza, della latitanza degli educatori, è inquietante. Il problema, allora, è di una vera e propria crisi della paternità spirituale, dice il ricercatore, legata anzitutto alla diversa percezione che i consacrati han­no sia del proprio ruolo che del rapporto coi fedeli. Ed evidente – sempre se­condo la ricerca – come conseguenza, nella riduzione del tempo della pratica della confessione e della funzione di direzione spirituale, che sono due ambiti clas­sici in cui nel passato i giovani potevano esser invitati a riflettere circa un proprio orientamento vocazionale. E visibile ancora nella singolare “discrezione” (o paura, o imbarazzo, o poca convinzione, o rifiuto in certi casi) a proporre in modo esplicito ai giovani una meta impegnativa come quella della vita consacrata o sacerdotale, a fronte della cultura prevalente e del carattere controcorrente di questa scelta[9].

Noi diremmo che questi dati ci pongono dinanzi a una crisi di qualità della relazione educativa o addirittura della sua realtà. Perché la vocazione c’è, e i numeri sono impressionanti: 11 giovani italiani su 100 vuol dire circa un milione che sentono nella vita la vocazione a farsi prete, religioso o suora; il 20% che vi ha riflettuto per più di 3 anni significa circa 200mila giovani che coltivano questa idea in una cultura che certamente non va in questa direzione. È vero che per l’80% di questi giovani l’idea è durata un anno solo (idee grandi dal fiato corto), ma il problema è proprio questo: che tale sentimento, progetto, ipotesi, desiderio o come altro lo vogliamo chiamare, non ha trovato il suo naturale interlocutore.

Più precisamente:

– o non è stato intercettato da colui che avrebbe dovuto identificarlo, segnalar­lo, percepirlo col suo radar…, e il segnale vocazionale così non è “pervenuto”;

– o non è stato poi aiutato a crescere, purificarsi, affermarsi, diventare vocazio­ne vera e propria e dar luogo a una scelta in tal senso!

È chiaro poi che in assenza di tutto ciò sia andato perduto. Per un vuoto educativo nelle due direzioni: quella che va nel senso dell’educazione (come e-ducere= tirar fuori) o del rilevamento del desiderio vocazionale, e quella che va nel senso della formazione e poi del discernimento del desiderio vocazionale stesso. Il fatto stesso che siamo rimasti tutti molto sorpresi (alcuni decisamente scettici) dinanzi a questi dati dice esattamente come siamo lontani dal percepire la realtà vocazionale pre­sente nei nostri giovani, come non avessimo gli strumenti per rilevare il fenomeno o li avessimo ormai vecchi e inefficienti. Con la conseguenza che nemmeno ponia­mo mano all’eventuale piano di accompagnamento vocazionale. E con la conse­guenza che abbiamo perso e perdiamo possibilità e opportunità preziose. Esatta­mente come diceva già circa dieci anni fa Nuove vocazioni per una nuova Europa: “Quanti aborti vocazionali a causa di questo vuoto educativo”[10].

Viene in mente quanto diceva V. Havel: “Ci si domanda se il futuro lumi­noso (vocazionale) è sempre davvero soltanto questione di un lontano “là”: non è, invece, qualcosa che è già qui da un pezzo, e che solo la nostra miopia ci impedisce di vedere e sviluppare intorno a noi?”. Quanto basta per capire l’attualità e centralità del ministero educativo oggi nella Chiesa e nella società, e al tempo stesso sentirci in colpa e provocati a rivedere un certo impianto pastorale, a cui probabilmente manca qualcosa.

 

 

PEDAGOGIA DELLA VOCAZIONE E PRETE EDUCATORE VOCAZIONALE

“La crisi vocazionale è certamente anche crisi di proposta pedagogica e di cammino educativo”[11]: se è vero quanto leggiamo già nel documento del conve­gno europeo, ciò che occorre è non solamente ribadire dei principi teorici o invocare una nuova teologia della vocazione, ma vedere di riformulare il vero e proprio cammino pedagogico della vocazione. A partire, evidentemente, dalla convinzione che ogni presbitero è chiamato a svolgere un ministero educativo. Essere prete è essere educatore in una Chiesa che da sempre ha svolto questo tipo di ministero. Essere educatore nel senso pieno del termine: educatore, edu­catore di coscienze, di modi nuovi di vedere la realtà, secondo la tipica sensibi­lità credente, che s’apre alla novità della Pasqua e diventa piano piano forma, nuova forma mentis et cordis, la forma di Cristo, del Figlio obbediente, del Servo sofferente, dell’Agnello innocente. A che serve la pastorale se non mira a que­sto? Il ministero educativo non è semplicemente una possibile, ma non indi­spensabile, attitudine personale, come un carisma che uno può avere o no, che riguarda solo alcuni istituti religiosi; non è opzionale dimensione pastorale, ma espressione del tutto naturale dell’identità presbiterale.

In questo non c’è dubbio che siamo depositari d’una tradizione ricchissima e che affonda le sue radici nell’evangelo. Tradizione ricca di sapienza che oggi ri­schiamo, forse senza rendercene del tutto conto, di sottovalutare, di ammetter teori­camente, ma senza un seguito corrispondente nella pratica della vita, come un’eredità ricchissima che piano piano sta perdendo di valore, o stiamo scialacquando.

La Chiesa ha oggi tutto l’interesse di recuperare questa vocazione che le appartiene da sempre e per natura sua. Glielo chiede non solo una necessità drammatica sociale sempre più evidente, come abbiamo già considerato, ma glielo chiede la sua stessa identità, quella che è ed è chiamata ad essere, ovvero: la sua vocazione. Vocazione che poi diventa chiamata di ogni presbitero, e che ora vorremmo considerare sotto l’aspetto più propriamente pedagogico e metodologico, dando indicazioni il più possibile pratiche.

Prendo come punto di riferimento ancora il documento del convegno eu­ropeo vocazionale, che dedica all’analisi pedagogica tutta l’ultima parte. Secondo tale testo la pedagogia della vocazione ruota attorno a cinque verbi “vocazionali”: seminare, accompagnare, educare, formare, discernere. Che non sono solo rigorosamente evangelici, ma tutti facilmente riconoscibili nell’agire di quel grande e singolare animatore vocazionale che è stato Gesù. Né sono solamente le cinque caratteristiche centrali del ministero vocazionale, ma “le cinque dimensioni del mistero della chiamata che da Dio giunge all’uomo attraverso la mediazione d’un fratello/sorella o d’una comunità”[12]. Per ognuno di questi verbi è proposta un’icona evangelica che lo descrive, e sono poi indicate alcune interpretazioni e applicazioni che fanno al caso no­stro. Vedremo in questa riflessione i primi quattro.

 

Seminare

L’immagine evangelica di riferimento non può che esser quella del seminatore di Mt 13,3-8, che getta il seme su quattro diversi tipi di terreno con esiti ad essi strettamente corrispondenti.

Presbitero seminatore

È il primo passo d’un cammino pedagogico vocazionale. Se si vuol raccoglie­re bisogna prima seminare, ma senza pretendere che sia la stessa persona a compie­re le due operazioni: vogliamo dire, in altre parole, che il presbitero animatore vocazionale è di per sé il seminatore più che il raccoglitore vocazionale; il suo compito e la sua gioia sono nel seminare.

Una delle più frequenti crisi in sacerdoti giovani è quella causata dalla povertà dei risultati, spesso letta come un fallimento generale e determinante una frustrazio­ne deprimente. Ma chi l’ha detto che il risultato deve seguire immediatamente la proposta fatta? Chi l’ha detto che il risultato debba esser subito visibile? Al prete è chiesto di seminare, e seminare ha a che vedere con il lavoro iniziale, con il porre le fondamenta, con il partire e ripartire dagli elementi essenziali, senza darli mai per scontati. Seminare, per il credente, vuol dire compromettere Dio, far partire un dinamismo che implica la sua parola e l’azione della Grazia, dunque non ritrovarsi mai da soli a combattere contro nemici più forti. Tutto questo un presbitero, specie se giovane, non lo può dimenticare mai. Altrimenti, a parte la depressione o frustra­zione o i nervosismi, finisce per adottare criteri pagani nei suoi discernimenti. Come quel giovane parroco, molto intelligente e capace, che aveva fatto un piano molto sapiente per la crescita spirituale dei suoi parrocchiani, tutto basato sull’ascolto della Parola, dal quale si riprometteva anche un risveglio vocazionale. Per questo aveva previsto una serie di incontri quindicinali sulla Parola di Dio, condotti da un professore di Sacra Scrittura, che avrebbero dovuto abbracciare buona parte dell’anno. Lo incontro dopo un paio di mesi dall’avvio dell’iniziativa pastorale e gli chiedo come va, come vanno quest’incontri in particolare: “male…, anzi, sono finiti”, mi risponde duro. E perché? “Perché la prima volta sono venute 7 persone, la seconda e la terza 5… Non ne valeva la pena. È stata una grossa delusione”. In effetti è stata una grossa delusione anche per me questo giovane presbitero che sembrava intelligente e invece non aveva e non ha ancora capito che quello del numero è criterio totalmente pagano (oltreché irrealista), e che a lui tocca seminare, magari perché altri in parrocchia raccolgano un domani il frutto della preparazione biblica di cinque persone (e senza dimenticare che lui stesso ha raccolto e sta raccogliendo quanto altri prima di lui hanno semi­nato).

 

Seminare ovunque e comunque, nel cuore di chiunque

Il gesto ampio del seminatore del Vangelo, che non fa caso alla qua­lità del terreno ove va a finire il seme, è una delle icone vocazionali più suggestive e significative: sta a dire lo “spreco” della generosità divina che semina nel cuore d’ogni vivente un piano di salvezza. Chi siamo noi per pretender di limitare lo spreco divino, per decidere che non val la pena annunciare il Vangelo della chiamata a certi giovani e in certi ambienti? Chi siamo noi per decidere che la chiamata di Dio debba esser parziale, rivolta solo ad alcune categorie di persone in possesso di criteri da noi stabiliti, e molto spesso fin troppo simili a noi (giusto per continua­re la specie)? E così finiamo per restringere enormemente l’ambito del destinatario della pastorale vocazionale (PV). “Spesso ci si lamenta nella Chiesa della scarsità di risposte vocazionali e non ci si accorge che altrettanto spesso la proposta è fatta entro un cer­chio ristretto di persone”[13], i buoni, i nostri, i chierichetti e le figlie di Maria un tempo, o i membri dei movimenti oggi… La stessa ricerca di Garelli lo dice a chiare lettere: la grande maggioranza di quelli che hanno avvertito in sé un ideale vocazionale non si sono sentiti rivolgere alcuna proposta in tal senso da nessuno, perché forse erano “esterni” al nostro giro, e comunque questo sta a dire la non corrispondenza tra le nostre previsioni (o pregiudizi) vocazionali e la effettiva disponibilità vocazionale.

A volte verrebbe da dire che allo spreco della generosità divina ri­sponde la tirchieria dell’ottusità (poco) credente umana. Che anzitutto dice scarsa fede, poiché il presbitero dovrebbe sapere che ogni creatura è por­tatrice d’un dono, è frutto d’un disegno intelligente che s’esprime in una vocazione particolare che attende d’essere riconosciuta, ed è la certezza di questo seme deposto dal divino seminatore che dà all’umano seminatore il coraggio di seminare ovunque e nel cuore di chiunque, o l’intelligenza pastorale “di non restare dentro gli spazi soliti e d’affrontare ambienti nuovi, per tentare approcci insoliti e rivolgersi ad ogni persona”[14]. Noi non possiamo nemmeno immaginare come potrebbe avvantag­giarsi la PV da questo coraggio del seminatore che non conosce frontiere e ha il gusto dei “confini”[15].

 

I semi vocazionali

E cosa seminare? Quelli che potremmo chiamare “i semi vocazionali”, ovvero quei punti essenziali, assolutamente elementari, coi quali avviare una sorta di catechesi vocazionale di base, altrettanto elementare. In sostanza po­trebbero esser questi:

* la tua vita è preziosa, è qualcosa di grande, che tu non avresti mai potuto meritare né conquistare;

* infatti viene da un Altro, da una volontà buona che ti ha preferito alla non esistenza; dunque non ci sei per caso, ma esisti all’interno d’un disegno intelligente-amante;

* di conseguenza non puoi seguire altra via al di fuori di tale disegno, che in qualche modo è impresso nella tua natura, poiché ti segna fin dalle radici: tu ne sei frutto;

* disegno che ti orienta nella stessa direzione lungo la quale incamminarti,quella d’un atteggiamento intelligente e benevolente, responsabile e generoso, grato e gratuito. Tu sarai felice, non solo vero e pienamente realizzato, unica­mente se sceglierai questa via.

Questi semplici elementi che sono come i primi rudimenti d’una catechesi vocazionale, quasi un “kerigma vocazionale”, possono esser intesi da tutti e dunque vanno proposti a tutti, a seconda della capacità di comprendere di ognuno e della stagione di vita in cui ciascuno si trova.

 

Ogni tempo è buono per seminare

Dovremmo esser usciti dalla logica un po’ pre-adolescenziale di quella PV che limitava a questa età della vita le proprie attenzioni quasi esclusive. Oggi che l’adolescenza tende a prolungarsi nel tempo, anche la stessa PV s’è adeguata, a volte però rischiando semplicemente di cambiare età di riferimento. Il principio pedago­gico moderno è invece quello di pensare una PV adeguata a ogni età o stagione di vita, poiché ogni “stagione dell’esistenza ha un significato vocazionale”[16]: anche l’infanzia, anche la vecchiaia, perché no?… anche la malattia, anche l’età della pen­sione. Il seminatore saggio è proprio quello che sa tener alta in ogni persona l’attenzione a quel progetto che Dio ha su di essa, in ciascun momento della vita. Ma, al tempo stesso, è colui che sa accompagnare i momenti particolarmente decisivi nella scelta d’un progetto di vita in cui riconoscere il piano del Padre. Detto in termini molto pratici: è bene seminare o cominciare a seminare abbastanza presto, senza aspettare chissà quale tempo ed età della vita (anche perché i bambini delle elementari sono in grado di capire i “semi vocazionali”, o cosa significhi chiamata, futuro, piano di vita…, o sanno la differenza tra esser chiamati da qualcuno che ti chiama perché conti per lui, o non esser chia­mati da nessuno, e dunque non contar niente per nessuno); ma è ancor più im­portante seguire le vicende del seme, non dare per scontato che il seme mature­rà da sé e farà tutto da solo…; a volte è necessario persino ri-seminare, rinnova­re la semina, rispettando tempi e ritmi di maturazione.

Semmai sarà importante, per il buon seminatore, saper discernere i momenti-chiave della provocazione vocazionale, ovvero quando dire quella paro­la, quando insinuare quel dubbio, quando proporre quella riflessione sul senso della vita, quando provocare in modo più stringente e specifico…

 

Il più piccolo e il più grande di tutti i semi

Lo sappiamo molto bene: il seme della vocazione, nella cultura di oggi, è come un granellino di senapa che, quando viene seminato, o proposto, o indica­to come presente, è il più piccolo di tutti i semi (cf Mt 13,31), non suscita molto spesso alcun immediato consenso, anzi è negato e smentito dallo stesso titolare del progetto divino, è come soffocato da altre attese e progetti, non preso sul serio, oppure visto con sospetto e diffidenza, come fosse un seme d’infelicità… Eppure, ci ricorda ancora il dato della ricerca di Garelli che è un seme tenace, è un filo d’erba ostinato, se riesce a perforare l’asfalto della cultura odierna dell’“uomo senza vocazione”, e riesce a far capolino nella mente e nel cuore dei giovani d’oggi, in una percentuale così alta e per un tempo così lungo e senza sollecita­zioni esterne positive e incoraggianti.

Ma ha bisogno, proprio perché così fragile, dell’attenzione del seminatore. D’un seminatore intelligente, però, che – ad es. – non si tira indietro di fronte alla possibile reazione timorosa e negativa del giovane, che non si meraviglia delle difese da lui opposte all’invito del Signore che chiama, che sa come inter­pretare il frequente disinteresse iniziale e non abbandona l’opera da lui iniziata, lasciando perdere tutto quanto. Quant’è importante in quei momenti ricordare questa parola del Signore sulla piccolezza del seme; o ricordare che l’agire del Signore rispetta sempre la libertà dell’uomo, per questo è sempre azione di­screta, che non s’impone né impone nulla, per questo il seme è il più piccolo.

Ma Gesù dice anche, nello stesso brano, che “una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi” (Mt 13,32), dunque è un seme che possiede una sua forza, anche se non è subito evidente e dirompente e, anzi, ha bisogno di molta cura per maturare. E siamo sempre al solito punto: se il seminatore semina, anzitutto, e dà attenzione al picco­lo seme aiutandolo a crescere (o provoca il giovane a crederci), sarà il seme stesso che progressivamente s’imporrà con la sua forza – che è poi la Grazia che agisce in esso – o che darà forza al giovane, il coraggio di decidersi per esso o di avvertire un’attrazione che è più forte di altri possibili sogni e ideali. Ma c’è anche un altro senso, mi pare, nell’espressione di Gesù: il seme del Regno e della vocazione è quella condizione di vita che porta a pieno compimento l’umanità della persona, come nessun’altra situazione di vita potrebbe (“…diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo si annidano tra i suoi rami”): è il massimo per la vita dell’individuo e non solo per lui.

Insomma, è il più piccolo e il più grande, viene da Dio e dunque è forte e sicuro, ma proprio perché viene da Dio è discreto e non invade né s’impone, e chiede la collabora­zione dell’uomo, il massimo della cura, ma per dargli il massimo della felicità. È il solito mistero delle due libertà in azione, ove tutto dipende dall’una e dall’altra. Ma è assolutamente indispensabile che nella mente del prete-seminatore sia chiaro il paradosso o il mistero: il seme della vocazione è il più piccolo e assieme il più grande di tutti i semi.

 

Accompagnare

L’icona qui è quella di Emmaus (cf Lc 24,13-16); l’esempio quello di Gesù che si fa compagno di viaggio dei due discepoli tristi e delusi, senza futuro né speranza, come tanti ragazzi e giovani oggi. Il presbitero-seminatore ora diventa accompagnatore in un cammino chiamato accompagnamento personale vocazionale.

 

Accompagnamento personale vocazionale

Si tratta d’un viaggio mirato verso la maturità della fede o lo stato adulto dell’essere credente, chiamato a decidere di sé e della propria vita in libertà e responsabilità, secondo la verità del misterioso progetto pensato da Dio per lui; tale viaggio procede per tappe, in compagnia d’un fratello o d’una sorella mag­giore nella fede e nel discepolato, che conosce la strada e la voce e i passi di Dio, aiuta a riconoscere il Signore che chiama mentre viene incontro e a discernere la via lungo la quale andare verso di lui e rispondergli. Evidenziamo solo alcuni elementi di questa definizione descrittiva.

 

Saper prender l’iniziativa

La cosa interessante della narrazione di Luca è che “Gesù in persona si accostò e camminava con loro”: è lui stesso che prende l’iniziativa. Mi sembra un dettaglio non irrilevante per definire la natura di questo intervento pedagogi­co, poiché sta a dire che il prete non può stare semplicemente ad attendere che qualcuno abbia bisogno di lui, ma dev’esser lui che in qualche modo prende l’iniziativa, si mette a disposizione, fa comprendere la natura e la funzione dell’accompagnamento personale, dà la precedenza a questo tipo di servizio, fa capire che non solo ci crede, ma lo ritiene il passaggio normale della crescita cristiana. In questi ultimi decenni abbiamo lodevolmente parlato molto della direzione spirituale, ma mettendola in pratica poco o niente, soprattutto perché ci siamo accontentati di stare ad aspettare la gente, dando per scontato che il cristiano di oggi conosca la cosa, ne senta il bisogno e ne comprenda l’importanza. Lodevole, in tal senso, l’iniziativa che sta prendendo sempre più piede in alcune diocesi italiane, di dedicare addirittura una chiesa, o delle chiese, ove in tutte le ore del giorno dei sacerdoti sono disponibili per l’ascolto e la direzione spirituale, ma forse non basta aspettare: occorre andare incontro, partire per primi, fare proposte concrete, esser furbi quanto basta per piazzare al momento giusto la parola provocatoria che fa sentire l’esigenza di continuare il discorso, approfittare degli incontri della vita, come fece Gesù quella volta. Togliere l’idea che la direzione spirituale sia qualcosa di strano ed eventuale, come un premio ai più impegnati o un sostegno ai più deboli; o qualcosa di straordinario, per la quale occorre andare a cercare l’abate del monte Athos. È via normale di cresci­ta, e via indispensabile di discernimento vocazionale. La crisi vocazionale è senz’altro, e l’abbiamo già detto diverse volte, crisi di accompagnamento spirituale, crisi di accompagnatori, che non ci sono o che dedicano a questo ministero gli scarti di tempo e di energie, o che lo fanno male, o che a un certo punto non sanno più che dire o che ripetono sempre le stesse cose, o che fanno animazione vocazionale mercantile.

 

Indicare un Altro

Cleopa e socio non s’accorgono che quel tipo strano che non sa nulla degli ultimi fatti accaduti a Gerusalemme è Gesù; così come la grande maggioranza dei nostri ragazzi non sa, non può immaginare che il Signore è al fianco d’ognuno per accompagnarlo lungo la vita. L’accompagnamento personale è segno di questo altro accompagnamento. Il primo messaggio della guida è proprio que­sto: indica la presenza d’un Altro. Chi accompagna non parla di sé, non conduce verso sé o verso interessi di parte, non fa animazione vocazionale mercantile… Il patrono degli animatori vocazionali è Giovanni Battista, “la voce” che annun­cia la venuta e la presenza d’un Altro, ma anche il tipo dal cuore libero che non appena vede all’orizzonte il Messia incoraggia i “suoi” a seguirlo, non li lega a sé, la sua gioia è che ognuno segua la propria strada. Ecco il vero accompa­gnatore vocazionale, colui che sa unire il massimo della provocazione, di fronte alla quale nessuno può restare indifferente, con il massimo della libertà inte­riore, che consente al giovane di fare la propria scelta in libertà…

 

La pedagogia del pozzo

Cambia lo scenario evangelico: da Emmaus alla Samaritana (Gv 4,6-42), per un inedito e sorprendente dialogo vocazionale. Soprattutto per il metodo finemente pedagogico usato da Gesù. Tutto da imparare.

Il Signore non aspetta che questa donna – persona ambigua, fuori del giro vocazionale, noi diremmo – vada da lui, ma le va lui incontro, la incrocia lungo le sue vie, o l’attende ove sa che lei verrà, condotta da un desiderio naturale, da un’abitudine quotidiana, ma che lui poi saprà trasfi­gurare. Qui c’è tutto il segreto della pedagogia vocazionale, o forse addirit­tura della pastorale cristiana: è la pedagogia o pastorale del pozzo. Il poz­zo era fonte di vita e condizione di sopravvivenza per la Palestina di allo­ra, sempre alle prese con la penuria d’acqua: Gesù sapeva che quella don­na prima o poi sarebbe capitata da quelle parti. E lì si fa trovare.

 

Uscire dal tempio e dalla logica attendista

Fare intelligente accompagnamento vocazionale vuol dire prima di tutto uscire – come già detto – dalla logica attendista, quella di chi sta ad attendere e basta, e s’accontenta di pregare e non muove un passo fuori del tempio verso il mondo, il mondo giovanile in particolare, e non si sforza di capirlo benevol­mente. Certo, alla radice il problema sta nel chiedersi se si amano veramente questi giovani o no, se si è interessati sinceramente a loro, se si ha stima di loro. Chi non ha questi sentimenti nei confronti dei giovani d’oggi, è cordialmente pregato di lasciar lì e fare qualcos’altro, ma che non si metta a fare l’animatore o l’accompagnatore vocazionale.

 

Identificare i “pozzi”

Secondo – fare intelligente accompagnamento vocazionale – significa iden­tificare con maggior precisione possibile “i pozzi” di oggi: quei luoghi e mo­menti, quelle provocazioni e attese, o situazioni ed eventi che il giovane in qualche modo considera fonte di vita o condizione di felicità e dove dunque è inevitabile incontrare giovani; luoghi dove prima o poi tutti i giovani devono passare con le loro anfore vuote, con i loro interrogativi inespressi e i sogni mal interpretati, coi loro desideri inibiti nella loro verità profonda, nell’obiettivo cui tendono, e manifestati solo nella parte superficiale ed esteriore, a volte an­che deviante, con la loro sufficienza ostentata e spesso solo apparente, con la loro voglia profonda e incancellabile di autenticità e di futuro, ma che spesso resta nascosta[17]. L’itinerario vocazionale passa di lì, perché lì c’è in ogni caso un seme vocazionale. Che non vuol dire, un po’ banalmente, che dobbiamo andare in discoteca e dintorni (o copiarla, o metterci in competizione con le agenzie del divertimento giovanile); i “pozzi” di cui parliamo sono a volte luo­ghi fisici, ma non solo e non necessariamente, bensì sono soprattutto luoghi psicologici, ovvero quei modi di sentire e vibrare del giovane che egli stesso non riesce a interpretare correttamente, ma che lo rendono ricercatore inquieto e nei quali l’intelligente animatore vocazionale impara a riconoscere e decifra­re un’attesa precisa di senso e di felicità; e allora quei luoghi fisici o psicologici diventano anche luoghi dello spirito, come per la Samaritana è divenuto il poz­zo al quale era andata ad attingere semplicemente acqua. Semmai, dunque, non è la discoteca questo punto di riferimento, ma il dopo-discoteca, o il dopo certe esperienze su cui aveva investito chissà quali attese. Perché quell’attesa in ulti­ma analisi va nel senso della ricerca di sé, della propria identità, della gioia, del senso dell’esistenza…, e dunque nasconde in modo più o meno implicito un significato vocazionale. Perché ogni domanda o attesa è sempre e comunque una domanda vocazionale. Non esiste domanda o ansia troppo piccola o insi­gnificante, da un punto di vista vocazionale. In ogni attesa dell’essere umano c’è un’implicita disponibilità vocazionale.

 

Far esplodere lo scarto

Oggi vi sono al riguardo delle esperienze molto interessanti di modalità d’approccio al mondo giovanile laddove il mondo giovanile va o si lascia trova­re, o dove cerca il divertimento e l’evasione, e magari lo sballo, in tempi più o meno canonici: è l’esperienza degli “educatori di strada”, delle “sentinelle del mattino”. Apprezzabile nella misura in cui indica proprio il tentativo e la capa­cità di intercettare i giovani e la loro naturale attesa di felicità laddove si fanno trovare, o nei luoghi ove questa felicità sembra offerta a tutti, magari in modo un po’ scontato, disponibile sul mercato come un volo low cost; purché ci sia poi il coraggio di porre a confronto o sottoporre a verifica questa ricerca e i suoi risultati, perché il giovane stesso sia provocato a confessare – in verità – quanto quell’attesa sia stata gratificata in modo pieno e definitivo. È apprezzabile, dunque, questa mo­dalità relativamente nuova d’approccio al mondo giovanile, nella misura in cui riesce a far emergere ed esplodere lo scarto tra ricerca di felicità e senso di pienezza effettiva e stabile, personale e profonda offerte da queste agenzie del cosiddetto tempo libero, dello svago o magari della trasgressione. Non si tratta – intendiamoci – di giocare sull’infelicità dei giovani o di approfittare della loro disperazione, attendendoli al varco delle loro esperienze fallimentari, ma di far loro comprendere il bisogno d’infinito che si portano dentro e l’assoluta sproporzione tra esso e il tipo di gratificazione offerto da certa (pseudo) cultura odierna giovanile, o la differenza tra felicità piena e divertimento fugace e alla fin fine squilibrante.

Ovvio che sarà necessario che l’accompagnatore vocazionale adotti un metodo induttivo – cosa per nulla semplice e scontata in un contesto pastorale ancora piuttosto deduttivista – ovvero che non parta dalle proprie posizioni o dalle sue domande, ma da quelle del giovane stesso, di qualsiasi tipo esse siano, leggendovi e aiutando l’altro a leggervi dentro una ricerca inestinguibile di senso, anche se velata, e d’un senso che inevitabilmente passa attraverso anche un coinvolgimento personale, dunque implicitamente vocazionale.

 

Quel pozzo che è la chiesa (o quelle radici invisibili…)

Terzo passaggio di questa geniale “pedagogia del pozzo”: occorre che i nostri ambienti diventino “pozzo”, che siano sperimentati come fonte di vita, di verità, luoghi di senso e di esperienza d’una felicità nuova e impensata. C’è un fenomeno oggi molto inquietante che qui possiamo solo menzionare veloce­mente: il fenomeno delle radici invisibili. I nostri ambienti di chiesa, ove a vario titolo forniamo un certo tipo di prestazioni, caritative, assistenziali, educativo-scolastiche o educative d’altro genere, ricreative… non sono certo deserti e non frequentati: la gente viene, di solito apprezza la prestazione offer­ta, ne trae vantaggio e la sfrutta, a volte ringrazia, più o meno commossa, e se ne va…, ma le ragioni per vivere e morire, per amare e soffrire, le va a cercare altrove. Questo è assurdo. Non può essere, perché vorrebbe dire che c’è qualco­sa in noi e in quel che facciamo che non lascia trasparire la radice che sta all’inizio, il motivo che spinge tutto quell’agire, e che potrebbe o dovrebbe di­ventare proposta di vita e di senso per i destinatari delle nostre prestazioni. Né possiamo giustificarci dicendo che ciò dipende dalla cultura di oggi, incapace di leggere i segni del Trascendente; sarà anche vero, ma in ogni caso questo c’interpella e c’inquieta, quanti operiamo nella pastorale, e interpella e inquieta il singolo presbitero, magari responsabile d’una comunità credente, e lo co­stringe a interrogarsi su cosa fare perché sia evidente quella radice e quel moti­vo; perché sia chiaro che alla base del nostro essere e operare c’è solo l’amore dell’Eterno, dell’Eterno chiamante. Non possiamo continuare a correr il rischio che si perda di vista proprio ciò che è essenziale, o che le parrocchie diventino soprattutto stazioni di servizio, le nostre chiese luoghi delle ricorrenze ufficiali; che i nostri oratori si riducano a esser ricreatori, o che noi siamo confusi con gli assessori all’assistenza pubblica o al divertimento o al welfare sociale…

 

Condividere e confessare la fede

Proprio per questo motivo l’accompagnatore vocazionale adotta un preciso stile comunicativo nel suo esser accanto per aiutare la crescita nella fede; stile che non è quello didattico o esortativo (che ha solo da insegnare o incoraggiare più o meno moralisticamente), e neppure solo quello amicale (che è sempre d’accordo su tutto) e neanche quello del direttore spirituale (che imprime una direzione alla vita dell’altro), ma è quello che si rifà al registro comunicativo della condivisione, o della confessio fidei. Fare accompagnamento vocazionale significa anzitutto condividere un certo cammino, nel senso più denso dell’espressione: condivide­re, cioè, da parte del fratello o sorella maggiore, il pane del cammino, il pane della fede, dell’esperienza di Dio, d’una certa spiritualità, della fatica della ricerca…, fino a condividere anche la propria vocazione, non per imporla, evidentemente, ma per confessare la bellezza d’una vita che si realizza secondo il progetto di Dio.

Chi fa accompagnamento vocazionale testimonia la propria scelta o, meglio, il proprio essere stato scelto da Dio, racconta – non necessariamente a parole – il suo cammino vocazionale e la sua scoperta continua del suo proprio volto e della sua identità nel carisma vocazionale, e dunque racconta anche o lascia capire la fatica, la novità, il rischio, la sorpresa, la bellezza… Ne viene una catechesi vocazionale da persona a persona, da cuore a cuore, ricca d’umanità e originalità, di passione e forza convincente, un’animazione vocazionale sapienziale ed esperienziale.

Si fa animazione vocazionale solo per contagio, per contatto diretto, perché il cuore è pieno e l’esperienza della bellezza continua ad avvincere: “I giovani sono molto interessati alla testimonianza di vita delle persone che sono già in un cammi­no spirituale. Sacerdoti e religiosi/e devono avere il coraggio di offrire segni con­creti nel loro cammino spirituale… Per questo è importante spendere tempo coi giovani, camminare al loro livello, laddove essi si trovano, ascoltarli e rispondere alle questioni che sorgono nell’incontro”[18]. Ma anche la ricerca di Garelli lo confer­ma come un dato attuale interessante: l’esempio (di persone che vivono bene la loro vocazione) sembra contare più del sostegno ricevuto, per cui chi ha conosciuto persone che hanno incarnato un modello di vocazione realizzata è anche più con­vinto dell’universalità della vocazione rispetto a chi è soltanto stato aiutato a capire le proprie aspirazioni e a chi invece non ha ricevuto né sostegno né esempi. Questo lascia intuire una cosa molto significativa: una concezione vocazionale della vita oggi si matura più in ambienti di interazione quotidiana o di frequentazione costante di esempi “vocazionali” che non grazie a una proposta o a momenti straordinari di “illuminazione”[19]. Che è quello che ripetiamo da tempo: oggi ciò che è decisivo è creare una cultura vocazionale ecclesiale.

 

Educare

Torniamo a Emmaus, e allo scambio di battute sempre più stringenti tra il misterioso compagno di viaggio e i due reduci disillusi e quasi depressi (cf Lc 24,17-29). Nella nostra pedagogia vocazionale siamo al terzo momento, all’educare, nel senso etimologico dell’e-ducere, del tirar fuori il mondo interiore del giovane, ciò che forse è nascosto anche a lui e che neppure lui sa di sé…

 

Educare alla conoscenza di sé

Nel brano di Luca l’educatore Gesù è molto abile nel provocare i due a “dirsi”, a confessare, non tanto a lui, quanto a se stessi, il motivo della loro delusione.

 

Dalle aspettative irrealistiche all’equivoco di fondo

È un metodo molto saggio per scoprire la propria verità, conoscere le pro­prie speranze o, meglio, le proprie aspettative irrealistiche. Viene fuori, infatti, nel racconto di Cleopa, come una litania: “Noi speravamo…”, che sta a dire tutte le false speranze riposte dal gruppo degli apostoli e discepoli in Gesù liberatore d’Israele dalla dominazione straniera. Speranze d’un messianismo falso, che alla fine fanno emergere quello che noi chiamiamo l’equivoco di fondo: quell’interpretazione della vita solo terrena e troppo centrata attorno all’io che ren­de difficile o addirittura impossibile la scelta vocazionale, che fa cogliere solo l’aspetto negativo della vocazione o fa sentire eccessive le esigenze della chia­mata, come se il progetto di Dio fosse nemico del bisogno di felicità dell’uomo…

Quanti giovani non hanno accolto l’appello vocazionale non perché ingenerosi e indifferenti, ma semplicemente perché non aiutati a conoscersi, a scoprire la radice ambivalente e pagana di certi schemi mentali e affettivi, e perché, poi, di conseguenza, neppure aiutati a liberarsi delle loro paure e dife­se, consce e inconsce. Quanti giovani, oggi, manifestano anche a causa di ciò un immediato rifiuto della consacrazione a Dio per i più vari e più o meno futili motivi (paura personale, vergogna di fronte agli altri, pressioni istintive, condizionamenti culturali…), e quante volte questo immediato rifiuto non è che una copertura di qualcosa di più profondo e di più vero, d’un interesse o d’una attrazione, addirittura, che però è impedita di emergere e che andrebbe scoperto e portato alla luce se non si vuole che abortisca. Come sarebbe sbagliato, ripe­tiamo allora, da parte dell’educatore vocazionale, rivolgere la sua attenzione solo a coloro che mostrano subito un certo interesse per la vocazione sacerdota­le o consacrata, e escludere quelli che mostrano altre prospettive o quelli che reagiscono immediatamente con un rifiuto!

 

Dalla sincerità alla verità

Educare significa anzitutto far emergere la realtà dell’io, così com’è, se si vuole poi portarlo a essere come deve essere: la sincerità (dire quel che si sente o si prova) è un passo fondamentale, ma non basta, occorre giungere alla verità (scoprire la radice di quel che si sente e si prova), ma per far questo è necessario in ogni caso un aiuto esterno per veder bene l’interno. L’educatore vocazionale, allora, deve conoscere mura e sotterranei del cuore umano per accompagnare il giovane in questo faticoso pellegrinaggio alle radici dell’io[20].

 

Dalla verità alla libertà

Quanto stiamo proponendo può far pensare a qualcosa di tecnico e compli­cato, ma in realtà non si tratta di possedere chissà quali competenze da parte del prete (se ci sono, meglio!), quanto di maturare dentro di sé certe convinzioni, che ovviamente possono venire solo da un cammino e da un’esperienza personale in tal senso, e dalle quali nasce una sensibilità pastorale corrispondente. La convinzione di base è che finché non si aiuta un giovane credente a far la verità dentro di sé non lo si aiuta né ad esser giovane che va incontro al suo futuro né ad esser credente che assapora la tipica libertà del credente, quella che nasce dalla verità (è la verità che rende liberi) e che si manifesta nella libertà di far le cose per amore.

La sensibilità corrispondente, nel pastore, sarà quella di concepire una pastorale, nelle sue diverse espressioni (dalla catechesi alla liturgia, dall’animazione della carità a quella della profezia e testimonianza), ma soprattutto nel rapporto personale con il singolo, come un servizio a questa verità che rende liberi, come un annuncio d’essa, come una provocazione costante a scoprirla, a lasciarsela dire da Dio e dalla sua Parola, come esperienza esaltante, anche se in certi casi è pure sofferta, perché solo da essa viene la libertà.

Questo è il punto nevralgico del rapporto educativo: far cogliere al giova­ne che solo la conoscenza autentica di sé lo può rendere libero, ovvero capace di determinare la propria vita, di orientarla responsabilmente secondo direzioni precise, o secondo ciò che ha in cuore e che ama veramente (=nella verità libe­rante). Il giovane è davvero aiutato a crescere quando è aiutato a capire o intu­isce che solo il cristianesimo, solo Gesù, gli consente di fare ciò che gli piace, di scegliere per sé ciò che gli sta a cuore. E allora, quando nel giovane scatta questa sensazione si fa non solo un servizio alla verità, ma anche alla sua voca­zione: si fa vera animazione vocazionale.

 

Educare a leggere (e scrivere) la vita

In fondo Gesù invita i due a ritornare alla vita, a quegli eventi che avevano causato la loro tristezza attraverso un sapiente metodo di lettura, capace non solo di ricomporre tra loro gli eventi attorno a un significato centrale, ma pure di decifrare nel tessuto misterioso dell’esistenza umana il filo rosso d’un pro­getto divino. È il metodo che potremmo chiamare genetico-storico, che – par­tendo dal presupposto che Dio abita nella vita di ciascun credente, e si manife­sta in essa in modo unico e irripetibile – fa cercare e trovare nella propria bio­grafia i passi e le tracce del passaggio di Dio, e dunque anche la sua voce che chiama. Ho parlato altrove di questo metodo che trovo molto utile nel cammino di educazione alla fede[21].

In estrema sintesi tale metodo:

– è assieme deduttivo e induttivo, o storico-biblico: parte infatti dalla verità rivelata e, assieme, dalla realtà storica personale, favorendo così il dialogo inin­terrotto tra vissuto soggettivo (i fatti citati dai due discepoli) e riferimento alla Parola (“E cominciando da Mosè e da tutti profeti spiegò loro in tutte le Scrittu­re ciò che si riferiva a lui”, Lc 24,27), scoprendo che il primo (il vissuto) è luogo ove si compie il secondo (la Parola) o dove si manifesta la volontà di Dio;

– mette insieme e fa interagire tra loro la memoria affettiva (che è il residuo emotivo ancor attivo dell’esperienze più significative della vita), e la memoria razionale (che è la memoria che organizza il vissuto e i fatti attorno a una verità capace di spiegarli, di darne una ragione o quanto meno un nesso logico) con la memoria biblica (che corrisponde al ricordo di quel che Dio ha fatto nella vita del credente), facendo sì che la memoria affettiva venga toccata e, se necessa­rio, “curata” dalla memoria biblica, e che la memoria razionale venga illumina­ta dalla memoria biblica, mentre sarà pure importante che la memoria biblica diventi anche affettiva, ricordo commosso e grato della misericordia del Signo­re (“Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi…?”, Lc 24,32);

– indica nella normatività della Parola e nella centralità del mistero pasquale del Cristo morto e risorto un preciso punto di riferimento e d’interpretazione agli eventi esistenziali, consentendo al soggetto di accogliere e raccogliere tutta la complessità della vita, senza rifiutare alcun avvenimento, ma dando senso a tutto, anche e soprattutto a quelli più difficili e dolorosi (“Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”, Lc 24,26);

– permette, infine, a lungo andare, di collegare i classici itinerari pastorali ec­clesiali (martyrìa, diakonìa, koinonìa, liturgìa[22]) con il proprio itinerario per­sonale biografico, o di cogliere nell’esperienza della partecipazione alla vita della comunità credente (scandita da momenti ed elementi eguali per tutti) an­che la propria modalità personale e soggettiva di vivere la fede, o il proprio dono e carisma, attraverso il quale poter contribuire alla crescita della fede di tutti, dunque la propria vocazione. In tal modo l’individuo è aiutato a cercare e trovare il progressivo svelarsi dell’appello vocazionale dentro la sua vita, dal primo giorno d’essa, nello snodarsi degli eventi, nella storia che Dio ha fatto con lui, in quella porzione di Chiesa e di mondo in cui la provvidenza l’ha inserito.

 

Tanto meglio se tutto ciò diventa oggetto non solo di riflessione e analisi, ma a un certo punto viene anche messo per iscritto. Lo scrivere il proprio cam­mino di fede e di ricerca vocazionale dà maggior precisione e rigore a entrambe, consente di veder meglio certi nessi e collegamenti tra i fatti della vita dietro i quali si può scorgere meglio un progetto, o una certa logica che va in una precisa direzione, provoca e consente di giungere a una qualche conclusione, rende tutto il discorso più convincente e lineare. Insomma questo esercizio può aiutare enormemente la propria ricerca vocazionale. La lettura-scrittura della vita diventa così operazione altamente spirituale, non solo psicologica, perché conduce a riconoscere in essa la presenza lumino­sa e misteriosa, evidente e pure nascosta, di Dio. E, all’interno di questo mistero, consente piano piano di scorgere il seme della vocazione, che lo stesso Padre­seminatore ha deposto nei solchi della vita. Quel seme, pur piccolo, ora comincia a esser visibile e a crescere; anzi, appare sempre più come quell’albero grande i cui rami s’estendono a tutta la vita…[23].

 

Educare a in-vocare: ogni vocazione nasce dalla invocazione

Se educare vuol dire e-vocare la verità dell’io, tale verità per il credente non può prescindere dall’in-vocazione orante; anzi, nasce in essa da una pre­ghiera vocazionale, che è più preghiera di fiducia che di domanda, e pure al tempo stesso preghiera come lotta e tensione, come “scavo” sofferto delle proprie ambizioni per accogliere attese, domande e desideri dell’Altro, il Padre che nel Figlio può dire a colui che cerca le parole della vita, la verità su di sé, la via da seguire.

Ma allora da un lato la preghiera non può che esser vocazionale, ogni preghiera; dall’altro lato essa diventa il luogo naturale del discernimento vocazionale, dell’educazione alla disponibilità all’ascolto del Dio che chiama, perché qualsiasi vocazione s’origina negli spazi d’una preghiera invocante, pa­ziente e testarda, ansiosa e fiduciosa, sorretta non dalla pretesa d’una risposta immediata, ma dalla certezza che quella preghiera va nella direzione giusta, o dalla speranza che quella invocazione non può non esser accolta e farà scoprire a suo tempo, a colui che invoca, la sua vocazione.

Nell’episodio di Emmaus tutto questo è espresso con una invocazione essenziale, forse la più bella preghiera mai pregata da cuore umano: “Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino” (Lc 24,29). È la supplica di chi sa che senza il Signore si fa subito notte nella vita, senza la sua parola c’è l’oscurità dell’incomprensione o della confusione d’identità; la vita appare sen­za senso e senza vocazione. È l’invocazione di chi ancora non ha scoperto, forse, la sua strada, ma intuisce che stando con lui ritrova se stesso, mentre lasciarlo sarebbe come lasciare se stesso. È interessante il fatto che sia stato Gesù stesso a suscitare nei due questa supplica, quasi facendo finta di andarse­ne (“come se dovesse andar più lontano”, così Lc 24,28), ma soprattutto con la spiegazione previa di quanto dicono le Scritture a suo riguardo. Gesù ha toccato il loro cuore, “tirando fuori” da esso, in qualche modo, una preghiera che egli stesso esaudirà; così come, in altro contesto, susciterà in Pietro quella stupenda formula, un po’ dichiarazione d’amore e di fede, un po’ contemplazione orante: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6,67-68).

Questo tipo di preghiera in-vocante non s’apprende spontaneamente, ma ha bisogno d’un lungo apprendistato; e non s’impara da soli, ma con l’aiuto di chi ha imparato ad ascoltare i silenzi di Dio; né chiunque può insegnare tale preghiera (o pregare per le vocazioni), ma solo chi è fedele alla sua vocazione. E allora, se la preghiera è la via naturale della ricerca vocazionale, oggi come ieri, e più di ieri, sono necessari educatori vocazionali che abbiano questo gusto della preghiera, che insegnino a pregare, che educhino alla in-vocazione[24]. D’altro canto oggi una delle cose più impressionanti del mondo giovanile, per chi lo conosce da vicino, è l’attrazione per la preghiera, e per la preghiera di adorazione. Laddove coraggiosi educatori l’hanno proposta c’è stata una risposta interessante. Normalmente secondo questa logica singolare: nella misura in cui il giovane è accompagnato in un cammino di crescita personale e provocato in qual­che modo a “discendere nei suoi inferi”, o a scoprire la propria verità, lì avviene anche una riscoperta della preghiera, o scatta il bisogno di mettersi dinanzi a Dio, perché sia lui a condurre questo cammino nella direzione giusta.

 

Formare

Siamo infine a quello che potrebbe essere il momento decisivo e conclusi­vo d’un accompagnamento personale: quello più tipicamente formativo, in cui la guida propone una forma, un modo d’essere, una regola, una precisa modali­tà esistenziale…, che porti a piena maturazione quella promessa di vita e attesa di verità che la persona si porta dentro. Formazione, infine, è quel momento centrale nel quale il giovane è provocato a scegliere la sua forma, il suo modo d’essere. È anche la fase finale dell’episodio di Emmaus, quella in cui i due alfine riconoscono Gesù, e in lui riconobbero anche la propria identità e missione. E questo ci fa comprendere la sostanza del concetto di formazione cristiana, che non è per niente imposizione, condizionamento più o meno larvato dell’altro, semplice obbedienza a una qualche autorità. No, la formazione cristiana consi­ste in una serie di “riconoscimenti”, così sembra dirci l’epilogo di Emmaus.

 

Riconoscimento del Maestro: via, verità e vita

Il momento decisivo dell’episodio di Emmaus è senz’altro quello in cui Gesù prende il pane, lo spezza e lo dà a ciascuno di loro: “allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero”. Inizia qui la serie di “riconoscimenti” di cui diceva­mo, collegati tra loro. Anzitutto i due riconoscono Gesù, ovvero scoprono la vera identità del viandante che s’è unito a loro, esattamente perché quel gesto lo poteva fare solo lui, l’avevano “visto” fare solo da lui (non solo nell’ultima cena, ma soprattutto poi sulla croce) e dunque non c’è alcun dubbio: quell’uomo è Gesù. In prospettiva vocazionale ciò indica un percorso pedagogico attento a due principi.

 

Chiedere il massimo

Il primo è l’importanza di porre in atto gesti forti, segnali inequivocabili, proposte alte, progetti di sequela totale[25] … Il giovane ha bisogno d’essere stimolato da ideali grandi, in vista di qualcosa che lo supera ed è al di sopra delle sue capacità, qualcosa che gli può anche provocare paura e incertezza, ma che in ogni caso rappresenta qualcosa per cui vale la pena di dare la propria vita. Ce lo ricorda, d’altro canto, anche l’analisi psicologica: chiedere a un giovane qualcosa che è al di sotto delle sue possibilità, significa offendere la sua dignità e impedire la sua piena realizzazione; detto in positivo, al giovane va proposto il massimo di quel che può dare perché sia e diventi se stesso.

Un formatore deve aver fatto superare all’adolescente l’idea ingannevole che quanto è a basso costo sia anche più gradevole, o ciò che non chiede sacrificio sia più conveniente. Freud stesso, che non era né un Padre della chiesa né un asceta rigoroso, riteneva che a lungo andare abituarsi allo schema tensione-gratificazione o, in parole semplici, gratificare regolarmente ogni ri­chiesta impulsiva, porta alla morte psichica, a thanatos, all’inedia, all’inerzia, alla noia, all’incapacità di godere, di godere persino della stessa gratificazione appena cercata. E fu profeta dei giovani d’oggi, della generazione attuale che non si diverte più, o che partecipa a questi divertimenti di massa che alla fine non divertono più, sono frustranti come un rito ossessivo che si ripete uguale (il sabato sera), vuoto e sempre più massificante.

Ecco perché diventa importante proporre ideali alti, anche costosi e impli­canti sacrificio. Lì per lì i ragazzi potranno anche rispondere negativamente, perché non sono abituati in tal senso (vedi la mancata educazione familiare), ma se il formatore insiste con intelligenza, soprattutto lasciando intravedere la bellezza che ne deriva per la vita e la persona, saranno loro stessi a sperimenta­re una gratificazione finalmente degna dell’uomo e vera, che riempie dentro e lascia un gusto nuovo in cuore; che non è apparente e banale, finta e ingannatri­ce.

 

La responsabilità per l’altro

L’altro principio pedagogico di fondamentale importanza in prospettiva vocazionale è quello della responsabilità, o della vocazione, potremmo dire, alla responsabilità. Infatti qui parliamo non di proposte opinabili, di valori cristiani ed esclusivamente cristiani, ma di quella grammatica che è ancor prima umana, “scritta” nel cuore d’ogni uomo, e ovviamente per noi credenti scritta dal Padre-Dio. Secondo tale grammatica ognuno è responsabile dell’altro e chiamato a esserlo sempre più; dunque non può pensare la propria vita e il proprio futuro al di fuori d’una logica di responsabilità. La crisi vocazionale è in buona parte legata al venir meno di questo senso di responsabilità reciproca. Avvertire il legame che lega l’uno all’altro apre inevitabilmente la vita alla prospettiva della chiamata, laddove nessuno può più immaginare e programmare l’esistenza in funzione prevalentemente di sé. La vocazione cristiana è vocazione alla respon­sabilità, al farsi carico dell’altro, al riconoscere che qualcun altro s’è preso cura di me e dunque ora è perfettamente naturale che io faccia altrettanto. Diventa, allora, strategico insistere su questo valore, farne un motivo portante della for­mazione vocazionale, o trasmettere al giovane l’idea che non sarà mai adulto, e adulto felice, se non apre la propria vita all’altro.

In concreto, dovrebbe esser normale in una parrocchia proporre abitual­mente ai giovani di dare il proprio tempo libero per gli altri, per i più deboli, provocare a fare volontariato, indicare la bellezza – non il dovere – di scelte altruiste e generose. Ripeto: dovrebbe essere normale, non straordinario. Torniamo alla locanda di Emmaus. Se Gesù viene riconosciuto “allo spez­zare del pane”, una certa dimensione eucaristica dovrebbe sottendere ogni cam­mino vocazionale: come “luogo” tipico della sollecitazione vocazionale, come mistero che dice il senso generale dell’esistenza umana (come vedremo più sotto) e l’obiettivo finale di qualsiasi PV che voglia essere cristiana, obiettivo che – se è eucaristico – è il più alto che si possa immaginare e il più carico di senso responsabile dell’altro. Diventa dunque molto importante il contatto con Gesù Maestro, l’unico che può dire la verità al giovane in ricerca e distoglierlo da quella interpretazio­ne della vita che finisce per esser piatta, vuota, insignificante, deresponsabilizzante e poco esigente, o semplicemente orientata verso un’autorealizzazione unicamente gestita dal soggetto secondo una misura riduttiva e comoda.

 

Vocazione come autorealizzazione

La ricerca di Garelli ci dice che è proprio questa l’interpretazione che i giovani d’oggi danno al concetto di vocazione. Se da un lato, più precisamente, questi nostri giovani mostrano un sorprendente interesse e un’inedita disponi­bilità vocazionale, d’altro canto questa generazione dei “giovani dalle braghe basse” ne riduce poi il senso in prospettiva molto autocentrata (in funzione della realizzazione delle proprie doti e capacità, come forma di autoespansione e di libera espressione di sé), vivendola più nella logica del sentirsi portati (soggettivamente), piuttosto che in quella del sentirsi chiamati (da un Altro)[26]. È un fenomeno pericoloso, poiché potrebbe svuotare di senso l’opzione vocazionale.

In tal senso verrebbe da dire – e occorre che ce lo diciamo molto esplicita­mente – che sì, c’è oggi crisi vocazionale, eccome…, c’è crisi, più precisamente, dell’idea di vocazione nelle sue componenti essenziali (e che un po’ ricalcano i “semi vocazionali” visti prima):

– chiamata che viene da un altro (visto che nessuno può autochiamarsi…);

– anzi da quell’Altro che è Dio, il Creatore, l’unico che può dirmi la verità sulla mia vita;

– chiamata che non necessariamente è su misura delle mie doti e capacità, anzi, di solito va ben oltre (è trascendente);

– né è in funzione della mia persona, sia sul piano della salvezza che su quello dell’autorealizzazione.

 

Riconoscimento della “grammatica eucaristica” della vita

Ma a questo punto, in un autentico processo di formazione alla scelta vocazionale, scatta un secondo “riconoscimento”, anche se questo è meno evidenziato – almeno all’apparenza – dal racconto biblico: è il riconoscimento-scoperta, dentro il segno eucaristico, del significato della vita. Se l’Eucaristia è sacrificio di Cristo che salva l’umanità e si prolunga nella vita di chi vi partecipa, se tale sacrificio è corpo spezzato e sangue versato per la salvezza dell’umanità, se significa rendimento di grazie per il dono ricevuto e offerto, anche la vita del credente è chiamata a modellarsi sulla stessa correla­zione di significati: anche la vita umana è bene ricevuto che tende, per natura sua, a divenire bene donato, come la vita del Verbo e del Figlio: gratitudine che si converte necessariamente in gratuità, coscienza del dono che fa scattare ine­vitabilmente la responsabilità per il dono stesso, nutrimento d’un corpo spezza­to e d’un sangue versato che a loro volta “spezzano” il corpo e “versano” il sangue di chi entra in comunione con quel corpo e quel sangue. È la verità della vita, o la grammatica “inscritta” in ogni vita e in ogni essere vivente, in qualsi­asi modo sia venuto all’esistenza e qualsiasi sia stato il suo passato.

Le conseguenze sul piano vocazionale sono evidenti. Se c’è un dono all’inizio della vita dell’uomo, un dono che lo costituisce nell’essere e gli dà un’identità corrispondente, allora il futuro ha la strada segnata: se è dono, quell’uomo sarà pienamente se stesso solo se si realizza nella prospettiva conse­guente del dono e sarà felice a condizione di rispettare questa sua natura; potrà fare la scelta che vuole, circa il suo domani, ma sempre nella logica del dono, altrimenti diventa un essere in contraddizione con se stesso, difforme, una real­tà mostruosa; sarà libero di decidere l’orientamento specifico, ma non sarà libero di pensarsi al di fuori della logica del dono.

Tutta la PV è costruita su questa catechesi elementare del significato della vita, che è catechesi profondamente eucaristica, e offre enormi vantaggi pratici. Essendo fondata su una verità elementare e universale è subito messaggio per tutti, che non esclude nessuno e provoca ognuno, non gli lascia via di scampo, consentendo di fare una PV davvero universale. Ancora, essendo fondata su una verità elementare, consente di legare la PV al cammino di crescita nella fede, e di aprire al tempo stesso a ogni possibilità di scelta in prospettiva cristiana. Da un lato la scelta qualsiasi, anche quella “laica”, è caricata d’un chiaro significato cristiano[27], dall’altro costituisce una forte provocazione a fare scelte coraggio­se, come espressione di questa logica naturale (e non in forza della generosità straordinaria di alcuni né dell’urgenza della situazione). Se passa questa verità antropologica, vogliamo dire, si può fare qualsiasi appello vocazionale. Allora anche la vocazione al ministero ordinato o alla con­sacrazione religiosa o secolare, con tutto il suo carico di mistero e mortificazione, diventa la piena realizzazione dell’umano e del dono che ogni uomo ha ed è nel più profondo di sé.

 

Vocazione come riconoscenza

Giocando un po’ sul termine potremmo allora dire che ogni cammino di ricerca vocazionale comporta una prima fase che è anzitutto contemplativa, ovvero nasce dalla scoperta o dalla constatazione della prima parte di quella frase che contiene la grammatica vocazionale della vita: “la vita è un dono ricevuto…”. Si fa efficace PV quando si accompagna una persona a rendersi conto della verità storica di quest’affermazione.

La vocazione, infatti, nasce dalla “riconoscenza”. Nasce sul terreno fe­condo della gratitudine, poiché la vocazione è risposta, non iniziativa del sin­golo; è essere scelti, non scegliere. E proprio a questo atteggiamento interiore di gratitudine dovrebbe portare la lettura (e scrittura) di tutta la vita passata. La scoperta d’aver ricevuto in modo immeritato ed eccedente, dovrebbe “costringere” psicologicamente il giovane a concepire l’offerta di sé nell’opzione vocazionale come una conse­guenza inevitabile, come un atto certamente libero, perché determinato alla fine dall’amore, ma in certo senso anche dovuto, poiché di fronte all’amore donato da Dio (e da tante mediazioni umane di Dio) egli sente di non poter fare a meno di donarsi. È bello e del tutto logico che sia così; di per sé non è cosa straordinaria, né v’è traccia di forzatura alcuna.

Di conseguenza la PV deve formare a questa logica della riconoscenza-gratitudine, molto più sana e convincente, sul piano umano, e più biblicamente e teologicamente fondata della cosiddetta “logica dell’eroe”, di colui che non ha abbastanza maturato la consapevolezza d’aver ricevuto e si sente lui stesso autore – con un certo artificioso sussiego – del dono e della scelta, quasi fosse più bravo degli altri. Tale logica, dubbia e sospetta, rischia poi d’esser contrad­dittoria e selettiva, o così debole d’aver pochissima presa sulla sensibilità giova­nile odierna, poiché trascura o non sottolinea sufficientemente quella verità fondamentale su cui è costruita la catechesi vocazionale: la vita è un bene rice­vuto che tende naturalmente a divenire bene donato.

È la sapienza evangelica del “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8)[28] che è, sì, rivolto da Gesù ai discepoli-annunciatori della sua parola, ma che dice la verità d’ogni essere umano; nessuno potrebbe dichiararsi non interpellato da questa logica. Da questa verità deriva quella forma che poi la vita è chiamata ad assumere, o è da questa figura unica della fede che nascono poi le diverse raffigurazioni vocazionali della fede stessa.

Ma che ribadiscono tutte il medesimo principio pedagogico, strettamente legato alla prospettiva biblica: la gratuità è tanto più generosa e totale quanto più il cuore ha scoperto la benevolenza ricevuta, la grazia che l’ha preceduto, il dono di Dio che l’ha riempito. È la logica del Magnificat e di tutti i chiamati nella storia sacra: creature coscienti d’essere state scelte e della assoluta sproporzio­ne tra il dono ricevuto e l’offerta di sé. Se nel modello antropologico attuale o nel sistema educativo odierno la gratitudine sembra quasi non esistere più come virtù o è divenuta semplice gesto convenzionale di galateo, è del tutto compren­sibile la crisi vocazionale.

 

Vocazione come riconoscimento dell’io

Gli occhi dei discepoli di Emmaus si aprono, come sappiamo, dinanzi al gesto eucaristico di Gesù che rende finalmente riconoscibile la sua persona. È a questo punto che Cleopa e socio percepiscono anche il senso di questa espe­rienza, del cammino fatto con lui, come un viaggio non solo verso il riconosci­mento di Gesù, ma anche verso il proprio riconoscimento: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spie­gava le Scritture?” (Lc 24,32).

Il senso di tale espressione (sembra quasi che l’abbiano pronunciate assie­me queste parole) è proprio questo: “arde” il cuore di chi si sente coinvolto, quasi “raccontato” dalle parole d’un altro, di chi avverte che quelle parole par­lano anche di lui, gli svelano il senso della sua storia, gli spiegano il perché delle sue depressioni, gli aprono dinanzi nuovi orizzonti, nuova vita…, non c’è semplicemente una certa commozione nei due pellegrini che ascoltano la spie­gazione del Maestro, ma la sensazione che la vita di lui, la sua Eucaristia, la sua Pasqua, il suo mistero, i suoi sentimenti… saranno sempre più la loro stessa vita, eucaristia, pasqua, mistero, sentimenti. Per una identificazione che porterà a compimento il progetto del Padre su ciascuno dei due: la sua chiamata.

In quel cuore che arde c’è la scoperta della vocazione, e la storia d’ogni vocazione, sempre legata ad una esperienza di Dio, a una conoscenza nuova di lui. Non tanto perché s’avvale di elementi inediti, ma fondamentalmente perché all’interno di tale esperienza di Dio l’individuo scopre anche se stesso e la sua propria identità, o scopre e capisce d’esser chiamato a rivivere in sé, identificandovisi, un particolare aspetto o mistero della vita di Cristo. Formare alla scelta vocazionale vuol dire mostrare sempre più il legame tra esperienza di Dio e scoperta dell’io, tra teofania e autoidentità, tra preghiera come contempla­zione del divino e preghiera come ricerca dell’io, poiché “il riconoscimento di lui come Signore della vita e della storia, comporta l’autoriconoscimento del discepolo”[29]. E quando l’atto di fede riesce a coniugare il “riconoscimento cristologico” con “l’autoriconoscimento antropologico” il seme della vocazione è già maturo, anzi, sta fiorendo…

 

Vocazione come conoscenza, esperienza, sapienza

Per giungere a questo obiettivo, e perché quest’obiettivo si concretizzi in una scelta reale occorre un certo percorso pedagogico, fatto non solo di solleci­tazioni spirituali e psicologiche, ma anche di fasi progressive di maturazione interiore generale. La scelta, in fondo, è segno d’un cammino di maturità. Di tale cammino vorrei ora indicare tre tappe che sono anche piuttosto classiche, ma non per questo scontate nei nostri contesti educativi: la conoscen­za, l’esperienza, la sapienza. Propongo qui solo alcuni spunti, che possano con­cretamente aiutare la fatica dell’accompagnamento personale[30].

 

Conoscenza

All’inizio è fondamentale la fase informativa, quella della conoscenza di base, della catechesi sulla vita e la sua verità, della “grammatica della vita” (la vita è un bene ricevuto che tende per natura sua a divenire bene donato), dell’idea di vocazione, dal punto di vista teologico e antropologico, delle nozioni fondamentali della psicologia della decisione… I nostri giovani, oggi, manca­no spesso di queste informazioni di base. Ma ciò che è davvero importante è che tutto ciò sia sempre più non solo informativo, ma formativo. Si fa molta catechesi dei sacramenti, dunque dei preadolescenti; si fa anche catechesi degli adulti, ma quella dei giovani è ancora debolissima, mentre la Cresima continua ad esser per troppi il punto terminale della formazione-informazione cristiana, una sorta di triste festa dell’addio (senza ritorno). Risultato: il livello deprimente di conoscenza religiosa tra la nostra gente, ma soprattutto, per quel che ci riguarda ora, l’abbandono della fascia adolescente-giovanile proprio nel momento vocazionalmente più strategico e fecondo, più deli­cato e da accompagnare, momento della scelta di vita e di certe decisioni esistenzia­li.

Non potrebbe essere la Cresima il momento di partenza d’una certa catechesi vocazionale? Non potrebbe essere proprio la vocazione il tema della Cresima per eccellenza e l’età della Cresima esser considerata l’età della vocazione[31]? Per un discorso da portare avanti poi? E non potrebbe la comunità cristiana parrocchia­le divenire l’ambito ove il singolo credente è provocato (e aiutato) a operare le proprie scelte, o quanto meno a iniziare a dare una direzione alla propria vita con decisioni corrispondenti, per quanto piccole all’apparenza, come dicevamo pri­ma: fare l’animatore, dedicare il proprio tempo libero a un certo tipo d’attività, fare vacanze alternative di lavoro o di ritiro spirituale, offrire la propria disponi­bilità, rinunciare a quella certa stupidità, cambiare tipo di compagnia, scegliersi una regola di vita… Io sono molto convinto che la grande maggioranza dei nostri giovani “non conoscono” nemmeno, non immaginano minimamente la bellezza, la libertà, la freschezza e la novità di vita… nascoste in queste realtà, che finalmente consentono al giovane di tirarsi fuori dalla massa che non sa più come divertirsi e va a imbesuirsi il cervello – pensa che originalità – in una discoteca fumosa e pasticcata. C’è come una disinformazione di base, poiché certi valori ed esperienze di vita, certe notizie belle, di normale positività non possono passare attraverso i normali canali mediatici… chissà perché!

Per questo è preziosa la testimonianza, la condivisione delle esperienze di vita da parte di chi ha fatto un certo percorso; per questo è intelligente “allarga­re la mente” dei nostri ragazzi, come piace dire a Papa Benedetto, portarli a conoscere realtà ove certi valori sono concretamente vissuti e la ricaduta di gioia e serenità è ben visibile in chi li vive (dai monasteri di clausura[32] ai vari luoghi di accoglienza del dolore umano…).

 

Esperienza

Tutti sappiamo che fine facciano le cose apprese teoricamente e solo con la testa: è fondamentale metter il ragazzo o il giovane in condizione di speri­mentare quel che gli si propone. Certo, è già un’esperienza quanto abbiamo or ora ricordato, ovvero provocare in concreto a fare delle scelte precise in termini implicitamente vocazionali. Ma ancor più opportuna ed efficace sarebbe la pos­sibilità di fare esperienze più coinvolgenti, che non sono solo quelle un po’ episodiche e saltuarie (tipo la GMG, o un pellegrinaggio, o un incontro partico­lare…), ma esperienze un po’ più stabili, preparate e mirate, individuali e anche di vita comune; esperienza, ad esempio, di lasciare per un po’ il proprio conte­sto abituale di vita, di farsi una regola di vita e seguirla, e per un certo tempo seguirla anche assieme ad altri, regolando la propria vita sull’ascolto della Pa­rola, con esperienze di condivisione dei beni materiali e spirituali…

Oggi vi sono diverse di queste esperienze in giro (una per tutti, il Punto giovane a Riccione) e ci risultano esser molto interessanti e di fatto formative, strutturate con molta libertà e secondo le esigenze contestuali (normalmente senza abbandonare i propri impegni normali di vita), ma proprio per questo sono da apprezzare e seguire con interesse, per quel che significano sia sul piano dell’esperienza di vita cristiana, sia sul piano della ricerca vocazionale.

 

Sapienza

Infine la sapienza, per la verità un po’ dimenticata. Si parla molto di espe­rienza e di esperienze, ma spesso sappiamo che lasciano il tempo che trovano e non cambiano nulla nella vita del giovane. È la classica lamentela che spesso s’è sentita in margine anche a certi megaraduni giovanili “cattolici” (tipo la GMG), da molti enfatizzati, ma da cui non è derivata una vera e propria maturazione di fede, o che è stata addirittura contraddetta da comportamenti che hanno del tutto ignorato il messaggio di fede celebrato in quei giorni a suon di Alleluia e evviva il Papa. È il problema contraddittorio di esperienze cristiane che non hanno avuto seguito nella vita della persona: esperienze che non sono diventate sapienza.

L’esperienza diventa sapienza di vita quando diventa qualcosa di stabile e definitivo, quando non è più solo la sensazione pur entusiasta d’un istante, ma quando determina un cambio di vita, un cambio di mentalità, un cambio di stile esistenziale, un cambio di coscienza e di sensibilità. Che vuol dire che il sogget­to, a partire da quel momento, vede le cose in maniera diversa, e non solo, ma gusta un’altra realtà e un altro tipo di sapori, o gli si è rovesciata completamente la precedente scala di valori e di gerarchie d’importanza (“quello che prima per me era un guadagno ora è diventato spazzatura”). È cambiata la testa, ma anche il cuore… Come una simpatia o un interesse (=conoscenza) che è diventata amore (=esperienza) e poi innamoramento (=sapienza). Allora il tipo è maturo per fare una scelta. E la deve fare per non rendere tutto ciò solo velleitario e astratto. E che sia scelta definitiva di vita.

Il formatore vocazionale dovrebbe spingere coraggiosamente in questa dire­zione. Solo allora lui stesso vivrebbe autenticamente la sua propria vocazione!

 

 

Note

[1] Nuove vocazioni per una nuova Europa, Roma 1998, 11 (D’ora in poi NVNE).

[2] V. ANDREOLI, Coscienza no limits. La logica del branco, in “Avvenire”, 15/X/02, p. 22.

[3] Cf BENEDETTO XVI, La persona umana, cuore della pace, Messaggio per la celebrazione della giornata mondiale della pace, 1/I/2007. Così il testo al paragrafo 3: “La trascendente “gram­matica”, vale a dire l’insieme di regole dell’agire individuale e del reciproco rapportarsi delle per­sone secondo giustizia e solidarietà, è iscritta nelle coscienze, nelle quali si rispecchia il progetto sapiente di Dio. Come recentemente ho voluto riaffermare, «noi crediamo che all’origine c’è il Verbo eterno, la Ragione e non l’Irrazionalità» [Omelia all’Islinger Feld di Regensburg, 12/IX/ 2006]. La pace è quindi anche un compito che impegna ciascuno ad una risposta personale coerente col piano divino. Il criterio cui deve ispirarsi tale risposta non può che essere il rispetto della “grammatica” scritta nel cuore dell’uomo dal divino suo Creatore”.

[4] Vedi in tal senso il movimento dei cosiddetti “disobbedienti”, il cui capo può contare cieca­mente sulla loro obbedienza.

[5] Forse sta a dire anche questo il proliferare di gruppi satanici, le cosiddette “bestie di Sata­na”?

[6] F. GARELLI (a cura di), Chiamati a scegliere. I giovani italiani di fronte alla vocazione, Cinisello B. 2006, pp.96-97.

[7] Ibidem.

[8] GARELLI, I giovani,p. 97.

[9] Cf ibidem.

[10] NVNE 35/a.

[11] NVNE 30.

[12] NVNE 32.

[13] NVNE 33/b.

[14] ivi.

[15] I confini sarebbero i luoghi che non si frequentano mai, insoliti per un annunciatore del Vangelo, e ove pure c’è una grazia all’opera e un piano di Dio da riconoscere e metter in movimen­to. Cf la famosa affermazione di Giovanni Paolo II: “Quando ero giovane sacerdote ho imparato che la parte migliore di una diocesi sono sempre i confini…” (M. SEMERARO, I piedi della Chiesa, “Lettera Pastorale alla Chiesa di Oria sulla centralità della parrocchia nell’azione pastorale”, Oria 2001, &7, pp.7-8).

[16] NVNE 33/c.

[17] Cf ibidem, 34/b.

[18] Proposizioni conclusive del Congresso Europeo sulle Vocazioni al Sacerdozio e alla Vita
Consacrata,
22. E ancora: “il sorgere dell’interesse per il Vangelo e per una vita dedicata radical­mente ad esso nella consacrazione, dipende in grande misura dalla testimonianza personale di sa­cerdoti e religiose/i felici della loro condizione. La maggioranza dei candidati alla vita consacrata ed al sacerdozio dice di attribuire la propria vocazione ad un incontro avuto con un sacerdote o consacrato/a” (ibidem 11).

[19] Cf GARELLI, Chiamati, pp. 78-79.

[20] Cf NVNE 35/a.

[21] Cf A. CENCINI, L’albero della vita. Verso un modello di formazione iniziale e permanente, Cinisello B. 2005, pp.193-231. IDEM, “Dio della mia vita”. Discernere l’azione di Dio nella storia personale, Milano 2006 (in stampa).

[22] Cf NVNE 27.

[23] Cf NVNE 35/c.

[24] Cf NVNE 35/d.

[25] Così la Proposizione 23: “È importante sottolineare che i giovani sono aperti alle sfide ed alle proposte forti (che siano «superiori alla media», che cioè abbiano qualcosa «in più»!)”.

[26] Cf GARELLI, Chiamati, pp. 51-57.

[27] Pensiamo, ad es, a certe scelte di vocazioni del tutto “laiche”, ma di cui avvertiamo oggi una terribile necessità, come la vocazione alla vita politica vissuta come scelta cristiana, e non come strada per far carriera e aver potere.

[28] Che ritorna sotto forma di provocazione nelle parole di Paolo nei confronti dei Corinzi: “Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?” (1 Cor 4,7).

[29] Instrumentum Laboris, n. 55.

[30] Seguo qui in sostanza la proposta pedagogica che ho fatto nel mio La verità della vita. Formazione continua della mente credente, Cinisello B. 2007 (in stampa).

[31] Cf NVNE 18/c.

[32] Vedi il grande successo suscitato dal film “Il grande silenzio”.