N.02
Marzo/Aprile 2007

La pastorale vocazionale è la vocazione della pastorale oggi

Vi confesso che sono stato tentato, fino all’ultimo istante, di iniziare questo mio intervento dando la parola a voi per sapere come avete reagito nel leggere il titolo di questa relazione: La pastorale vocazionale è la vocazione della pastorale. Per necessità di tempo questo non mi è possibi­le. Provo, allora, ad immaginare le vostre risposte: “un titolo intrigante”, “un artificioso gioco di parole”, “un’espressione che suscita curiosità”… e così di seguito. Ma credo che tutti si sarebbero, poi, affrettati ad aggiungere: “sì, un bel titolo, ma che cosa vuol dire?”.

Va subito precisato che non è un semplice gioco di parole né un escamotage; se così fosse, sarebbe un torto alla vostra intelligenza e una mancanza di respon­sabilità da parte degli organizzatori. È, al contrario, un’espressione densa di significato e fortemente provocatoria, che troviamo al n. 26 del documento europeo Nuove Vocazioni per una Nuova Europa, numero interamente dedicato alla «necessità di dare alla pastorale una chiara impronta vocazionale». Il docu­mento succitato spiega così la frase che fa da titolo a questo mio intervento: «In tal senso si può ben dire che si deve “vocazionalizzare” tutta la pastorale, o fare in modo che ogni espressione della pastorale manifesti in modo chiaro e inequivocabile un progetto o un dono di Dio fatto alla persona, e stimoli nella stessa una volontà di risposta e di coinvolgimento personale»[1].

A dire il vero, non è questa un’indicazione pastorale che si possa definire “nuova”. Più di dieci anni prima, nel 1985, nel Piano pastorale per le vocazioni della CEI era scritto: «la pastorale vocazionale non è qualcosa in più da fare, ma è l’anima stessa di tutta l’opera evangelizzatrice della comunità cristiana»[2]. Ma ciò che ho trovato più sorprendente è leggere la stessa proposta in un “Di­scorso sulla pastorale delle vocazioni”, tenuto dal cardinale Lercaro ai sacer­doti della diocesi di Bologna, nel corso della giornata sacerdotale del Congres­so Eucaristico, il 18 settembre 1967. «Si tratta – affermava il Cardinale – di dare una dimensione vocazionale alla pastorale diocesana: non si tratta di crea­re nuove strutture, ma di adottare concreti provvedimenti perché, nelle strutture esistenti, l’azione pastorale sia ispiratrice ed educatrice di vocazioni e non ci si fermi ad un problema di reclutamento o di seminario, anche se si è ben lontani dal sottovalutare questo problema. Così la dimensione vocazionale della pasto­rale sarà particolarmente presente nei tempi forti delle parrocchie (associazio­ni, ritiri, catechismo) e in tutte le varie iniziative di formazione cristiana. Di­cendo “dimensione vocazionale”, intendiamo interesse a formare anime dili­genti e premurose a rispondere al Signore; intendiamo anche capacità della comunità cristiana di donare a sé e a tutta la Chiesa quelle vocazioni di cui la Chiesa ha bisogno. E notiamo infine che, se da una parte bisogna evitare gli eccessi della propaganda, bisogna pure evitare anche l’altro eccesso (oggi fre­quente) di attendere passivi il lavoro della Grazia»[3].

Se allora non è la novità ad aver spinto il CNV a rilanciare questa proposta pastorale, ci chiediamo: perché si avverte oggi la necessità che la pastorale abbia una chiara impronta vocazionale? E, ancora, come far sì che la pasto­rale abbia una chiara impronta vocazionale? Cercherò di rispondere a queste due domande, dividendo, così, il mio inter­vento in due parti, non senza aver prima fatto un’ultima considerazione.

La mia relazione, per essere fedele al tema affidatomi, deve necessariamente assumere un taglio ecclesiologico-pastorale. Sarebbe, però, un grave errore pen­sare che questa sia l’unica dimensione della vocazione: essa si intreccia in modo indissolubile con altre due: quella teologica e quella antropologica. In questo intreccio tra cristologia, antropologia ed ecclesiologia si snoda il percorso sulla vocazione. Una corretta visione della vocazione dovrà, pertanto, armonizzare le tre dimensioni.

 

Perché si avverte oggi la necessità che la pastorale abbia una forte impronta vocazionale?

Nel rispondere vorrei evitare di evidenziare unicamente quelle che sono le lacune della pastorale ordinaria su questo aspetto o le resistenze dei giovani nell’accogliere la vocazione, come se la pastorale vocazionale, e noi animatori vocazionali in particolare, fossimo esenti da ogni responsabilità. Né mi limite­rò a riproporre i punti di non ritorno della pastorale vocazionale, così come il Magistero e l’esperienza accumulata in questi anni ce li indicano, ma voglio proporvi anche alcuni interrogativi, sollecitando una sorta di verifica circa la nostra azione pastorale. Si tratta solo di qualche provocazione che ci possa permettere, ritornando nelle nostre diocesi, di riprendere il cammino con rinno­vato e generoso impegno. Del resto, credo che ogni progettazione che si rispetti non possa prescindere dal fare delle verifiche. È stata fatta dalle Chiese che sono in Italia con il recente Convegno ecclesiale di Verona ad appena cinque anni dalla presentazione degli Orientamenti pastorali per questo decennio; e non vedo perché non dovremmo farla anche noi, impegnati nella pastorale vocazionale. È vero che, più che in altri settori, nella pastorale vocazionale assistiamo ad un vorticoso turn over; è anche vero che questo non ci esime dal chiederci se nelle nostre diocesi e nelle parrocchie la pastorale vocazionale è realmente la vocazione della pastorale e, se così non fosse o non lo fosse piena­mente, cosa possiamo fare perché lo diventi. È quanto ci proponeva con forza il documento europeo: «è ora, infine, che si passi decisamente dalla “patologia della stanchezza” e della rassegnazione, che si giustifica attribuendo all’attuale generazione giovanile la causa unica della crisi vocazionale, al coraggio di por­si gl’interrogativi giusti, per capire gli eventuali errori e inadempienze, per ar­rivare a un nuovo slancio creativo fervido di testimonianza»[4].

E veniamo alla nostra domanda: perché si avverte oggi la necessità che la pastorale abbia una chiara impronta vocazionale? O, se si preferisce essere fedeli al titolo della relazione, perché la pastorale vocazionale è la vocazione della pastorale?  Nel rispondere, vorrei attirare la vostra attenzione su due ragioni: una ec­clesiale e l’altra socio-culturale.

 

La pastorale vocazionale e la vita delle comunità ecclesiali

Innanzitutto perché, nonostante il grande impegno profuso e il cammino fatto in questi anni, si avverte ancora forte il bisogno di ribadire che la dimensio­ne vocazionale, nella vita delle nostre comunità cristiane, non può essere relega­ta ad alcuni momenti, sia pur significativi, della sua vita (ordinazioni presbiterali, professioni religiose, anniversari di sacerdozio…) o ad alcuni appuntamenti annuali (GMPV, Giornata del Seminario, Giornata Missionaria …); né tanto meno può essere circoscritta ad alcuni ambienti privilegiati: il Seminario o gli Istituti di vita consacrata. Essa deve animare tutta la vita delle nostre comunità, come chiedeva il documento europeo: è necessario «portare la pastorale vocazionale nel vivo delle comunità cristiane parrocchiali, là dove la gente vive e dove i giovani in particolare sono coinvolti più o meno significativamente in un’esperienza di fede. Si tratta di far uscire la pastorale vocazionale dalla cer­chia degli addetti ai lavori per raggiungere i solchi periferici della Chiesa particolare»[5]. E questo non perché siamo assillati dalla paura del calo numerico delle vocazioni al ministero ordinato e alla vita consacrata – anche se tutto ciò non può in alcun modo lasciarci indifferenti, come non è vissuto senza soffe­renza dai vescovi e dalle nostre comunità ecclesiali – ma soprattutto perché «la pastorale vocazionale è connaturale ed essenziale alla vita della Chiesa e la ragione sta nel fatto che la vocazione definisce, in un certo senso, l’essere pro­fondo della Chiesa, prima ancora che il suo operare. Nel medesimo nome della Chiesa, Ecclesia, è indicata la sua intima fisionomia vocazionale, perché essa è veramente “convocazione”, assemblea dei chiamati: “Dio ha convocato l’assemblea di coloro che guardano nella fede a Gesù, autore della salvezza e prin­cipio di unità e di pace, e ne ha costituito la Chiesa, perché sia per tutti e per i singoli il sacramento visibile di questa unità salvifica”»[6]. È quanto ci fa cantare con stupore e gratitudine la liturgia: «con il sangue del tuo Figlio e la potenza dello Spirito tu hai ricostituito l’unità della famiglia umana disgregata dal pec­cato, perché il tuo popolo radunato nel vincolo di amore della Trinità a lode e gloria della multiforme sapienza formi la Chiesa, corpo del Cristo e tempio vivo dello Spirito»[7]. Ed è quanto ha affermato mons. Monari nella sua omelia: con Gesù il peccato è “crepato”, non è più invincibile. Non solo: egli ci dona il suo Santo Spirito, perché possiamo anche noi vincere la logica del peccato e vivere in Cristo da figli, facendo sempre più spazio nella nostra vita all’avvento del Regno, cioè alla signoria di Cristo. Lì dove si vive in pienezza “immersi” nello Spirito, il peccato è vinto e il mondo ritorna ad essere bello, di quella bellezza con cui l’aveva avvolto la mano del Creatore: ecco la bella notizia! Ecco la bella notizia che ciascuno di noi è chiamato a diventare; ecco in cosa consiste la pastorale vocazionale: annunciare che è possibile liberarsi dalle maglie dell’egoismo, della felicità a buon mercato, e fare propria la logica evangelica, lasciandosi coinvolgere fino in fondo, fino al dono totale di sé.

 

Una comunità attenta a tutte le vocazioni

Una Chiesa povera di vocazioni non è semplicemente una Chiesa meno organizzata o meno efficace nelle sue attività: è soprattutto una Chiesa resa più debole nel testimoniare la vittoria di Cristo sul peccato. Come affermava Yves Congar, ciò che è radicato nella vocazione battesimale, ed è pertanto comune a tutti i battezzati, è messo in risalto nelle vocazioni specifiche, perché non scada nella mediocrità la qualità della vita cristiana. Per esempio, il missionario che parte e va in terre straniere per annunciare il Vangelo, ricorda a tutti i battezzati che anche loro sono chiamati ad essere missionari, a testimoniare, cioè, la loro fede in Gesù Cristo con le parole e con le azioni, in ogni ambiente di vita. Ora, a meno che una vocazione pensi di esaurire l’intera ricchezza del mistero di Cristo, ogni vocazione ha bisogno dell’altra, perché tutti rinviano all’unico Si­gnore e alla possibilità di accoglierlo nello spazio della propria libertà. Di qui l’importanza di una corale promozione di ogni vocazione, di tutte le vocazioni. «Una comunità cristiana non la si organizza, ma la si genera nell’accoglienza dei diversi doni e carismi che lo Spirito suscita in essa»[8]. È necessario, pertan­to, guardare alle comunità cristiane – in linea con il tema della prossima GMPV – come “sinfonia delle vocazioni”. Ma a nessuno sfugge che non ci sarà mai sinfonia, se tutti vorranno essere soltanto il solista o il primo violino.

Tutto ciò esige da coloro che guidano la comunità che abbiano una viva coscienza ecclesiologica dell’importanza essenziale della pluralità delle vocazio­ni e dell’attenzione ad esse. Non bisogna attendere che ciò sia imposto dalla necessità. Una comunità cristiana fisiologicamente sana deve prevedere una cura sinfonica delle vocazioni, deve rappresentarle il più possibile nel momento sacramentale e liturgico, deve fare spazio ad una pluralità di figure vocazionali nel servizio fraterno e nella dedizione della carità. Pertanto, il superamento del clericalismo (di quella concezione, cioè, che concentra nel ministero ordinato tutte le funzioni ecclesiali, o al massimo le delega) è questione di vita o di morte per le vocazioni. «Si profila al nostro orizzonte un tempo dove la Chiesa o sarà la comunità dei molti carismi, servizi e missioni, o non esisterà semplicemente. Dico questo non solo in riferimento al problema urgente e, in alcune regioni d’Italia, drammatico della scarsità del clero e dell’aumento della sua età media. Questa sarebbe ancora una visione funzionale dei carismi e del compito dei laici nella Chiesa e nel mondo. Non bisogna pensare alla testimonianza di tutti come il surrogato a buon prezzo della carenza di ministri del Vangelo. È il Vangelo stesso che esige un annuncio nella corale diversità e complementarità di carismi e mis­sioni. Mi immagino la ricaduta pastorale di questa rinnovata coscienza comunionale della testimonianza»[9].

 

Valorizzare la dimensione vocazionale nella pastorale ordinaria

Siamo tutti consapevoli che «il discorso vale in doppio senso: è la pastora­le ordinaria che deve confluire nell’animazione vocazionale per favorire l’opzione vocazionale; ma è la pastorale vocazionale che deve a sua volta restare aperta alle altre dimensioni, inserendosi e cercando sbocchi in quelle direzioni»[10]. Per questo ci chiediamo: quante delle attività dei CDV sono a servizio di una pasto­rale ordinaria per renderla sempre più attenta alla dimensione vocazionale nell’evangelizzazione, nella catechesi, nella liturgia, nella testimonianza della carità e quante, al contrario, risultano essere ancora iniziative sporadiche e sle­gate tra loro, poco o per nulla inserite nel cammino pastorale della diocesi, finalizzate più a gridare la sopravvivenza del CDV che a sostenere le comunità cristiane nel loro compito di essere grembo fecondo per tutte le vocazioni? Sappiamo bene che «la catechesi illumina le molteplici situazioni della vita, preparando ciascuno a scoprire e a vivere la sua vocazione cristiana nel mondo»[11]; ebbene, per aiutare i catechisti a cogliere la dimensione vocazionale che attraversa tutta la catechesi non dovremmo metterci a loro disposizione e aiu­tarli a diventare, come sono chiamati ad essere, “animatori vocazionali”? Per realizzare tutto ciò è necessario che il CDV, con il coinvolgimento di tutti gli animatori vocazionali che ne fanno parte e in collaborazione con l’Ufficio ca­techistico, incontrino i catechisti nelle loro parrocchie per sostenerli in questo loro compito. E ancora, se ci soffermiamo sul dinamismo vocazionale presente nella liturgia e in modo particolare nella celebrazione eucaristica domenicale, su cui peraltro abbiamo a lungo riflettuto nel 2005, possiamo affermare che esso è tenuto presente e valorizzato all’interno delle nostre comunità? Se è vero che «l’Eucaristia ci attira nell’atto oblativo di Gesù [… e] veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione»[12] e, per dirla con le parole di S. Leone Magno, «l’Eucaristia non mira ad altro che a renderci conformi a colui che riceviamo», ebbene cosa facciamo, come animatori vocazionali, perché questo dinamismo attraversi sempre più non solo le celebrazioni delle nostre comuni­tà, ma la stessa sua vita e quella di ogni battezzato? Possiamo limitarci ad orga­nizzare qualche incontro di preghiera o qualche celebrazione e per questo sen­tirci soddisfatti? O non dovremmo piuttosto spenderci con maggiore impegno collaborando con l’Ufficio liturgico diocesano nei corsi di formazione per gli animatori della liturgia? E che dire delle grandi provocazioni vocazionali che la preparazione al Battesimo del loro figlio può suscitare nei genitori o gli itinera­ri di preparazione al Matrimonio nei fidanzati? E perché non accompagnare i ragazzi o i giovani, in una sorta di mistagogia, nella riscoperta del Battesimo celebrato, per aiutarli a riappropriarsi della loro fede e vivere con fedeltà nella sequela di Cristo? L’elenco sarebbe interminabile. Mi fermo qui; ma va da sé che questo stile di collaborazione lo si deve realizzare con tutti gli organismi di pastorale, se vogliamo che la pastorale ordinaria abbia una chiara impronta vocazionale. Ci rendiamo conto, però, che se dovessimo prendere sul serio tut­to questo, la pastorale vocazionale sarebbe chiamata ad un’autentica conver­sione: essere meno autoreferenziale e sempre più ecclesiale, aperta alla ric­chezza del dono che viene da Dio e non legata a una lettura riduttiva e interes­sata d’esso, sempre più in dialogo con un mondo che cambia e sempre meno rigida e chiusa in se stessa. Solo una pastorale convertita in tale direzione sarà capace di entrare in collaborazione con altri agenti ecclesiali o con altri uffici pastorali.

 

La pastorale vocazionale nell’attuale situazione socio-culturale

Proprio l’attenzione al mondo che cambia, come ci chiedono gli Orienta­menti pastorali della CEI per questo decennio, ci fa prendere coscienza di tro­varci dinanzi ad un uomo che il documento europeo non teme di definire “sen­za vocazione”, perché, come afferma il professor Garelli, “senza religione”. Proviamo a rileggere la descrizione che ne fa il succitato documento: resteremo ammirati per la sua grande attualità.

«Una cultura pluralista e complessa tende a generare dei giovani con un’identità incompiuta e debole con la conseguente indecisione cronica di fronte alla scelta vocazionale. Molti giovani non hanno neppure la “grammatica ele­mentare” dell’esistenza, sono dei nomadi: circolano senza fermarsi a livello geografico, affettivo, culturale, religioso, essi “tentano”! In mezzo alla grande quantità e diversità delle informazioni, ma con povertà di formazione, appaio­no dispersi, con poche referenze e pochi referenti. Per questo hanno paura del loro avvenire, hanno ansia davanti ad impegni definitivi e si interrogano circa il loro essere. Se da una parte cercano autonomia e indipendenza ad ogni costo, dall’altra, come rifugio, tendono ad essere molto dipendenti dall’ambiente socio-culturale ed a cercare la gratificazione immediata dei sensi: di ciò che “mi va”, di ciò che “mi fa sentire bene” in un mondo affettivo fatto su misura»[13]. Cosa fare? Lamentarci o rimboccarci le maniche e lavorare per promuovere una cultura vocazionale, così come chiedeva Giovanni Paolo II nel suo Messag­gio per la GMPV del 1993? Ricordiamo tutti quella sua espressione: «Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta»[14].

 

Come far sì che la pastorale abbia una forte impronta vocazionale?

Siamo spinti a dare una risposta a questa domanda dalla consapevolezza di trovarci dinanzi a tanti giovani che manifestano il loro profondo disorientamento esistenziale, facendo proprie le parole di Vasco Rossi: «Voglio trovare un senso a questa sera / anche se questa sera un senso non ce l’ha. / Voglio trovare un senso a questa vita / anche se questa vita un senso non ce l’ha. / Voglio trovare un senso a questa storia / anche se questa storia un senso non ce l’ha». È necessario gridare con tutte le nostre forze che la vita ha un senso e a ciascuno è affidato un compito affascinante e impegnativo nello stesso tempo. Se la vita non avesse senso, allora non ci sarebbe via d’uscita: o sprofondare nella de­pressione oppure cercare di evadere senza sapere dove andare, pur di non esse­re lì dove ci si trova a vivere. È quanto afferma uno dei capostipiti dei poeti “on the road”, della beat generation, Jack Kerouac: «dobbiamo andare e non fer­marci finché non siamo arrivati. Dove andiamo? Non lo so, ma dobbiamo an­dare». Ma non si può vivere a lungo così. Prima o poi si leverà dall’animo di tanti giovani la stessa domanda che Jovanotti si pone in una sua canzone: «vo­glio andare a casa; ma la casa dov’è?».

Un’antica leggenda popolare indiana narra che un giorno una piccola ca­pra si lasciò «sedurre dalla scoperta di un misterioso profumo, insieme vicino e lontano. Da allora la vita del giovane animale divenne un errare incessante e ansioso, ma senza che riuscisse mai a trovare la sorgente da dove emanava lo strano e delizioso profumo. L’ultimo capitolo della sua esistenza fu purtroppo, una tragedia: sempre più affascinata da un’attrattiva segreta, la piccola capra finì per cadere in un precipizio cercando il suo tesoro. Ed è allora che, nel corpo aperto dalla caduta, apparve un sacchetto strappato che spandeva il suo aroma in questo luogo di morte»[15].

Quanti giovani si portano nel cuore questo desiderio di pienezza di vita e di gioia, che loro malgrado resta insoddisfatto; a volte anche tra i nostri giova­ni, anche tra quelli più impegnati, coinvolti troppo presto nel lavoro pastorale e poco aiutati a crescere. Oggi, più che mai, le comunità cristiane non solo con le parole, ma soprattutto con la testimonianza della loro vita, sono chiamate a dire ai giovani: «È Gesù che cercate quando sognate la felicità; è lui che vi aspetta quando niente vi soddisfa di quello che trovate; è lui la bellezza che tanto vi attrae; è lui che vi provoca con quella sete di radicalità che non vi permette di adattarvi al compromesso; è lui che vi spinge a deporre le maschere che rendono falsa la vita; è lui che vi legge nel cuore le decisioni più vere che gli altri vorreb­bero soffocare. È Gesù che suscita in voi il desiderio di fare della vostra vita qualcosa di grande …»[16].

 

Andare al cuore della fede

Ecco, allora, il primo passo da compiere per rendere vocazionali gli itinerari alla fede delle nostre comunità cristiane: fare un esercizio di essenzialità, perché non accada che per inseguire tutto, cedendo alla non rara tentazione di onnipotenza, ci si lasci sfuggire l’essenziale: l’incontro con il Cristo. Non dimentichiamolo: «è nel mistero del Verbo incarnato, che trova piena luce il mistero dell’uomo. Giacché Gesù Cristo, rivelando l’amore del Padre, rivela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa conoscere la sua altissima vocazione»[17].

Questo è ciò che hanno chiesto i vescovi italiani nella Nota pastorale Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, dove, come in una sorta di inclusione, all’inizio scrivono: «C’è bisogno di una vera e propria “con­versione”, che riguarda l’insieme della pastorale. La missionarietà, infatti, deriva dallo sguardo rivolto al centro della fede, cioè all’evento di Gesù Cristo, il Salvatore di tutti, e abbraccia l’intera esistenza cristiana. Dalla liturgia alla ca­rità, dalla catechesi alla testimonianza della vita, tutto nella Chiesa deve rende­re visibile e riconoscibile Cristo Signore»[18]; e, nella conclusione, affermano: «Occorre tornare all’essenzialità della fede, per cui chi incontra la parrocchia deve poter incontrare Cristo, senza troppe glosse e adattamenti»[19]. Non possia­mo, infatti, dare per scontato che tutti, anche tra coloro che frequentano le no­stre comunità, conoscano il Cristo e si lascino coinvolgere con tutta la loro vita nella sua sequela.

 

Un incontro che “converte” la vita

Sì, quando si è incontrato realmente il Cristo, la vita viene trasformata e, come è avvenuto per S. Agostino, appare tempo perso quello vissuto lontano da lui: «Tardi ti amai, Bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai! Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai ed ora anelo verso di te; ti gustai ed ora ho fame e sete di te; mi toccasti, ed ora ardo del desiderio della tua pace»[20].

Nessuna meraviglia, allora, se la storia ci consegna alcune testimonianze di persone nella cui vita la vocazione è coincisa con la loro conversione. Faccio solo qualche esempio. Charles de Foucauld: «Non appena credetti che c’era un Dio, compresi che non potevo fare altro che vivere per lui: la mia vocazione religiosa risale alla stessa ora della mia fede. Dio è così grande!». Non è un caso isolato. Madeleine Delbrêl perse la fede a quindici anni e a ventinove ebbe una “conversione violenta”: “abbagliata da Dio” pensò quasi subito di entrare nel Carmelo; finirà col dar vita ad una originale forma di vita consacrata nel cuore della “città marxista, terra di missione”. Edith Stein: di famiglia ebraica, ma di fatto indifferente sul piano religioso, approdò alla fede cattolica all’età di 30 anni; dodici anni dopo, quando decise di diventare carmelitana, confessò che vi stava pensando fin dal giorno della sua conversione. Agostino Gemelli: nacque e crebbe in un ambiente ateo e positivista; la lenta e complessa conversione sfociò in maniera improvvisa e inattesa nella decisione di entrare nell’Ordine francescano. Lorenzo Milani: nacque in una famiglia agnostica sul piano reli­gioso; la sua conversione fu graduale, ma sbocciò improvvisamente a 20 anni; pochi mesi dopo entrava nel Seminario di Firenze.

Se la scelta vocazionale suscita nei giovani timore, perché si sentono espropriati da Dio, o provoca paura per il futuro incerto, vuol dire che si è ancora ripiegati su se stessi e ci si ritiene incapaci di scelte coraggiose. Se, al contrario, si è realmente incontrato il Cristo, allora la scelta vocazionale, anche di speciale consacrazione, appare come l’unica risposta possibile da dare a colui dal quale sentiamo di essere amati di amore eterno. Si muove su questa linea mons. Tonino Bello: «Vocazione. È la parola che dovresti amare di più, perché è il segno di quanto sei importante agli occhi di Dio. È l’indice di gradimento, presso di lui, della tua fragile vita. Sì, perché se ti chiama vuol dire che ti ama. Gli stai a cuore, non c’è dubbio. In una turba sterminata di gente, risuona un nome: il tuo. Stupore generale! A te non ci aveva pensato nessuno. Lui sì! Davanti ai micro­foni della storia, ti affida un compito su misura…per lui! Sì, per lui, non per te. Più che una “missione” sembra una “scommessa”. Ha scritto “t’amo” sulla roc­cia non sulla sabbia, come nelle vecchie canzoni. E accanto ci ha messo il tuo nome. Forse l’ha sognato di notte, nella tua notte. Alleluia! Puoi dire a tutti: non si è vergognato di me!».

La pastorale vocazionale deve aiutare la pastorale ordinaria a “ripartire da Cristo”, a ritornare al centro vivo e vitale da cui sgorga l’appello irresistibile alla chiamata, in una rinnovata scoperta del mistero di Gesù, di colui che è il Signore della vocazione, e in lui dell’insondabile mistero di Dio. L’affievolirsi del senso di Dio o, ancora meglio, l’evanescenza del suo significato per l’esistenza concreta, rendono sempre più improbabile la possibilità che ad esso si dedichi l’intera esistenza. «La visione della vita come vocazione presuppone una precisa concezione del rapporto tra Dio e l’uomo: concezione che esclude le due idee contrapposte della vita come destino e della vita come caso. Non si può parlare della vita come vocazione se non si prendono le distanze da queste due concezioni della vita che si sono purtroppo sempre più diffuse anche in Italia»[21]. A questo proposito, Benedetto XVI nella sua Enciclica scrive: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, ben­sì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva»[22].

Nella predicazione, nella catechesi, nella celebrazione, nella preghiera, nella carità, nella missione, le comunità cristiane devono mostrare nelle fibre stesse del loro esistere, nel ritmo dei loro giorni, nella sensibilità con cui accostano le persone, che sono segno, e segno reale, dell’incontro con il Signore Gesù – e che, come scriveva Vladimir Soloviev: “ciò che sta più a cuore ai cristiani è Cristo” – e introdurre alla relazione con lui. Questo è il loro fine, questa la voca­zione della pastorale, ieri, oggi e sempre: far incontrare stabilmente la libertà di ogni uomo e donna con il Vangelo di Gesù, con il mistero della sua Pasqua e accompagnarli nell’autentico discepolato di Cristo, nella fedeltà alla propria vo­cazione. Far incontrare significa introdurre in una relazione vitale che accende la mente e il cuore, perché si è trovato il tesoro nascosto e la perla preziosa.

 

Pastorale vocazionale e pastorale giovanile

Le diverse esperienze – alle quali abbiamo accennato poco prima – di colo­ro che pur apparivano così lontani eppure con cammini differenti si sono incon­trati con Cristo e gli hanno consacrato la vita, ci fanno dire con forza che nessu­no può essere escluso da una proposta seria di vita cristiana. La pastorale vocazionale è chiamata, oggi soprattutto, a non escludere nessuno dall’annuncio e dalla proposta vocazionale. La vocazione non è un virus che minaccia i più deboli, né un optional che abbellisce la vita dei più bravi. Ogni vita è voca­zione!

E con ciò vengo alla seconda proposta per aiutare la pastorale ordinaria ad avere una chiara impronta vocazionale: curare tutta la vita cristiana, soprattutto quella dei ragazzi e dei giovani, in prospettiva vocazionale. Un’educazione alla fede senza il respiro vocazionale non è neppure un’educazione alla fede; come del resto un accompagnamento vocazionale si alimenta dall’inizio alla fine all’educazione del credente. Questa sorta di slogan deve renderci coscienti della pazienza richiesta per una vera educazione alla fede, deve aiutare i ragazzi e i giovani a capire che l’attaccamento alle scelte, ai cammini, alle fatiche di ogni giorno è la preparazione di quel terreno su cui il Signore può accendere lo splendore di una chiamata. Se venissimo meno a questa sfida educativa, la pasto­rale giovanile non solo sarebbe carente di un’attenzione importante, appunto quella vocazionale, ma risulterebbe astratta, indeterminata, ripiegata sulle dinamiche di indecisione dei giovani. Di generici appelli si può vivere solo per un campo scuo­la, un campeggio, un ritiro spirituale, ma non per un’intera esistenza.

Se un giovane dai 14 ai 25 anni non ha mai fatto una seria esperienza di preghiera, di carità, di volontariato, di dedizione, di impegno nel tessuto concre­to della storia, è difficile che la sua vita spirituale sia ricca e motivata. È inutile nasconderselo: la vita concreta esprime l’intensità del proprio cammino spiritua­le, ma anche, viceversa, un cammino spirituale s’invera in una vita ricca di dedi­zione. Anche qui intendiamo non solo una generica disponibilità, ma la proposta di gesti e momenti che costituiscano una sorta di tirocinio per saggiare le capa­cità di resistenza e di reazione alle grandi scelte della vita.

 

Prestare attenzione ad ogni persona

È necessario fare un altro passo nella direzione di una pastorale ordinaria con una chiara impronta vocazionale: renderla meno accondiscendente e consolatoria, più coraggiosa e provocante, capace di suscitare domande piutto­sto che offrire risposte gratuite. Per dirla con Garelli: una pastorale non da prote­zione civile. Quando ci si rassegna a proporre solo i tratti fondamentali della vita cristiana, rinviando sine die la proposta del volto vocazionale da dare alla pro­pria identità personale, si finisce per inficiare la stessa bontà dell’educazione alla fede, perché resta sospesa, astratta, generica, senza figura storica.

Mi viene in mente il testo di una canzone di Samuele Bersani, dove è de­scritta in modo ironico, una situazione simile: «Lo scrutatore non votante / è indifferente alla politica / ci tiene assai a dire “oissa” / ma poi non scende dalla macchina / è come un ateo praticante seduto in chiesa la domenica / si mette apposta un po’ in disparte / per dissentire dalla predica. […]prepara un viaggio ma non parte / pulisce casa ma non ospita […]Lo scrutatore non votante / è sempre stato un uomo fragile / poteva essere farfalla / ed è rimasto una crisalide». Nessuno vorrà negare che questo è uno dei pericoli più insidiosi della pa­storale giovanile di oggi. Non si può attendere che uno impari ad ascoltare la Parola, a pregare, a vivere insieme, a prendersi cura degli altri, per poi propor­gli, solo in seconda battuta, il volto di una vocazione specifica. Sappiamo bene che non si dà mai in nessun tratto del cammino una separazione tra educazione alla fede e cura delle vocazioni; solo che a volte ci pare già molto se i ragazzi e i giovani assaggino qualche aspetto della fede. La proposta a tutto tondo della fede ci sembra possibilità che non riesce mai a decollare.

Dobbiamo, però, essere onesti e non avere paura ad affermare che talvolta anche il nostro modo di fare pastorale vocazionale sembra rimanere impiantato su una proposta generica della vita come vocazione, senza che questa porti a dare il volto vocazionale specifico ad ognuno. A volte ho l’impressione di ritro­varmi a vivere la stessa situazione che ho trovato quando venticinque anni fa iniziai a guidare il CDV: ero circondato da persone che mi consigliavano conti­nuamente di essere prudente e di non scrivere sulle locandine “adorazione vocazionale” o “incontro vocazionale”, altrimenti i giovani non ci sarebbero venuti. Forse ci farebbe bene lasciarci provocare, ancora una volta, da quanto si legge nel documento europeo: «La crisi vocazionale dei chiamati è anche crisi, oggi, dei chiamanti, a volte latitanti e poco coraggiosi. Se non c’è nessu­no che chiama, come potrebbe esserci chi risponde?»[23]. E Paolo VI scriveva: «Che nessuno, per colpa nostra, ignori ciò che deve sapere per orientare, in senso diverso e migliore, la propria vita»[24]. Siamo chiamati a “promuovere una cultura della vocazione”, senza, peraltro, far scendere il silenzio sulla vocazione al ministero ordinato e alla vita consacrata. Abbandoniamo la logica dell’aut-aut e scegliamo quella dell’et-et. E questo perché non me la sento di liquidare troppo frettolosamente quanto ha osservato Luca Bressan: «Far uscire il voca­bolario della vocazione dal ghetto linguistico nel quale si trova rinchiuso è diventato perciò l’imperativo di molti attori dentro l’universo ecclesiale. […] Il risultato in qualche caso è sembrato però paradossale: tutta questa riflessione ha lavorato in modo inconsapevole alla estenuazione del termine in questione. […] ha introdotto una interpretazione sempre più analogica e sfumata del suo significato, che anche dentro il contesto ecclesiale sembra spingere il termine vocazione verso la funzione di sinonimo di “attitudine”, nel senso di inclinazio­ne naturale, più che di risposta ad un appello, di adesione ad una relazione esplicita e determinante»[25]. Del resto, non era questo ciò che il documento euro­peo proponeva? Proviamo a rileggerlo insieme: «La pastorale vocazionale parte necessariamente da un’idea ampia di vocazione (e di conseguente appello rivol­to a tutti), per poi restringersi e precisarsi secondo la chiamata d’ognuno. In tal senso la pastorale vocazionale è prima generica e poi specifica, entro un ordine che non sembra ragionevole invertire e che sconsiglia, in genere, la proposta immediata, senz’alcuna catechesi progressiva, d’una vocazione particolare. D’altro canto, sempre in forza di tale ordine, la pastorale vocazionale non si limita a sottolineare in modo generico il significato dell’esistenza, ma spinge verso un coinvolgimento personale in una scelta precisa. Non vi è stacco, e tanto meno contrasto, tra un appello che sottolinea i valori comuni e fondanti dell’esistenza e un appello a servire il Signore “secondo la misura della grazia ricevuta”. L’animatore vocazionale, ogni educatore nella fede, non deve temere di pro­porre scelte coraggiose e di donazione totale, anche se difficili e non conformi alla mentalità del secolo»[26].

Come passare da un’accezione generica di vocazione ad una più persona­le? Attraverso l’attenzione alla singola persona e il prezioso servizio dell’accompagnamento vocazionale o della direzione spirituale. E non vi sembri que­sto un fatto troppo scontato. Si va sempre più diffondendo l’immagine di co­munità troppo bene organizzate ed estremamente ricche di attività, anche lode­voli, ma quello che a volte si lamenta è appunto la scarsa attenzione alle singole persone. E non è raro il caso in cui le vocazioni sorgono in comunità così dette “povere”. Certo, povere di strutture, a volte anche di attività, ma non povere di attenzione alle persone. Ora, perché la pastorale ordinaria abbia una forte im­pronta vocazionale è indispensabile che questa faccia un salto di qualità in tale direzione. Del resto è anche ciò che ha indicato Benedetto XVI a Verona: «In concreto, perché l’esperienza della fede e dell’amore cristiano sia accolta e vissuta e si trasmetta da una generazione all’altra, una questione fondamentale e decisiva è quella dell’educazione della persona. Occorre preoccuparsi della formazione della sua intelligenza, senza trascurare quelle della sua libertà e capacità di amare. E per questo è necessario il ricorso anche all’aiuto della Grazia. […]Un’educazione vera ha bisogno di risvegliare il coraggio delle de­cisioni definitive, che oggi vengono considerate un vincolo che mortifica la nostra libertà, ma in realtà sono indispensabili per crescere e raggiungere qual­cosa di grande nella vita, in particolare per far maturare l’amore in tutta la sua bellezza: quindi per dare consistenza e significato alla stessa libertà»[27].

 

L’educazione all’amore e la pastorale familiare

Il Papa ci chiede di avere, nell’educazione della persona, una grande atten­zione all’educazione all’amore. Del resto non ci aveva ricordato Giovanni Pa­olo II che «l’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non si incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa pro­prio, se non vi partecipa attivamente»[28]? E nella Familiaris consortio non ave­va ribadito che «L’amore è la fondamentale e nativa vocazione di ogni essere umano»[29]? Del resto, non possiamo ignorare il fatto che nella nostra società si è verificato un processo di successive e sempre più profonde separazioni: del corpo dalla persona; della sessualità dall’amore; dell’amore dal dono della vita. Scrive Benedetto XVI nella sua Enciclica: «Sì, amore è “estasi”, ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio: “Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà” (Lc 17, 33), dice Gesù. […] Gesù con ciò descrive il suo personale cammino, che attraverso la croce lo conduce alla resurrezione: il cammino del chicco di grano che cade nella terra e muore e così porta molto frutto. Partendo dal centro del suo sacrificio personale e dell’amore che in esso giunge al suo compimento, egli con queste parole descrive anche l’essenza dell’amore e dell’esistenza umana in genere»[30].

Nella sequela del Cristo, la croce non è un incidente di percorso, da evitare a tutti i costi con grande precauzione. È, al contrario, il luogo dove risalire continuamente per purificare la propria capacità d’amare e renderla sempre più gratuita e libera. È dalla contemplazione del Crocifisso-Risorto che il chiamato impara ad amare. Lasciamoci guidare in questa contemplazione dai versi del poeta Giuseppe Ungaretti:

Fa piaga nel tuo cuore la somma del dolore
che va spargendo sulla terra l’uomo;
il tuo cuore è la sede appassionata  dell’amore non vano.
Cristo, pensoso palpito,astro incarnato nell’umane tenebre,
fratello che t’immoli perennemente per riedificare umanamente l’uomo,
Santo, Santo che soffri, Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri.

A me pare interessante un passaggio della relazione della professoressa Raf­faella Iafrate a Verona: «La vita affettiva rientra dunque in un percorso di scoper­ta della propria vocazione, di risposta ad una chiamata da parte di un Padre a realizzare un disegno personale pensato per ciascuno di noi. Questa è l’origine della vera speranza: la sicurezza che la risposta a tale chiamata è un destino buo­no, prepensato da una paternità che ci precede e ci ama da sempre. Questa è anche la forza che sorregge i percorsi vocazionali più incerti ed accidentati e gli itinerari più difficili. Nella confusione antropologica attuale, […] porre l’educazione af­fettiva al di fuori degli aspetti valoriali e vocazionali può condurre a gravi diffi­coltà, specie per gli adolescenti ed i giovani, sempre più disorientati nelle loro scelte affettive e nel loro percorso di costruzione dell’identità».

Quanti ragazzi e giovani sono segnati da profonde ferite inferte loro da esperienze di grandi sofferenze vissute all’interno delle loro famiglie; ferite che li rendono fragili e affamati di affetto, di stima, di sicurezza. Quello che non hanno ricevuto in famiglia, nella loro fanciullezza e adolescenza, continuano disperatamente e avidamente a cercarlo da giovani e a volte anche da adulti, non importa dove, non importa come, pur desiderando vivere percorsi vocazionali. Su questo aspetto può risultare particolarmente feconda la collaborazione con la pastorale familiare, soprattutto alla luce del II capitolo del Direttorio di pastorale familiare, dal significativo titolo: Chiamati all’amore.

 

Una vita vissuta vocazionalmente

Vorrei ora accennare ad un ultimo elemento che può contribuire a dare alla pastorale ordinaria una chiara impronta vocazionale: aiutare i giovani a saper leggere con cuore pensante la propria vita. La vicenda biografica personale, infatti, non è un accidente per la fede, ma contribuisce a conferire ad ogni perso­na il suo volto vocazionale concreto. Già il Concilio aveva affermato: «si badi che questa voce del Signore che chiama non va affatto attesa come se dovesse giungere all’orecchio del futuro presbitero in qualche modo straordinario. Essa va piuttosto riconosciuta ed esaminata attraverso quei segni di cui si serve ogni giorno il Signore per far capire la sua volontà ai cristiani che sanno ascoltare; e ai presbiteri spetta di studiare attentamente questi segni»[31].

È vero che la vocazione si presenta con le caratteristiche di un evento originario, di un appello irresistibile, di una dedizione radicale, ma quando essa viene analizzata e soprattutto quando si stabilizza come scelta di vita essa appa­re come la risposta che suggella e dà un volto specifico alle molte risposte che giorno per giorno abbiamo realizzato. Saper cogliere il filo rosso che attraversa e dà senso alla propria esistenza non è un’esperienza diffusa tra i nostri giovani né tanto meno facile; pur tuttavia si rende sempre più necessaria. Il giovane oggi si trova nella stessa condizione di chi fa zapping: vive un rapporto con la realtà fatto di spezzoni, di ritagli, di sperimentalismo. Egli non ha la percezione di aver seguito una storia unica con passione e partecipazione. Così non solo ne scapita la prospettiva vocazionale, ma anche tutta quella trama di conoscenze, di impegni, di servizi che costituiscono il terreno di una coltura di una decisio­ne definitiva. La vita non sa più rispondere alla vocazione, perché non vive quelle molteplici vocazioni che sono disseminate sul tracciato dell’esistenza.

Di qui scaturisce una proposta pedagogica interessante, così come la de­scrive il documento europeo: «L’autentica pastorale rende il credente vigilante, attento alle moltissime chiamate del Signore, pronto a captare la sua voce e a rispondergli. È proprio la fedeltà a questo tipo di chiamate quotidiane che rende il giovane oggi capace di riconoscere e accogliere “la chiamata” della sua vita, e l’adulto domani non solo capace di esserle fedele, ma di scoprirne sempre più la freschezza e la bellezza. Ogni vocazione, infatti, è “mattutina”, è la risposta di ciascun mattino a un appello nuovo ogni giorno»[32]. È necessario, pertanto, educare alla fedeltà agli impegni di vita nella ferialità dell’esistenza.

 

Conclusione

Avviandomi alla conclusione vorrei dire che non è piangendo sui numeri che si riuscirà ad affascinare ancora alla causa del Vangelo; non è giustificando i numeri che si genera il futuro di quella fede a cui stiamo dando la nostra vita. «Si può pensare legittimamente che il futuro dell’umanità sia riposto nelle mani di coloro che sono capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza»[33]. Che sia così per tutti noi e per la pastorale vocazionale.

 

Note

[1] NVNE 26/b.

[2] CEI, Piano pastorale per le vocazioni, n. 26.

[3] Cf Bollettino diocesano dell’Arcidiocesi di Bologna, 1967, nn. 10-11-12, pp. 452-472.

[4] NVNE 13/c.

[5] NVNE 29.

[6] GIOVANNI PAOLO II, Pastores dabo vobis, n. 34.

[7] Prefazio VIII delle domeniche del Tempo Ordinario.

[8] CEI, Documento base sulla catechesi, Lettera di ripresentazione, n. 14.

[9] F. G. BRAMBILLA, Relazione al IV Convegno ecclesiale, Verona 16-20 ottobre 2006.

[10] NVNE 26/g.

[11] CEI, Documento base sulla catechesi, n. 33.

[12] BENEDETTO XVI, Deus caritas est, n. 13.

[13] NVNE 11/c.

[14] GIOVANNI PAOLO II, Lettera autografa di creazione del Pontificio Consiglio della Cultura, del 20 maggio 1982.

[15] E. COSTA, La preghiera respiro della vita, Edizioni ADP, Roma 1988, p. 18.

[16] GIOVANNI PAOLO II, Veglia di preghiera, Roma, GMG 2000.

[17] CONCILIO VATICANO II, Gaudium et spes, n. 22.

[18] CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, n. 1.

[19] Ivi, n. 13.

[20] S. AGOSTINO, Confessioni, Libro X, 27.

[21] E. CASTELLUCCI, Le dimensioni teologiche fondamentali della vocazione, Vocazioni 15/3 [1998], pp. 12–13.

[22] BENEDETTO XVI, Deus caritas est, n.1.

[23] NVNE 19/d.

[24] PAOLO VI, Messaggio per la GMPV del 1978.

[25] L. BRESSAN, SEQUELA O MINISTERO? VOCAZIONE O PROGETTO? Ben al di là di  una semplice questione di parole, in “Scuola Cattolica” 132 (2004) p. 417.

[26] NVNE 26/d.

[27] BENEDETTO XVI, Discorso al IV Convegno ecclesiale di Verona.

[28] GIOVANNI PAOLO II, Redemptor hominis, n. 10.

[29] GIOVANNI PAOLO II, Familiaris consortio, n. 11.

[30] BENEDETTO XVI, Deus caritas est, n. 6.

[31] CONCILIO VATICANO II, Presbyterorum ordinis, n. 11.

[32] NVNE 26/a.

[33] CONCILIO VATICANO II, Gaudium et spes, n. 31.