N.03
Maggio/Giugno 2007

La memoria grata della propria storia personale, fondamento di ogni percorso vocazionale

Il tema odierno incontra in sant’Agostino un grande maestro e testimone, che ha veramente saputo fare memoria, scoprendo e assaporando la mise­ricordia divina dentro le pieghe e le ombre della sua storia personale. In lui la consapevolezza del bene e dell’amore gratuitamente ricevuti diventa gratitudine pro­fonda, contemplazione del mistero di Dio e confessione di fede che ne canta la lode.

Anche noi, oggi, abbiamo bisogno di “contemplare” se vogliamo cogliere il significato profondo del fare memoria; abbiamo bisogno di recuperare la dimensione di mistero quale categoria per interpretare e leggere la vita umana, dimensione che sembra spesso dimenticata nel nostro contesto culturale.

Vorrei condividere la mia riflessione sul tema organizzando l’argomento attorno a due domande-guida: perché è importante fare memoria della propria storia personale (le motivazioni); come accompagnare un giovane, una giovane in questo percorso (le modalità).

 

Perché è importante fare memoria della propria storia personale

L’approccio all’esistenza umana intesa come “mistero” – mistero che si rive­la, mistero da scoprire, mistero che ci fa cogliere l’unità nei frammenti della nostra vita e ci fa ritrovare noi stessi – costituisce il contesto per un’accoglienza sincera della propria storia personale quale premessa irrinunciabile per la risposta vocazionale. A fondamento di ciò ritroviamo motivazioni riconducibili alla dimen­sione umano-psicologica e ragioni di carattere teologico. Vediamole insieme.

 

Il senso dell’identità personale nel divenire della storia

Nessuno di noi può vivere senza una percezione sufficientemente unitaria di se stesso e della propria identità personale oppure privo di un senso di conti­nuità del proprio essere lungo il divenire della storia, il fluire del tempo.

Infatti l’individuo sperimenta malessere e disagio quando patisce la mancanza di una sufficiente stabilità di sé e ha la percezione che la propria esistenza sia un susseguirsi di esperienze, di eventi che accadono, di fatti accostati l’uno all’altro come frammenti, piuttosto che l’espressione di un progetto orientato verso un fine.

Tale esigenza fondamentale di un senso unitario di sé coinvolge i diversi ambiti dell’esistenza personale, i pensieri, gli affetti, i desideri, gli ideali, la corporeità, i bisogni, le relazioni, e anche il divenire nella storia, vale a dire il senso di continuità del proprio “io” lungo il passare del tempo, tra passato-presente-futuro. Intendo con ciò la percezione di continuare ad essere me stes­so, a sentirmi me stesso dentro il processo di cambiamento e trasformazione che accompagna lo sviluppo umano.

Come definire in modo semplice l’identità personale? L’identità di una per­sona è data da ciò che ella è oggi, da ciò che è diventata nel corso della storia e anche dalle sue aspirazioni, da ciò che desidera diventare nel futuro. In altri termini la nostra identità è definita dai valori in cui crediamo e dagli ideali che ci proiettano verso il futuro; essi costituiscono l’orizzonte della nostra vita e la forza motivante che impegna la libertà verso una mèta, in un progetto nel quale spendersi. L’individuo però è anche dato ricevuto, è ciò che ha ereditato dal suo passato, è ciò che, di fatto, è diventato nel corso della sua storia, perché quella storia è il luogo concreto in cui alcune potenzialità del soggetto si sono svilup­pate e attuate, ma è, nello stesso tempo, anche il luogo in cui risorse e possibilità di diversa natura non hanno trovato compimento e sono state abortite senza vedere la luce[1]. Nessun albero può essere staccato dalle sue radici, pena la morte! La persona è sviluppo nel tempo, per cui un individuo è la sua stessa storia e non ci può essere un “io” senza un passato[2].

Possiamo quindi affermare che è il cammino stesso di umanizzazione, cioè il divenire autenticamente uomini e donne, che porta con sé il compito di riappropriazione del passato: conoscere la propria storia personale non è sem­plicemente un movimento regressivo verso il passato per rimanervi ancorati, intrappolati; non è nemmeno ricerca di cause in una visione più o meno deterministica della vita umana. Tutt’altro: si tratta di agganciare, di recuperare un vissuto per essere più profondamente se stessi nel presente, per maturare uno sguardo più oggettivo, più vero su ciò che si è oggi e su ciò che si desidera e si è chiamati a diventare nel futuro.

Perché ho imparato ad affrontare le sfide della vita in un certo modo? Come mai ho sviluppato uno stile espansivo o riservato, sospettoso o fiducioso di relazionarmi con gli altri? Posso comprendere le radici di alcune mie paure e di certe tendenze che sento dentro di me? Domande di questo tipo non mirano tanto alla ricerca di cause e spiegazioni, quanto piuttosto a maturare una maggiore consapevolezza di sé.

Il percorso di assunzione della propria storia non è però un semplice atto conoscitivo, cioè non basta che il soggetto conosca “cosa” è successo nel suo passato: questa conoscenza deve diventare una conoscenza esistenziale, capa­ce di rivelare “come” la persona ha vissuto quella storia, una conoscenza esi­stenziale che la metta a contatto con il tono affettivo, con la risonanza emotiva, con i sentimenti che hanno accompagnato eventi, relazioni e vissuti. Questo particolare modo di ricordare che registra la coloritura emotiva con cui un evento è vissuto dal soggetto è definito dalla psicologia con il termine memoria affettiva[3]. Tale memoria ha registrato, fin dall’infanzia, non tanto eventi e fatti accaduti, quanto piuttosto le emozioni e i toni affettivi, piacevoli o doloro­si, che li hanno accompagnati. Se, per analogia, prendiamo un quadro, possiamo paragonare la memoria di ciò che è accaduto, cioè il ricordo di fatti, alle forme e alle linee del dipinto, e la memoria affettiva al colore e alle sfumature.

Due rilievi sono importanti. Il primo riguarda il normale fatto evolutivo che la memoria affettiva è misteriosa, anche perché risale ai primissimi anni di vita della persona, quando ancora strutture ed operazioni cognitive non erano sviluppate.

Il secondo rilievo serve a sottolineare che la memoria affettiva non ha, di per sé, una connotazione negativa, poiché molte esperienze vissute dal bambino piccolo costituiscono la base di importanti acquisizioni e atteggia­menti per il suo futuro. Un esempio eloquente, seguendo il modello evolutivo di Erikson, è l’acquisizione della fiducia di base, cioè della capacità fonda­mentale di fidarsi degli altri, dell’ambiente, che il bambino sviluppa nei pri­missimi tempi della sua esistenza e che costituisce un aspetto di rilevante importanza per la vita futura.

Questa memoria affettiva è governata da regole proprie, ed è spesso operan­te a livello inconscio, cioè al di là di una chiara consapevolezza della persona; essa è anche resistente al fluire del tempo, nel senso che tende a ripetersi, a riattivarsi nel presente risvegliando emozioni, che hanno radici nel passato, quando si ripete una situazione simile. Ad esempio può succedere che incontrando per la prima volta una persona io senta una simpatia o attrazione verso di lei, oppure che il modo di fare di un’altra mi susciti un’improvvisa antipatia o repulsione, senza che ciò si fondi su motivi ragionevoli ed evidenti. Talvolta non riusciamo a trova­re spiegazioni plausibili o razionali per ciò che proviamo in una data situazione, ma sicuramente il nostro mondo profondo, la nostra memoria affettiva ha le sue proprie ragioni. In questo modo, allora, il passato colora il presente.

Riassumendo, la conoscenza della propria storia deve essere anche una co­noscenza esistenziale, un processo in cui la persona non è solo spettatrice, osser­vatrice di fatti ed eventi, non si limita a guardare, ma vi mette le mani dentro, ne sente lo spessore, tocca questi eventi, si lascia toccare da questi vissuti.

Talvolta deve anche lasciarsi ferire, ma questo è il prezzo da pagare per una maggior libertà, per poter mettere insieme i pezzi della propria storia e trovare loro un posto, una collocazione nella propria casa, per ricomporli in una visione d’insieme, unitaria e sottrarli all’egemonia del non-senso, per smasche­rare così gli inevitabili assurdi della vita.

Possiamo non essere responsabili di tanti eventi accaduti nel nostro pas­sato, e, qualora lo fossimo, non avremmo la possibilità di cambiarli, ma sia­mo comunque responsabili dell’atteggiamento che noi, oggi, assumiamo di fronte ad essi e proprio in questo siamo chiamati ad esercitare ed esprimere la nostra libertà, paradossalmente proprio attraverso l’assunzione responsabile del limite. Mi è capitato più volte di dire con fermezza a qualche giovane che stavo accompagnando: «se tu vuoi continuare a piangerti addosso per quello che è successo, per questa storia ferita, per la tua famiglia sfasciata o per i tuoi errori, fallo pure, ma assolutamente senza il mio aiuto».

Troppo spesso pensiamo che il nostro passato sia semplicemente dietro di noi, ma questa lettura non sembra essere la più autentica: più che dietro di noi il nostro passato è dentro di noi.

«Mi sento come un minestrone» diceva un giovane seminarista all’inizio del suo cammino formativo, entusiasta della vocazione sacerdotale e concreta­mente impegnato in essa, ma appesantito da una relazione faticosa con se stes­so e con i suoi vissuti familiari, dalla difficoltà di accordare il mondo degli ideali, protesi verso il futuro, con la realtà di sentimenti ed affetti ancorati ad un passa­to di cui si sentiva vittima e succube. E in questo modo la tensione verso il futuro, verso il futuro vocazionale, rischiava di essere più una fuga da ciò che temeva, piuttosto che un dinamismo di crescita. Sentirsi come un minestrone per lui significava percepirsi attraverso tanti pezzi, tanti frammenti non ancora unifi­cati e integrati in una visione sufficientemente unitaria e riconciliata.

Veramente il contatto esistenziale e trasformante con la propria storia per­sonale è un processo fondamentale per maturare un adeguato senso di sé e anche per non correre il terribile rischio di vivere nella nostra stessa casa – il nostro mondo interiore – con degli estranei che continuano a rimanere tali!

 

Dio che si rivela nella storia

La necessità di un’accoglienza sincera della propria storia, oltre che essere sostenuta da motivi legati allo sviluppo umano-psicologico, si fonda anche su ragioni di carattere teologico e biblico.

Nel disegno misterioso della salvezza, infatti, Dio si pone in contatto con l’uomo, scende dal suo mistero ed entra nella storia e proprio dentro la storia Dio si rivela e realizza la sua opera. Il nostro Dio è colui che per primo non ha avuto paura di coinvolgersi con la nostra storia povera; è il Dio che si rivela in modo definitivo nel volto e nella persona di Gesù Cristo. Il Dio della Rivelazio­ne è il Dio che nell’incarnazione sceglie la corporeità, la vulnerabilità, la pover­tà umana come dimora della sua manifestazione; è il Dio che sceglie l’Eucaristia come luogo speciale della sua presenza nel tempo. La Rivelazione cristiana offre una vera salvezza del tempo, una profonda valorizzazione del contingente e della storia, in cui è entrato Dio stesso.

In questa prospettiva, allora, la storia personale, il concreto sviluppo uma­no del soggetto, non è solo il luogo in cui la persona è diventata ciò che oggi è, ma è anche luogo teologico, cioè luogo in cui Dio, misteriosamente, si rivela e rivelandosi comunica il suo amore e dona la sua salvezza. “Togliti i sandali” dice Dio a Mosè attonito e stupito di fronte al roveto ardente “perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa” (Es 3,5). Questo stesso profondo rispetto dovremmo nutrire noi verso la nostra storia, che non è destinata a rimanere un susseguirsi più o meno caotico di fatti che accadono, bensì a rivelarsi come luogo, casa della presenza di Dio e dell’incontro con lui, come ci testimonia il racconto biblico di Giacobbe: “Il Signore è in questo luogo e io non lo sape­vo… questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo”. Allora Giacobbe prese una pietra e “la eresse come stele e versò olio sulla sua sommi­tà”. E chiamò quel luogo Betel, cioè casa di Dio (Gen 28,16 ss).

Anche noi siamo chiamati a diventare consapevoli della presenza di Dio nella nostra vita e nel nostro passato, come anche del fatto che l’incontro con Dio e l’accettazione della sua parola nella fede e nella testimonianza si realizzano nella storia[4]. La salvezza, già compiuta da Cristo per noi, si deve esistenzialmente attuare nella vita e dentro la storia concreta di ogni persona nel senso dell’accoglienza e dell’adesione da parte del soggetto, in modo da poter dire: la mia storia è diventata storia di salvezza, storia della mia salvezza, il luogo in cui Dio misteriosamente mi si è rivelato e si è preso cura di me.

È proprio questa memoria credente, celebrata nell’oggi dell’esistenza, che fonda la speranza e l’apertura responsabile verso il futuro, il progetto in cui giocare la pro­pria vita: questo Dio che ha iniziato una storia di alleanza con me la condurrà anche a compimento: “io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai” (Gen 28,15).

 

 

Come accompagnare un/una giovane in questo percorso

Passando dall’ambito teorico-concettuale alla prassi, la sfida concreta, che l’educatore o guida spirituale si trova ad affrontare nel ministero dell’accompagnamento, consiste nel tradurre in un itinerario percorribile per il giovane il processo di accoglienza della propria storia.

Vorrei richiamare alcuni presupposti e passaggi importanti che scandisco­no questo percorso, a partire dalla necessità di curare la qualità della relazione nell’accompagnamento personale o direzione spirituale.

 

L’alleanza e l’ascolto empatico

Nessun cammino di accompagnamento può procedere veramente e “met­tersi al servizio dell’evento spirituale”[5] se tra le due persone coinvolte, il/la giovane e la guida spirituale, non si stabilisce un’alleanza, un clima di fiducia e di accoglienza e se non viene curata la qualità della relazione.

L’inizio di un cammino richiede in primo luogo la disponibilità e il deside­rio, da parte del/della giovane, di aprirsi e di consegnarsi; tuttavia l’atteggiamento della guida è certamente cruciale al fine di facilitare l’apertura del cuore. Que­sta fase consiste nel preparare il terreno creando un contesto relazionale in cui il giovane sappia e senta che può fidarsi di chi l’accompagna e percepisca di essere rispettato e accolto dall’interlocutore anche nel suo vissuto più faticoso.

Una ragazza che da un paio di mesi aveva iniziato un cammino di dire­zione spirituale con un sacerdote mi disse queste parole: «finalmente adesso mi sento accolta e capita nel profondo. Non che prima non mi fidassi, ma ora ho sperimentato che mi capisce veramente». Ciò significa che era accaduto qualcosa di importante e misterioso in quella relazione, che si stava arrivando al cuore della relazione[6].

Anche la qualità dell’ascolto da parte della guida fa la differenza. Infatti c’è modo e modo di ascoltare. Fa molto bene al giovane percepire che in quel momen­to, nel tempo del colloquio, io sono lì per lui/per lei, che sono realmente disponibile e che gli/le sto dedicando il mio tempo. Una reale disponibilità implica, ad esempio, che non posso rispondere continuamente al telefono durante un colloquio e nem­meno che posso rimandare un appuntamento all’infinito! È vero che, oggi, siamo tutti “poveri” di tempo, ma il ministero della direzione spirituale, dell’accompagnamento spirituale ha bisogno anche di tempo: senza tempo non si può fare.

Inoltre, l’ascolto profondo è esigente, anche perché necessita di un certo vuoto interiore, di uno spazio dentro di sé che sappia mettere da parte, temporaneamente, le proprie preoccupazioni, pensieri, programmi o problemi; necessita, cioè, di uno spa­zio libero per accogliere. Ciò permette un ascolto capace di mettersi nei panni dell’altro, di sentire come lui/lei sente. Questo tipo di ascolto permette anche il rispetto profondo della persona che è davanti a me, rispetto inteso come capacità di muoversi avanti e indietro nella relazione, di rendersi disponibili ad “avvicinarsi” empaticamente all’altro, ma anche di ritirarsi o semplicemente di attendere[7]. Significa ancora saper porre domande adeguate al momento giusto e con il dovuto tatto, in modo che la persona si senta aiutata ad esprimersi, piuttosto che invasa o costretta a farlo. Negli atteggiamenti e negli incontri di Gesù nei Vangeli emerge una vera e propria “sapien­za della domanda”.

In sintesi, ascoltare bene è davvero impegnativo.

 

Dio non ha nulla da dire…

Alleanza e fiducia costituiscono anche i preliminari per poter aprire la scatola del passato. Forse l’espressione può sembrare un po’ banale, ma rende bene l’idea: spesso le persone ripongono il loro passato, la loro storia dentro una scatola, più o meno sigillata. Questa operazione, generalmente più automa­tica[8] che intenzionale, scatta almeno per due motivi.

Il primo motivo: il contenuto è minaccioso, lo temo e quindi devo sentirmi sicuro nascondendolo da qualche parte nell’illusione che ciò che è lontano da­gli occhi e dalla mente lo sia anche dal cuore. Questo può avvenire quando, consciamente o inconsciamente, la persona ha paura, ha timore di affrontare capitoli dolorosi della propria storia.

Dentro un percorso di formazione vocazionale iniziale, una giovane ripeteva ad ogni colloquio che c’era qualcosa di cui non aveva parlato, ma che ancora non voleva farlo. Risposi che non era necessario parlarne se lei non voleva; che era però necessario affrontare l’ostacolo reale, cioè la paura di ciò che sarebbe potuto succe­dere qualora ne avesse parlato. La ragazza temeva, infatti, che certi fatti vissuti nel passato mettessero in discussione la sua scelta vocazionale e minassero la libertà con cui l’aveva compiuta. E spesso la nota dolente è proprio questa: la persona ha già deciso che un dato evento doloroso, un avvenimento vissuto nel passato e sen­tito come inaccettabile, non può trovare posto nella propria vita, pesa come una condanna da accettare, è e rimane una macchia nera in un lenzuolo bianco, qualco­sa da nascondere oppure da sopportare o mal-sopportare e da cui bisogna difender­si. Ma dentro una situazione storica Dio fa emergere una scelta! Talvolta, invece, noi tappiamo la bocca a Dio, nel senso che abbiamo già deciso che Dio non ha assolutamente nulla da dire dentro quegli eventi e dentro quella storia ferita.

E questo è il secondo motivo per cui spesso una persona ha riposto il pas­sato, o un certo passato, dentro una scatola chiusa: con queste cose Dio non c’entra! E se proprio in questo luogo desertico Dio avesse scelto di svelarsi, di manifestarsi, di mostrare un nuovo aspetto del suo volto? In quel fallimento che mi ha segnato, in quello sbaglio commesso, in quel sopruso subito posso impa­rare qualcosa di me: non potrei forse conoscere più a fondo il mistero della mia vita? E ancora: quale tratto del volto di Dio mi si rivela? Certi incontri con Dio sono vere e proprie battaglie da cui si esce segnati per tutta la vita, ma si riceve anche un nome nuovo, come Giacobbe quando, di notte, da solo, lotta con Dio sulle rive del torrente Iabbok: egli rimarrà zoppicante per sempre, ma ricco della benedizione e di un nome nuovo, cioè di una nuova identità (Gn 32,23 ss).

Essere disposti a rivisitare certi episodi o capitoli dolorosi del proprio pas­sato, accettando il prezzo di ri-sentire oggi nella propria carne e nel proprio cuore certe sofferenze, rimettere in discussione un’interpretazione già data per aprirsi al rischio di nuovi significati, diventa condizione per accogliere una novità di vita, una trasformazione. L’accoglienza sincera della propria storia segue la logica della croce, è una via crucis, cioè un percorso che chiede anche fatica e dolore, ma che ha come meta la vita nuova della resurrezione.

 

Le luci e le ombre

È molto frequente incontrare persone che hanno uno sguardo scotomizzato sulla propria storia, che hanno cioè una visione parziale della loro vita, del loro passato al punto tale che alcuni aspetti vengono enfatizzati, gonfiati, mentre altri diventano insignificanti o vengono negati.

Da un lato ci sono coloro che ricordano o riportano solo le cose belle, positive, piacevoli, che tendono ad idealizzare la propria famiglia e il percorso della crescita personale; che minimizzano e giustificano prontamente quanto non è andato bene e non può essere negato oppure trasformano troppo rapida­mente il male in bene, in un’operazione spiritualizzante che ha il sapore della fuga o della soluzione magica. Questi giovani spesso temono che il contatto con le ombre della loro storia, con i limiti, inevitabili, incontrati nella relazione con i loro genitori, con gli errori commessi, possa distruggere il positivo, il bene vissuto, sperimentato, ricevuto: temono, in modo più o meno consapevole, che, se qual­cosa è andato male, allora tutto è andato male. Ma le nostre relazioni familiari, i nostri vissuti sono talmente dentro di noi che condizionano, consciamente o inconsciamente, le nostre scelte e noi questo dobbiamo saperlo[9].

Dall’altro lato abbiamo coloro che subiscono la storia, come un macigno che opprime e che ha reso la loro vita una sfortuna; alcuni reagiscono con tenacia af­frontando con forza le miserie della vita, un po’ “facendosi da sé”, mentre altri si incamminano per la via della lamentazione, nel pianto continuo per ciò che non hanno ricevuto. Spesso il pianto e la lamentela, in particolare se assunti come stile di vita, diventano un pretesto sottile per non assumersi le proprie responsabilità. Questa visuale enfatizza il negativo, non sa andare oltre o dentro le tenebre della storia per svelare, cioè togliere il velo che la ricopre, e scorgere il bene. Il macigno del passato rimane schiacciante, incapace di diventare una stele, un luogo di culto.

Bisogna quindi aiutare il nostro/la nostra giovane a maturare uno sguardo di mistero verso la vita, uno sguardo realistico che sappia scorgere il positivo e assume­re, accogliendolo, il negativo; capace di guardare sia le luci che le ombre e integrarli in una visione d’insieme, imparando a “trarre dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13,52). È questo un passaggio importante e significativo della maturazione psichica, che ha le sue radici fin nell’infanzia e si consolida nel corso degli anni, che si esprime nella capacità di tenere insieme gli opposti, lasciando convivere il positivo e il negati­vo in se stessi, negli altri, nella realtà, nella storia e che permette di gustare il bello e di gioire del bene ricevuto senza il bisogno di negare o rifiutare il negativo. Tale proces­so è psichico e spirituale poiché conduce all’integrazione attiva e responsabile del passato, per vivere il presente come risposta alla chiamata di Dio in una dimensione di progetto, cioè protesi verso il futuro[10].

Si tratta di imparare a riconoscere e ad accogliere, nel concreto dell’esistenza personale, il modo in cui si compie il mistero cristiano nella sua duplice e inseparabile realtà di morte e resurrezione.

Questa integrazione che è insieme psichica e spirituale, atto del credente, non avviene in modo omogeneo o come un’acquisizione raggiunta una volta per tutte: per certi aspetti, è un compito che continua per tutta la vita[11]. Penso che tutti abbia­mo sperimentato come alcuni incontri o esperienze vissuti nel presente abbiano gettato nuova luce e arricchito di significati nuovi vicende e relazioni del passato, che in parte avevamo già rielaborato, o come siano state capaci di risvegliarle.

 

La mediazione

Il viaggio dentro il proprio passato non si fa da soli, perché nel labirinto della propria storia ci si può smarrire o confondere, lo si percorre, perciò, in compagnia di un altro. Questo anche perché l’accettazione di se stessi è sempre un evento riflesso, cioè avviene attraverso gli occhi di qualcuno che ci dimostra, che ci fa sentire che siamo accettabili e apprezzabili, attraverso lo sguardo di colui o colei che si pone accanto, come fa Filippo con l’Etìope (At 8) o come fa Gesù stesso camminando con i discepoli di Emmaus (Lc 24)[12]. L’accoglienza della propria storia è quindi un evento, o meglio un processo, mediato dall’educatore, la guida che, di volta in volta, dovrebbe saper offrire il tipo di presenza di cui il giovane ha realmente bisogno per crescere, presenza talvolta rassicurante e accogliente e altre volte portatrice di domanda e provocazione[13]. Spesso i giovani (e non solo loro) non hanno occhi per vedere, come i discepoli di Emmaus che non sanno riconoscere Gesù nel loro compagno di viaggio, né orecchi per udire, come il giovane Samuele che non sa distinguere la voce di Dio. Si tratta quindi di aiutare a leggere, o meglio a discernere, a cogliere il segno, cioè l’evento, il fatto, riconducendolo ai diversi significati, a livello umano e psicologico, ma anche e soprattutto nell’area della fede[14].

Colui/colei che media questo processo dovrebbe avere certi requisiti fondamen­tali, oltre al tempo concreto e alla disponibilità all’ascolto. Viene da sé che si tratti di una persona impegnata in un serio cammino di fede e abbia una certa familiarità con i “modi” in cui Dio agisce, che sappia quale è la finalità di un accompagnamento spirituale vocazionale, che apprezzi la bellezza della sua vita e della sua scelta.

Ma oltre a ciò è fondamentale che abbia fatto l’esperienza di essere disce­polo a sua volta, assaporando la fatica e la gioia della consegna di sé ad un altro e che abbia maturato una sincera accoglienza di sé e della propria storia. Chi di noi si affiderebbe in un’escursione in montagna ad una guida che non abbia prima ispezionato il sentiero? Le scienze umane ci insegnano che è difficile affrontare con l’altro un ostacolo o un problema che non abbiamo prima affron­tato in noi stessi; come reazione inconscia può accadere che semplicemente lo evitiamo oppure che proiettiamo sull’altro una difficoltà che, in realtà, è nostra. Diventa allora difficile offrire al giovane un’interpretazione e un sentire più corretti di certi suoi vissuti, se la nostra stessa percezione è più o meno distorta o se non c’è in noi un sufficiente spazio libero di rielaborazione.

 

La pazienza dell’agricoltore

Nel viaggio dentro la propria storia ritroviamo anche le caratteristiche del cammino del popolo d’Israele che esce dall’Egitto: non segue la via del mare, la più breve e conosciuta, ma quella impervia e poco sicura del deserto. Ciò significa che in questo viaggio non ci sono né sconti né scorciatoie e che ogni giorno bisogna rinnovare la fiducia in se stessi, nella guida e, soprattutto, nella provvidenza di Dio. Significa anche che è un viaggio segnato dalla tentazione di ribellarsi, di tornare indietro, perché “le cipolle d’Egitto” hanno sempre un forte potere d’attrazione e il passato esercita, misteriosamente, un forte fascino con la sua sicurezza, la sua familiarità, la sua forza di conservazione[15].

Il nuovo, anche se carico di promessa, suscita spesso timore e insicurezza; la novità di sé che si può scoprire, la novità di Dio che mostra sfaccettature non ancora conosciute, fanno paura perché costringono a cambiare, a convertirsi, a rivedere i propri schemi di vita. Il viaggio del popolo d’Israele dall’Egitto verso la terra promessa ci richiama anche la realtà di un cammino che non è una marcia trionfale verso la gloria, ma è piuttosto segnato dalla sete, dal freddo della notte e dal calore diurno; è accompagnato cioè da momenti di blocco, da battute di arresto, di dubbio e forse anche di regressione da parte del giovane; inoltre è un percorso lungo – quaranta anni nel deserto prima di giungere alla terra promessa – e questo significa che ci vuole molta pazienza: la pazienza dell’agricoltore che sa attendere i tempi della semina, dello sviluppo nascosto sotto il terreno, della fioritura e che sa anche che una pianta non cresce semplicemente tirandola. Ogni cammino di effettiva trasformazione umana e di conversione religiosa è lento e doloroso[16].

 

Alcuni suggerimenti “La tua parola nel rivelarsi illumina” (Sl 119,130)

Il cammino maturativo del credente si attua all’interno di diverse polarità: l’ascolto della Parola e l’annuncio della Parola, la preghiera e il servizio, la solitu­dine e la fraternità, la fede vissuta nel proprio intimo e la fede condivisa nella comunità ecclesiale e nella celebrazione liturgica e sacramentale. Ma vorrei qui soffermarmi solo su un aspetto, cioè sull’importanza della Parola di Dio in questo cammino di accoglienza della propria storia. Abbiamo sottolineato come la rilettura della propria storia sia un’operazione psichica, umana, ma si costitu­isca essenzialmente quale atto del credente: la memoria del passato serve al credente per comprendere l’agire di Dio e per capire come rispondergli oggi.

È la Chiesa che porge e spezza la Parola di Dio attraverso la liturgia quo­tidiana e i tempi liturgici, Parola che è “lampada ai nostri passi” e che, vivifica­ta dallo Spirito Santo, chiede di essere accolta e vissuta. Ma mi sembra neces­sario annunciare al giovane, impegnato in un cammino di fede e discernimento vocazionale, un di-più-di-Parola (mi si passi il termine!) che, offrendo le cate­gorie della fede, l’accompagni, in modo specifico, in una lettura sapienziale della propria storia, nella convinzione che, la parola nel rivelarsi illumina, è “lampada per i miei passi e luce sul mio cammino” (Sl 119, 105), cioè illumina il modo e il senso dell’azione salvifica di Dio.

Si possono allora proporre dei brani biblici che hanno una particolare forza evocativa e narrativa. Per citare alcuni esempi, dal capitolo 8 del Deuteronomio: “Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova… ma il tuo vestito non si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato… ; la storia di Giuseppe nel libro della Genesi, la quale mostra come nell’intreccio delle vicende umane e della rivalità fraterna, che conducono tragicamente Giuseppe in Egitto, si dipani una possibilità di salvezza per tutta la famiglia di Giacobbe; la storia di Davide, l’amico e consacrato del Signore e, nello stesso tempo, uomo della lussuria e del delitto; la vittoria contro l’invasore Oloferne che passa attraverso la debolezza della vedova Giuditta. Oppure il/la giovane stesso può scegliere un personaggio dell’Antico o Nuovo Testamento che sente vicino a sé e quindi capace di favorire un processo di identificazione, oppure un episodio o parabola evangelica particolarmente significativa per lui/lei.

 

L’autobiografia

Uno strumento particolarmente prezioso per favorire concretamente il con­tatto del/della giovane con la propria storia, alla luce della Parola e nel momento del cammino ritenuto più opportuno dalla guida, è l’autobiografia[17]: in questo modo il giovane viene invitato a ricomporre la propria storia davanti a Dio.

L’autobiografia non è solo la storia della persona, ma il modo in cui ella oggi la struttura, le legge, la interpreta: non è quindi in relazione solo con il passato, ma anche con il presente e il futuro. Ci sono diversi modi per fare un’autobiografia: essa può essere composta in modo cronologico, progressivamente e a tap­pe, ad esempio suddividendo le diverse fasi della vita: i primi anni, l’età scola­re, l’adolescenza, la giovinezza, etc. Oppure possiamo aiutare il giovane nel suo viaggio interiore invitandolo a visitare diverse situazioni o aree della sua vita: la storia personale, le relazioni familiari, le amicizie, la vita scolastica e lavorativa, l’area degli affetti, il mondo dei sogni, dei desideri e dei valori, la vita spirituale…

Il coinvolgimento è certamente maggiore quando la persona non si limita a ricomporre vicende e vissuti mentalmente, ma può scrivere, nero su bianco, ciò che si affaccia alla mente e nel cuore. Trasformare un vissuto in parole scritte costringe ad entrarci dentro, a prenderlo in mano, a dargli una forma, in pratica a coinvolgersi di più.

 

Come leggere il racconto della vita

È già un obiettivo importante che il giovane scriva la sua storia, ma condi­videre l’autobiografia scritta con la guida sarebbe un ulteriore significativo passo. Ciò diventa anche un valido aiuto per l’educatore per conoscere più profonda­mente il giovane, a patto naturalmente che si sappia leggere!

Intendo con ciò evidenziare che sono necessari dei criteri per interpretare una biografia: ci sono dei periodi o delle fasi e delle aree di vita che non vengo­no menzionati oppure che sono visitati superficialmente? Emerge solo il “cosa” è avvenuto, i fatti, oppure è percepibile anche il “come”, il colore delle emozio­ni e dei sentimenti che hanno accompagnato i fatti? Qual è il tono emotivo principale? Quale approccio alla vita emerge dal modo in cui racconta, ottimisti­co o pessimistico? Quale immagine di Dio viene comunicata? Quale visione ha del futuro? Quali sono i passaggi significativi della fede? Come sono vissute le relazioni? Emergono delle relazioni significative e profonde? Quali eventi sono considerati come pietre miliari che hanno contribuito alla crescita e allo sviluppo personale? E ancora: è presente una varietà di affetti ed emozioni, gioia e soffe­renza, tristezza ed entusiasmo, oppure il racconto ha un solo colore?

Questi sono solo alcuni dei criteri che possono orientare la guida nella lettura/interpretazione dell’autobiografia. Naturalmente questo tipo di lettura/ ascolto da parte della guida può essere fatta non solo nel testo scritto, ma anche ascoltando il giovane che si racconta: è importante essere attenti a cosa dice e a come lo dice, ma anche a ciò che non dice o dice fra le righe.

 

La verità dell’accettazione

Dentro questo percorso di accoglienza della storia personale la guida deve prestare particolare attenzione anche ad un altro aspetto: la verità dell’accettazione da parte del giovane. Con questo intendo un passaggio ulteriore rispetto alla disponibilità e al desiderio o allo stesso gesto decisionale (anche perché decidere di fare una cosa non significa ancora farla!). Accettare un dato, un limite di sé, alcuni aspetti del proprio vissuto, la propria corporeità o aspetti di essa, una data situazione familiare, il contesto culturale di provenienza, un fatto doloroso è, sì, un atto decisionale, di libertà, ma ciò implica anche che sia o diventi esistenziale, reale, cioè vero nella realtà. Provo a fare un esempio: una giovane, seriamente impegnata nel suo cammino di discernimento vocazionale, insisteva nell’affermare che aveva accettato nella fede certi eventi dolorosi, che aveva subito quand’era ragazzina, e che aveva perdonato la persona responsa­bile di tali fatti. Nel frattempo questa persona era deceduta. All’invito rivoltole di recarsi alla tomba e di pregare lì per lui, la giovane si è irrigidita ed ha rispo­sto negativamente. La sua reazione diceva ciò che le parole avevano taciuto; lei aveva certamente il desiderio di perdonare, vale a dire di accettare l’accaduto e le sue conseguenze, ma nel profondo di sé, consciamente o no, continuava a rifiutarlo. Di fatto il processo d’accoglienza ancora non era compiuto, ancora non era avvenuta una accoglienza esistenziale. Per questo passaggio, che va dalla “testa al cuore”, il percorso è lungo e ci vogliono talvolta più riprese.

 

 

Conclusione

La riappropriazione – sebbene certamente come evento in continuo dive­nire – della vita che si vuol donare, in tutti i suoi aspetti, è premessa per rispon­dere e aderire alla chiamata di Dio, in un atteggiamento responsabile e creativo verso la propria storia, anche nei confronti degli eventi difficili, atteggiamento capace di “sfruttare in modo intelligente l’esperienza personale negativa”[18].

Si tratta di imparare ad apprezzare l’affetto e l’amore che già abbiamo ricevuto, accettando che si tratti di un amore imperfetto, accettando che forse non abbiamo ricevuto l’affetto che avremmo desiderato, o che non l’abbiamo ricevuto nel modo atteso o voluto, ma se siamo qui è perché qualcuno ci ha accolto, amato, curato, si è occupato di noi. Certamente questo non toglie che ci siano anche delle ferite, talvolta profonde e serie, ma è anche vero che tutti siamo portatori di una storia ferita. Guarda­re solo il bicchiere mezzo vuoto non rispetta la verità della vita e imparare a scorgere ed apprezzare la metà colmata rende il nostro sguardo più oggettivo ed autentico.

Ricordo con tenerezza un giovane in ricerca vocazionale che aveva perdu­to il papà all’età di 10 anni in modo tragico e come, entrando dentro quella profonda ferita, il senso di abbandono e di vuoto, sia riuscito un po’ alla volta a scoprire, in un evento tanto doloroso, la presenza di Dio che gli si è rivelato come Padre amoroso, e a scorgervi la chiamata, a fare della sua stessa vita un dono. Veramente si era appropriato della vita che voleva donare, fino a farne un progetto vocazionale ricco di memoria credente[19]; veramente la memoria grata della sua storia personale costituiva il fondamento del cammino vocazionale.

L’amore ricevuto attraverso tante persone che, in situazioni e modi diversi, hanno avuto cura di noi è anche cifra e simbolo di un ulteriore amore, l’amore stesso di Dio: “Passai vicino a te e ti vidi… stesi il lembo del mio mantello su di te e coprii la tua nudità… ti lavai con acqua e ti ripulii del sangue e ti unsi con olio; ti vestii di ricami, ti calzai di pelle di tasso, ti cinsi il capo di bisso e ti ricoprii di seta; ti adornai di gioielli e di una splendida corona sul capo” (Ez 16, 8 ss).

Ciò significa che noi siamo già stati raggiunti da un amore che ci supera: è lo stesso amore di Dio riversato nei nostri cuori (Rm 5, 5) ed è proprio il contat­to con quest’amore che abbiamo il delicato compito di favorire nel ministero dell’accompagnamento personale.

La certezza che siamo già stati amati ancor prima di poter essere consape­voli di tale amore e ancor prima quindi di poterlo meritare, dovrebbe diventare nella nostra vita “una certezza pensata e sentita”: da qui la forza per farsi dono ed essere a nostra volta segno e testimoni di tale amore!

E allora possiamo dire, o meglio, possiamo pregare con sant’Agostino:

“Dio mio, fa’ che io ricordi per ringraziartene e ch’io confessi la tua miseri­cordia” (Conf. VIII, 1.1)

 

Note

[1] F. IMODA, Sviluppo umano psicologia e mistero, PIEMME, Casale Monferrato, 1993, pp. 145 ss. In seguito citato come SUPM

[2] Ibidem, p.85.

[3] ARNOLD, Feeling and Emotion, New York, p. 187; Emotion and Personality, 1960, p. 188. L’autrice spiega come nello sviluppo umano si formano le emozioni attraverso un complesso pro­cesso che è in relazione anche con gli istinti e che coinvolge ed è mediato dal sistema neurofisiologico. Nel bambino, sulla base delle esperienze di piacere e dispiacere, si sviluppano le emozioni, attra­verso il ricordo di cosa ha prodotto piacere e cosa dispiacere. Nella memoria affettiva le emozioni vissute si sono sedimentate e agiscono come matrice delle nostre esperienze ed azioni, colorando e influenzando il presente, sebbene tale processo e le stesse emozioni profonde coinvolte non sempre sono presenti alla nostra consapevolezza. Queste esperienze emotive, che rimangono a livello in­conscio, possono influire e ingannarci sul modo di percepire la situazione presente, limitando, in diversi gradi, la nostra libertà effettiva. La memoria affettiva si forma sulla base di esperienze ripetute oppure di esperienze traumatiche, a cui è collegato il fenomeno della repressione. È molto comune che emozioni spiacevoli che la persona prova, e che creano tensioni ed ansia, vengano represse nel subconscio dove sono tutt’altro che inerti e mantengono, in modo mascherato all’individuo, la loro componente dinamica. Vedi anche: A. BISSI, Il battito della vita, EP, 1998, pp. 20-27.

[4] O. R. ARENAS, Teologia della Rivelazione, PIEMME, Casale Monferrato, 1989, pp. 44 ss.

[5] A. LOUF, Generati dallo Spirito, Ed. Qiqajon, Magnano (VC), 1994, pp. 61 ss.

[6] Ibidem, pp. 54 ss.

[7] SUPM p. 363.

[8] In forza dei meccanismi più o meni inconsci di difesa.

[9] C. M. MARTINI, Il sogno di Giacobbe. Partenza per un itinerario spirituale, Centro Ambrosiano, PIEMME, Casale Monferrato, 1989, p. 24.

[10] A. CENCINI, I sentimenti del figlio. Il cammino formativo nella vita consacrata, Bologna, EDB, 1998.

[11] SUPM, p. 95.

[12] Vedi anche In verbo tuo, 34; A. CENCINI, Vita Consacrata, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1994, pp. 71 ss.

[13] SUPM, pp. 302 ss.

[14] Esortazione apostolica post-sinodale Vita Consecrata n. 70; SUPM, p. 369.

[15] SUPM, p. 87.

[16] Ibidem, p. 357.

[17] M. P. GARVIN, L’autobiografia nel discernimento di vocazione, in: “Vita Consacrata” 38, 2002/5, pp. 497-508.

[18] Documento finale del Congresso sulle Vocazioni al sacerdozio e alla Vita Consacrata in Europa, Nuove vocazioni per una nuova Europa, n. 37.

[19] Ivi.