N.03
Maggio/Giugno 2007

Un giovane diventa cristiano: l’esperienza di S. Agostino

Mi inserisco in un seminario di studio. I vari relatori sono chiamati a condurre tutti i presenti alla scuola di Agostino. Sono chiamati ad essere complementari tra loro e perciò, a cominciare da questo primo incontro, è bene indicare l’angolatura dalla quale si osserva il cammino di Agostino. Spero di non sovrappormi a quanto altri diranno. Forse don Luca Bonari ha pensato a me perché, qualche tempo fa, ho pubblicato una Lettera Pastorale dedicata ad Agostino e dal titolo: “Un giovane diventa cristiano”. Non voleva essere uno studio, ma un semplice strumento per il cammino pasto­rale, offerto alla Diocesi di Novara mentre si metteva in primo piano la responsa­bilità della nostra Chiesa nei confronti dei ragazzi, degli adolescenti e dei giova­ni. Quanto ora dirò riprende sostanzialmente ciò che allora ho scritto, facendo riferimento soprattutto ai quattro anni da lui vissuti a Milano: un tempo peraltro fondamentale per tutto il resto della sua vita.

Mi sembra opportuno ricordare che ciò di cui parliamo è un mistero. Lo diceva Giovanni Paolo II quando scriveva a proposito di se stesso: “La storia della mia vocazione sacerdotale? La conosce soprattutto Dio. Nel suo strato più profondo, ogni vocazione sacerdotale è un grande mistero, è un dono che supe­ra infinitamente l’uomo. Ognuno di noi sacerdoti lo sperimenta in tutta la sua vita” (“Dono e mistero”, pag. 9). Sì, sono anch’io convinto che la storia della venuta alla fede, e poi il cammino che permette alla fede di prendere un nome personale, rimangano un mistero. Sono infatti grazia e libertà. Noi potremmo dunque dirne qualcosa, ma non pretendere di comprendere tutto. E tuttavia, per quanto poco comprendiamo, forse c’è un sentimento che incomincia a germo­gliare: lo stupore.

Con riferimento esplicito ai giovani, Giovanni Paolo II scriveva ancora che la vocazione “è il mistero di un meraviglioso scambio tra Dio e l’uomo. Questi dona a Dio la sua umanità, perché egli se ne possa servire come strumento di salvezza, quasi facendo di quest’uomo un altro se stesso. Se non si coglie il mistero di questo scambio, non si riesce a capire come possa avvenire che un giovane, ascoltando la parola «Seguimi!», giunga a rinunciare a tutto per Cristo, nella certezza che per questa strada la sua personalità umana si realizzerà pienamente” (idem, pag. 84).

Questa insistenza sul mistero che avvolge il cammino di fede e quello delle vocazioni che fioriscono nella Chiesa ci apre l’orizzonte più adeguato di cui tenere conto e, nel medesimo tempo, dei limiti da riconoscere nei nostri tentativi di lettura.

Tutto questo mi pare particolarmente vero quando guardo ad Agostino e cerco di seguire il filo del suo cammino. Percorrendolo, egli è stato aiutato so­prattutto da alcune persone. In questa relazione vorrei leggere l’esperienza di Agostino, in certo senso, dall’esterno, e cioè illustrando il contributo che giun­se da fuori ad Agostino perché compisse i passi che lo avrebbero condotto a diventare cristiano.

M. Bellet ha scritto un impegnativo saggio intitolato “Vocation et liberté”. È tra le opere più stimolanti che mi è capitato di leggere su questo tema, anche se prevalgono un taglio e un linguaggio di tipo filosofico che non ne rende sempre agevole la lettura. Il suo è un tentativo di rileggere la vita intesa e vissuta come vocazione. Sono tre i grandi capitoli che affronta: quello della scoperta della vocazione, quello della sua verifica e quello del suo compimento. Nel primo capitolo si domanda quali siano le strade percorrendo le quali la scoperta della vocazione può avvenire. Ne indica quattro e le chiama: il sogno, l’incontro con l’altro, quella che potrebbe essere detta la chiamata mistica, la riflessione.

In questa mia relazione privilegio il secondo sentiero, quello dell’incontro con l’altro, anche se mi sembra di poter dire che il travaglio di Agostino lo abbia condotto a percorrere molteplici sentieri tra loro complementari e sempre profondamente intrecciati. Se mi soffermo su questo sentiero, ciò non vuol dire che sottovaluti gli altri. Questa scelta mi viene però suggerita dal fatto che, negli anni da lui vissuti a Milano e conclusisi con il Battesimo, emergono in primo piano dei “soggetti cristiani” che lo hanno molto aiutato a uscire dalle tenebre e ad entrare nella luce della grazia di Cristo.

Svolgerò questo intervento dando spazio anzitutto al racconto, per poi rac­cogliere qualche interrogativo, che credo importante, per le nostre responsabi­lità educative e pastorali.

 

Il racconto

Vengo dunque al racconto degli anni immediatamente precedenti la con­versione di Agostino. Chi lo ha aiutato a diventare cristiano?

Ambrogio

Va ricordata anzitutto la figura di un vescovo: Ambrogio. Ciò che mag­giormente colpiva Agostino era la ricchezza di nutrimento che offriva al popolo cristiano. Agostino vi coglieva forza e bellezza, gioia e consolazione, addirittura una sobria ebbrezza: quella donata dallo Spirito Santo e dalla partecipazione al sangue di Cristo nell’Eucaristia. Scrive infatti: «Andai a Milano, dal vescovo Ambrogio, personaggio stimato tra i migliori del tempo e tuo servo devoto, la cui eloquenza dispensava con forza al tuo popolo il fiore del tuo frumento, la gioia dell’olio e la sobria ebbrezza del tuo vino»[1].

La loro vicendevole relazione è stata incoraggiata dall’accoglienza cordiale riservata da Ambrogio a questo giovane: «Quell’uomo di Dio mi accolse in modo paterno e, con una benevolenza degna di un vescovo, si rallegrò della mia venu­ta. Cominciai ad amarlo, ma non subito come maestro di quella verità che non speravo proprio di trovare nella tua Chiesa, ma come uomo che aveva avuto delle delicatezze per me»[2].

Da parte di Agostino la relazione diventa soprattutto coltivazione dell’ascolto: «Stavo tutto assorto ad ascoltarlo quando istruiva il popolo, non però con l’intenzione che avrei dovuto avere, ma quasi per verificare se la sua eloquenza era pari alla fama, oppure se era superiore o inferiore a quanto si andava dicendo. Rimanevo incantato dalle sue parole; ascoltavo invece i contenuti con indiffe­renza e senza interesse; mi piaceva molto il suo modo di parlare così dolce. […] Se non che la salvezza è lontana dai peccatori, ed io ero uno di questi, allora. Ma lentamente, senza saperlo, mi stavo avvicinando ad essa»[3].

E infatti, all’interno di questa relazione e di questo ascolto, si avvia un lento cammino verso la fede: «Per quanto non badassi ad apprendere le cose che diceva, ma solo ad ascoltare come le diceva (era questo l’unico vano interesse che mi era rimasto dopo che avevo perso la speranza di vedere aprirsi per l’uomo una via verso di te), mi scendevano nell’anima, assieme alle parole che amavo, anche i contenuti a cui non davo alcuna importanza. Non riuscivo più, infatti, a separare le une dagli altri. Così, nel cuore che si apriva ad accogliere l’eloquenza della sua parola, cominciava ad insinuarsi, sia pure lentamente, anche la verità della sua parola»[4].

Protagonista di questo pellegrinaggio interiore rimaneva Dio stesso: «Senza che lo sapessi, eri tu a guidarmi da lui, perché attraverso di lui, sapendolo, fossi guidato da te»[5].

 

Monica

Un secondo volto da ricordare è noto ad Agostino da sempre: quello di sua madre. Si chiamava Monica. Era una cristiana semplice e autentica. Aveva dato al mondo Agostino quando aveva ventitré anni. Ebbe altri due figli. Il marito si chiamava Patrizio. Non era cristiano, e tuttavia era «tollerante e aperto all’educazione cristiana dei figli»[6]. Diventerà cristiano al termine della sua vita. Agostino attribuisce alla madre anche il percorso personale verso la fede da parte del marito: «Alla fine – scrive – riuscì a guadagnare a te anche il marito, giunto ormai al termine della sua vita terrena, e non dovette più deplorare in lui, che era entrato nella pienezza della fede, ciò che aveva sopportato quando ancora non lo era»[7].

Il rapporto tra Agostino e la madre è piuttosto singolare. Nel libro de Le Confessioni diverse pagine sono a lei dedicate. Quelle relative alla malattia e alla morte sono particolarmente commoventi per la loro profondità e finezza.

Se mi domando in quale modo questa donna semplice abbia potuto aiutare l’intellettuale Agostino a diventare cristiano, raccolgo da lui stesso qualche risposta. Prima di tutto, gli ha fatto «pregustare con il latte materno» il nome di Cristo[8]. Un’immagine bella e forte. Una gioia per una madre credente. Una fortuna per un bambino. Sempre a questo riguardo, Agostino afferma – e l’osservazione sorprende – che il suo cuore «ha poi sempre custodito nell’intimo» quel nome, e si intende il nome di Cristo[9], anche se tutto, nella condotta degli anni giovanili, pareva dire il contrario e far pensare a una lontananza o negazio­ne del Signore. In realtà, sotto la cenere c’era un fuoco ancora acceso. Quanto al rapporto con il cristianesimo, Agostino non era dunque tabula rasa. In un certo senso, è sempre stato catecumeno: «Avevo già sentito parlare, quand’ero ancora bambino, della vita eterna che ci è promessa grazie all’umiltà del Signo­re nostro Dio […]; portavo già il segno della sua croce e mi era stato cosparso il suo sale al momento di uscire dal grembo di mia madre, che aveva riposto grandi speranze in te»[10].

Nonostante la sua fede, Monica dovrà patire la cocente delusione di vede­re il figlio perdersi, negli anni dell’adolescenza e della giovinezza, in una vita dissoluta e dietro a filosofie incompatibili con il cristianesimo. Come dice Agostino di se stesso: «Camminavo nelle tenebre e su strade scivolose; ti cercavo fuori di me e non trovavo il Dio del mio cuore. Avevo ormai toccato il fondo del mare, non avevo più fiducia e perso ogni speranza di trovare la verità»[11]. Ma aggiun­ge: «Già mi aveva raggiunto mia madre che, forte della sua fede, mi aveva seguito per mare e per terra, sicura in te anche in mezzo ai pericoli. Nei mo­menti difficili della traversata, era lei a far coraggio persino ai marinai […]. Mi piangeva davanti a te come un morto, ma un morto da resuscitare, e nella sua mente si immaginava di presentarmi a te nella bara, perché tu dicessi al figlio della vedova: giovane, dico a te, alzati, ed egli tornasse alla vita, cominciasse a parlare e tu lo rendessi a sua madre»[12]. Di più: «aveva la certezza in Cristo che prima di lasciar questa vita mi avrebbe visto nella fede cattolica. Così disse davanti a me»[13].

Che cosa fa, questa donna, in presenza della dolorosa situazione del figlio, durata oltre dieci anni? Verrebbe da dire: nulla. Che poteva fare? Come aiutare un figlio geloso della sua autonomia e, col passare del tempo, tanto più istruito di lei? Ma quella madre sapeva che qualcosa poteva fare. Precisamente due cose.

Ecco la prima: «Davanti a te, fonte di misericordia, scorrevano preghiere e lacrime sempre più abbondanti perché tu venissi presto a soccorrermi e a illumi­nare le mie tenebre»[14]. Ed ecco la seconda. Quelle preghiere e lacrime non le impediscono di percepire che, giungendo a Milano, ha trovato, per lei e per suo figlio, una grande fortuna: quella di incontrare il vescovo Ambrogio. Egli è di­ventato per lei un vero punto di riferimento e un luogo di costante illuminazione. Ricorda Agostino: «Con più intenso zelo correva in chiesa a pendere dalle lab­bra di Ambrogio, fonte d’acqua zampillante per la vita eterna. Essa amava quell’uomo come un angelo di Dio, da quando aveva saputo che era stato lui a guidarmi verso quello stato di dubbio problematico; aveva il presentimento certo che quella fase di transizione mi avrebbe condotto dalla malattia alla salute, dopo aver superato uno stadio di pericolo più acuto, una specie di fase critica, come la chiamano i medici»[15].

 

Simpliciano

C’è un terzo volto da considerare: quello di Simpliciano. Una figura eccezio­nale e meravigliosa. Quando incontra Agostino è un semplice prete, mentre Ambrogio è già vescovo di Milano. Diventerà lui stesso vescovo, succedendo immediatamente ad Ambrogio, “dal quale era amato proprio come un padre”[16]. Diventerà padre anche di Agostino, che lo incontra mentre è alla ricerca di una persona con la quale discutere, dibattere, dialogare, avere l’aiuto per un discer­nimento spirituale. Per grazia di Dio trova in lui un uomo che, a quei tempi, nella Chiesa di Milano, era un punto di riferimento culturale attorno al quale si raduna­vano persone interessate alla filosofia, alla letteratura, alla teologia. Era un prete preparato, colto, capace di svolgere con competenza un ruolo di guida nei con­fronti di coloro che gli ponevano anche domande complesse sulla vita dell’uomo. Agostino era una di queste persone.

Fu una fortuna l’incontro di Agostino con Simpliciano: «Tu suggeristi alla mia mente l’idea – parsa buona ai miei occhi – di recarmi da Simpliciano, che conoscevo come tuo servo fedele e nel quale risplendeva la luce della tua gra­zia. Avevo sentito dire che, già in gioventù, egli aveva vissuto in una totale dedizione a te e, ora che era diventato vecchio, con il peso di così lunghi anni spesi con tanto zelo a seguire la tua via, mi appariva con tutta la ricchezza della sua esperienza e della sua sapienza: e così era davvero»[17].

Se mi domando perché Agostino sia andato a trovare Simpliciano, mi sem­bra che si possano dare due risposte. La prima era la stima che Simpliciano godeva ai suoi occhi; la seconda, non meno importante, era la condizione inti­ma di Agostino e le questioni che gli premevano dentro: «Era mio desiderio ricorrere a lui per confidargli i miei turbamenti e ricevere consigli sul metodo più idoneo, per uno nella mia condizione, di camminare nella tua via»[18].

I motivi che lo conducevano da Simpliciano dicono già molto circa i con­tenuti dell’incontro: «Gli raccontai le mie peripezie nell’errore e quando riferii di aver letto alcuni libri dei neoplatonici, tradotti in latino da Vittorino – che era stato retore a Roma e che, a quanto si diceva, era morto cristiano –, si rallegrò con me perché non avevo frequentato gli scritti di altri filosofi ove pullulavano menzogne e inganni […] mentre invece in quelli [neoplatonici] per molti versi si insinua l’idea di Dio e del suo Verbo»[19].

I contenuti degli incontri si riferivano dunque ai turbamenti che accompa­gnavano e tormentavano la vita di Agostino e anche a studi e letture che andava facendo in quegli anni. Da questo accenno si intuisce che il rapporto tra Simpliciano e Agostino non sia stato limitato semplicemente a qualche sporadi­co incontro: «Agostino trovò in Simpliciano tempo e disponibilità, esattamente quello che si rammaricava di aver cercato invano in Ambrogio; pazienza, santità e sapienza abilitavano il vecchio presbitero nel compimento delle funzioni che in quel momento erano necessarie per il tormentato e cavilloso africano: illuminar­gli la mente e purificargli il cuore»[20].

Quando Agostino incontra personalmente Simpliciano ha già maturato un passo fondamentale. Eccolo: «Le tue parole si erano scolpite nel mio cuore e da ogni parte ero assediato da te. Della tua vita eterna ero ormai certo, benché la vedessi ancora sotto forma di enigma e come in uno specchio»[21]. Ma altri passi lo attendevano: «Ciò che desideravo non era una più forte certezza di te, bensì una maggiore stabilità in te. In realtà, tutto traballava nella mia vita temporale e il mio cuore doveva essere purificato dal lievito vecchio; ero attirato dalla via, dalla persona del Salvatore, ma stentavo ancora a seguirlo per i suoi stretti sentieri»[22].

La pedagogia adottata da Simpliciano nel parlare con questo giovane così complesso, sia sul fronte intellettuale che su quello morale, è stata senza dubbio caratterizzata dall’impegno di affrontare temi filosofici e teologici. Ma Simpliciano non si è limitato a seguire questo sentiero, peraltro appena accennato nelle pagine de Le Confessioni. Egli ha attribuito molta importan­za a quello della testimonianza. Perciò ha dato spazio a uno spunto che Agostino stesso aveva offerto nella conversazione facendo riferimento alle traduzioni dei neoplatonici compiuta da un certo Caio Mario Vittorino, cono­sciuto personalmente da Simpliciano: «Per esortarmi all’umiltà di Cristo, nascosta ai sapienti e rivelata ai piccoli, prese a parlarmi di Vittorino, con cui aveva avuto rapporti molto stretti al tempo in cui era stato a Roma»[23]. Essen­do un’acuta guida spirituale, Simpliciano aveva intuito che per un giovane intellettuale come Agostino potesse molto giovare confrontarsi con l’esempio di un altro grande intellettuale, notissimo a Roma.

 

Ponticiano

Ponticiano? Chi era costui? In effetti molti di noi hanno sentito parlare del vescovo Ambrogio, forse anche della madre di Agostino e (sicuramente meno) di Simpliciano. Di Ponticiano, invece, probabilmente non sappiamo proprio nul­la. Eppure nel racconto de Le Confessioni trova largo spazio e non è esagerato dire che anch’egli ha contribuito alla conversione di Agostino. Se la familiarità con Ambrogio e Simpliciano (senza dire di quella con sua madre) era durata a lungo, l’incontro con questo giovane appare quasi del tutto casuale e ristretto nel tempo. In seguito, nel racconto de Le Confessioni, quel personaggio non apparirà più. Ma la grazia passa da dove vuole, anche dagli incontri occasionali e brevi. Essi possono essere più decisivi di quelli che noi diciamo programmati.

«Un giorno – scrive Agostino – venne a far visita a me e ad Alipio un certo Ponticiano, che ricopriva un’alta carica a palazzo e che era nostro compatriota, in quanto africano come noi: non so bene che cosa volesse […]. Era un cristiano praticante e spesso, in chiesa, si prostrava dinanzi a te, Dio nostro, per innalzarti la sua lunga e fervente preghiera»[24]. «Non so bene che cosa volesse», sottoli­nea Agostino[25]. «Ci mettemmo a sedere per parlare, e, per caso, gli cadde l’occhio su un libro posato sopra un tavolo da gioco dinanzi a noi: lo prese, lo aprì e, con sua grande meraviglia, trovò che erano le lettere dell’apostolo Paolo, mentre si aspettava che fosse uno di quei libri che mi davo tanta pena a com­mentare a scuola. Allora, guardandomi, mi sorrise e si congratulò con me, di­cendosi sorpreso di avere inaspettatamente trovato davanti ai miei occhi quel libro, e quel libro solo»[26]. E così la conversazione diventò un racconto. A una a una, venivano fatte emergere diverse testimonianze. Già Simpliciano aveva seguito questa pista, nei colloqui con Agostino. Qui la si riprende ancora. Più che alle parole ci si affida ai fatti. Dalle lettere di Paolo il dialogo, continua Agostino, si diresse su Antonio, «il monaco egiziano che godeva di grande fama ma che noi, fino a quel momento, non conoscevamo ancora. Non appena se ne rese conto, si infervorò nel racconto per cercare di istruirci e manifestan­do la sua sorpresa per la nostra ignoranza. Lo ascoltavamo pieni di stupore»[27].

Da Antonio il discorso si spostò sulle comunità dei monasteri a cominciare da quello che si trovava «nella stessa Milano, fuori dalle mura […], in cui vive­vano dei bravi fratelli, e noi non lo sapevamo»[28]. Perciò, mentre Ponticiano continuava il racconto, «noi, tutti attenti, lo ascoltavamo in silenzio». Dal mo­nastero di Milano, Ponticiano condusse con le sue parole anche molto lontano da lì: a Treviri, una delle capitali dell’impero romano con Valentiniano I. Egli ricordava che alcuni suoi colleghi, personaggi dunque della corte, tempo addie­tro «erano andati a far quattro passi nei giardini attigui alle mura, un giorno nel quale l’imperatore era trattenuto al circo per lo spettacolo pomeridiano. Se ne andavano casualmente in giro a due a due, quando ad un certo punto lui e un amico presero una strada, gli altri due un’altra. Questi ultimi, girando di qua e di là, finirono in una casupola abitata da alcuni tuoi servi, quei poveri nello spirito ai quali appartiene il regno dei cieli. Lì trovarono un libro che racconta­va la vita di Antonio; uno di loro cominciò a leggerlo». Subito si sentì profon­damente interpellato e disse all’altro: «Che cosa speriamo di ottenere con que­sti sacrifici? Che cosa cerchiamo? Per quale causa stiamo lottando?»[29]. Andan­do avanti nella lettura «fu preso da ammirazione ed entusiasmo, tanto che già meditava di abbracciare quella vita e di abbandonare la milizia del mondo per servire Te»[30]. E così infatti avvenne: l’uno e l’altro abbandonarono tutto per consacrarsi al Signore. A nulla valse che Ponticiano li invitasse a ritornare a palazzo. Oramai avevano deciso.

Tutto questo sconvolse interiormente Agostino e costituì, forse, lo stimolo definitivo per la soluzione del suo dramma interiore. Egli si sentì seriamente posto di fronte a se stesso: «Tu, Signore, mentre [Ponticiano] parlava, ricacciavi me in me stesso, scrollandomi da dietro le spalle dove mi ero sistemato per non guardarmi, mettendomi davanti al mio volto […]. Mi ponevi di fronte a me stesso e mi spingevi davanti ai miei occhi per mettermi faccia a faccia con la mia malvagità»[31]. Anzi, le parole di Ponticiano conducevano Agostino a rodersi dentro di sé: «Erano come colpi di frusta le parole con cui percuotevo la mia anima»[32]. Provocavano una «furibonda lotta […] nella stanza più segreta»[33]. L’amico Alipio assisteva alla scena «sbigottito e senza parole»[34] e fissava Agostino in silenzio. Ad esprimere lo stato d’animo di Agostino erano «il volto, le guance, gli occhi, il colore del viso, il tono della voce»[35].

Certamente Ponticiano non immaginava di provocare una simile tempe­sta. Agostino si ritirò in un piccolo giardino che era a sua disposizione, come lo era tutta quanta la casa nella quale in quel giorno si trovavano, non essendo abitata dal padrone che li ospitava[36]. Quello non fu certo un giorno qualunque. Maturò infatti in Agostino la decisione di servire Dio. Da tempo egli se lo era proposto, ma lo aveva sempre rimandato. Era trattenuto da catene che oramai erano un filo sottile e che, tuttavia, invece che spezzarsi definitivamente, avreb­bero potuto riprendere consistenza e tenerlo legato più stretto di prima. «Quan­do infine, dopo un’approfondita meditazione, ebbi la forza di far emergere dal fondo segreto di me stesso e di radunare davanti agli occhi del mio cuore tutta la mia miseria, l’anima mia fu scossa da una grande tempesta che provocò un’abbondante pioggia di lacrime. E per potermi completamente abbandonare al pianto e ai singhiozzi, mi alzai e mi allontanai da Alipio […] e me ne andai in un luogo più appartato […]. Strariparono allora i fiumi dei miei occhi, sacrifi­cio a te gradito, e il mio cuore si confidò a lungo con te»[37].

«Mentre dicevo queste cose e piangevo, ad un tratto mi parve di udire da una casa vicina una voce – di bambino o di bambina, non saprei dire – che cantava ripetendo più volte: prendi, leggi, prendi, leggi […]. Trattenendo le lacrime, mi alzai, convinto che l’unico ordine che mi era stato impartito dal cielo era di aprire il libro e di leggere il primo capitolo che mi fosse capitato davanti. Mi era stato detto, in realtà, che proprio da una lettura del Vangelo alla quale aveva assistito per caso, Antonio si era sentito personalmente investire dall’esortazione di queste parole: va’, vendi tutto quello che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli, poi vieni e seguimi. Parole che ebbero subito l’effetto di convertirlo a te. Corsi allora verso il luogo dove era seduto Alipio perché là avevo lasciato il libro dell’apostolo. Lo presi in mano, lo aprii e, in silenzio, lessi il primo brano che mi cadde sotto gli occhi: “Non state nelle gozzoviglie, nelle orge, non nelle lussurie e nelle impudicizie, non nei litigi e nelle gelosie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo”. Non volli leggere altro, né altro era necessario. Perché, dopo aver letto queste ultime parole, tutte le tenebre del dubbio scomparvero, come se il mio cuore fosse stato inondato da una luce di certezza»[38].

 

Il volto di una Chiesa

Ad aiutare Agostino nel cammino verso Cristo non sono state soltanto singole persone. È stata anche una comunità: la Chiesa di Milano guidata da Ambrogio. Egli scrive: «Vedevo la Chiesa popolata di fedeli, ma chi ci andava in un modo, chi in un altro»[39]. Non si trattava né di un club, né di una élite. Tanto meno di una setta. Ne facevano parte persone di ogni ceto sociale, dai semplici ai dotti, dalla gente umile a coloro che portavano responsabilità professionali, amministrative e politiche.

È stato agevole per Agostino capire che cosa stava al centro di quella comunità. Quel popolo si ritrovava, insieme con il vescovo, attorno al Signore Gesù Cristo. Ambrogio diceva: «Tutto abbiamo in Cristo e tutto è Cristo per noi. Se vuoi curare una ferita, egli è medico; se sei riarso dalla febbre, è fontana; se sei oppresso dall’iniquità, è giustizia; se hai bisogno di aiuto, è forza; se temi la morte, è vita; se desideri il cielo, è via; se fuggi le tenebre, è luce; se cerchi il cibo, è alimento»[40].

Due erano le caratteristiche che colpivano molto Agostino: la Chiesa di Milano era una Chiesa del coraggio e della gioia, ed era la Chiesa dei martiri. La comunità camminava verso la sobria ebbrezza dello Spirito. Ambrogio stes­so così lo incoraggiava: «Cristo sia nostro cibo / nostra bevanda sia la fede / lieti beviamo la sobria / ebbrezza dello Spirito»[41]. Agostino ascoltava commos­so questo popolo che cantava[42]. Lo ammirava soprattutto perché lo faceva an­che nei giorni difficili, vegliando per esempio di notte per difendere le proprie chiese[43]. Il canto, soprattutto in quelle ore, alimentava nel popolo la consape­volezza della propria dignità e della sua spirituale ricchezza[44]. L’ebbrezza dello Spirito diventava clima di gioia e di coraggio nella comunità. Riferendosi alle celebrazioni liturgiche, Agostino scriveva: «Il popolo entra in folla: dapprima ne riversa le ondate da tutti gli ingressi, poi, mentre i fedeli pregano in coro, scroscia come per il rifluire dei flutti, allorché il canto di uomini, di donne, di fanciulli, a guisa di risonante fragore di onda, fa eco nei responsori dei salmi»[45].

Non solo il canto contribuiva a dare fascino e bellezza alla Chiesa di Ambrogio. Erano ancor più i martiri. Ad essi il vescovo tributava il massimo onore e voleva che tutto il popolo leggesse la propria esperienza di fede metten­dosi in paragone con coloro che, per amore di Cristo, avevano addirittura sacri­ficato la vita. Egli «intendeva proporre ai credenti modelli di una sequela di Cristo impavida e generosa; e non mancava di mettere in guardia i cristiani contro i pericoli dei tempi di pace quando ai persecutori violenti si sostituiscono quelli più subdoli che, “senza ricorrere alla minaccia della spada, stritolano spes­so lo spirito dell’uomo, quelli che espugnano l’animo dei credenti più con le lusinghe che con le minacce”»[46].

 

 

Il nostro compito

Quale Vescovo?

La relazione tra Ambrogio e Agostino mi chiama in causa direttamente. Mi spinge a considerare se, nel mio modo di esercitare il ministero, io riesca a rico­noscere alcuni tratti del suo stile di lavoro.

Un primo punto riguarda la sostanza (o i contenuti) della predicazione di Ambrogio. Egli – si potrebbe dire – non faceva altro che spiegare le Sacre Scrit­ture dell’Antico e del Nuovo Testamento. Non diceva parole sue, meditava la Parola di Dio e a quella dava voce.

C’è anche un altro aspetto che mi interpella quando medito sulla figura del vescovo Ambrogio: è ciò che Agostino dice di lui quanto alla relazione persona­le che ha potuto instaurare. Non è che siano stati frequenti i colloqui fra i due. Anzi, sono stati piuttosto rari. Ambrogio era assediato ogni giorno, come scrive lo stesso Agostino, da molte persone che cercavano di parlare con lui per le più disparate questioni[47]. Non è escluso nemmeno che Ambrogio non si sentisse del tutto a proprio agio nel trattare con un giovane intellettuale, molto proble­matico e certamente non facile da guidare. Agostino tuttavia è colpito dalla benevolenza di Ambrogio nei suoi confronti, e anzi dalla sua delicatezza. Trova peraltro normale che egli testimoni questo atteggiamento: gli sembra quello più appropriato per un vescovo.

Questi particolari mi fanno ripensare al motto episcopale che ho scelto prendendolo dal card. J.H. Newman: Cor ad cor loquitur. La direzione nella quale queste parole mi spingono è evidente. Confesso che quando le ho scelte le ho intese soprattutto come un proposito. È così anche adesso. Ciò che in questo ambito dovrei fare è molto di più. Mentre chiedo scusa di tutte le lacune da me mostrate in questi anni a tale riguardo, riaffermo che la prospettiva mi affascina e che rinnovo pubblicamente per il futuro il proposito fatto in passato.

Quale famiglia?

Il rapporto di Agostino con sua madre chiama evidentemente in causa la famiglia. Dalle pagine di Agostino emerge la presenza continua (che talvolta può parere addirittura eccessiva) di una madre e l’assenza sostanzialmente totale del padre, peraltro diventato catecumeno quando Agostino aveva sedici anni e poi morto l’anno seguente. Verrebbe da dire che ci troviamo di fronte a un caso moderno anche da questo punto di vista, senza tuttavia dimenticare che, nel IV secolo, i cristiani erano una minoranza sia in Numidia che a Milano.

Mi pare pregevole che un padre pagano non si opponesse all’educazione cristiana dei figli. E non mi sembra senza significato che, sia pure alla fine della vita, quest’uomo divenga anch’egli cristiano. Mi sembra soprattutto eloquente la convinzione granitica di Monica di poter contribuire, nonostante il contesto familiare non del tutto favorevole, all’introduzione dei figli alla vita cristiana.

Vorrei però tornare, in particolare, sul cenno fatto al latte materno. In certo senso, come ho già detto, il cristianesimo è stato “donato” ad Agostino già da quando ha cominciato a succhiare quel latte. Lo dico più volte ai genitori, so­prattutto in occasione della visita pastorale: con i bambini e i ragazzi voi avete ancora enormi possibilità di introdurre nella vita cristiana. Più avanti, quando giungerà l’adolescenza, certamente occorreranno anche altri contesti, oltre a quello familiare, per sostenere un’adesione matura dei figli alla fede. Intanto, però, non bisognerebbe perdere l’occasione.

Ancor più mi preme dare evidenza a un’affermazione di Romano Guardini, che ha scritto un’opera sulla conversione di Agostino. «Monica – egli afferma – sembra essere stata, nell’esistenza di Agostino, la guida, la viva personificazione della Chiesa»[48]. Si può dire che, senza saperlo, egli aveva incontrato la Chiesa già da piccolo. E anzi, dalla Chiesa, attraverso sua madre, non sarebbe mai stato abbandonato. È infatti questo accompagnamento lungo tutto il suo cam­mino quello che Monica esprime e garantisce. Attraverso la sua persona avvie­ne il miracolo della comunicazione del Vangelo e dell’introduzione alla cono­scenza di Cristo.

In questo contesto le preghiere e le lacrime di Monica non sono gesti disprezzabili di una persona di poco conto. Esprimono invece un amore miseri­cordioso, forte, paziente, perseverante: quello che Dio ha per noi; quello che la Chiesa “madre” è chiamata a donare perché anche i cuori più induriti si aprano alla voce di Dio, la intendano e l’accolgano[49].

Quale prete?

È bello che ad essere guida riconosciuta di un giovane sia stato un vecchio prete. È di consolazione e di incoraggiamento per tutti i nostri sacerdoti. Sta a dire che, per le scelte di fondo dei giovani, non è l’anagrafe a renderci loro contemporanei, bensì la figura cristiana che ad Agostino è sembrato di scorgere sul volto di Simpliciano: un uomo che, già da giovane, si era dedicato a Cristo e che, diventato anziano, perseverava nella fedeltà senza che questa esperienza diventasse mai abitudine vecchia o stantia.

Non si può evidentemente sottovalutare la delicatezza e la difficoltà di svolgere, da parte dei nostri sacerdoti, il compito di “padri spirituali” dei giovani (e non solo di loro). Sono richieste molte doti e un’accurata preparazione. Que­sta poi non sarà mai finita, non solo e non tanto perché le scienze dell’uomo sono in continua evoluzione, quanto perché l’animo umano rimane un mistero per l’uomo stesso: una realtà largamente insondabile di cui Dio solo conosce il segreto. C’è soprattutto da affrontare, da parte di un accompagnatore spirituale, una questione cruciale. Egli non è assolutamente chiamato ad essere una specie di istruttore tecnico su cose che riguardano la vita religiosa. Ha invece il compito ben più arduo e bello di essere un interprete penetrante di uno spartito musicale del quale capire il tema e il suo sviluppo, l’ispirazione profonda e la forza poetica, le incertezze e ciò che resta incompiuto, le dissonanze e i passaggi più difficili, la melodia e l’impasto dei molti strumenti dell’orchestra. Quello spartito è il cuore dell’uomo. È questo che va capito. Per usare un termine antico, si potrebbe parlare di “cardiognosi”, e cioè di capacità di conoscere il cuore.

La lettura del cuore è da intendere, oggi soprattutto (più di quanto non avvenisse per Agostino, pur tentato dallo scetticismo), come capacità di susci­tare domande: questo è quanto viene richiesto, nell’epoca della post-modernità, a un accompagnatore spirituale, soprattutto dei giovani. Sono infatti le doman­de ad essere spesso occultate. Vanno dissepolte con coraggio e fiducia. Per quanto nascoste, esse ci sono. Ne sono prova persuasiva i grandi educatori cristiani, che nemmeno oggi mancano[50].

La vicenda di Agostino conduce a riconoscere che la saggezza di Simpliciano è stata quella di capire che, per aiutare efficacemente quel giovane, non doveva tanto inoltrarsi sul terreno di molte discussioni di principio, pure necessarie e importanti, quanto offrirgli esempi concreti, stimolanti e affascinanti. Egli com­prese che l’esitazione vera di Agostino era quella di una «libertà che, benché già orientata a Cristo, soffre ancora i rallentamenti e i rinvii nei confronti di scelte evangeliche erette a forma concreta di vita»[51]. Oggi, non meno che 1700 anni fa, chi tratta con i giovani e intende percorrere un cammino insieme con loro dovrà fare i conti con la grande esperienza della fede, intesa come reale e quotidiana “sequela” di Gesù. Si tratta di aiutare i giovani a “fare il Vangelo” e ad arrischiarsi su di esso con scelte che impegnino, sull’oggi, la libertà. Solo così, piano piano, si compagina in loro la conversione cristiana.

C’è un’ultima osservazione che merita di essere fatta. Il travaglio spiritua­le che Agostino confidava a Simpliciano era molto disteso nel tempo: aveva avuto inizio quando aveva circa diciannove anni e avrebbe trovato un compi­mento significativo quando ne aveva circa trentatre. I quattro anni da lui vissuti a Milano ci mettono di fronte ad un “giovane-adulto”. È giusto tener conto di questo particolare che contribuisce a fare de Le Confessioni un’opera eloquente per la nostra contemporaneità. Agostino, che già esercitava una professione, ci sollecita infatti a una scelta molto moderna e tutt’altro che ovvia: quella di cerca­re il contatto con giovani dai venticinque ai trentacinque (e più) anni. Sono i giovani che, per lo più non prima dei ventotto anni, le nostre parrocchie vedono avvicinarsi per il corso di preparazione alla celebrazione del matrimonio religio­so. Sono i giovani che, dopo aver frequentato le scuole superiori e magari anche l’università, entrano nel mondo del lavoro e si inoltrano sui sentieri della profes­sione. Sono i giovani che affrontano la fase iniziale della vita matrimoniale e devono perciò trovare un equilibrio, non sempre facile, nel rapporto di coppia. E sono le coppie che, diventate per la prima volta padri e madri, debbono farsi carico della responsabilità di accudire un figlio e di educarlo dopo averlo amoro­samente generato e accolto.

Qualora in termini di vita ecclesiale e di esperienza di fede dimenticassimo i “giovani-adulti”, sarà meno facile che, in seguito, essi valorizzino appieno altre opportunità (che pur ci saranno) per recuperare i riferimenti cristiani essenziali. Se invece essi trovano sostegno, incoraggiamento e illuminazione, il guadagno sarebbe duplice: il primo riguarda la loro robustezza cristiana; il secondo riguar­da la Chiesa stessa e l’intera società civile che troverebbero in loro dei validi responsabili per il futuro.

Quali laici?

Il giorno in cui Agostino incontrò Ponticiano divenne l’incontro con un angelo inviato da Dio per fargli un annuncio. Nemmeno Ponticiano sapeva di essere un tale angelo. Ma così è. Ad Agostino, immerso nel travaglio della conversione, in modo del tutto inconsapevole, quel giovane svela la sua voca­zione futura. Diventerà cristiano. E non è tutto: la forma futura della sua espe­rienza cristiana sarà quella della consacrazione totale a Dio nella vita monasti­ca. Una prospettiva che, in quel momento, era del tutto estranea al suo orizzon­te mentale e al suo comportamento morale.

Ma quando mai noi sappiamo se una circostanza è importante o seconda­ria, decisiva o inutile? E quando, già preventivamente, possiamo prendere alla leggera circostanze e incontri come se fossero sicuramente secondari, se non del tutto inutili? La nostra stessa esperienza personale non ci dice forse che un incontro normale (o casuale) può diventare il luogo inedito di una grande sco­perta? Le “occasioni di Dio” le conosce Dio. Noi le possiamo riconoscere più tardi (e nemmeno questo sempre avviene). Quello che a noi tocca è solo di “stare all’erta”, come la sentinella, per non perdere nessuna opportunità. Soprattutto per i ragazzi, gli adolescenti e i giovani (e i loro educatori) è fondamentale coltivare un atteggiamento di questo genere. La giovinezza è infatti un’età del­la vita nella quale, più che in altre, giunge inaspettatamente il giorno nel quale si può decidere per intero il futuro.

C’è un aspetto, nel dialogo di Ponticiano con Agostino, che merita partico­lare riflessione. Una lettura distratta e affrettata de Le Confessioni ci potrebbe indurre a una banalizzazione della storia raccontata e quasi a sorriderne, se non addirittura ad avere compassione di coloro che ne sono stati i protagonisti. Ma il ricordo che Agostino ne fa riemergere ha ben altro spessore. Coloro dei quali Ponticiano parlava erano dei giovani che si ponevano la domanda sul senso della vita e su ciò che veramente vale per la vita dell’uomo. Se la ponevano anche se, guardando alla loro condizione sociale, potevano ritenersi molto for­tunati rispetto ad altre persone. Avevano infatti un posto sicuro di lavoro e un’invidiabile responsabilità negli uffici della corte imperiale. Ma essi capivano che, quand’anche avessero potuto avere tutto, il problema del senso della vita rimaneva scoperto e le esigenze profonde del cuore dovevano ancora attendere. Tale grande sensibilità esistenziale ha reso interessante per loro l’incontro con alcuni giovani dedicati totalmente a Dio. Questa sensibilità abitava da anni an­che Agostino[52], e in una misura che Ponticiano forse non poteva sospettare. Così come non poteva prevedere la deflagrazione che il suo racconto avrebbe provocato. In quegli anni Agostino era impegnato in una ricerca difficile, chie­dendosi se mai ci fosse una via che porta alla verità sulla vita dell’uomo. Era anche coinvolto in un travaglio morale dal quale non immaginava di poter uscire, e dal quale nemmeno voleva uscire, rimandando sempre e per diverse ragioni una decisione: era il travaglio correlativo al dominio delle passioni che imper­versavano con potenza dentro di lui. Nulla perciò lo poteva colpire e affascina­re, più di chi era arrivato a prendere coraggiosamente posizione, mettendo in gioco fino in fondo, a causa di Dio, la propria vita. Perciò l’incontro con Ponticiano, probabilmente non ultimo come importanza tra quelli ricordati fin qui, ha agito come un catalizzatore provocando una nuova sintesi nella vita di Agostino.

Una sintesi che lo condurrà ad essere, a suo modo, un monaco; e ad esserlo anche quando verrà consacrato prete e vescovo. L’esperienza monastica che «nei secoli prenderà varie forme a seconda dei fondatori e delle condizioni storiche, esprime una saggezza nel mondo prima che una trasformazione del mondo, pur avendo cura di esso. Si situa sul piano delle finalità, non sul piano dei mezzi, della sapienza offerta al mondo, non della competitività con il mon­do»[53].

In tale direzione anche oggi deve sporgersi, e con forza, la vita consacrata per chiamare in causa i giovani. Essi devono vedere uomini e donne che, a causa di Dio, sono pronti a lasciare tutto, certi di trovare in lui il tesoro che non sta altrove. In questo senso, ciò che può parere del tutto contro corrente è anche il dato più affascinante.

Peraltro, il giovane Agostino, problematico com’era, ci sospinge a non aver paura del fatto che i giovani si pongano domande di fondo sull’esistenza. Dovremmo anzi dire: “Meno male che se le pongono!”. Sono infatti proprio le domande che, come ho già rimarcato nel capitolo dedicato a Simpliciano, vanno suscitate e tenute vive. È forse il caso di riaffermare che il guaio vero per i giovani sarebbe quello di una vita ridotta all’effimero, a una costante ricaduta dal nulla nel nulla, di un presente che non ha vero futuro, di un’esistenza nella quale non abita la ricerca appassionata della verità e della bellezza.

Agostino incoraggia anche a non dare per perduti gli adolescenti e i giova­ni quando sembrano letteralmente travolti dalle passioni, e vogliono (più o meno consapevolmente) esserne travolti e non venirne liberati. È proprio questa l’esperienza che Agostino ha vissuto per tanti anni[54]. Per grazia di Dio è giunto al giorno della liberazione. E ciò non ha voluto dire cancellazione delle passioni, ma una loro valorizzazione. Ciò ha potuto avvenire non lasciando le passioni in un mondo a se stante, ma collocandole in un orizzonte di amore, di verità e libertà.

Quale Chiesa?

Potrebbe parere ovvio che la Chiesa di Ambrogio mettesse al centro della sua vita il Signore Gesù Cristo. Ma non era così. In quella stagione ecclesiale circolava un’eresia molto influente. Si chiamava arianesimo. In sostanza non si riconosceva in Gesù il Verbo di Dio fatto uomo. Poiché all’arianesimo aveva aderito lo stesso predecessore di Ambrogio, è facile immaginare quale fosse la confusione nel clero e nel popolo, e quanto delicata fosse l’opera educativa del nuovo vescovo. Il dramma spirituale affrontato da Ambrogio nel IV secolo per difendere verità fondamentali, cadute le quali non rimarrebbe sostanzialmente più nulla del mistero cristiano, è in scena anche nel XXI secolo, sia perché Ario è sempre di attualità, sia per la condizione storico-culturale che ci vede sempre più immersi in un mondo multi-religioso[55].

La domanda che ci dobbiamo porre è: nelle nostre comunità cristiane ci si interroga veramente su Gesù Cristo? Quando lo si fa? Chi sollecita a farlo e chi accompagna nell’approfondimento della risposta? Teniamo viva la domanda su Gesù, su chi egli sia, sulla “pretesa” che egli ha espresso e che Dio ha confer­mato con segni e prodigi, fino al grande segno della risurrezione? Quanto le nostre omelie privilegiano la dimensione cristologica delle pagine evangeliche (e addirittura di tutta la Bibbia)? Quanto la catechesi è svelamento della perso­na di Gesù e del suo mistero? Quanto la lectio divina, attraverso ogni singola pagina e andando oltre ogni singola pagina, è contemplazione del volto di Cri­sto? Quanto i vari momenti della vita ecclesiale manifestano la premura di mettere in contatto con il Signore Gesù Cristo? Quanto, in particolare, il lavoro educativo svolto in favore dei ragazzi, degli adolescenti e dei giovani, trova nella proposta di un incontro con Cristo il suo punto focale e la questione che, in vari modi, viene costantemente affrontata? Non rischia talvolta di rimanere troppo sullo sfondo (se non addirittura emarginata) privilegiando altri temi, pur giusti e utili, ma non decisivi in rapporto alla domanda di senso della vita umana e del destino dell’uomo?

Queste domande lasciano intravedere quale sia il servizio fondamentale a cui la Chiesa è chiamata. Essa deve farsi carico di sostenere la fede dei credenti, a cominciare dai più semplici e fragili; deve domandarsi come mettersi a servizio della fede per quelle persone nelle quali essa, purtroppo, si è affievolita; deve anche cercare di intravedere nuove strade per annunciare il grande dono della fede ai non credenti e ai non cristiani.

 

Conclusione

Tutta la storia di Agostino è stata grazia di Dio che l’ha accompagnato da sempre; grazia spesso non percepita, a volte rifiutata, infine bramata e accolta. Dopo aver ricevuto il Battesimo, Agostino rilegge il suo cammino di conversio­ne e si rivolge al Signore dicendo: «Hai trafitto il mio cuore con la tua parola e io ti ho amato. Ma anche il cielo e la terra e tutto ciò che contengono mi dicono ovunque di amarti, e non smettono di dirlo ad ogni uomo»[56]. La parola dalla quale Agostino è stato trafitto consiste soprattutto nell’amore che Dio gli ha svelato in Cristo, parola fatta carne: «Quanto ci hai amati, Padre buono, che non hai risparmiato il tuo figlio unigenito, ma lo hai consegnato a noi peccatori». Egli «ha fatto di noi, davanti a te, non più dei servi ma dei figli, nascendo da te e servendo noi. A ragione spero fermamente in lui, che tu guarirai tutte le mie debolezze, per mezzo di lui che siede alla tua destra e intercede per noi presso di te. Altrimenti dovrei disperare. Molte e grandi, infatti, sono le mie debolezze, davvero molte e grandi, ma più grande ancora è la tua medicina»[57].

Quando per Agostino avviene questa scoperta di Cristo Salvatore, nella sua vita tutto cambia. È allora che, guardando al tempo passato, manifesta il suo profondo dispiacere di non aver percepito prima l’amore di Dio che avvol­geva la sua vita: «Tardi ti ho amato, bellezza così antica e così nuova, tardi ti ho amato! Mentre tu eri dentro di me, io ero fuori, e ti cercavo lì, in quel mondo di cose belle, create da te, verso le quali io, non bello, mi precipitavo. Tu eri con me, ma io non ero con te, e a tenermi lontano da te erano proprio quelle cose

che neppure esisterebbero, se non esistessero in te. Hai chiamato, hai gridato e alla fine hai spezzato la mia sordità; hai brillato, abbagliato e alla fine hai sciol­to la mia cecità; hai diffuso il tuo profumo, me ne sono inebriato e ora anelo a te; ti ho gustato e ora ho fame e sete di te; mi hai toccato e ora ardo dal desiderio della tua pace»[58].

Auguri a tutti.

 

Note

[1] Conf., V, 13.23. Utilizzo, con qualche variazione, la traduzione di G. Vigini in SANT’AGOSTINO, Le Confessioni, a cura di G. Vigini, Milano 2001 (“Spiritualità Maestri”, 51). I passi de Le Confessioni sono citati senza riferimento alle pagine di tale edizione, ma secondo la partizione dell’opera e in forma abbreviata (Conf.) cui segue l’indicazione dei libri e dei paragrafi. Tutto il testo de Le Confessioni, scritto dieci anni dopo la conversione e il Battesimo, ha la forma della preghiera. Molte delle citazioni che verranno fatte vanno intese proprio così.

[2] Conf., V, 13.23.

[3] Ivi.

[4] Conf., V, 14.24.

[5] Conf., V, 13.23.

[6] G. VIGINI, Agostino di Ippona. L’avventura della grazia e della carità, Cinisello Balsamo (Milano) 1988 (Tempi e figure, 9), p. 14.

[7] Conf., IX, 9.22.

[8] Cf Conf., III, 4,8.

[9] Ivi.

[10] Conf., I, 11.17; cf R. GUARDINI, La conversione di sant’Agostino, Brescia 1957, pp. 159-169.

[11] Conf., VI, 1,1.

[12] Ivi.

[13] Ivi.

[14] Ivi.

[15] Ivi.

[16] Conf. VIII, 2.3; cf A. PAREDI, Sant’Ambrogio. L’uomo, il politico e il vescovo; Milano 1985; L. CRIVELLI, Simpliciano. Vescovo della Chiesa milanese. Una guida dal silenzio, Cinisello Balsamo (Milano) 1994 (Tempi e Figure, 21), p. 60.

[17] Conf., VIII, 1.1.

[18] Ivi.

[19] Conf., VIII, 2.3.

[20] CRIVELLI, Simpliciano, p. 60.

[21] Conf., VIII, 1.1.

[22]  Ivi.

[23] Conf., VIII, 2.3.

[24]  Conf., VIII, 6.14.

[25]  Ivi.

[26]  Ivi.

[27]  Ivi.

[28]  Conf., VIII, 6.15.

[29]  Ivi.

[30]  Ivi.

[31]  Conf., VIII, 7.16.

[32]  Conf., VIII, 7.18.

[33]  Conf., VIII, 8.19.

[34]  Ivi.

[35]  Ivi.

[36]  Cf ivi.

[37]  Conf., VIII, 12.28.

[38]  Conf., VIII, 12.29. Newman, in un momento cruciale della sua vita e del suo cammino verso la Chiesa cattolica, troverà in Agostino un riferimento decisivo. Citerà esplicitamente il tolle, lege, tolle, lege de Le Confessioni (cf J.H. NEWMAN, Apologia pro vita sua, cap. III, Milano 2001, p. 257).

[39]  Conf., VIII, 1.2.

[40]  SANT’AMBROGIO, La verginità, 16.99; cf IDEM, Verginità e vedovanza /2, a cura di F. Gori, Milano-Roma 1989 (“Sancti Ambrosii Episcopi Mediolanensis Opera”, 14/2), pp. 78-81.

[41]  SANT’AMBROGIO, Inno Splendor paternae gloriae; cf IDEM, Inni, Iscrizioni, Frammenti, a cura di G. Banterle, G. Biffi, I. Biffi, L. Migliavacca, Milano-Roma 1989 (“Sancti Ambrosii Episcopi Mediolanensis Opera”, 22), pp. 34-37.

[42] Cf Conf., IX, 7.15.

[43]  Ivi.

[44]  G. BIFFI, Conversione di Agostino e vita di una Chiesa, p. 30.

[45] SANT’AMBROGIO, I sei giorni della creazione, III, 5, 23; cf ed. a cura di G. Banterle, Milano-Roma 1979 (“Sancti Ambrosii Episcopi Mediolanensis Opera”, 1), pp. 134-135.

[46]  GIOVANNI PAOLO II, Lett. Ap. Operosam diem (1 dicembre 1996, nel XVI centenario della morte di sant’Ambrogio), n. 10; cf SANT’AMBROGIO, Expositio ps. CXVIII, XX, 46.

[47]  Cf Conf., VI, 3.3.

[48]  R. GUARDINI, La conversione di sant’Agostino, p. 177.

[49]  Cf A. CAPRIOLI, La conversione (un ritorno ad Agostino), Milano 1987, pp. 38-45.

[50]  Cf F. GARELLI, Credenti e Chiesa nell’epoca del pluralismo. Bilancio e potenzialità, in “Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia”, Città del Vaticano 1996, pp. 54-55 (su “I fondamentali della fede”).

[51]  CAPRIOLI, Op. cit., p. 34.

[52]  A questo riguardo è stato per lui molto importante l’incontro fatto, già attorno ai diciannove anni, con l’Ortensio di Cicerone: “Nel mio cuore divampò un’incredibile passio­ne per la sapienza” (Conf., III, 4.8).

[53]  CAPRIOLI, Op. cit., pp. 81-84.

[54]  Cf Conf., II, 10.18.

[55]  Cf S. PAGANI, L’esperienza progressiva di un giovane credente, in “Trasmettere ragioni di vita e di speranza”, Novara 2003 (Diocesi di Novara – Cammino pastorale 2002­

2004, fasc. 4), pp. 9-25.

[56]  Conf., X, 6.8.

[57]  Conf., X, 43.69.

[58]  Conf., X, 27.38.