N.04
Luglio/Agosto 2007

Il discernimento vocazionale: segni specifici di nuzialità con Dio

Proponiamo qui di seguito alcuni significativi interventi dei membri del Consiglio che hanno presentato, in prospettiva esperienziale, il loro prezioso contributo al tema della giornata di studio.

 

Luciano Cabbia

Per ottenere un discernimento a questo riguardo occorre ri­prendere la categoria della relazio­ne, presentata da don Nico Dal Molin nella sua esposizione, e valorizzarla nella sua capacità di “identificazio­ne” di ciascuna delle tre vocazioni (matrimonio, ministero ordinato, vita consacrata) nel momento in cui si aprono ciascuna alle altre nella ma­niera della reciprocità: l’essere in co­munione, ossia l’essere-con-le-altre, identifica ciascuna nella sua realtà più propria. Identità che viene man­tenuta fin quando viene mantenuta la relazione, cadendo la quale anche la natura di ciascuna delle tre vo­cazioni viene in certo modo “sfigu­rata” e “snaturata”.

Questo a livello della identità vocazionale: le tre vocazioni sono un essere-con.

Un passo ulteriore da compiere – a livello non più questa volta di identità ma di operatività o di “ministerialità”-servizio che ogni vo­cazione è chiamata a dare nella Chiesa-comunione – è quello di considerare queste tre vocazioni nella loro “relatività”, ossia nel vivere, ciascu­na, “relativamente a…”, ossia anco­ra, nel vivere e porsi “relativamente alle altre”.

Questa “relativizzazione” (po­sitiva) è da intendere anzitutto come rinuncia, da parte di ognuna di que­ste vocazioni, a qualsiasi tentazione di auto referenzialità, di un autocentrarsi (che è una forma di assolutizzazione), in favore, invece, di un decentrarsi da se stessa, quasi dimenticandosi di sé per servire la crescita delle altre due vocazioni, con le quali è in relazione.

Questo a livello di operatività/ministerialità: le tre vocazioni sono un essere-per.

Da queste due premesse chia­rificatrici che hanno precisato l’identità (=essere-con) e la ministerialità o operatività (= essere-per) delle tre vocazioni considerate, emerge lo specifico delle tre vocazioni, e si può riflettere su quali possono essere i segni specifici di questa ministerialità-servizio che le tre vo­cazioni in comunione (matrimonio, ministero ordinato, vita consacrata) sono in grado di darsi in piena mutualità e reciprocità, richiamando­lo e ricordandolo alla memoria della Chiesa e della sua pastorale, soprat­tutto tenendo presente il contesto ecclesiale attuale e le attese del po­polo di Dio:

a) per il matrimonio il segno specifico di nuzialità con Dio può essere ravvisato nel servizio alla vita fedele e feconda, ossia nel ri­cordare e ripresentare di continuo nella comunità ecclesiale la fedeltà di Dio che mantiene salda e sostie­ne la vita di chi si affida a lui; e nel ricordare e ripresentare nella comu­nità ecclesiale la fecondità di Dio, ossia la sua capacità di donare la vita. La fedeltà e la fecondità sono caratteristiche tipicamente divine, come è ravvisabile lungo tutta la Scrittura sacra;

b) per il ministero ordinato il segno specifico della nuzialità con Dio può essere ravvisato nel servi­zio del culto della vita “piena”, dentro il tempio (= Liturgia) e fuori dal tempio (= il culto spirituale di tutta la vita, da parte di ogni cre­dente in Gesù Cristo) per favorire nel popolo cristiano l’espressione e la comunione di tutti i carismi e i ministeri, per una Chiesa tutta ministeriale e perché la vita divina in tutti sia davvero “piena”;

c) per la vita consacrata il se­gno specifico della nuzialità con Dio può essere ravvisato nel servi­re la profezia di “un’altra vita”, quel­la vera ed eterna (cf l’evangelista Giovanni), della quale la vita consa­crata è prefigurazione e anticipazio­ne in questo mondo.

In questo modo, risulta che il tratto comune che esprime la nuzialità con Dio, per tutte e tre le vocazioni, è il “servire la vita”; mentre il se­gno specifico che contraddistingue la nuzialità con Dio propria di cia­scuna, risponde alla differente voca­zione con la quale questo “servizio della vita” viene espresso, significa­to e testimoniato nella Chiesa, a van­taggio di tutti e per la crescita di tut­te le vocazioni. 

 

 

Giuseppe De Virgilio

Il discernimento vocazionale è un’esperienza ”sapienziale” che incrocia il cammino dell’uomo nella sua relazione con Dio e nella sua profonda dimensione personale e relazionale.

Il cuore della dimensione umana e relazionale è costituito dalla dinami­ca dell’amore (agape). Proprio parten­do da questa dinamica occorre focaliz­zare l’azione del discernimento. Infatti le problematiche legate al progetto di vita e al discernimento vocazionale hanno come radice proprio la dinami­ca dell’amore donato e ricevuto.

In questo senso la sezione di ap­profondimento ha colto nel segno e ci ha provocati ad un’attenzione maggio­re sul tema della nuzialità e della sponsalità.

Per rispondere alle domande che sono state indicate nella scheda, rias­sumiamo alcuni punti.

La fondamentale importanza di un discernimento che sappia guardare all’unità del processo affettivo e di cre­scita. Tale unità si presenta come una “sinfonia”, con dei fondamenti e delle varianti. Il cammino fede/vita deve sa­per individuare i fondamenti che sor­reggono l’esperienza esistenziale e motivazionale delle persone, senza eli­minare la dimensione sinfonica del loro esprimersi.

Il passo del cammino di discer­nimento è dato dalla capacità di do­narsi (non più gli altri per me, ma io per gli altri). Tale donazione si fonda sul modello cristologico e trinitario, mediante la metafora della nuzialità/ sponsalità. Le concrete esperienze con i giovani e gli adulti ci confermano che la “motivazione del donarsi” va evangelizzata in prospettiva vocazionale, altrimenti il donarsi po­trebbe risultare sterile e totalmente estraneo ad un fondato progetto di vita.

I segni specifici di nuzialità con Dio per il matrimonio? La capacità di “essere davanti” all’altro e di “essere presente nella vita dell’altro” con uno stile di piena e totale offerta di sé. Il modello cristiano spesso viene vissu­to in modo tacito dai nostri giovani. Per tale ragione occorre offrire anzitut­to percorsi biblici per riquadrare la pro­spettiva esistenziale nell’ambito della rivelazione storica di Dio. Il linguag­gio biblico aiuta molto ad entrare nell’orizzonte della nuzialità di Dio. Evangelium amoris/Evangelium vocationis.

I segni specifici per il ministero ordinato sono da interpretarsi in tre prospettive:

a) Una forte caratterizzazione di amore “con cuore indiviso” nelle ve­sti dell’amico dello Sposo. Cioè i can­didati (o le candidate nella vita consa­crata) accolgono nel loro cuore il de­siderio e la chiamata ad amare “come” Cristo capo/pastore e sposo ama. Si tratta di un “salto di qualità” spiritua­le, che coinvolge pienamente l’esisten-za di un giovane verso Dio.

b) Una forte e progressiva pas­sione per la Chiesa: l’esperienza ci con­ferma che ogni vocazione è un offrirsi all’altro “perdutamente” nella logica del Vangelo. Purificare questo processo attraverso una “oggettivazione” del dono, evitando concezioni spiritua­listiche ed intimistiche: il discernimen­to accade sia nelle intenzioni che nelle realizzazioni.

c) La capacità di sofferenza, che insegna e forgia il cammino di speran­za e di donazione di sé.

In definitiva il discernimento è contrassegnato proprio dal “sì” a Dio: nell’esperienza spirituale, nell’ascolto e nell’accoglienza della Parola, nel dono di sé all’altro e alla comunità, nella comprensione che il tempo vissuto è l’unica possibilità che abbiamo per vi­vere l’amore, come vocazione e via a Dio e alla storia di salvezza.

 

 

Nazarena De Luca

La dimensione sponsale è dentro ogni essere umano, e chiede di essere realizzata. Il cristiano – nella sua esperienza “responsoriale” con il Dio-che-chiama – deve interrogarsi seria­mente e confrontarsi per capire come è chiamato a realizzare questa dimen­sione; o, meglio, quale relazione Dio vuole avere con lui: è molto importan­te per la vita sua e per quella di tanti altri che incontrerà!

Il legame fede e vita deve essere molto forte se si vuole arrivare a rispon­dere a Dio. «La fede si alimenta di fe­deltà», diceva Guardini. E oggi occorre una fede molto solida per nutrire la vita.

Occorre preghiera, cioè essere in relazione con Dio, per conoscerlo sem­pre più in profondità; occorre un con­fronto con una guida spirituale, per co­noscere meglio se stessi e le varie vo­cazioni, lo specifico e la ricchezza di ciascuna.

Il discernimento è fondamentale e richiede un impegno molto serio! Se è Dio che chiama, la grazia per farce­la sicuramente la dà; se è una monta­tura umana, è meglio che cada, per il bene di tutti!

Per un cammino autentico penso occorrano dei punti fermi, o almeno la volontà (e la possibilità = dono di Dio) di rafforzarli il più possibile:

1) retta intenzione: agire per Dio, per la sua gloria e per il bene di tutti; e che questo risulti in tutto (come sottofondo della vita). Bach scriveva in molte delle sue partiture “SDG” (soli Deo gloria)!

2) rapporto sereno (per quanto possibile) con se stessi (corpo e spiri­to); col passato (famiglia, ecc.), da ac­cettare senza rinnegare o snobbare…; col futuro (fiducia!). Bonhoeffer scriveva: «Solo quando il cuore è calmo, libero… può accadere qualcosa di buono e giusto».

3) rapporto vero col Signore, semplice, pieno di gratitudine. Pdv 25 parla di “coscienza grata e gioiosa” (in riferimento al prete… ma vale per tutti).

4) disposizione cordiale, bene­vola verso tutti; un animo buono ed un rispetto profondo per la vita di cia­scuna persona (= tempio dello Spirito, come la propria).

5) sentirsi sostanzialmente nel­la gioia, pur avvertendo la propria pic­colezza e inadeguatezza, perché amati e graziati per sempre!

D. Leonardo D’Ascenzo, in un articolo del dossier sul prete (SE VUOI 3/07), scrive: «Una persona veramente innamorata non ha paura del “per sempre”, ma piuttosto teme che un’esperienza così bella possa finire!». E Redemptionis Donum, al n. 16 indica: «Servite i fratelli con la gioia che sgorga da un cuore abita­to da Cristo».

 

Dimensione sponsale e vocazioni

gli sposi: vanno a Dio l’uno mediante l’altra (insieme); li caratte­rizza l’appartenenza esclusiva e la fe­deltà totale, come Cristo per la Chiesa (Ef5, 22 ss.);

il ministero ordinato: «Il sacer­dote è chiamato a rivivere l’amore di Cristo sposo nei riguardi della Chie­sa sposa… GESÙ È IL VERO SPO­SO» (Pdv 22).

«Chi è chiamato al celibato ec­clesiastico deve comprendere bene come tale scelta non potrebbe essere autentica se non fosse abbracciata nel­la profonda consapevolezza della for­ma sponsale cui ogni persona è chia­mata a realizzarsi. Da qui si comprende la necessità di aiutare il formando al senso vero e profondo del femminile e della diffe­renza» (cf GIOVANNI PAOLO II, Uomo e donna li creò. Catechesi sull’amore umano, Roma 1985, pp. 289-338);

la vita consacrata: i consacra­ti vanno a Dio in un rapporto sponsale diretto. Si donano a Dio “come sua proprietà esclusiva” (RD 8), “come suo possesso… che lui si è scelto”, come il popolo di Israele (Sal 135,4)… «In ogni persona consacrata viene, in­fatti, scelto l’Israele della nuova ed eterna alleanza» (RD 8).

«… La consacrazione poi sarà tanto più perfetta, quanto più solidi e stabili sono i vincoli, con i quali è rap­presentato Cristo indissolubilmente unito alla Chiesa sua sposa» (LG 44).

Nell’Ordine delle Vergini c’è una bella preghiera per la consacrazione che dice:

«Alla luce dell’eterna sapienza hai fatto loro comprendere che, mentre rimaneva intatto il valore e l’onore delle nozze, santificate all’inizio dal­la tua benedizione, secondo il tuo provvidenziale disegno dovevano sor­gere donne vergini che,  pur rinunzian­do al matrimonio, aspirassero a pos­sederne nell’intimo la realtà del mi­stero. Così tu le chiami a realizzare, al di là dell’unione coniugale, il vincolo sponsale con Cristo di cui le nozze sono immagine e segno».

 

 

Beppe Roggia

Indubbiamente, circa l’argomento in questione, rimane molto grande il gap tra la teoria e la prassi situazio­nale; anzi, mi sembra che lo scarto si stia allargando una volta di più a forbi­ce. Le istruzioni teoriche, sia teologi­che che psicologiche, le prediche, i documenti, le esortazioni, le afferma­zioni sono tante e puntano tutte ad of­frire il “prodotto finale finito” dell’innamorato/a di Cristo, ma la situazione concreta di ognuno, sia giovane che adulto, rimane molto lontana.

La realtà è che non si fa un vero apprendistato di innamoramento di Cristo. E così, praticamente, da parte dei nostri giovani ci si limita o si prefe­risce rimanere intrappolati nei campi psicologici del corpo a corpo con se stessi, oppure lanciarsi nell’attività/attivismo, mettendo alla prova se stessi sull’efficienza, il protagonismo, la business apostolica,… tutte cose inte­ressanti, ma sostanzialmente poco red­ditizie al fine di giungere ad un rappor­to significativo con il Signore Gesù.

Il motivo di tutto questo è che, effettivamente, mancano dei percorsi concreti ben delineati e chiari, prima di tutto per gli educatori e i direttori spirituali – qui, più che altrove, vale il detto che nessuno può dare quello che non ha – e, insieme, manca la di­sponibilità ad accompagnare siste­maticamente. E questo, forse, ci fa ren­dere conto di come il nostro tempo sia uno dei più sprovveduti in questo senso.

Se diamo semplicemente uno sguardo alla storia della spiritualità cri­stiana, ci accorgiamo che, fin dai Padri del deserto, c’era la preoccupazione di offrire dei percorsi concreti e chiari, per arrivare all’Assoluto di Dio nella via dell’amore e della verità: pensiamo poi all’autobiografia spirituale di Agostino, per arrivare ad abilitarsi ad una disponibilità piena al Maestro in­teriore; pensiamo alle proposte così equilibrate della Regola di S. Benedet­to; pensiamo alle istruzioni concrete di S. Bernardo; pensiamo all’Imitazione di Cristo; pensiamo alla chiarezza dei percorsi spirituali ben discerti di S. Teresa e di S. Ignazio; pensiamo alla concretezza quotidiana della Filotea, dei Trattenimenti e del Teotimo di S. Francesco di Sales; pensiamo alla sistematicità quasi eccessiva della Pratica di amare Gesù Cristo di S. Alfonso; fino al Giornale dell’anima di papa Giovanni,… tanto per citare solo alcune pietre miliari.

Oggi mancano percorsi concreti che tentino un approccio ed una sinte­si tra le idealità e le modalità/esigenze della cultura di oggi, in particolare di quella giovanile.

Provo allora a tentare di tracciare ap­pena un abbozzo di indice dei passi di un percorso concreto:

1.discepoli di Cristo o la questione della fede

-il rischio della fede

-la scelta di credere

-fede e servizio

-fede e servizio fra libertà e responsabilità personale

-lettura della propria storia e

-ragione, fede e verità prospettiva vocazionale

2. amici di Cristo o la questione della Chiesa

-la riscoperta della relazionalità (con sé, con gli altri, con l’Altro), per crescere nell’identità personale

-la compagnia della famiglia della Chiesa

-pratica sacramentale

-meditazione / lectio divina

lettura della propria storia e prospettiva vocazionale

3. innamorati di Cristo o la questione della sua persona

-la via della bellezza

-educare all’esperienza della bellezza profonda

-educare ad innamorarsi del Suo volto

-il “bisogno” di stare con Cristo

– l’esistenza come sponsalità di vita con Cristo -esprimere nel proprio stato di vita la realtà della Chiesa

– esprimere nel proprio stato di vita la realtà della Chiesa sposa.

 

 

Roberto Donadoni

Una delle categorie essenziali per poter comprendere il binomio Vocazione–Amore, che diventa fon­damentale per poter crescere nella di­mensione nuziale della chiamata, è la libertà.

Guardando all’icona del Crocifis­so da subito possiamo scorgere la fecondità impressionante che provie­ne dall’agape e, come riflette Von Balthasar, un agape che genera pur non avendo davanti a sé un soggetto: è la “sovrasessualità “ del Crocifisso Risorto che genera la sua Chiesa.

L’amore, che proviene dall’essere chiamati alla vita e alla missione, si inserisce in questo contesto, che è fat­to di figli, genitori, amici donati alla persona che se ne prende cura e che genera continuamente la famiglia cri­stiana.

 S. Tommaso D’Aquino, il più grande teologo della Chiesa, così ci aiuta a comprendere questo mistero: “Vi sono alcuni che generano e con­servano la vita spirituale (dei fedeli) mediante un compito (ministero) sola­mente spirituale: questo compete a chi ha ricevuto il sacramento dell’ordine. Vi sono alcuni che generano e conser­vano la vita spirituale mediante un compito fisico e spirituale: questo compete a chi ha ricevuto il sacramen­to del matrimonio, mediante il quale l’uomo e la donna si uniscono per ge­nerare i figli ed educarli al culto di Dio” (Contra Gentes IV, 58, 3974).

Il sacramento dell’ordine ed il sa­cramento del matrimonio hanno delle somiglianze innegabili se noi riuscia­mo a coglierne il senso vero : infatti, attraverso la grazia di Cristo, coloro che li ricevono vengono consacrati ad una vocazione, ad una missione, ad un compito nella Chiesa e per la Chiesa. Quale? Il dono della vita: questa è la vera missione del sacerdote e degli sposi. Infatti il sacerdote dona sola­mente la vita spirituale; gli sposi sia la vita fisica che la vita spirituale. Esi­ste così una vocazione sacerdotale ed una vocazione coniugale; esiste una missione sacerdotale ed una missione coniugale; esiste uno stato sacerdota­le ed uno stato coniugale.

La Chiesa si costruisce sulla base di questi due sacramenti e di queste due missioni.

C’è dunque, tra la vita sponsale e la vocazione sacerdotale o di speciale consacrazione, un profondo ed inne­gabile parallelismo: nell’uno e nell’altro caso, infatti, c’è un patto d’amore sponsale. Il matrimonio non chiude gli sposi in una coppia egoistica e sterile, ma li apre verso una famiglia, li apre sulla grande Chiesa e sul mondo; pari­menti, il patto d’amore sponsale tra Cristo e l’uomo o la donna che si con­sacrano totalmente a lui, non chiude il consacrato in un’intimità egoistica e sterile con Cristo, ma l’apre verso la comunità ecclesiale o la propria fami­glia religiosa e, attraverso queste, su tutta la Chiesa e il mondo.

Comprendere questo significa comprendere il parallelo tra famiglia cristiana e vocazione di speciale consacrazione, che diventano un’unica chiamata, un unico percorso di un itinerario che è una vera chiamata all’Amore.

Se l’amore sponsale ha dunque due modi di essere vissuto, se la Chie­sa di Dio è insieme sposa e vergine, è ovvio che non c’è completa attuazio­ne dell’amore sponsale se manca una delle sue espressioni; la Chiesa non si esprimerebbe totalmente se in essa mancassero famiglie cristiane o uomi­ni e donne che si consacrano intera­mente a lui.

Ed è solo così, alla luce della fede e alla luce di questa missione, che la vita, se compresa come chiamata all’amore, è strappata all’assurdo e al non senso, e ciascuno si scopre voluto e pensato da Dio fin dall’eternità, con una missione unica da compiere nel mondo, sempre secondo il disegno di Dio che si fa amore attraverso Cristo Gesù, ricapitolatore di tutte le cose: “Tutte le cose sono state create per mezzo di lui ed in vista di lui” (Col 1,16).

Collocata all’interno di questo quadro, che è possibile e reale e non astratto, la vocazione non è più vista come problema, ma è la bella e buona notizia che la vita stessa è “vocazio­ne”. Se non riusciremo a proporre que­sta novità bella, sentiremo sempre la vocazione come un problema: uno dei tanti e difficili problemi da risolvere.

La vocazione cristiana e la missio­ne specifica che il Signore affida a cia­scuno di noi vanno sempre comprese alla luce dell’amore incondizionato che Dio ha per l’uomo, amore nuziale che lo conduce alla salvezza, amore che lo rigenera continuamente a nuova vita, in cui la chiamata libera e preveniente di Dio rende possibile una risposta li­bera da parte dell’uomo stesso.

Ecco perché tutto questo può av­venire solo attraverso l’alto e nobile compito della libertà. E qui, in manie­ra singolare, questa libertà si caratte­rizza nell’essere per l’altro, per essere così capaci di dono.

La vita dell’uomo non è un non senso, anzi ripetutamente esige un sen­so. Incontrare Cristo significa scoprire che all’origine della vita di ogni uomo c’è un atto di amore del Padre, che mi fa partecipare alla sua stessa vita.

Alle nostre spalle non c’è il caso, ma l’amore: un atto d’amore gratuito.

“L’Amore di Dio per noi è que­stione fondamentale per la vita e pone domande decisive su chi è Dio e chi siamo noi” (DCE n.2).

La nostra vocazione è essere pre­senti e vivi alla quotidianità dell’esistenza, ma sempre e solamente alla presenza di Cristo: questo è il compi­mento della nostra missione, la nostra vera ed unica vocazione, la nostra vita.

Incontrare Gesù Cristo ci dona il gusto della libertà, perché chiede a cia­scuno di noi di decidere per la nostra esistenza. Questa è la vera libertà: vi­vere la verità del bene e dunque la de­cisone di amare veramente.

Ciò che conta di più e ciò che ser­ve di più è conoscere la verità sull’amore, perché la nostra vita fiorisce nel dono continuo di sé agli altri, secondo la vocazione di ciascuno, nel matrimo­nio, nel sacerdozio e nella scelta di to­tale consacrazione.

L’uomo può realizzare se stesso solo donando se stesso. Ma tutto que­sto è possibile realizzarlo se ci educhia­mo all’esercizio della vera libertà. È così che nella vocazione risplendono insieme l’amore gratuito di Dio e l’estrema esaltazione della libertà dell’uomo.

All’interno di questa struttura nuziale si colloca la sacramentalità della Chiesa a servizio dell’incontro libero di ogni uomo con il Salvatore: “Vieni e seguimi”.

 

 

Luciano Luppi

Questo mistero è grande

Il simbolismo nuziale – anche solo per il fatto che abbraccia in una stra­ordinaria inclusione l’apertura (Gn 1,27; 2,24) e la conclusione (Ap 19,9; 21,2; 22,17.20) della rivelazione biblica – pur non pretendendo di esau­rire tutta la ricchezza del disegno di­vino, appare “indispensabile” per comprenderne l’unità profonda[1] e ci sembra singolarmente fecondo sul pia­no della teologia vocazionale.

Il “sì” di Dio alla vita e alla sal­vezza dell’uomo, infatti, affonda le sue radici nello stesso mistero della comu­nione trinitaria e si manifesta con un’inconfondibile nota nuziale, come viene affermato nella lettera agli Efesini, dove l’Apostolo – trattando della vita coniugale – rinvia al “mi­stero grande”, ossia al disegno eterno di Dio, proprio in termini nuziali:

Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! (Ef 5,31-32).

La radice trinitaria del grande mi­stero nuziale proclamato dall’Apostolo la ritroviamo espressa mirabilmente da san Giovanni della Croce nella sua Romanza 3 sulla creazione. Per il gran­de mistico spagnolo tutto scaturisce come scambio di doni e reciproca ma­nifestazione d’amore tra il Padre e il Figlio, a cui la creazione intera è chia­mata a partecipare attraverso la comu­nione nuziale con Cristo:

Una sposa che io ami

Figlio mio, voglio donarti,

che per tua grazia meriti

di stare in nostra compagnia,

e mangiare ad una mensa

quel pane che mangio io;

affinché conosca i beni

che io possiedo in tale Figlio,

e con me si congratuli

di tua grazia e leggiadria.

Lo gradisco molto, Padre,

il Figliolo gli risponde,

 alla sposa da te data

donerò il mio splendore,

affinché per esso veda

quanto vale il Padre mio,

che ho, e come l’esser mio

da tal Padre io possiedo.

Sul mio braccio appoggiata

arderà nell’amor tuo

e in un diletto eterno

tua eccellenza esalterà[2].

La tessitura nuziale del disegno divino – iscritta in tutta la creazione e rivelata nell’evento dell’Incarnazione – si manifesta in pienezza nell’unione tra Cristo e la Chiesa, che l’Apostolo nella lettera agli Efesini presenta ri­correndo al duplice simbolismo del Capo/Corpo e dello Sposo/Sposa (cf Ef 5,22-33).

Questi due simboli non sono da considerare solo come metafore o pa­ragoni immaginosi, ma come realtà pal­pitanti di luce e di vita: infatti, realmen­te “il Signore crocifisso e risorto forma con la creazione redenta e rinnovata un organismo unico, vitalmente compaginato e non separabile”, in quanto capo e corpo, “Cristo totale”. A questa unità organica il simbolo nu­ziale aggiunge l’accento della dualità nella piena distinzione delle persone, a rimarcare come ci sia “tra il Redentore e l’umanità redenta un’ineffabile reci­procità, sia pure diseguale: reciprocità di conoscenza, di affetto, di donazio­ne interiore, di offerta totale di sé; im­pari reciprocità, come è ovvio, perché l’amore della Sposa nasce dalla bellez­za dello Sposo, mentre l’amore dello Sposo crea e alimenta instancabilmen­te la bellezza della Sposa”[3].

 

Il mistero nuziale originario e la sinfonia ecclesiale del sì

Se questo è il “mistero grande”, non potrà non riflettersi nella com­prensione della vocazione fondamen­tale dell’essere umano e della stessa sinfonia ecclesiale dei “sì” vocazionali.

Innanzi tutto, si coglie il signifi­cato sponsale del corpo umano, per cui ogni persona è caratterizzata sessualmente al maschile e al femmi­nile. Ciò appartiene al disegno origi­nario divino: “A immagine di Dio li creò, maschio e femmina li creò” (Gn 1,27).

Non esiste l’essere umano asso­luto, ma l’uomo e la donna. Il Creatore “ha voluto iscrivere addirittura nell’essenza della nostra umanità l’impronta incancellabile del mistero originario di questo universo di fatto esistente: il mistero dell’amore tra l’umanità reden­ta e il suo Redentore (…). La vita ses­suale richiama ontologicamente nell’interno stesso di ognuno di noi (uomo o donna che sia) la nostra radicale incompletezza o, che è lo stesso, la no­stra relatività nei confronti del Creato­re, sicché noi arriviamo ad un’integrale autoconsapevolezza solo quando percepiamo la nostra invalicabile insuf­ficienza e il nostro bisogno di entrare nella vitale comunione con il Dio che inspiegabilmente ci ha chiamati all’esistenza”[4].

La nostra chiamata all’esistenza s’identifica quindi con l’invito a que­sta grande festa nuziale. In ognuno di noi è iscritta la vocazione fondamen­tale alla comunione con Dio, al punto che un grande teologo medievale come Gugliemo di Saint-Thierry, convinto che al fondo di ogni desiderio e di ogni slancio amoroso c’è sempre l’aspirazione alla comunione vitale con le tre Persone divine, non temeva di rivol­gersi così alla divina carità nella sua prefazione alla Expositio super Cantica: “O amore, da cui deriva e desume intelligibilità ogni amore, an­che quello che sia solo carnale o addi­rittura degenere!”[5].

Questa fondamentale vocazione all’amore trova la sua prima attuazione nel matrimonio:

L’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua mo­glie e i due saranno una sola carne (Gn 2,24).

La rilettura che il testo di Efesini fa di questo passo della Genesi ci mo­stra come gli sposi cristiani, con il loro amore fedele, indissolubile e fecondo, partecipino dell’alleanza nuziale tra Cristo e la Chiesa e siano chiamati a renderla sacramentalmente presente nel mondo.

Ma il matrimonio non è più l’unica forma possibile di partecipazione al mistero nuziale originario. Se resta la più normale e diffusa, il Signore Gesù ne ha proposto un’altra nella donazio­ne verginale:

Vi sono eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il Regno dei cieli. Chi può capire capisca (Mt 19,12).

Vissuta da Gesù stesso, testimo­niata dall’apostolo Paolo e da lui con­sigliata nella lettera ai Corinti (cf 1Cor 7,7.25-35), la “eunuchia”, o verginità per il Regno, si pone accanto al matri­monio come un altro carisma, che at­tua nel mondo il segno profetico – e altamente provocatorio per la nostra cultura edonistica – dell’alleanza sponsale con Cristo, anticipo delle nozze eterne, di quando cioè non pren­deremo più né moglie né marito, per­ché Dio sarà tutto in tutti (cf Mt 22,29s; 1Cor 15,28)[6].

Il matrimonio e la verginità cristia­ni si presentano quindi come due par­tecipazioni diverse e complementari dell’unico mistero nuziale originario[7]. Il primo vi partecipa attraverso la me­diazione del legame coniugale umano, la seconda per così dire “in presa di­retta”, cioè senza la mediazione di una relazione umana esclusiva.

Il matrimonio prende le mosse da un amore particolare – quello verso il coniuge e i propri figli – per aprirsi a un amore universale, verso la Chiesa e la società, mentre l’amore verginale parte dall’«universale concreto» che è Cristo, come amore senza mediazioni umane esclusive di partenza; amore che poi si apre al particolare, nelle molteplici mo­dalità caratteristiche dei diversi carismi di vita consacrata, con il desiderio di fare proprie le preferenze di Cristo per i più piccoli, i poveri, i lontani[8],…

Se mancasse la grazia degli spo­si cristiani, mancherebbe alla rivela­zione dell’amore nuziale di Cristo la manifestazione della stretta connessio­ne tra il piano creaturale e il piano redentivo, e quindi la possibilità di te­stimoniare la bontà originaria – restau­rata in Cristo – della differenza ses­suale maschio/femmina, dell’eros umano, dei legami costitutivi (uomo/ donna, sposo/sposa, padre/madre, genitore/figlio, fratello/sorella).

Allo stesso modo, se mancasse la grazia della verginità cristiana, man­cherebbe uno dei segni fondamentali dell’avvento del Regno, che cioè lo Sposo messianico è in mezzo a noi e sono cominciati i tempi del compimen­to delle promesse. Non è un caso che la verginità feconda di Maria e quella del Battista ne accompagnino l’avvento.

Il matrimonio e la verginità mani­festano così, secondo polarità diver­se, l’unione tra Cristo e la Chiesa: gli sposi evidenziano la dimensione tota­lizzante del patto nuziale, in quanto al­leanza d’amore nella vita e per la vita; i consacrati, invece, la realtà profonda della Chiesa-Sposa, con la loro volon­tà di assimilarsi ad essa nel partecipa­re all’amore esclusivo che ella nutre verso il suo Sposo e Signore.

In effetti, se mancasse la presen­za di sposi cristiani convinti potrebbe indebolirsi nella Chiesa il volto dome­stico della fede e quella concretezza e reciprocità che connotano uno stile caritativo veramente evangelico e non spiritualista. Invece, se mancasse tra i fratelli la testimonianza della preferen­za per Cristo vissuta nella propria car­ne, cioè la presenza di qualcuno che lo tratti come il proprio unico Sposo, amandolo con cuore indiviso, verreb­be meno l’annuncio che solo lui è “l’altra metà del cielo” del cuore uma­no e rimarrebbe scarsamente decifrabile la stessa manifestazione della Chiesa nel suo mistero di Sposa di Cristo, come acutamente osserva­va in una sua lettera Madeleine Delbrêl:

Penso al modo in cui il Signore considera la sua Chiesa “come sua Sposa”, e penso che per essere consi­derata così da Lui bisogna che nell’unità della Chiesa degli esseri ab­biano questa funzione di sposa. Tutta la Chiesa sarà considerata come una sola sposa, ma essi debbono trattare il Cristo come “loro unico Sposo”. Penso che qui si trova il fondamento della verginità cristiana. Come tutti i fedeli partecipano al sacerdozio di Cristo ma i Sacerdoti sono i sacerdo­ti, ugualmente tutti i fedeli sono spo­sati nella Chiesa sposa, ma degli es­seri che Egli ha scelto sono dati a Lui per questo. Mi sembra che ci sia mol­to da scoprire in questo senso[9].

 

A servizio del “mistero grande” nel suo momento sorgivo: il ministero ordinato

Ma lo stesso “mistero grande” non sarebbe rivelato appieno senza la vocazione al ministero ordinato, che di quel mistero d’amore è a servizio proprio nel suo momento sorgivo. Nel vescovo, nei presbiteri e per la loro parte nei diaconi, infatti, la Chiesa ri­conosce la presenza di Cristo-Sposo, che la rende feconda attraverso la predicazione, i sacramenti e la guida pastorale della comunità (cf Pastores dabo vobis, 22). Per mezzo di loro, come i servi della parabola e gli apostoli nell’episodio della moltiplicazione dei pani, egli convoca tutti gli uomini alla sua festa di nozze, offrendo il nutri­mento della sua Parola e il Pane della vita eterna.

Tutto questo risplende in pienez­za nel Vescovo. Se la Chiesa cattolica latina sceglie i suoi preti tra coloro che hanno accolto il carisma della vergi­nità per il Regno, lo fa proprio perché vuole che anche loro – sull’esempio e in analogia con il Vescovo – testimo­nino non soltanto con il ministero, ma anche con il loro stesso stato di vita, la totalità e la qualità nuziale dell’amore di Cristo-Sposo, che ha dato la vita per la sua Chiesa. È convinta, infatti, che nel loro celibato essi troveranno uno stimolo a vivere con una carità più trasparente il loro ministero, più liberi dalle logiche di potere come da quelle burocratiche da funzionari.

È evidente che il celibato sacer­dotale potrà essere questo segno cre­dibile dell’amore di Cristo-Sposo solo a condizione che sia a sua volta radi­cato nella volontà di aderire senza ri­serve a lui e di diventare con lui una cosa sola, come lo è la Chiesa, che è col suo Sposo “una sola carne”. È quanto traspare anche nel dialogo di Gesù con Simon Pietro, dove il “mi ami tu più di costoro?”, precede e rende possibile l’affidamento dei fratelli: “Pasci i miei agnelli”, ossia la conse­gna che Cristo fa di ciò che ha di più caro (cf Gv 21,15-17).

Proprio la ferita aperta del celiba­to potrà allora diventare occasione per una più grande intimità con Cristo e si potrà trasformare in spazio per una nuzialità più dilatata nella direzione di relazioni amicali, fraterne e paterne. Sempre più assimilati a Cristo-Sposo, i presbiteri si manifesteranno uomini di solitudine e di comunione: una so­litudine, quella della “preferenza” di Cristo, che non potrà non risuonare all’interno di ogni loro relazione, e una comunione, quella con le persone, i cui volti non potranno non abitare la loro preghiera[10].

 

La circolarità feconda delle vocazio­ni all’amore: retorica astratta o profezia vocazionale?

Tutt’e tre queste vocazioni all’amore si richiamano e si illuminano reciprocamente, in una circolarità feconda (cf Christifideles laici, 55; Vita consecrata, 16. 31-32). Tutte esprimo­no l’unico mistero nuziale di Cristo e della Chiesa, attraverso scelte che ne incarnano l’amore totale e fedele con cui egli ci ama.

Questa prospettiva, adeguata­mente compresa, permetterebbe di la­sciarsi alle spalle la sterile oscillazione a cui spesso si assiste nelle proposte vocazionali. Si ha come l’impressione che dall’enfasi sulla superiorità delle vocazioni di speciale consacrazione – più tipica del passato – si sia passati alla retorica dell’assoluta uguaglianza di valore delle vocazioni stesse, che mettendo di fatto tutte le vocazioni sullo stesso piano, finisce per presen­tarle come tanti prodotti disponibili nel supermercato delle scelte di vita, alla mercé della pura preferenza o inclina­zione personali.

Parlare di circolarità feconda tra le vocazioni è ben altra cosa: è cre­scere nella stima e nella gratitudine per le persone che le incarnano, imparan­do a riconoscere che cosa ogni voca­zione ci svela dell’unico “mistero grande” e lasciandosi afferrare da quello stesso mistero d’amore, così da consegnarsi ad esso in maniera sem­pre più incondizionata.

Tutto ciò pone immediatamente la questione centrale: non basta de­clamare retoricamente o astrattamente la grande valenza rivelativa e profetica della prospettiva nuziale.

Occorre che le varie vocazioni rendano visibile nei fatti l’amore sponsale di Cristo, prendendo sul se­rio l’hic et nunc della storia con scelte di autentico profilo evangelico.

Occorre che ciascuno sia intro­dotto a fare esperienza di come la rela­zione d’amore con Cristo inneschi nel­la propria vita un processo di radicale e feconda trasformazione, che coinvol­ge tutte le fibre del proprio essere.

Occorrono testimoni vocazionali credibili, capaci di educare a percepire la sete di Cristo negli slanci e nelle fe­rite del proprio cuore, come nella vita delle persone che ci circondano.

Solo aiutati a porsi così nell’ottica incandescente del mistero nuziale originario, incontrato e sperimentato nella concretezza dell’esistenza, i gio­vani di oggi potranno lasciarsi afferra­re da quello stesso mistero: invitati a cercare il loro posto nel grande dise­gno d’amore divino, lo percepiranno come l’orizzonte che davvero può offrire speranza agli uomini e che solo è in grado di dare senso all’esercizio stesso della loro libertà.

Allora potranno emergere i pro­fili evangelici dell’amore e, come lo sposarsi non sarà più una pura avven­tura sentimentale privatistica, risuc­chiata in uno stile di vita imborghesito, così la prospettiva della consacrazio­ne acquisterà tutta la sua forza dirompente di testimonianza dell’assoluto di Cristo e del suo Regno e la chiamata al presbiterato sarà conno­tata dalla gioia di poter prestare carne e sangue a ciò che continuamente ge­nera e fa crescere questa storia di amo­re: la carità di Cristo-Sposo, da cui nasce e si edifica la Chiesa, sacramen­to del mistero nuziale per l’umanità intera.

 

Note

[1] «Tra i molti modi in cui Dio si rivela al suo popolo (cf Eb 1,1), secondo una lunga e paziente pedagogia, vi è anche il riferi­mento ricorrente al tema dell’alleanza dell’uomo e della donna. […] questo simboli­smo appare indispensabile per comprendere il modo con cui Dio ama il suo popolo: Dio si fa conoscere come sposo che ama Israele, sua sposa. […] I termini di sposo e sposa, o anche di alleanza, con i quali si caratterizza la dinamica della salvezza, pur avendo un’evidente dimensione metaforica, sono molto più che semplici metafore. Questo vocabo­lario nuziale tocca la natura stessa della rela­zione che Dio stabilisce con il suo popolo, anche se questa relazione è più ampia di ciò che può sperimentarsi nell’esperienza nu­ziale umana» (CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera ai vescovi della Chiesa Cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo del 3 maggio 2004, n. 9). Per uno studio del tema si­gnificativo e ricco di prospettive, vedi GIORGIO MAZZANTI, Persone nuziali. Communio nuptialis. Saggio teologico di antropologia, EDB, Bologna 2005.

[2] GIOVANNI DELLA CROCE, Opere, “Postulazione Generale O.C.D.”,  Roma 1979, 1051.

[3] G.BIFFI, Canto nuziale. Esercitazione di teologia anagogica, Jaka Book, Milano 2000, pp. 99.101.

[4] Ibidem, p. 113.

[5] Cf Ibidem, p. 114.

[6] «Il maschile ed il femminile sono così rivelati come appartenenti ontologicamente alla creazione, e quindi destinati a perdura­re oltre il tempo presente, evidentemente in una forma trasfigurata. In tal modo caratte­rizzano l’amore che “non avrà mai fine” (1Cor 13,8), pur rendendosi caduca l’espressione temporale e terrena della sessualità, ordinata ad un regime di vita contrassegnato dalla generazione e dalla morte. Di questa forma di esistenza futura del maschile e del femminile, il celibato per il Regno vuole es­sere la profezia. Per coloro che lo vivono, esso anticipa la realtà di una vita che, pur restando quella di un uomo e di una donna, non sarà più soggetta ai limiti presenti della relazione coniugale (cf Mt 22,30). Per colo­ro che vivono la vita coniugale, inoltre, tale stato diventa richiamo e profezia del com­pimento che la loro relazione troverà nell’incontro faccia a faccia con Dio» (CONGRE­GAZIONE PER LA DOTTRINA DELLAFEDE, Lettera ai vescovi della Chiesa Cattolica sulla colla­borazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo, l3 maggio 2004, n. 12.). Vedi anche GIOVANNI PAOLO II, Esortazione post­sinodale Vita consecrata, 1996, nn. 34. 93.

[7] Cf AA.VV., Verginità e matrimonio. Due parabole dell’Unico Amore, Ancora, Milano 1998; G.P. DI NICOLA – A. DANESE, Verginità e matrimonio. Reciprocità e diversità di due vo­cazioni, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2000.

[8] «“Che sarebbe del mondo se non vi fossero i religiosi?”. Al di là delle superficiali valutazioni di funzionalità, la vita consacrata è importante proprio nel suo essere sovrabbon­danza di gratuità e d’amore, e ciò tanto più in un mondo che rischia di essere soffocato nel vortice dell’effimero. “Senza questo segno con­creto, la carità che anima l’intera Chiesa rischie­rebbe di raffreddarsi, il paradosso salvifico del Vangelo di smussarsi, il sale della fede di di­luirsi in un mondo in fase di secolarizzazione”. La vita della Chiesa e la stessa società hanno bisogno di persone capaci di dedicarsi totalmen­te a Dio e agli altri per amore di Dio. La Chiesa non può assolutamente rinunciare alla vita con­sacrata, perché essa esprime in modo eloquente la sua intima essenza “sponsale”. In essa trova nuovo slancio e forza l’annuncio del Vangelo a tutto il mondo» (GIOVANNI PAOLO II, Esortazio­ne post-sinodale Vita consecrata, 1996, n. 105).

[9] MADELEINE DELBRÊL, «Lettre du 26 jullet 1942 à Christine de Boismarmin», in: S’unir au Christ en plein monde. Correspondance, volume 2: 1942-1952, Nouvelle Cité, Montrouge 2004, pp. 44-45 (la traduzione del volume è prevista per novembre 2007 presso l’editore Gribaudi, che cura l’opera omnia di M. Delbrêl in italiano). M. Delbrêl sviluppa questa prospettiva in una maniera esemplare e suggestiva in una meditazione del 1953: “Co­lui che ha la Sposa è lo Sposo”, in La gioia di credere, Gribaudi, Milano 19973, pp. 164-168.

[10] Cf CHIESA DI BOLOGNA, Proposta di vita spirituale per i presbiteri diocesani, a cura del Consiglio presbiterale diocesano, Doc. Chiese locali 106, EDB, Bologna 2003, nn. 46­-50.