N.04
Luglio/Agosto 2007

Vocazione e amore: criteri di discernimento nella prospettiva della dimensione nuziale

 

 

 

 

Per costruire la casa dell’Amore

 

Qualche premessa

Spesso noi ci lasciamo facilmente depistare in una lettura non corretta degli eventi della vita, cadendo nella trappola della illusione e della prospettiva falsata delle grandi parole, spesso abusate o male interpretate: amore… maturi­tà affettiva… equilibrio psico-affettivo, ecc.., o dalla precomprensione (con una terminologia più psicologica si dice “proiezione benigna”!) che parole signifi­cative, importanti dal punto di vista biblico e spirituale come nuzialità e sponsalità, siano unanimemente accolte e comprese.

Il contesto sociale e culturale in cui ci si muove è un elemento importante e “critico” per capire questi eventi stessi della vita affettiva: una cultura a­progettuale e post-moderna, in cui la fa da padrone il cosiddetto “quarto uomo”, mediatico e virtuale, frequentatore sempre più assiduo dei siti web in cui im­mergersi nella “second life”; una cultura in cui nulla è oggettivabile, tutto di­viene relativo e possibile, va vissuto con assoluta libertà di scegliere, di decide­re, di coinvolgersi, in un esasperato soggettivismo di scelte e di criteri di vita. Ciò rende la comprensione e il coinvolgimento negli eventi certamente più com­plicato e confuso.

[1] A ciò possiamo pure aggiungere il desiderio, spesso inconscio e non sem­pre “mirato”, di dare ai bambini, agli adolescenti e ai giovani quello che non sempre noi adulti abbiamo avuto dalla vita come educazione e opportunità.

In un cammino di accompagnamento e di discernimento vocazionale si ripropone l’assoluta importanza di fare tre recuperi, che siano criteri essenziali per il nostro cammino:

– la dimensione olistica: cioè, guardare alla persona nella sua tota­lità e globalità, razionale, affettiva e volitiva;

– la dimensione dinamica: cioè, la prospettiva di guardare all’affettività come ad un elemento “dato”, ma proiettato anche nell’orizzonte di un “divenire”, fatto di luci e di ombre, perché legato alla nostra creaturalità;

– la dimensione relazionale: intesa come la riscoperta psicologica e antropologica della Alterità, come valore totalizzante all’interno delle dinamiche della vita intersoggettiva. Potremmo riassumere tutto ciò in uno slogan semplice: “Non siamo solo interessanti, siamo an­che interessanti…”[2].

– Questo ci porta anche ad un ulteriore input di carattere vocazionale: aiutare le persone a recuperare la propria storia relazionale in ma­niera autobiografica[3]. Questo si sta presentando come un aiuto davvero significativo, sia nell’accompagnamento psicoterapeutico che in quello spirituale.

 

 

Alterità: un archetipo da… paradiso terrestre!

Ci rifacciamo ai primi tre capitoli del libro della Genesi, che sono straordinari per la forza evocatrice di situazioni e di immagini. L’incontro di ‘Ish e ‘Isha (l’uomo e la donna), è nel contesto della ricerca dell’armonia iniziale.

Eccone alcuni aspetti:

-la presa di coscienza della solitudine;

– la via del riconoscimento da parte di Dio che coglie la sofferenza della solitudine di Adam: “Non è bene che l’uomo sia solo; gli voglio fare un aiuto che gli sia adatto” (Gen 2,18);

– il conflitto innescato dal “voler essere come Dio”; un di più, un andare oltre alla propria situazione umana e creaturale;

– la non assunzione della propria responsabilità e la “difesa di pro­iezione” sull’altra/o;

– il rimpianto e la ricerca nostalgica dell’Eden perduto.

“Non è bene che l’uomo sia solo…” (Gen 2,18): Dio raccoglie l’aspirazione e la nostalgia dell’altro che c’è in Adamo. Infatti le cose, gli animali, il creato tutto, pur nella sua magnificenza e nel suo splendore, non sono … l’altro.

Neanche Dio è un aiuto simile a quello che l’uomo va cercando: “Adam non trovò un aiuto che gli fosse adatto” (Gen 2,20).

È la presa di coscienza, allora come adesso, che l’altro è uno come me, piccolo e finito, con cui “stare di fronte, mettersi alla sua presenza, essergli al fianco”… È un volto da cercare, con cui guardarsi negli occhi e camminare insieme, vivendo una presenza di reciprocità e mutualità. Questo è il senso profondo della parola ebraica “neged” usata nel testo biblico, che la BJ traduce poi con il termine “aiuto adatto = ‘ezer Knegdo” [4].

La creazione dell’aiuto pone l’essere umano nella prospettiva della comuni­cazione. La relazione con un proprio simile presuppone l’alterità, per iniziare la comunità umana e creare la comunione profonda.

E qui si innesta anche la spirale negativa della relazione di alterità, che diviene il “prototipo” delle relazioni infrante: Eva con Adamo; Adamo con Dio; Adamo ed Eva con il giardino perduto dell’Eden.

Così, la chiave interpretativa dell’auto nascondimento di Adamo è quella di vedere in esso tutte le nostre maschere e le nostre dinamiche difensive…[5].

 

 

L’incontro con l’altro

La prima fase della vita

Vorremmo solo accennare a questi passaggi per averli presenti come sfon­do del nostro cammino di chiarificazione e ricerca della “dimensione nuziale della vocazione”.

Tutto inizia nell’utero materno: di qui l’importanza assoluta del tempo della gravidanza nel valutare la dimensione affettiva e relazionale di una persona.

Poi, il bambino comincia a vivere intensamente e individualisticamente una fase di incontro fusionale: è la non distinzione “narcisistica” dell’altro, che si potrebbe sintetizzare in un assioma: “la mamma è tutta per me! Lei è tutta e solo mia!” (cf il film “Elling” o il più conosciuto“Forrest Gump”).

Tutto ciò sfocia in una dimensione di fusione e confusione, che è l’inizio della onnipotenza narcisistica tipica dei bambini, ma – ahimè! – spesso perpe­tuata anche in noi adulti: Faccio tutto io… Se voglio posso…

E così, non ci sono più limiti alla propria “volontà di potenza” (cf le teorie di Adler e Nietzsche).

 

L’infanzia

Il bambino è maestro nell’arte di adorare… venerare… e cercare amabilità, ma vuole tutti per sé, come un piccolo Re Sole, che fa girare attorno a sé la corte intera.

Questo si esprime in una forma di inconscio ricatto narcisistico verso i suoi genitori e le persone relazionalmente per lui significative: “Io sono l’unico che può farvi felice”.

E l’infanzia finisce con l’essere un continuo esercizio di pendolarismo e di oscillazione tra “stupore” e “timore”[6].

 

L’adolescenza: il passaggio dall’IO al TU

Tutti riconosciamo in essa una fase delicatissima di equilibri rimessi in discussione e di passaggi di vita, cercati e non sempre trovati.

È la scoperta della propria individualità/identità: io esisto e cerco di capire “chi sono”.

È la ricerca, anche esasperata, della propria autonomia di vita: posso deci­dere da solo, senza il vostro intervento.

Ecco, allora, tutte le dinamiche della trasgressione adolescenziale.

Niente è oggettivabile. È il momento della scoperta della propria identità corporea: questa è la “mia” sessualità; il corpo è mio e lo gestisco io! , secon­do un vecchio assioma del femminismo sessantottino…

È una fase ambivalente per “superare” o per “bloccare” il ripiegamento su se stessi. È la nuova consapevolezza che le dinamiche essenziali della felicità e del piacere non sono dei tabù e neppure un “optional”, ma una necessità di vita che porta a cercare la propria autorealizzazione (intesa come il desiderio e la nostalgia del ritorno all’Eden perduto).

È il riconoscimento del proprio “narcisismo”, per cercare di superarlo, per andare oltre se stessi… alla ricerca di un Io finalmente senza maschere.

È, ancora, la ricerca della omologazione del “desiderio”, così spesso cadu­to nella rete del tabù e della colpa, anche per un’eccessiva colpevolizzazione e negativizzione dello stesso (cf il circolo vizioso e frustrante dei … “desideri cattivi”)[7].

 

 

La Parola di Dio si fa sentiero di Luce

 

“Il Cantico dei Cantici: una scala di luce verso l’Amore”  (Marc Chagall – pittore)

In questa nostra ricerca, credo sia un punto di passaggio obbligato riper­correre qualche momento straordinario del Cantico dei Cantici. Lo potremmo definire, senza enfasi o retorica, la “descrizione del tempo dell’amore”[8].

Tutta la Bibbia è pensata come una straordinaria “storia di amore”.

Ma è proprio il Cantico che esalta al massimo il tempo dell’amore: un lui e una lei che sono senza nome, ma ripetono il miracolo dell’amore presente nel cuore di ogni uomo e di ogni donna.

Dell’amore occorre avere il coraggio di… farsi discepoli: non è una tecnica o una strategia da imparare!

Il Cantico diviene, quindi, un modo di guardare, con il cuore libero e lo sguardo luminoso, ciò che spesso oggi viene guardato con cuore possessivo e sguardo malizioso. È un canto d’amore di due giovani, in cui non si parla mai di Dio, (se non in un solo passaggio), ma credo che mai come in questo testo biblico si parli di Dio che è l’Amore. Quando si ama, si trasfigura ogni cosa!

Torna alla memoria l’immagine del laghetto di montagna, che riflette nelle sue acque limpide il cielo nitido e azzurro e le cime che si stagliano dentro al suo specchio liquido, come stupendamente afferma il poeta francese Paul Claudel.

Dice il libro dei Proverbi: “Quattro sono le realtà misteriose di fronte a cui restare stupiti: la via dell’aquila nel cielo; la via del serpente nella roccia; la via della nave in alto mare; la via dell’amore tra un giovane e la sua ragazza”

(30,18-19). Due parole ritornano con insistenza nel testo del Cantico:

– anì = io

– Dodì = l’amato (38 volte).

Ripercorriamone insieme qualche passaggio…

1° Poema (Ct 1-2,7): una ouverture da pezzo d’opera

Ricordiamo le grandi ouvertures musicali delle sinfonie dei grandi com­positori, che con la loro dolcezza e maestosità conquistano anche chi non è esperto.

I vv. 1,1-4 sono esattamente di questo genere: un abbozzo di sinfonia, perfetto e compiuto in sé, ma aperto a nuovi sviluppi. Esiste una categoria mu­sicale, “l’improvviso”, cara a compositori come Chopin, Schubert, Schumann, o presente anche nell’inizio della “Quinta” di Beethoven, che bene interpreta questo momento.

“Mi baci con i baci della tua bocca”…

Come è stupenda la forza di un “bacio” e la carica affettiva di gesti che evocano tenerezza e passione: è la forza dei gesti affettuosi. Sono i “dodìm”, quasi un crittogramma che nella sua radice etimologica “dwd”, richiama il nome santo e amato da ogni ebreo, il nome di un cuore amante, anche se non sempre nella giusta misura: il re Davide.

Si racconta della gioia e dell’ansia della ricerca: l’amore non è mai una realtà scontata. Non è un caso; lei si addormenta e lui non la sveglia…

“La tua presenza si fa profumo” : sem = nome

semen = profumo

L’avventura d’amore inizia, sottolineata da verbi come “gioire, far festa e assaporare”: quanto siamo lontani da ogni ammuffita e stantìa forma di ritualismo o strumentalizzazione!

“Assaporare”, infatti, traduce il verbo ebraico zkr = ricordare, non in senso nostalgico, ma in modo creativo ed efficace. È un amore che si fa ricordo, presenza e speranza; parola e… silenzio, come quello di tante persone innamora­te di Dio, che danno tutto il loro cuore a Lui solo.

“Mi consegni per sempre il tuo cuore?”.

In una sua canzone, Bob Dylan canta: “My love speaks like silence… il mio amore parla come il silenzio”.

Nel primo poema del Cantico, gli spunti di vita sono davvero innumerevoli: dalla tematica dei sentimenti, capiti, decodificati e vissuti, a quella della rilettura dei propri affetti significativi del cuore; dal tema delle “memorie affettive”, cioè quei ricordi che si sono incisi profondamente nel profondo della nostra vita interiore, alla capacità di creare in noi spazi di silenzio e di contemplazione, per ascoltare veramente… le parole del silenzio.

 

 

Ecco una voce… (Ct 2,8-3,5)

È il desiderio della presenza dell’altro; la ricerca affannosa, il sogno di cercare e la delusione del non trovare…

Un elemento importante in questa ricerca è la voce. Essa non è solo se­gnale di identificazione pura e semplice di una persona: la sua modulazione, il suo timbro, la sua intonazione dicono molto di una persona; la voce esprime il pensiero e svela il sentimento; evoca un’emozione e stabilisce una sintonia; esprime o nasconde una verità.

Questa voce dell’amato è come intarsiata in forme dai contrasti vivissimi, nel profumo accattivante della primavera e nel suono di un passo atteso, tra inverno e primavera, ed essa esplode, nella sua forza di vita, tra assenza e pre­senza. La voce amata è riconoscibile tra mille! Cf anche Is52,7-8: tutto diviene celebrazione della giovinezza; qui tutto è vitalità, movimento, celebrazione della vita, come la “corsa del cervo” descritta in 2,9.

Immergiamoci ora in tre bellissime sequenze d’amore:

vv. 10-13: è invito alla gioia e al godere della primavera. L’insistenza sulla pioggia invernale denota tutta l’insistenza e il fastidio dell’amato che non ha potuto incontrare il respiro del suo cuore. La se­quenza è da film di paesaggio (farm movies), dove la tortora, la vite e il fico diventano i simboli della pace e del benessere;

vv. 14-15: l’immagine è celebre e bellissima, in quanto la sposa è paragonata alla colomba selvatica, che nidifica negli anfratti delle roc­ce (cf anche Ger 48,28). Chi è innamorato, è fantasioso e creativo. La colomba è il richiamo alla fedeltà ed è anche il simbolo della bandiera di Israele, ma è anche l’animale sacro alla dea babilonese dell’amore, Istar, e alla dea greca Afrodite, anch’essa dea dell’amore;

vv. 16-17: siamo in uno degli apici del Cantico, una dichiarazione d’amore tra le più intense della letteratura di tutti i tempi. “È la for­mula della mutua appartenenza” – la definisce lo scrittore francese A. Feuillet (cf anche Gen 2,23). Tutto si esprime in un soffio, in una melodia, in un respiro brevissimo: “Dodì lì, wa’anì lò” (il mio amato è mio ed io sono sua!). È la formula, in parole d’amore, dell’Alleanza: “Il Signore sarà il tuo Dio e tu sarai un popolo tutto suo” (Dt 26,17-18; Os 2,25; Ger 7,23; Ez 36,28; Sal 95,7; 100,35).

 

“J’attends Dieu avec gourmandise: aspetto Dio quasi con… ingordigia!”. Un’attesa appassionata e fremente, di un amore vero e profondo. Vorrei portare l’attenzione sulla capacità di “stare con gli altri” e di vivere, gustandola, la relazione, unita alla capacità complementare di assaporare i momenti della so­litudine benefica del cuore. È afferrare con forza il proprio tesoro, quasi con il terrore di perderlo ancora, come la mamma afferra il suo bambino smarrito e appena ritrovato; come l’innamorato, che torna da una lontananza alla sua innamorata…

Dice Alessandro Manzoni, nel romanzo di M. Pomilio “Il Natale del 1833”:

“Se pure corressi per mari stranieri,

tornerò sempre, o Signore,

a far naufragio nel tuo mare.”

 

Un corpo proteso ad Amare (Ct 4,1-5,1; 6,4-7,10)

L’amore è incontro di corpi, canto della bellezza, gioia della sessualità ammirata e donata: la lirica, finissima, è quella dai toni erotici affini al genere arabo del wasf, cioè della descrizione della bellezza femminile. Tuttavia, non è solo una topografia anatomica del corpo umano – perché allora avremmo tro­vato ai nostri giorni tanti cattivi imitatori di questo genere – ma un senso pro­fondo di stupore e di meraviglia che pervade la visione di questo “microcosmo”.

È un clima di limpidezza: lei descrive l’amato come il giardino dell’Eden. C’è un profondo senso di pulizia e di purezza in queste parole: i giovani divengono…

maestri dell’amore!

“Come sei incantevole, mia amata” (4,7).

La poesia semitica si lancia in una girandola di giochi pirotecnici, fatti di colori, suoni, simboli e profumi, dove niente sembra lasciato al caso. Dietro quel velo, la bellezza prorompe:

“Mi hai rapito il cuore, sorella, mia sposa” (4,9).

Evidenziamo alcuni aspetti:

– il viso, che diviene tavolozza di colori (rosso e verde, bianco e dorato), che creano impasto di freschezza, di vitalità e di vigore, oltre che di dolce armo­nia. Non artefatta, non truccata, ma purissima e lineare. Il bello è sempre bello; il brutto, maneggialo come vuoi, al massimo diverrà meno brutto… I simboli utiliz­zati sono rurali: la melagrana, la torre, il salterellare sul prato dei cuccioli;

– il collo; la simbologia è quella di un architetto urbanistico: questa sessualità femminile è anche una sensualità che però mai scade nella volgarità; è delicata, è profumata come gli alberi dell’incenso e della mirra (4,14);

– “mi hai rapito il cuore”: è un verbo ebraico praticamente intraducibile, perché sconfina con la contemplazione estatica (cf l’estasi di S. Teresa del Bernini). È un cuore portato su, in alto, per librarsi su ali d’amore.

La donna amata diventa sorella (nel senso della purezza del sangue reale e della sua nobiltà, non nel senso biologico); è madre, amica, fidanzata e sposa, perché concentra in sé tutte le potenzialità dell’amore. In essa c’è anche l’anelito profondo alla libertà di ogni ebreo: la donna è bella, dolce e desiderabile… come la terra promessa.

Ora, il corpo della donna trova una sua allegoria nei simboli del pardès, un giardino persiano fiorito, sigillato e bloccato agli estranei. Allusione chiara alla illibatezza, alla fedeltà, alla esclusività del reciproco abbandono dei due inna­morati. È la vigna protetta dal muro di Is 5,5: un’oasi irrigata difesa da un’alta siepe (cf Ct 8,11-13). È un giardino che solo lo sposo può aprire: le dolcezze di questo “amore-intimità” non debbono essere violate, ma solo donate per amo­re. In un termine a tutti comprensibile, lo sposo definisce tutto questo “un para­diso” (4,13), in cui trionfa la melagrana, il frutto dell’ amore.

 

Il sigillo del cuore (Ct 8,6-8)

Torna il tema della ricerca e della perdita. In Ct 5,7 troviamo l’altra grande dimensione dell’amore: il rischio. La ragazza, di notte, viene malmenata come una prostituta. Sofferenza e amore non possono che crescere insieme.

– Il sigillo: l’immagine è fantastica, esprime preziosità, ricchezza, unicità e originalità. Il sigillo serviva per farsi identificare: “Camminando nella vita, ci si identifica nell’Amore” (V. Hugo).

Il sigillo veniva portato al dito, al braccio, o pendente come catenella dal collo. Il sigillo autentica (1Re 21,8), il sigillo unisce (Gb 41,7), il sigillo definisce la persona (Ger 22,24).

La sposa diviene la carta d’identità dello sposo, la stessa persona, la stessa carne. Essa aspira a che lo sposo rinchiuda tutto il suo “cuore” e tutto il suo agire (espresso nell’immagine del “braccio”), in un’orbita d’amore che li tiene uniti: “Non vivere più senza di me”.

– La morte: l’arci-nemico per eccellenza, il buco nero in cui tutto viene divorato, non può infrangere questa reciproca appartenenza. Altro che “rifiuto della morte”… (Becker). È un guardarla senza paura, perché si hanno occhi amorosi.

La partita a scacchi del vecchio cavaliere del Settimo Sigillo, nel film di I. Bergmann, non è destinata ad essere perduta. L’incontro a Samarcanda, di cui racconta Branduardi, non è l’incontro ultimativo e fatale.

Così si esprime il testo di Proverbi 30,15: “Amore e morte si fronteggiano ed entrambi gridano: Dammi! Dammi! non si saziano mai, non dicono mai: Ba­sta!

Ma l’amore, che è passione ardente ed esclusiva, riesce a sopravvivere e a vincere.

La parola “scintille divine” richiama un Dio cananeo, Rebèf , che emette­va scariche fiammanti, ma maligne. Qui le scintille cambiano valenza: sono positive, sono per la vita, sono la fiamma di Jahwè! (Ct 8,6-7).

– Le grandi acque (Gen 1,2-10 e 8,2): è la vittoria dell’amore sul caos, come il Dio che ha messo ordine nella creazione o ha salvato Noè dal diluvio.

“È un arcobaleno di gioia e d’amore, vi scorgo il tuo volto o Signore” (cf Sal 69,2-3).

Tutte le paludi del dolore, della crisi, della desolazione saranno superate dai due amanti, conservando intatta la fiamma dell’amore che non conosce tra­monto; un amore che non ha prezzo.

 

 

E infine… un epilogo che non è epilogo

“Corri mio amato!” (8,14): L’ amore è un’avventura che non finisce qui. C’è sempre un’altra pagina bianca da scrivere. La ricerca del “diletto” e di colei che è “unica” per lui, è la ricerca della vita… non può che continuare.

 

 

 

La “preghiera sacerdotale” di Gesù (Gv 17, 1-26)

Credo che in essa siano presenti delle profonde valenze legate al tema della “nuzialità/sponsalità”, che è al centro del nostro interesse. Anche alcuni pas­saggi del capitolo 17 di Giovanni, che propone la straordinaria “preghiera sacer­dotale di Gesù”, possono essere riconsiderati in chiave sponsale. Tutta questa preghiera, del resto, rivela l’unione perfetta d’amore e di “conoscenza” del Padre e del Figlio tipica dell’unione sponsale[9].

Giovanni ci ha trasmesso questa preghiera d’intercessione e di oblazione di Gesù, ma è veramente straordinario e profondamente intimo pensare a Gesù che parla con il Padre e gli confida tutta la pienezza del cuore, come si comunica con l’amico con cui si ha una sintonia profonda. Questo pensiero può veramente riempirci il cuore di una tenerezza immensa!

Del colloquio costante di Gesù col Padre, Giovanni in qualche modo è stato messo a parte e ce ne dà conoscenza. Potremmo dirgli: “Grazie, caro Giovanni, amico prediletto dello Sposo”!

“Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato, siano con me, dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché tu mi hai amato prima della creazione del mondo. Padre giu­sto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; questi sanno che tu mi hai mandato. E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro” (Gv 17,24-26).

A commento di questo brano, vorrei qui proporre qualche spunto di rifles­sione di una persona amica, laica e sposata, profondamente sensibile alle sug­gestioni spirituali e vocazionali della “preghiera sacerdotale”:

«È difficile esprimere compiutamente la risonanza che hanno avuto in me queste parole di Gesù, come è difficile esprimere quello che si può solo appena intuire, ma posso dire che mi hanno riempito il cuore di una gioia, di una gra­titudine e di un’emozione grande.

Ho intuito il grande desiderio, per il quale ha “consacrato se stesso”, che Gesù ha insieme con il Padre: quello che ogni sacerdote, ogni consacrato e consacrata, ogni chiamato viva la beatitudine, l’estasi dell’amore di Dio. Que­sta è “la dimensione nuziale di ogni vocazione”.

Gesù vuole, e lo confida al suo Abbà, con il quale ha un’unione d’amore assoluta e perfetta, che quelli che ha chiamato siano con lui, e cioè che vivano la stessa unità: una cosa sola con il Padre e il Figlio nello Spirito, e questa è la realtà sponsale di cui l’unione degli sposi è solo figura.

Vuole che essi contemplino la sua gloria, vera fonte della gioia, di cui la gioia, alla vista della persona amata, è stupenda rappresentazione. E non si potrebbe forse dire che anche la contemplazione della gloria di Cristo sia, in realtà, un’unione sponsale?

Poi Gesù aggiunge: “Io ti ho conosciuto… questi sanno (quindi in ma­niera esperienziale) che tu mi hai mandato. E io ho fatto conoscere loro il tuo NOME e lo farò conoscere…”.

Mi richiama alla memoria del cuore le parole di Osea 2,22: “Ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore”.

La Parola di Dio ci dice che il Nome di Dio rivela la sua essenza… Si capisce allora che se Gesù ha fatto conoscere ai suoi il Nome del Padre vuole che si realizzi in essi questa “conoscenza” sponsale con l’essenza di Dio, che cioè “l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro”».

 

 

Dalla Parola di Dio alla Parola della Chiesa

Per sviluppare il tema della “dimensione nuziale/sponsale”, che si fa criterio del discernimento vocazionale, è altrettanto importante ed essenziale attingere al grande tema dell’Alleanza, come patto d’amore tra Dio e il suo popolo, il quale, come ci viene rivelato dalla Parola di Dio, è essenzialmente un rapporto di “amo­re sponsale”. Nella recente esortazione apostolica Sacramentum caritatis, Be­nedetto XVI dedica un capitolo stupendo (il V), a questo mistero e, citando il Catechismo della Chiesa Cattolica, sottolinea il fatto che

“tutta la vita cristiana porta il segno dell’amore sponsale di Cristo e della Chiesa. Già il Battesimo, che introduce nel Popolo di Dio, è un mistero nuziale: è, per così dire, il lavacro delle nozze che precede il banchetto delle nozze, l’Eucaristia… Nella teologia paolina l’amore sponsale è segno sacramentale dell’amore di Cristo per la sua Chie­sa, un amore che ha il suo punto culminante nella Croce, espressione delle sue nozze con l’umanità e, al contempo, origine e centro del­l’Eucaristia”[10].

Già nella vocazione battesimale si può quindi individuare la dimensione sponsale. Ogni chiamata successiva porta in sé, come essenziale, l’aspetto nu­ziale, proprio perché è una chiamata all’amore e alla reciprocità.

“Cristo è il centro di ogni vita cristiana. Il legame con lui occupa il primo posto rispetto a tutti gli altri legami, familiari o sociali (cf Lc 14, 26; Mc 10, 28-31). Fin dall’inizio della Chiesa ci sono stati uomini e donne che hanno rinunciato al grande bene del matrimonio per seguire l’Agnello dovunque va” (Ap 14, 4), per preoccuparsi del­le cose del Signore e cercare di piacergli (cf 1Cor 7, 32) per andare incontro allo Sposo che viene (cf Mt 25, 6)”[11].

Proviamo, solo per un attimo, a percorrere le vie di questo mistero, del quale l’uomo e la donna diventano l’uno per l’altra e verso tutti il segno reale, effettivo e vivente dell’ineffabile amore di Dio, e che i chiamati ad altre vocazioni devono attualizzare nella propria vita in modo diretto.

Dio non ci ha dato solo immagini e simboli del suo amore. Lui stesso divie­ne Sposo e, attraverso la sua Parola, rivela che è l’amore – eros e agape[12] – la vera sostanza dell’alleanza tra Dio e il suo popolo e fa comprendere “l’Alleanza di Dio con Israele sotto l’immagine di un amore coniugale esclusivo e fedele”[13] (cf Os 1-3; Is 54; Ger 2-3; Ger 31; Ez 16; Ez 23)”.

Dio chiama Abramo e stringe amicizia con tutto il suo popolo. Egli è un “Dio geloso” (Es 20,5), Israele diviene “la sua amata” (Ct 3,5), parla di lei usando il vocabolario degli innamorati (Ct 4). “Ti ho amato di amore eterno” (Ger 31,3); “Come un giovane sposa una vergine così ti sposerà il tuo Creatore, come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te” (Is 62,5).

Il rapporto tra Dio e il suo popolo viene spesso rappresentato come comu­nione nuziale. Il Cantico dei Cantici, che già abbiamo attraversato, celebra l’amore coniugale con linguaggio poetico e i Padri della Chiesa leggevano co­stantemente, in questo amore, l’immagine dell’amore di Dio per il suo popolo.

«La Tradizione ha sempre visto nel Cantico dei Cantici un’espressione unica dell’amore umano, in quanto è riflesso dell’amore di Dio, amore “forte come la morte” che “le grandi acque non possono spegnere” (Ct 8, 6-7)»[14].

Egli conduce poi la sua sposa nel deserto (cf Es 15; Os 2,16) dove si suc­cedono i tipici momenti della relazione tra innamorati: corteggiamento, cono­scenza reciproca, adeguamento l’uno all’altro, iniziazione ad un medesimo lin­guaggio lontano dalle intrusioni degli estranei, nel silenzio e nella tranquillità. Il periodo del deserto è il tempo dell’intimità, della prova, della conoscenza. Il rapporto d’amore tra Dio e il suo popolo è soggetto a molte crisi, ma Dio non dubita della sua amata e le resta fedele anche quando essa è infedele (cf Ez 16).

L’ultimo profeta dell’AT, Giovanni Battista, si autodefinisce l’amico dello Sposo che annuncia: “lo sposo è qui”, ed esulta alla voce dello sposo (Gv 3, 29). E Gesù stesso si dichiara lo “sposo”, alla cui presenza non si digiuna, ma si fa festa (Mt 9,15). Uno sposo che desidera rimanere con noi, per sempre, attra­verso il dono dell’Eucaristia.

Benedetto XVI, nel documento citato, dice che

“l’Eucaristia, sacramento della carità, mostra un particolare rap­porto con l’amore tra l’uomo e la donna uniti in matrimonio… Il Papa Giovanni Paolo II ha avuto più volte l’occasione di affermare il carattere sponsale dell’Eucaristia ed il suo rapporto peculiare con il sacramento del matrimonio: l’Eucaristia è il sacramento del­la nostra redenzione. È il sacramento dello Sposo e della Sposa” [15].

«Lo Spirito e la Sposa dicono: “Vieni!”, e lo Sposo risponde: “Si, verrò presto”» (cf Ap 22,17-20).

 

 

Vocazione e Amore: i sentieri convergono

Le due parole messe a tema per questa riflessione sono di quelle che… mettono i brividi addosso; da una parte perché in esse è sottesa una grande carica di idealità nel tradurle concretamente in ipotesi di vita; dall’altra, perché ognuna di esse evoca, in ciascuno di noi, modi particolari di intenderle.

Ecco, allora, che risulta difficile parlare di “vocazione”, senza il rischio di essere fraintesi facilmente, pensando che si utilizzi questa espressione nel sen­so univoco di “via alla consacrazione”, come se il resto della vita rimanesse ai margini di una propria, unica e originale chiamata[16].

 

Quando la Parola tocca una vita

Evidentemente c’è alle spalle un uso socio-culturale di questa espressione, là dove si pensava sempre e comunque ad un tentativo sottile di “accalappiare” qualcuno o qualcuna e indirizzarlo sulla via dell’essere prete o suora, monaca o missionario…

Indubbiamente ha contribuito a creare un certo alone di timore la paura che questa chiamata particolare tocchi proprio a me: finché coinvolge qualcun altro dei miei amici o delle mie amiche, passi… ma se il Signore vuole qualcosa proprio da me? Qui cominciano i dolori!

Eppure è importante capirsi: la “vocazione” è un modo di intendere e di vivere la propria vita, un modo che vale per ciascuno di noi, visto che è in ballo una libertà di scelta che ci è stata donata e non ci viene tolta.

Altrettanto vale per una responsabilità nell’assunzione di un impegno fe­dele di vita, ben sapendo che la parola “responsabilità” deriva dal verbo latino “respondeo”, che significa letteralmente “rispondere”. Rispondere, ovviamen­te, a Qualcuno che ci chiama.

C’è poi l’altro polo del nostro approfondimento, che riguarda l’amore: anche qui siamo di fronte ad una delle parole magiche, se non “mitiche”, della vita, come si usa dire spesso tra i giovani oggi.

Si parla tanto di amore, certo, ma non c’è forse il rischio di gonfiarlo a dismisura, come una mongolfiera che poi se ne va impazzita per il cielo, una specie di dirigibile “Italia” che si abbatte in maniera catastrofica sui ghiacci del Polo? Non c’è il rischio di banalizzarlo in uno sterile “parolismo” che tanto lo afferma, quanto finisce per renderlo confuso, fragile, inconcludente, spesso privo di un significato radicale e totalizzante per la vita stessa? Anche in questo caso ciò che conta è imparare a vivere “di amore” e “per amore”.

Immaginiamo una pianta con due rami ben robusti: dal ramo “vocazione” e dal ramo “amore” occorre scuotere con forza tante parole inutili; quello che resterà sul ramo sarà ciò che è essenziale ed importante per il nostro cuore e la nostra vita.

 

Riposando nella sua mano

Davanti ai miei occhi, in questo momento, c’è un’immagine: è la riproduzio­ne di un disegno che stava accanto al letto di ospedale di un giovane prete, stroncato da un male repentino e incurabile. Una malattia durata appena undici mesi… Undici mesi che, forse, valgono tanto quanto una vita intera. Undici mesi in cui un “piccolo disegno” diventava sempre più vero, sempre più vivo, sempre più carico di significato. Quale disegno?

Si tratta di un bambino piccolo e delicato, dal volto dolcissimo e sereno, che poggia la sua testa e la sua piccola mano dentro al cavo di una grande mano. Una mano troppo grande per essere mano d’uomo, ma curva nella sua tenerezza accogliente, come solo sa essere la mano di Dio.

Lo avevo visto ancora quel disegno, stilizzato nelle stupende forme in legno che sanno ricavare i maestri artigiani del legno che esprimono la loro mirabile arte nella Val Gardena.

Lo avevo visto, ma allora mi era sembrato quasi infantile.

Oggi trovo che è la più bella sintesi in cui “vocazione e amore” possono ricongiungersi e sintetizzarsi: la dimensione dell’abbandono.

“Padre mio, mi abbandono a te…”, diceva con intensità P. Charles de Foucauld. Quante volte tutti noi abbiamo recitato questa preghiera; quante vol­te l’abbiamo cantata; ma in me, e forse in tanti di noi, non c’era consapevolez­za piena di quello che pregavamo.

Ora capisco che l’abbandono, quando è vero, è sempre totale e va… fino alla morte. Lì amore e vocazione non sono più due sentieri paralleli, ma due piste che s’incrociano per salire in un sentiero unico, diritto e luminoso, verso il blu infinito del cielo, verso Colui che è la fonte di ogni chiamata e di ogni amore.

 

L’incontro tra vocazione e amore

Troppo spesso si è parlato della vocazione in termini asettici, come se essa nulla avesse a che fare con una vera e propria scelta di amore nella vita, come se in essa non fosse coinvolta tutta l’enorme carica di affettività di cui è capace il cuore umano.

Troppo spesso la vocazione è divenuta un modo di vivere “ritagliato” en­tro le dimensioni anguste di un “ruolo”. Troppo poco, amici miei; troppo poco per impegnare una vita rischiando tutto di sé. Se non c’è amore, ci ricorda S. Paolo, siamo anche noi come campane di bronzo che suonano nel vuoto o, peggio ancora, sono completamente stonate!

Eppure, l’amore non può essere ridotto a puro sentimento spontaneistico, non può essere solo un’emozione con la quale talvolta giocare e trastullarsi nella vita.

L’amore è chiamata, è impegno, è libertà di scelta ed è responsabilità di coerenza nella fedeltà. Qualcuno t’invita, perché ti vuole bene: tu puoi dire sì o no, ma non puoi eludere questa voce che ti chiama, come la voce dello sposo chiama la sposa nei versi stupendi del Cantico dei Cantici: ecco emergere, come dalla nebbia del mattino, la “dimensione nuziale” della vocazione.

Amore e vocazione camminano insieme; devono farlo, ne va della loro autenticità. Oserei dire: ne va della loro esistenza.

L’amore è “mistero”. Chi mai può definirlo? Chi può restringerlo entro gli angusti spazi della parola? Chi può esprimerne con pienezza tutta la forza e l’immensità? Esso ci supera sempre, come supera sempre se stesso.

Anche la vocazione è “mistero”. Chi può decifrare con certezza i tempi e i modi di una chiamata? Chi può capire fino in fondo perché qualcuno sente questa chiamata e altri non la avvertono? Chi può addentrarsi negli spazi infiniti della imprevedibilità di Dio?

L’amore richiede un cammino verso l’invisibile; non lo si può computerizzare o ridurre in una formula algebrica; non puoi togliergli il fascino del rischio.

Anche la vocazione “scala” la montagna dell’invisibile. È chiamata verso l’Eterno invisibile che lascia trasparire appena uno spiraglio del suo volto; e questo ti affascina.

Per Abramo e Mosè, per Geremia ed Osea, per Pietro e Maria di Magdala non è stato forse questo il modo di percepire la loro chiamata? Una piccola briciola d’invisibile si è fatta visibile… ed è bastato!

L’amore ti “sporca le mani”, come si usava dire a proposito dello stesso Cantico dei Cantici. Che significato possiamo dare a questa espressione? Cre­do una lettura semplice: quando ami devi imparare a coinvolgerti tutto, senza mezze misure, in un’intimità totalizzante e assolutamente “svelata e sincera”.

Ma anche la vocazione è questo: essa non tollera che ti volti indietro, quando hai posto mano all’aratro; non tollera i cuori angusti e stretti, “sclerotici”, sem­pre pronti a calcolare se conviene fare questo e lasciare quello. La vocazione è la via dei “cuori ardenti”, così direbbe P. Teilhard de Chardin; è per coloro che non si accontentano di andare nel bosco a fare il pic-nic, ma vogliono salire sulla cima della montagna, anche se il sentiero si fa duro e stretto e sole e fatica ti asciugano ogni energia.

Infine l’amore, come la vocazione, sono in grado di essere il Tabor della nostra vita: la possono veramente trasfigurare in maniera determinante.

Lo affermava anche il grande poeta francese Paul Claudel, per cui una vita “amorosa” – e noi potremmo aggiungere anche: una vita “chiamata” – esprime una freschezza e una forza, una limpidezza e una carica che prima non lasciava trasparire. Così il fuoco sotto la cenere è stato riattizzato. Così il fiore, quasi appas­sito, è stato irrorato dalla rugiada e ha ripreso la vita, i colori, il suo profumo. Amore e vocazione come il Tabor della nostra vita: è tornare a gustare quello che spesso cerchiamo e non troviamo: la pace interiore, la pienezza del senso, la creatività gioiosa e feconda, il gusto del vivere. Un Tabor che è ricarica per il tempo della sofferenza; un Tabor che è apprendistato di “abbandono” per il giorno in cui la grande mano ci chiederà di rilassarci nella sua tenerezza accogliente…

 

Per crescere nell’amore e nella vocazione…

A questo punto, vorrei solo tracciare un piccolo indice del cammino da compiere e della segnaletica da rispettare per un accompagnamento e un discer­nimento vocazionale alla luce della “dimensione nuziale”.

* È un collocarsi oltre il bipolarismo tra repressione e spontaneismo.

* È il rispetto di alcuni “passaggi di crescita” fondamentali e insieme difficili da attuare, perché spesso soggetti a fissazioni, blocchi, regressioni:

-dalla passività alla reciprocità

-dalla reciprocità alla gratuità

* È un andare oltre a tre possibili miti della vita affettiva:

-dal vivere “tutto cuore” alla “sensibilità”

-dal vivere “tutto intelligenza” alla “sapienza”

-dal vivere “tutto volontà” alla “coerenza”

Sono dimensioni e prospettive non facili, ma importanti da mettere come obiet­tivo di ricerca e di maturazione nel cammino affettivo e vocazionale. In tutto ciò un aiuto significativo ci può venire da un “maestro della carità e dell’amore” del nostro tempo, Jean Vanier, che delinea dei sentieri di cammino e dei “bipolarismi contrap­posti” in cui la nostra cultura troppo spesso si dibatte e si blocca:

-la fiducia si contrappone al sospetto e alla paura dell’altro e del diverso;

-lo stupore si contrappone alla indifferenza e al cinismo;

-la semplicità si contrappone alla sofisticazione e alla mistificazione;

-la gratitudine si contrappone all’egoismo e alla autosufficienza.

 

Qualche resistenza nel cammino…

È oramai ben conosciuta la sindrome di Peter Pan: l’eterna adolescenza che non vuole crescere e assumersi responsabilità nella vita e nella cura dell’altro.

È pure evidente quella che possiamo definire la sindrome di Aladino: è la segreta speranza, peraltro magica e infantile, che un “genio” buono mi aiuterà; un Harry Potter cambierà la mia vita…

Infine è oggi molto significativa quella che possiamo chiamare la sindrome della “bambola di sale”: la ricerca esasperata e mitizzata del… provare ogni esperienza possibile, salvo poi non saper tirare le fila, in una giusta valutazione e in un coraggioso e corretto discernimento, per nessuna delle esperienze vissute.

 

Quali le pietre di inciampo e quali le opportunità per non cadere su di esse?

– Rimane sempre in agguato, anche per una nostra particolare forma­zione, il rischio dell’assolutizzare la forza della “razionalità”. Questo dovrebbe portarci a percorrere saggiamente la via del non lasciarsi irretire dalla separazione netta tra il mondo delle idee e quello dei sentimenti.

– Un altro possibile rischio è la ricerca alquanto cartesiana di un’impossibile chiarezza computerizzata, all’interno della complessità della vita attuale. La spinta che ci viene è di metterci pazientemente in ricerca della via che porta “dal più strutturato al più flessibile”, perché permette un approccio più sereno e rispettoso della realtà e delle per­sone stesse.

– E infine non possiamo sottovalutare un ulteriore rischio: la pro­spettiva di vita oggi così diffusa e amplificata dal mondo mass­ mediatico del “tutto è permesso e tutto è possibile!”. È la “generazio­ne del reality”…Questo ci pone un interrogativo veramente serio e profondo su come gestire il passaggio, legato alla nostra educazione e formazione, dal tabù al senso rispettoso e sacro del Mistero. Ecco allora le due dinamiche fondamentali dell’espressione di un buon cammino di educazione all’amore all’interno delle nostre comunità cristiane: il tempo della coppia e il tempo dell’amore verginale[17].

 

Il tempo della coppia

Essere coppia, oggi, vuol dire vivere l’amore come una realtà delicata, che va trattata con delicatezza. Per questo è così difficile parlare dell’amore, nella sua formidabile potenza e vastità: sarebbe come penetrare nel nocciolo dell’esistenza, fare irruzione nel mistero. L’amore si nutre di pudore e segretez­za… Ma c’è chi lo valuta in maniera cinica: “Il matrimonio è una pura e sem­plice addizione di doveri, una sottrazione di libertà, una moltiplicazione di com­piti, una divisione di pareri… Adesso non siete più liberi!”

O ancora, con le famose parole di André Gide: “Amare una donna signifi­ca rinunciare a tutte le altre”.

Ma la libertà è un bene che si conserva e si accresce solo se lo si sa sacrifica­re. La libertà è nata per morire, dipende a che livello: in basso sta la schiavitù… in alto sta l’amore! O l’amore uccide l’Io o l’Io ucciderà l’amore…[18].  Troppo spes­so ci si trova al capezzale di un amore fragile, vulnerabile e ferito!

 

Il tempo della scelta di un “amore verginale”

La verginità consacrata non è un maggior grado di perfezione, né una mor­tificazione dell’amore. È una modalità “diversa” di amare, che si innesta sullo stesso tronco, come due rami che si librano verso il cielo: la coppia e la verginità.

Ecco allora che l’amore verginale è un sì pieno all’amore, vissuto nel silen­zio. Si stabilisce come una stupenda equazione: l’amore di coppia sta alla vergi­nità come la parola degli innamorati sta al loro silenzio.

Dice il poeta spagnolo Miguel de Unamuno: “Una donna, in quanto ma­dre, è sempre vergine, perché entrambe, la madre e la vergine, hanno in comu­ne un segno: la gratuità.”

Un’espressione, questa, che sarà ripresa e fatta propria, con la stessa in­tensità, anche da Edith Stein. È lo stesso ponte tra la vita di coppia e la verginità consacrata che traccia il Cantico dei Cantici nella rincorsa affannosa e poi felice dell’amata alla ricerca del suo amato sul far del mattino, quando l’aurora comincia a tingere di arcano il cielo. E allora, alla fine della sua incredibile ricerca notturna, la sposa potrà finalmente dire: “L’ho cercato e l’ho trovato” (Ct 3,4).

 

 

Per verificare e per vivere la “dimensione nuziale”

 

Lasciati amare …

Lasciati amare da Dio, anzitutto. Può l’amore essere un comandamento? È assurdo, no? Un controsenso! L’amore è scelta, è libertà, è sentimento. Posso rispettare, temere, ma non amare, se vi sono costretto. Esiste una verità sempli­ce, un comandamento che dà senso ad ogni vocazione consacrata e ad ogni vita di coppia: lasciati amare.

In esso anche l’altro ci vuole bene. Dio ci ama: quando lo capiremo? Ci ama senza condizioni, senza possesso, senza fragilità. Ci ama non perché meritevoli (che amore è, un amore che pone condizioni?), non ci ama perché buoni ma, amandoci, ci rende buoni. Lo so, tante volte il nostro cuore è indurito, rinchiuso in una gabbia di dolore, non si riesce a vedere questo amore perché la rabbia di non essere stati amati ci ha intossicato il cuore e la mente. Fidiamoci e … lascia­moci andare! Dio sul serio ci ama, sul serio desidera per noi il bene, quello vero. Gesù è morto per affermare questa certezza, ci ha creduto e ne è morto.

 

Àmati

Questa è la seconda condizione per vivere bene la dimensione nuziale di ogni vocazione: àmati. Quando Gesù afferma di amare il prossimo come se stessi, ci obbliga a guardare il rapporto che abbiamo con la nostra “interiorità”, col nostro intimo.

Àmati, cioè accetta ciò che sei, i tuoi limiti, le tue parti oscure. Un falso cristianesimo ci impedisce di gioire di noi stessi, vedendo in quest’atteggiamento un atto di egoismo. L’egoismo è, invece, non accettare il proprio limite, volere accaparrare, invece di fare della propria vita un dono.

L’egoista è ciò che “appare”, si sforza di vendere un’immagine di sé che gli impedisce di rientrare in se stesso e gioire. Ti ami davvero? Ti perdoni? Sei convinto che ciò che sei può diventare un capolavoro? Hai ragione: ci vuole tutta la vita per imparare ad amare. Tutta la vita.

Ma si può fare, sul serio: guardarsi come ci vede Dio, non come il nano delle nostre paure né il gigante dei nostri sogni, ma come persona che Dio ha pensato e amato. Allora posso amare dell’amore che ho ricevuto e che ha trasfigurato il mio cuore; allora posso davvero vivere, riconciliato nel profondo, con l’amore che mi è stato dato di vivere nella mia scelta di vita.

 

Ama…

Infine il Maestro ci dice: ama.

Ama Dio e ama coloro che ti ha messo accanto e che camminano con te, perché anche tu ti scopri teneramente amato. Amali perché te ne innamori, amali come riesci, ma tutto, interamente. Non esiste l’amore puro, non esiste il gesto totale; il nostro amore, spesso, è vincolato, fragile, malato e appesantito.

Pazienza: tu ama con tutto ciò che riesci, come riesci, ama senza paura. Ecco il segreto: scoprire di essere amati, di essere amabili, di diventare capaci di amare nel nostro modo un po’ grezzo, infantile e fragile. Dio ci rende capaci di amore, di luce, di pace, di essere segno e dono, di donare, di contrastare la logica di questo mondo. È difficile, certo. Si ha l’impressione di nuotare controcorrente. Ma, nel fiume, solo i pesci morti seguono la corrente.

 

Conclusione

Un mistico sufita (corrente monastica dell’Islam), vissuto nel XIII secolo, Gialal Ed-Din Rumi[19], così scrive:

«Il Signore ha bisbigliato qualcosa all’orecchio della rosa ed eccola aprirsi al sorriso; il Signore ha mormorato qualcosa al sasso ed eccolo divenire gemma preziosa, scintillante nella miniera; il Signore ha detto qualcosa all’orecchio del sole ed ecco la guancia del sole coprirsi di mille eclissi. Ma che cosa avrà mai bisbigliato il Signore all’orecchio dell’uomo, perché egli solo sia capace di amare e di amarlo? Ha bisbigliato una sola parola: AMORE».

 

 

 

 

Note

[1] Nota tecnica: a livello grafico cercherò di rendere più immediato e visibile qualche “sugge­rimento concreto” sul tema del discernimento vocazionale, evidenziandolo in un riquadro all’interno del testo.

[2] Alcune idee fondamentali, che fanno da base di riferimento per questo contributo, sono raccolte ed esplicitate nel recente testo: A. MANENTI – S. GUARINELLI – H. ZOLLNER (a cura di), Persona e Formazione: riflessioni per la pratica educativa e psicoterapeutica, ed. Dehoniane, Bologna 2007.

[3] Per una comprensione semplice ma mirata di questa modalità di aiuto, rimando all’articolo di M. BOTTURA, Il racconto della vita, in “Tredimensioni” 4/2007, ed. Ancora, Milano; pp. 32-41.

[4] Questa interessante prospettiva, che apre scenari intensi nell’ambito della relazione intersoggettiva, sia per la vita di coppia che per la vita consacrata intesa in prospettiva “nuziale”, è presentata in maniera delicata e raffinata da M.T. PORCILE SANTÌSO, La donna, spazio di salvezza, EDB, Bologna 1996; in particolare nel paragrafo “la creazione della donna” (Gen 2,18-25), pp.148-157.

[5] Il tema della Alterità trova un suo sviluppo psicologico e spirituale nell’op. cit. Persona e formazione, in particolare del capitolo IV, curato da A. TAPKEN, “Relazione – Intersoggettività – Alterità: svolta nei paradigmi della psicoanalisi attuale e suo significato per l’antropologia cri­stiana”, pp. 101-125; e inoltre è ancora sviluppato nel cap. VII, in prospettiva più teologica, curato da F. SCANZIANI, “Il parametro dell’Alterità e la sua importanza per la teologia dogmatica”, pp.185-205.

[6] Cf la straordinaria lucidità e ironia delle intuizioni di C.S. LEWIS nelle sue Lettere di Berlicche, ed. Jaka Book, Milano 1990.

[7] Per una rilettura più appropriata e profonda di queste tematiche tipiche della Psicolo­gia dello Sviluppo, cf L. SUGARMAN, Psicologia del ciclo di vita: modelli teorici e strategie di intervento, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003.

[8] Gli spunti di riflessione sul testo biblico del Cantico dei Cantici, si rifanno alla rilettura esegetica-spirituale di G. RAVASI, Cantico dei Cantici, Paoline, Cinisello Balsamo 1985.

[9] Per un commento interessante di questo testo giovanneo, vedi X. LÉON-DUFOUR, Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni (tomo III: “gli addii del Signore”, cc. 13-17), San Paolo, Cinisello Balsamo, Milano 1995; pp. 348-407.

[10] Sacramentum caritatis, n. 27.

[11] CCC n. 1618.

[12] Benedetto XVI, Deus caritas est, Libreria editrice Vaticana, Roma 2006.

[13] CCC n. 1611.

[14] Ivi.

[15] Sacramentum caritatis, n. 27.

[16] Alcuni spunti, ripresi in questa parte della proposta, fanno riferimento ai suggestivi articoli apparsi nella rivista “Credere Oggi”, ed. Messaggero, Padova 1993, n. 3. Cf in particolare I. DE SANDRE, Nuovi percorsi dei legami di coppia; A.N. TERRIN, Per una fenomenologia dell’amore umano; C. ROCCHETTA, La corporeità nell’educazione all’Amore; N. DAL MOLIN, L’amore vuole eternità: la progettualità nell’amore; B. BORSATO, Amore come apprendimento della alterità.

È assai utile anche una rilettura della rivista del CNV “Vocazioni”, n. 3/2003: Affettività, sessualità e vocazioni: quale cammino di maturazione nella direzione spirituale. In particolare gli articoli di E. BOSETTI, L. MAINARDI, A. CENCINI, G.P. DI NICOLA e A. DANESE.

[17] Cf il testo, sempre denso di attualità e ispirazione, di C.S. LEWIS, I quattro Amori: Affetto, Amicizia, Eros, Carità, ed. Jaka Book, Milano 1990 (2a ed.).

[18] Alcuni spunti sono approfonditi nel gustoso testo, frutto della sua pratica psicoterapeutica, di G. DACQUINO, Legami d’Amore: come uscire dall’isolamento affettivo, Oscar Saggi Mondatori, Milano 1999.

[19] L’aneddoto è tratto da N. DAL MOLIN, Itinerario all’Amore, ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1994(6a ed.), p. 138.