N.01
Gennaio/Febbraio 2008

«Corro per la via del tuo amore».

Uno slogan da capire...da pregare... da vivere!

Il tema proposto per la 45a Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni è un invito esplicito a riflettere sul tema “vocazione e missione” nella Chiesa. Lo slogan da cui si parte quest’anno è una parafrasi del celebre versetto della Liturgia delle Ore: “Corro per la via dei tuoi comandamenti poiché tu hai dilatato il mio cuore” (Sal 118, 32).

Questa corsa, che richiama quella della Parola di Dio che viene glorificata, è anche una corsa che si svolge all’interno della dinamica di ogni vocazione.

Chi conosce la storia di qualche chiamata prova sempre un certo stupore davanti all’ammirabile scambio tra desiderio e azione che s’intuisce nel cuore di ogni vocazione.

C’è un momento della vita in cui l’azione sembra capace di compiere il desiderio, anche se il desiderio è in realtà più grande dell’azione compiuta.

È quello l’attimo in cui l’eterno del desiderio accetta di incarnarsi in un’azione concretissima come la scelta di vita.

Questa esperienza di libertà e la conseguente dialettica del desiderio stanno alla base di ogni “forma di autodeterminazione della coscienza credente”[1].

Quale libertà sperimenta il chiamato?

Quanta forza richiede la risposta?

Certamente, il tema proposto quest’anno offre alcuni spunti per provare ad entrare nel mistero della chiamata alla vita cristiana nella Chiesa, che è missionaria. Basta ripercorrere le tre parole-chiave contenute nello slogan, per far sì che le immagini sottese suscitino in noi una risonanza di fede ed è questo il metodo e lo scopo delle riflessioni che seguono.

 

La «via» luogo della scelta

Via è tradizionalmente il luogo della libertà, della scelta: la nostra libertà si scontra con la scelta come con la sua fine e il suo fine. Solo nella scelta concreta la libertà accade come evento visibile: chi potrebbe affermare la sua libertà senza poter esprimere una scelta? Proprio questa scelta, tuttavia, vincola l’uomo ad una fedeltà, ad una coerenza. La via è dunque il luogo della riflessione sulla libertà umana, perché proprio in una scelta essa sembra morire. Al credente rimane la domanda: qual è la via che allarga e dilata la mia libertà? Oppure, con le parole del salmista, possiamo interrogarci su chi sia simile ad un albero piantato lungo corsi d’acqua, le cui foglie non intristiscono mai. In altre parole: è possibile fare esperienza di una libertà liberata?

Certamente non ci è possibile pensare questa via finché non ammettiamo il primato del senso sulle singole scelte. La via, infatti, prima di essere una sequenza di passi, è una direzione: il senso delle mie scelte è il luogo reale della mia libertà. Non si parla qui di libertà da una costrizione, che rimarrebbe sul piano dell’atto, ma di una capacità di determinare il mio rapporto con ciò che mi viene incontro. Non possiamo chiamare via una di quelle rotonde circolari che snelliscono il traffico nelle nostre strade: essa è fatta di passi, sì … ma non porta da nessuna parte! Davanti ad un bivio, ad una biforcazione nella strada, la scelta è sempre gravida di conseguenze; la direzione intrapresa a volte è fatta di conseguenze prevedibili e in parte di conseguenze imprevedibili; ma solo la tensione verso l’orizzonte del senso libera la scelta dal livello dei piccoli tornaconti. Esiste un tale orizzonte di senso? Quale via libera la mia libertà?

Amore. Se concepiamo nell’amore la via che soddisfa la nostra sete di libertà, dobbiamo ammettere che ciò non semplifica le cose, anzi le complica ulteriormente. Se, infatti, questa fosse una via fatta semplicemente di passi, allora l’identificazione tra soggetto e atti sarebbe inesorabile. La prospettiva di ricevere il premio secondo le proprie azioni sembra inizialmente placante, secondo una giustizia umana. Ma chiunque, alla lunga, si sentirebbe giudicato ingiustamente da questa prospettiva, perché in fondo l’amore spinge il desiderio verso l’infinito e verso l’impossibile. Il soggetto cioè rivendica un’identità che va oltre la finitezza dei suoi passi compiuti o anche solo possibili. La via dell’amore sembra dunque esigere una via percorribile solo con un aiuto divino: una via che non è solo una sequenza di passi, ma che mette le ali a chi la percorre. Solo la ricerca dell’impossibile – “amare come Lui ci ha amati” – ci rende degni di una libertà umana; solo questo impossibile amore riporta ad una distanza leggibile la direzione dei nostri passi, la nostra storia, la nostra piena identità personale. Solo quest’orizzonte è in grado, infatti, di rendere ragione a ciò che è in noi mistero all’altro e segreto d’immortalità. L’uomo che spende la sua libertà per ciò che è finito, per ciò che passa, sente di tradire la sua voglia d’infinito. Ma com’è possibile per l’uomo desiderare quest’infinito senza rimanere costantemente deluso dalle sue scelte? Che cosa rende giustizia alla natura profonda dell’io se non l’amore infinito di Dio? La libertà umana di chi sceglie la via di questo amore non ha paura di esaurirsi in un banale quotidiano, fatto di piccole cose, perché è già stata riscattata da un’identità più grande. Solo l’amore diventa una pretesa credibile per non ricadere nella pura volgarità.

 

La «corsa» luogo dell’infinito

Corro. L’orizzonte infinito ci spinge, allora, ad affrettarci nel cammino, per lasciare lo spazio ad una corsa liberante. È in questa corsa che vediamo bene l’intreccio, a volte inestricabile, tra desiderio e bisogno. Nel desiderio c’è la grandezza e la miseria dell’uomo; ciò che lo rende al tempo stesso “re decaduto” e “omerico mendicante”. Il desiderare, infatti, è sempre un desiderio del tutto, ambizioso e urgente, ma al tempo stesso la sorgente stessa dell’azione, l’energia primaria di ogni determinazione. Che cosa sarebbe l’uomo senza il desiderio? E, d’altra parte, con quale spirito coltivare un desiderio che non si può raggiungere con le proprie sole forze, che supera continuamente ogni orizzonte possibile di un concreto bisogno?

La corsa è certamente dettata innanzi tutto da una mancanza, da una carenza e lacuna. Stiamo parlando della corsa che ci spinge in fretta fuori dall’uomo vecchio, una corsa che è fuga dalle spire maligne dell’avversario. Dal correre, però, scaturisce anche l’ebbrezza del muoversi: il vento della storia ci accarezza mentre il nostro sforzo si realizza e quasi vorremmo che non si arrestasse mai; vorremmo che l’oggetto del desiderio corresse davanti a noi, perché tutto non abbia a finire con la morte della noia soddisfatta di chi “veglia eternamente il suo cadavere mirabilmente conservato”. Lo stato di chi ha raggiunto la sua preda e per noia l’abbandona esangue, senza il benché minimo risveglio di attrazione non corrisponde ad una sana dialettica del desiderio. La libertà umana e la chiamata all’amore spingono, allora, l’agile corsa dell’uomo sull’orlo dell’ultimo baratro. Questo gioco con l’infinito, infatti, può condurre l’uomo verso un corrosivo orgoglio. Quasi come in un gioco infantile, l’infinito sarebbe in questo caso allontanato di proposito, quel tanto per non togliere alla corsa il suo interesse, il suo divertimento, quasi per gioco,… per un momento ancora. E invece proprio quando l’uomo apprende la nobile corsa del desiderare deve poi riconoscere di essere mortale. In questo snodo il desiderio si umilia al bisogno; non sono leciti sforzi titanici di fronte alla concretezza determinata del bisogno. Il rigoglio del desiderio si china alla fonte del bisogno, per riprendere vigore e poi procedere la sua marcia trionfale. “La moderna critica sul ruolo sociale della religione, come anche il problema propriamente teologico di un’etica cristiana non esclusivamente formale e normativa, ma anche capace di dire un senso e di ricrearsi, si gioca proprio su questo punto”[2].

 

La corsa di cui parliamo non è uno slancio adolescenziale, ma è matura consapevolezza di una natura che anela al suo compimento; che quasi sa concepirsi come simbolo; che sa vivere nella gioia un “non ancora” per alcuni mortificante. Per noi cristiani l’esperienza della carne, intesa come esperienza della debolezza, non spegne l’ardore del desiderio, ma lo ravviva nella speranza. Nella distanza da Dio, costituita dal peccato, infatti, “il comandamento si fa più difficile ma anche la trasgressione meno facile. In ogni caso Dio continua a voler essere amato perché affidabile, non creduto perché pericoloso”[3]. La debolezza, quindi, non è il luogo proprio della paura del fallimento, ma quello della prova d’amore in cui anche il fallimento può trovare il suo perdono.

Il sapere e la tecnica rimandano indefinitivamente il contatto tra l’uomo moderno e la sua debolezza. Deresponsabilizzata della sua portata diabolica, veicolata in forma enciclopedica e ostentata nelle conquiste del progresso, la conoscenza moderna delle cose soggioga la libertà umana, togliendole un fondamento oggettivo e abbandonandola ad una morbida e viziosa prossimità. È questo l’orizzonte di un angusto realismo; un cinico accontentarsi del possibile, che appiattisce il desiderio sul bisogno, così che solo seduzione e contagio possano smuovere l’uomo dal suo torpore animalesco, da un istintivo intontimento.

Ma la corsa del credente non è paragonabile a quella di chi si avventa sulla preda con voracità; la logica del dono ci spinge invece ad intrecciare sapientemente le funi della conoscenza e del bisogno per rendere più umano il nostro desiderio e al tempo stesso più divino il nostro bisogno. Perché nessuna parte prenda il sopravvento in noi, lasciamo che le nostre membra si distendano e si dilatino in questo correre, in perfetto equilibrio. Sappiamo una sola cosa: anche il cuore di Gesù batte all’unisono con il nostro nella corsa verso il Regno di Dio, che è già e non ancora. Su queste piste di riflessione si trova un’inattesa fecondità del tema vocazionale, inquadrato nell’ampio campo teologico tra grazia e libertà.

Si narra che un anziano monaco, al termine della sua vita, sentisse sgorgare dal suo cuore un profondo amore per il mondo; proprio per quel mondo che in gioventù aveva rifuggito. “Il mio cuore era troppo piccolo per contenere il mondo – diceva – così decisi di rifugiarmi là dove la mia debole carne trovasse quiete. La grazia della contemplazione ora, invece, me lo ha dilatato cosicché per la prima volta sento che riesco ad amarlo”. La dialettica del desiderio e l’esperienza della libertà diventano, così, la strada della vocazione.

 

Note

[1] P. A. SEQUERI, Il Dio affidabile, Brescia 20002, p. 389. Questo contributo nasce proprio dal dialogo tra alcune pagine del testo di Sequeri e le parole chiave del titolo. Cf Ibidem, pp. 389-406.

[2] Ibidem, p. 402.

[3] Ibidem, p. 405.