N.02
Marzo/Aprile 2008

«Maestro dove abiti?» (Gv 1,38)

Testimoni sulla via dell’incontro

La domanda posta a titolo della nostra riflessione ricalca quella dei primi  due discepoli, Andrea e l’altro di cui si tace il nome e nel quale la tradizione ama vedere lo stesso evangelista[1]. “Venite e vedrete”, risponde Gesù. Ed è stupore, incanto, memoria indelebile. A distanza di anni ricordano ancora in modo vivissimo il momento dell’incontro: era circa l’ora decima, le quattro del pomeriggio, l’ora dell’incontro con l’Atteso. Giornata indimenticabile, inizio di un’esperienza trasformante che segna non solo la vicenda di quei primi due discepoli, ma della Chiesa di ogni tempo e la nostra stessa storia. Perché, evidentemente, non saremmo qui se lui non ci avesse attratto, magari attraverso la testimonianza di qualcuno che per noi è stato come il Battista. L’incontro con Gesù è contagioso. È impensabile un vero incontro con lui che non si irradi in comunicazione e testimonianza. Andrea corre a cercare il fratello Simone e gli annuncia entusiasta: «Abbiamo trovato il Messia!» (Gv 1,41). Colui che doveva venire, il grande atteso, è arrivato. Non diversamente Maria di Magdala il mattino di Pasqua. L’incontro con il Maestro risorto non può esaurirsi nell’abbraccio: implica l’annuncio gioioso, la missione. Maria corre, infatti, ad annunciare ai discepoli: “Ho visto il Signore” (Gv 20,18).

Siamo all’inizio di un nuovo anno, nel clima del Natale. E chi più dell’evangelista Giovanni può aiutarci a contemplare il senso profondo dell’abbraccio che unisce il cielo e la terra? Il Verbo si è fatto carne, l’eterna Parola di Dio ha posto la sua tenda in mezzo a noi e “noi abbiamo contemplato la sua gloria” (Gv 1,14). Come non cogliere qui l’indicibile stupore del credente teologo? Di Giovanni, ho theologos nel senso della tradizione orientale, vale a dire propriamente il mistico. Al prologo del Quarto Vangelo corrisponde – e proprio in chiave di stupore – il prologo della Prima lettera di Giovanni:

“Colui che era fin dal principio, quel che abbiamo udito, quel che  abbiamo visto con i nostri occhi, quel che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato, cioè il Verbo della vita – poiché la vita è – stata manifestata (ephaneróthé) e noi l’abbiamo vista e ne rendiamo testimonianza, e annunciamo a voi la vita, quella eterna che era presso il Padre e che è stata manifestata a noi -; quel che abbiamo visto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché voi pure siate in comunione con noi; e la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo” (1Gv 1,1-3).

 

Che splendida dinamica relazionale! Chi ha sperimentato la vita e la gioia che viene da lui non può chiudersi: il noi chiama il voi “perché la gioia sia completa” (v. 4).

Il nostro convegno si dispiega nel clima di questi testi, inseparabili dalla testimonianza di chi ha visto, udito, toccato (tutti verbi sensoriali!)[2] e non può tenere per sé il Verbo della vita. La Chiesa che nasce dall’ascolto della Parola non può fare a meno di comunicarla: “Evangelizzare, infatti, è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda”, scrive Paolo VI (Evangelii nuntiandi, n. 14).

 

Articolazione del tema

Propongo una lectio del primo capitolo di Giovanni a partire dal v. 19, vale a dire dalla narrazione che segue il Prologo, comprendente la testimonianza del Battista e la dinamica missionaria che nasce dall’incontro con Gesù.

Ci ambientiamo idealmente a Betania, quella al di là del Giordano, da non confondersi con l’altra Betania nelle vicinanze di Gerusalemme, il villaggio di Lazzaro, Marta e Maria (cf Gv 11,1)[3].

Oltre il topos, l’evangelista offre una scansione temporale che ha la sua importanza, articolando la testimonianza del Battista in tre giornate. Osserveremo i personaggi che entrano in scena nei tre giorni del racconto e come, giorno dopo giorno, la luce si fa più chiara.

 

A Betania, al di là del Giordano: luce in crescendo

Primo giorno: Giovanni incontra la delegazione di sacerdoti e leviti inviati dai capi di Gerusalemme. Egli testimonia percorrendo anzitutto la via negationis: non induce false speranze, confessa apertamente di non essere il Messia; si qualifica “voce” nella prospettiva del Deuteroisaia (Is 40,3) e come tale annuncia colui che viene, anzi che “già sta in mezzo” benché sconosciuto:

«Egli confessò e non negò, e confessò: “Io non sono il Cristo”. Allora gli chiesero: “Che cosa dunque? Sei Elia?”. Rispose: “Non lo sono”. “Sei tu il profeta?”. Rispose: “No”. Gli dissero dunque: “Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?”.

Rispose: “Io sono voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, come disse il profeta Isaia”.

Essi erano stati mandati da parte dei farisei. Lo interrogarono e gli dissero: “Perché dunque battezzi se tu non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?”.

Giovanni rispose loro: “Io battezzo con acqua, ma in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, uno che viene dopo di me, al quale io non sono degno di sciogliere il legaccio del sandalo”.

Questo avvenne in Betania, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando» (Gv 1,19-28).

Secondo giorno: la luce si fa più chiara. Il Battezzatore è il primo a riconoscere il Nascosto: “Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo”. In questa seconda giornata Giovanni, che si è definito la “voce”, si esprime ampiamente, quasi in modo torrenziale: designa Gesù come “colui che era prima”, “colui che battezza in Spirito Santo”, e infine – espressamente – come “il Figlio di Dio” (vv. 30.33-34).

Che cosa provoca questa testimonianza così ampia e articolata? Praticamente niente: silenzio.

Nessuno interviene, nessuno reagisce, nessuno obietta. Soltanto il Battista, in questo giorno secondo, contempla il Nascosto: “E Giovanni rese testimonianza (emartýrēsen) dicendo: Ho visto lo Spirito scendere come colomba dal cielo e rimase (émeinen) su di lui” (v. 32).

Terzo giorno: Gesù “stava passando”… Quando il Battista lo vede è preso da un fremito. Gesù è in movimento, ma lui sembra come fermarlocon lo sguardo e l’indice della mano che accompagnano una frase lapidaria: íde ho amnòs toû Theoû – “Ecco l’agnello di Dio!” (Gv 1,36). “Ecco l’uomo”, dice il Signore al profeta Samuele quando giunge Saul (1Sam 9,17). Similmente Giovanni quando vede arrivare Gesù: “Eccolo, vedi l’agnello di Dio!”. Poi si arresta. Non spiega, non aggiunge altro. Tace.

Ma questa volta accade qualcosa di nuovo: immediatamente due discepoli si staccano dal Battista per seguire l’Agnello. Evidentemente hanno capito… Anche se l’evangelista non si attarda a precisare cosa.

 

Lo sfondo biblico

In effetti, sullo sfondo della tradizione biblico giudaica la designazione “agnello di Dio” poteva offrire agli ascoltatori del Battista diversi agganci e collegamenti. Ne segnalo cinque:

 

1. L’agnello dell’olocausto

L’espressione “agnello di Dio” può essere intesa come l’agnello che Dio stesso provvede, che appartiene a Dio e che viene dato da lui. Nel racconto di Gen 22 Isacco domanda: “Ecco il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?” (v. 7). Abramo non ha cuore di rivelare a suo figlio ciò che lo attende e risponde lasciando il campo aperto: “Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio!” (v. 8). E il seguito mostra che Dio provvide davvero: “Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio” (v. 13). Secondo la tradizione targumica quell’agnello/ariete che sostituì Isacco è prefigurazione sia dell’agnello pasquale che dell’agnello del Tamid.

 

2. L’agnello pasquale

Doveva essere senza difetti, come tutto ciò che viene offerto a Dio, ma anche giovane, “nato nell’anno” (Es 12,5). L’agnello pasquale rappresenta la vita in tutta la sua freschezza e innocenza ed è associato alla grande liberazione, la pasqua del Signore, l’esodo dall’Egitto (cf Es 12,11).

 

3. L’agnello del Tamid

Anche l’agnello del sacrificio/olocausto giornaliero (Tamid) doveva essere senza difetto e veniva immolato nel Tempio in espiazione delle colpe personali e comunitarie. E il Battista, indicando Gesù come “agnello di Dio”, fa esplicito riferimento al peccato: è “l’agnello che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29). Nella stessa prospettiva si muove anche la Prima lettera di Giovanni: Gesù “è apparso per togliere i peccati” (1Gv 3,5).

 

4. L’agnello figura del Profeta/Servo sofferente

In Ger 11,19 l’agnello è metafora del Profeta, del suo comportamento del tutto ingenuo e senza malizia, in netto contrasto con la perfidia dei suoi oppositori: “Ero come un agnello mansueto che viene portato al macello, non sapevo che essi tramavano contro di me…”. L’immagine è ripresa nel poema del Servo sofferente: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello…” (Is 53,7). Questo Servo-agnello che porta su di sé l’iniquità degli altri diventa simbolo del Messia mite e innocente che patisce violenza e morte. Pensava in tal senso il Battista?

 

5. L’agnello apocalittico

Alla concezione profetica del Battista sembra corrispondere meglio la figura dell’agnello apocalittico che troviamo accennata in alcuni testi della letteratura giudaica, in particolare nel libro di Enoc etiopico. Ma anche nell’Apocalisse di Giovanni, dove l’Agnello vittorioso ha “sette corna” (5,6), simbolo che allude alla pienezza della forza/potenza divina. Al riguardo è interessante notare un dettaglio: Gesù nel Quarto Vangelo si presenta come la porta delle pecore e il pastore bello/buono (Gv 10), ma non dice mai di sé: “Io sono l’agnello di Dio”. Perché? Intende forse distanziarsi dal senso che a tale designazione conferiva il Battista? La domanda è intrigante e sollecita la ricerca… Si intravede un lungo percorso tra l’indicazione iniziale del Battista e il vertice cui giunge lo sguardo contemplativo dell’evangelista nella grande scena del Golgota (cf Gv 19,32-37).

 

«Che cercate?»: dall’incontro all’annuncio

Il Battista non è geloso, anzi è lieto che i suoi discepoli seguano l’Agnello; è lieto di “diminuire” (anche numericamente), come viene esplicitato più avanti. La sposa appartiene allo Sposo, e l’amico non intende affatto violare tale appartenenza:

«Nessuno può prendersi qualcosa se non gli è stato dato dal cielo. Voi stessi mi siete testimoni che ho detto: Non sono io il Cristo, ma io sono stato mandato innanzi a lui. Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere, io invece diminuire» (Gv 3,27-30).

Come si comporta Gesù con i due discepoli che lasciano il Battista per seguirlo? Leggiamo il seguito del testo facendo attenzione agli sguardioltre che alle parole, ovvero al body language:

Gesù, essendosi voltato (strapheís)e avendo visto (theasámenos) che lo seguivano,dice (légei) loro: « Che cercate?» (Gv 1,38)

Gesù cammina “davanti” come il buon Pastore (cf Gv 10,4), come il Dio dell’esodo. Ma diversamente da ciò che accade a Mosè, che anelava contemplare il volto del suo Dio e deve accontentarsi di vederlo di spalle (cf Es 33,18-23), ecco che Gesù “si volta”. Così i due discepoli possono vederlo non solo di spalle, ma in volto. “Pastore d’Israele, ascolta… fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi” (Sal 80,2-4).

Gesù si volta e guarda i due che lo seguono, con quello sguardo penetrante che legge l’anima. Non solo. Gesù guarda e interroga, prende l’iniziativa del dialogo: ti zēteíte «Che cercate?». Sono le prime parole di Gesù nel quarto vangelo, e non possono che inchiodare il lettore di ogni tempo. Lo notava già Lagrange nel suo grande commento a Giovanni[4]. Simile domanda viene rivolta a Maria di Magdala in lacrime presso il sepolcro: «Chi cerchi, tína zēteís?» (Gv 20,15).

 

L’incontro presuppone la ricerca. Essa è parte costituiva e non marginale del cammino di fede. Per alcuni il percorso della ricerca è breve, quasi accelerato; per altri faticoso e travagliato. Ma per tutti vale ciò che Agostino sperimenta in dialogo con il Maestro interiore che gli dice: “Tu non mi cercheresti se non ti avessi già trovato…”[5].

In effetti anche quei primi due discepoli sono stati cercati e trovati, sono i primi che seguono l’Agnello ovunque vada (cf Ap 14,4). Ma Gesù con la sua domanda va dritto al cuore, alla sorgente del desiderio. Cosa sperate di ottenere seguendomi, cosa vi aspettate? Successo, riconoscimento, affetto? Gesù non chiede per avere informazioni: lui sa già. Chiede per provocare la risposta ed aiutare a prendere coscienza… Il verbo zetein,“cercare”, esprime il desiderio, la passione, lo slancio. Ebbene, che cercate? Che cosa vi spinge a seguirmi? In effetti si può andare dietro a Gesù con attese e desideri sbagliati… e Giovanni non mancherà di mostrarlo nel seguito del racconto.

Come reagiscono Andrea e l’altro discepolo? Alla domanda rispondono con altra domanda: «Rabbì, dove abiti – poû méneis?» (Gv 1,38). Strano modo di cominciare un dialogo… Gesù però non sembra sorpreso della contro-domanda e risponde con una frase indicativa: «Venite e vedrete, érchesthe kaì ópsesthe» (v. 39a).

Comincia così l’avventura, con un “venire e vedere”, un’esperienza diretta e personale che lascia imprecisato il topos mentre invece fissa ilkronos: “Andarono dunque e videro dove abitava (poû ménei) e presso di lui rimasero quel giorno. Era circa l’ora decima” (v. 39b).

Menein nel quarto vangelo ha un ricchissimo significato teologico: “Più che indicare l’ambiente materiale, indica l’ambiente esistenziale e personale in cui uno abita”[6]. D’accordo, ma dove? L’evangelista che con tanta precisione ha indicato il luogo del Battista – a Betania al di là del Giordano – non segnala l’indirizzo di Gesù. Dove risiede il Maestro?

Mi sovviene di un racconto dei Chassidim: «Dove abita Dio?» chiese a bruciapelo Rabbi Mendel di Kozk ad alcuni uomini dotti suoi ospiti. Quelli risero di lui: «Che dite? Se tutto è pieno della sua gloria!». Ma egli rispose da sé alla propria domanda: «Dio abita dove lo si fa entrare»[7].

Quel “dove” è davanti a te, costituisce l’oggetto della nostra ricerca, la meta del nostro pellegrinare… e forse ci rinvia a un luogo preciso della nostra storia, a un “dove” che ha un chiaro nome, un colore, un profumo indimenticabile: perché Dio è entrato e ne abbiamo fatto esperienza.

 

Né a Gerusalemme né sul Garizim

La domanda del “dove” è cara all’evangelista Giovanni. La ritroviamo in altra prospettiva anche nel dialogo di Gesù con la donna di Samaria, sorpresa di essere così intimamente conosciuta da quello straniero: «Signore, vedo che tu sei un profeta. I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare» (Gv 4,19). Gesù non rimprovera a quella donna di cambiare discorso… Anzi, è ben contento che abbia intavolato quell’argomento di alta teologia: dove abita Dio, come adorarlo? Gesù le dice: «Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre… è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità». Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia (cioè il Cristo): quando egli verrà, ci annunzierà ogni cosa». Le disse Gesù: «Sono io, che ti parlo» (Gv 4,21-26).

Incontrare Gesù è fare esperienza dell’amore, è sentirsi accolti, capiti, perdonati. Tanto che quella donna dimentica perfino la brocca con cui era andata ad attingere al pozzo[8] e corre in città ad annunciare: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?» (Gv 4,29).

 

Un bisogno di effusione

Non è possibile incontrare Gesù e tenerlo solo per sé. Come trattenere l’amo­ re? Paolo VI, nella Ecclesiam suam, parla di un bisogno di effusione. Egli scrive:

“Se davvero la Chiesa ha coscienza di ciò che il Signore vuole ch’ella sia, sorge in lei una singolare pienezza e un bisogno di effusione, con la chiara avvertenza d’una missione che la trascende, d’un annuncio da diffondere. È il dovere dell’evangelizzazione. È il mandato missionario. È l’ufficio apostolico. Non è sufficiente un atteggiamento di fedele con­servazione… Il dovere congeniale al patrimonio ricevuto da Cristo è la diffusione, è l’offerta, è l’annuncio…Noi daremo a questo interiore im­pulso di carità, che tende a farsi esteriore dono di carità, il nome, oggi diventato comune, di dialogo. La Chiesa deve venire a dialogo col mon­do in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messag­gio; la Chiesa si fa colloquio” (Ecclesiam suam, 37-38).

Incontrare Gesù è apprendere un nuovo modo di essere, è diventare esperti di comunicazione. Non perché si apprendono nuove tecniche e strategie, ma perché l’amore interiormente ci spinge, vuole essere comunicato. Così Andrea corre da Simone e poi Filippo da Natanaele…

Scrive Benedetto XVI nella sua enciclica sulla speranza:

“L’essere in comunione con Gesù Cristo ci coinvolge nel suo essere «per tutti», ne fa il nostro modo di essere. Egli ci impegna per gli altri, ma solo nella comunione con lui diventa possibile esserci veramente per gli altri” (Spe salvi, 28).

Essere discepolo significa “rimanere con Gesù”, dimorare nel suo amore, restare nella sua amicizia (cf Gv 15,4-17). E tutto ciò non può rimanere senza frutto, perché Gesù è come la linfa vitale della missione. La gioia di averlo incontrato non può essere trattenuta, come appare nel seguito del racconto.

 

«Vedrete cose più grandi»: la gioia di condurre a Gesù

Possiamo articolare il passo di Gv 1,40-51 in due momenti secondo le indicazioni temporali offerte dall’evangelista: la prima parte (vv. 40-42) è vista in continuità con il giorno dell’incontro; la seconda parte (vv. 43-51) è invece ambientata “il giorno dopo” e introduce un nuovo scenario determinato dalla decisione di Gesù di partire per la Galilea.

Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito era Andrea, fratello di Simon Pietro.Egli incontrò per primo suo fratello Simone, e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)» e lo condusse da Gesù Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)» (Gv 1,40-42).

Ecco cosa succede quando si incontra Gesù! Andrea non può trattenere per sé la gioia di avere incontrato l’Atteso. Diventa per così dire il primo vocazionista, o per usare il linguaggio simbolico di Gesù, “pescatore di uomini”. Non gli serve andar lontano. Pesca il più vicino possibile, nell’ambito della sua stessa famiglia. Va a cercare suo fratello Simone e gli comunica la grande notizia del giorno: «Abbiamo trovato il Messia!». E subito lo conduce da Gesù.

 

Come reagisce Simone?

Non dice assolutamente nulla. Nessuna parola esce dalla sua bocca, né in rapporto ad Andrea né in risposta a Gesù. Quando s’incontra l’amore le parole cedono allo stupore, come accade nel Cantico. Il principe degli apostoli, colui che Gesù chiamerà a pascere i suoi agnelli e le sue pecorelle (Gv21,15-17), ovvero a condurre la sua Chiesa, entra in scena in tono minore, come colui che accetta di essere guidato e condotto a Gesù. Eppure proprio in questo fidarsi e lasciarsi umilmente guidare da suo fratello, s’intravede, secondo la prospettiva evangelica, la grandezza di Simon Pietro.

Gesù non si attarda a fare i complimenti ad Andrea per l’ottima sua capacità persuasiva, ma punta lo sguardo sul nuovo arrivato e gli cambia il nome: non più Simone bensì Képhas, ovvero Pietro, la roccia. La costruzione della casa comincia dal fondamento sulla roccia e Gesù ha individuato questa roccia in Simon Pietro. Ora si può partire, comincia un nuovo giorno:

Il giorno dopo Gesù aveva stabilito di partire per la Galilea; incontrò Filippo e gli disse: «Seguimi» (Gv 1,43).

In cammino verso la Galilea, Gesù incontra Filippo di Betsaida (= casa della pesca, luogo del pesce). Ovviamente non si tratta di un incontro casuale, ma programmato e voluto dal Maestro, al quale appartiene sempre l’iniziativa. Alla fine, nell’intimità del Cenacolo, egli dirà ai suoi discepoli: “non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv 15,16). E Filippo è il primo a cui Gesù rivolge espressamente l’invito: Seguimi![9]

 

Come reagisce Filippo?

Nessuna obiezione, nessuna parola. Filippo è come calamitato da Gesù, lo segue in silenzio. Ma silenzio non è sinonimo di mutismo. Anzi, Filippo non si trattiene dal parlare di lui e la sua capacità persuasiva non è inferiore a quella di Andrea. Come questi conduce a Gesù il fratello Simone, così Filippo gli porta Natanaele, che certo non aveva fama di credulone.

Filippo incontrò Natanaèle e gli disse:

«Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret».

Natanaèle esclamò: «Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?». Filippo gli rispose:

 «Vieni e vedi» (1,45-46).

Rispetto alla comunicazione sintetica di Andrea (“Abbiamo trovato il Messia”), quella di Filippo è più diffusa e circostanziata: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè e i Profeti”.

L’Atteso ha un volto e una precisa identità: è Gesù di Nazaret, il figlio di Giuseppe. È interessante notare che mentre il nome della Madre non è mai menzionato nel Quarto Vangelo, l’espressione “figlio di Giuseppe” vi ricorre due volte (1,45; 6,42) e la parte compresa fra queste due occorrenze potrebbe essere intitolata: “Chi è Gesù, il figlio di Giuseppe?”[10].

 

 Come risponde Natanaele?

Natanaele non risponde affatto in modo entusiasta all’annuncio di Filippo, anzi si rivela scettico: «Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?». C’è indubbiamente del campanilismo in questa espressione: quelli di Cana – e Natanaele era di lì – dovevano sentirsi di gran lunga “superiori” a quelli di Nazaret.

Ma non si tratta semplicemente di una battuta, c’è molto di più dietro questa reazione. C’è lo scandalo per le umili origini del Messia. L’evangelista Giovanni non sorvola tale difficoltà: il Verbo di Dio ha piantato la sua tenda in un villaggio sconosciuto e insignificante come Nazaret. Niente corsie preferenziali, nessun titolo d’onore, nessuna notorietà.

«Vieni e vedi»: Filippo invita l’amico a rendersi conto personalmente. Non è un modo sbrigativo per risolvere le questioni cruciali… ma un metodo che si radica nella prassi di Gesù: «Venite e vedrete». Egli è la Via: occorre anzitutto seguirlo per vedere oltre. Non fermarti alle tue precomprensioni. Lasciati sorprendere dalla sua novità. Di lui hanno parlato Mosè e i Profeti, di lui parlano tutte le Scritture… ma lui è oltre la tua interpretazione!

Natanaele è un personaggio interessante. Schietto e un poco rude, senza peli sulla lingua, ma anche disponibile a giocarsi e mettersi in discussione. Gesù lo accoglie con un magnifico elogio: «Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità» (Gv 1,47). Lo schietto interlocutore reagisce: «Come mi conosci?» (v. 48). Il Maestro gli offre la possibilità di rendersi conto che Filippo non lo aveva ingannato. In effetti quel dettaglio – “…ti ho visto, quand’eri sotto il fico” – sembra inchiodare Natanaele con la forza dell’evidenza. Solo chi viene da Dio può manifestare una tale conoscenza! L’Israelita in cui non c’è falsità rimane folgorato da tanta luce. Si sente conosciuto pienamente, non solo per quello che è, ma anche per le circostanze… sotto il fico![11]

Quel dettaglio, decisamente eloquente per Natanaele, è portatore di un messaggio vocazionale: prima che Filippo lo chiamasse, Gesù lo aveva già “fissato”, e dunque scelto, eletto.

Gesù conclude il dialogo in forma solenne, con una dichiarazione che interpella non solo Natanaele ma anche gli altri discepoli: «in verità vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo» (Gv 1,51). I cieli aperti alludono alla possibilità di accesso e comunione con il mondo di Dio, e tale immagine è rafforzata dalla successiva: gli angeli che salgono e scendono sul Figlio dell’uomo.

Per gente familiare alle Scritture, quali erano Filippo e Natanaele, queste parole non hanno bisogno di commento. Alludono al sogno di Giacobbe, quando passò la notte a Betel: «Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa» (Gen 28,12).

Benedetto XVI nella sua prima enciclica riprende l’interpretazione patristica di questa immagine:

“I Padri hanno visto simboleggiata in vari modi, nella narrazione della scala di Giacobbe, questa connessione inscindibile tra ascesa e discesa, tra l’eros che cerca Dio e l’agape che trasmette il dono ricevuto… Colpisce in modo particolare l’interpretazione che il Papa Gregorio Magno dà di questa visione nella sua Regola pastorale. Il pastore buono, egli dice, deve essere radicato nella contemplazione. Soltanto in questo modo, infatti, gli sarà possibile accogliere le necessità degli altri nel suo intimo, cosicché diventino sue: «per pietatis viscera in se infirmitatem caeterorum transferat». San Gregorio, in questo contesto, fa riferimento a san Paolo che vien rapito in alto fin nei più grandi misteri di Dio e proprio così, quando ne discende, è in grado di farsi tutto a tutti” (Deus caritas est, n. 7).

Occorre seguire Gesù per vedere il cielo aperto. Ma non nella modalità che Filippo e Natanaele probabilmente aspettavano. L’ascesa al cielo il Figlio dell’Uomo la compie percorrendo fino in fondo la via dell’amore. “Salvati da una relazione, donataci da e in Gesù di Nazaret, rimaniamo immersi in un travaglio in cui non ci è risparmiata la fatica di imparare da lui, nella concretezza della vita, la via di una fede umana e la forma di un desiderio aperto all’appello dell’altro”[12].

Testimoni di lui, che è venuto a portare la Vita (cf Gv 10,10).

 

 

Note

[1] Non entro in merito alla questione dell’autore del Quarto Vangelo; al riguardo rinvio ai lavori di M.L. RIGATO, Giovanni: l’enigma il Presbitero il culto il Tempio la cristologia, Bologna 2007 e M. MAZZEO, Vangelo e lettere di Giovanni, Milano 2007.

[2] Cf A. DALBESIO, Quello che abbiamo udito e veduto. L’esperienza cristiana nella Prima lettera di Giovanni, Bologna 1990.

[3] Soltanto il quarto evangelista menziona Betania al di là del Giordano, come luogo dove Giovanni battezzava (cf. Gv 1,28; 10,40-42). Il sito è stato messo in luce dagli scavi condotti da p. Michele Piccirillo, dei Francescani di Terra Santa, in occasione del Giubileo del 2000.

[4] M.-L. LAGRANGE, Evangile selon St. Jean, Paris 1936, p. 45.

[5] Su questo ed altri aspetti del percorso di ricerca, in dialogo con i grandi testimoni dell’Amore, si veda il delizioso scritto del vescovo L. CHIARINELLI, Padre, dimmi una parola, Bologna 2007.

[6] G. SEGALLA, Giovanni, Fossano 1972, p. 166.

[7] M. BUBER, I racconti dei Chassidim, Milano 1979, pp. 604-605.

[8] B. MAGGIONI, La brocca dimenticata. I dialoghi di Gesù nel vangelo di Giovanni, Milano 1999.

[9] Filippo nel Vangelo di Giovanni è come il prototipo dei chiamati; Gesù si rivolge direttamente a lui e lo mette alla prova prima della moltiplicazione dei pani: cf E. BOSETTI – G. SALONIA, Una mensa nel deserto. Parola, pane, eucaristia, Ragusa 2005, pp. 74-76.

[10] Per questa proposta di strutturazione cf. Y. SIMOENS, Secondo Giovanni. Una traduzione e un’interpretazione, Bologna 2000, p. 113.

[11] Secondo alcuni esegeti la menzione del fico suonerebbe allusiva a Os 9,10 (LXX): “trovai Israele come uva nel deserto, riguardai i vostri padri come si fa con le primizie del fico…”. Su questo sfondo Natanaele apparirebbe come rappresentante dell’Israele fedele alle promesse di Dio, diversamente dalla generazione idolatra di cui parla Osea nel seguito della citazione: “La qualifica «vero israelita» che Gesù applica a Natanaele, l’uomo senza falsità, lo qualifica come uno che mantiene l’autenticità della prima epoca e non ha tradito il suo Dio. Così, come in passato Dio scelse l’antico Israele, ora Natanaele – cioè gli Israeliti fedeli – sono stati scelti da Gesù per far parte della sua comunità”: J. MATEOS – J. BARRETO, Il Vangelo di Giovanni, p. 122.

[12] G. SALONIA, Odòs – la Via della vita, Bologna 2007, p. 17.