N.02
Marzo/Aprile 2008

«Prima… io ti ho veduto» (Gv 1, 43-51)

Ogni pagina del Vangelo riceve piena luce solo da una lettura comprensiva del suo immediato contesto. Da alcuni giorni stiamo leggendo a brani quello che nel vangelo di Giovanni ci viene proposto come un unico grande racconto che racchiude i primi quattro giorni della manifestazione pubblica di Gesù, del suo incontro con i primi discepoli, testi quindi che presentano uno specifico spessore vocazionale. Proprio per questo, la figura complessiva del discepolo che accoglie la chiamata del Signore emerge solo dall’insieme del racconto e non dai suoi singoli quadri. Una eccessiva concentrazione sull’uno o l’altro di essi, potrebbe portare ad assolutizzare indebitamente un elemento dell’itinerario vocazionale a scapito di altri.

Questo vale anche per la pagina che oggi abbiamo proclamato, in cui risuona ancora il “Seguimi” di Gesù e il “Vieni e vedi” del dialogo tra i discepoli, questa volta però bilanciati dal “Prima… io ti ho veduto” con cui Gesù si rapporta a Natanaele. Su questo sguardo preveniente di Cristo, che evidenzia la natura gratuita di ogni nostro rapporto con lui e di ogni chiamata che possa da lui giungerci per una condivisione della sua missione, occorre anzitutto soffermarsi. Prima di ogni esperienza della sequela, prima di ogni condivisione del discepolato, prima della stessa chiamata ad una missione, si pone infatti lo sguardo di Cristo che avvolge la nostra esistenza e la illumina nella sua essenza perché vivificata dal suo amore. È questo sguardo che rivela in Natanaele non semplicemente l’uomo dedito allo studio della Legge – come esprime l’immagine rabbinica dello stare “sotto l’albero di fichi” – ma l’autentico israelita, erede dell’attesa messianica in quanto crede alla fedeltà di Dio alle sue promesse. L’incontro con Cristo, prima che rivelazione di una scelta da compiere, anche nei suoi stessi confronti, è rivelazione dell’uomo a se stesso, presa di coscienza della nostra profonda identità, come frutto di uno sguardo che è lo sguardo stesso di Dio sulla sua creatura amata, uno sguardo ora comunicato tramite il suo Figlio, che essendo una cosa sola con il Padre, legge nel cuore dell’uomo.

È però altrettanto evidente che questo sguardo d’amore può essere colto solo da chi non si pone in un atteggiamento di chiusura, manifesta una disponibilità che sa superare anche i pregiudizi, per Natanaele quelli sui nazaretani e per noi quelli delle culture immanentistiche che dominano gli orizzonti della comunicazione odierna; un atteggiamento che si esplicita in una posizione di ricerca, che nei versetti precedenti era espressa nel comportamento di Andrea e dell’altro discepolo e che Gesù rileva nella domanda che pone loro: “Che cosa cercate?”. La prima parola di Gesù nell’intero Vangelo: qualcosa dovrà pur significare! Per poter giungere alla persona di Gesù, al “chi” centrale della nostra vita, occorre anzitutto essere attraversati da un interrogativo a riguardo delle cose di questo mondo, la nostra vita anzitutto, e del loro significato. È la luce dello sguardo di Gesù su di noi che riscalda il nostro cuore e lo rende inquieto e pieno di domande, che ci condurranno poi a lui.

Un tragitto che però non possiamo compiere da soli: c’è bisogno che qualcuno indirizzi bene il nostro sguardo, offra una testimonianza che diradi le tenebre della nostra coscienza e ci dica: “Ecco l’agnello di Dio”. Tutto il movimento dei discepoli verso Gesù in queste prime pagine del Quarto Vangelo scaturisce, dal punto di vista sostanziale, dallo sguardo stesso di Gesù, ma, dal punto di vista fenomenico, dalla dichiarazione di Giovanni il Battista, che distogliendo lo sguardo degli altri da sé e orientandolo verso Cristo permette a tutti l’avvio di un riconoscimento e di una esperienza che trasforma le loro vite. Certo, il dire della testimonianza non basta, se ad essa non si aggiunge la credibilità del testimone, cui fiduciosamente si affidano Andrea e l’altro discepolo, che sanno bene chi è Giovanni essendone stati fin lì discepoli. Un problema, questo, della connessione tra chiarezza dell’annuncio e credibilità dell’annunciatore che ci tocca profondamente, come Chiesa chiamata oggi ad una rinnovata missione.

Come pure ci interroga la capacità di essere una dimora accogliente e vivificante per quanti vogliono fare esperienza di Cristo. Il “Venite e vedrete” con cui Gesù accoglie i primi discepoli diventa impegnativo per la comunità ecclesiale oggi, che troppo poco sembra poter mostrare a quanti vogliono dimorare in essa per poter dimorare in Cristo, così come i primi discepoli. Che l’invito debba riferirsi anche alla Chiesa e risuonare sulle sue labbra, lo mostra il fatto che nell’odierna pagina evangelica esso non sta più sulla bocca di Gesù ma su quella di Filippo, per cui poter andare e vedere e rimanere, cioè fare esperienza di Cristo passa attraverso la mediazione dell’andare e vedere e rimanere, cioè fare esperienza della comunione dei suoi discepoli, là dove il Cristo risplende nella sua identità più vera, oltre le deformazioni mitologiche, ideologiche e storicistiche di chi vorrebbe separarlo dal suo stesso corpo nel tempo.

E, da ultimo, questo piccolo trattato di pastorale vocazionale che il Vangelo di Giovanni ci propone, si preoccupa di indicarci anche l’orizzonte più profondo su cui si muove la stessa chiamata del Maestro. Essa è, sì, una chiamata a vivere con lui, a condividere la sua presenza con una comunità di fratelli, a farsi testimoni di questo dono agli altri, ma avendo sullo sfondo una dimensione escatologica – il vedere il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo – che al tempo stesso ci ricorda che il fine della storia, quella personale e quella del mondo, è oltre la storia, nel tempo finale del giudizio, ma anche che tale giudizio è già all’opera tra noi, in forza di quella signorìa di Cristo che culminerà secondo il vangelo di Giovanni sulla croce, e che ci permette di demistificare ogni falsa idolatria nel tempo per affidarci e affidare tutti all’amore di colui che ci ha amato tanto fino a portare su di sé il nostro peccato e morire per noi. Proprio questa dimensione escatologica, presente e futura, deve tornare a risuonare con maggiore chiarezza nella nostra proposta vocazionale, per liberarla da impostazioni riduttive che la abbasserebbero ad una qualsiasi prospettiva professionale, sia pur nobile.

Torni a brillare su di noi lo sguardo d’amore di Cristo e ci aiuti a riconquistare questa completezza e profondità di visione dell’itinerario vocazionale e a concretizzarlo in proposte significative per i giovani, che siamo invitati a condurre all’incontro con Cristo e al servizio della sua Chiesa.