N.02
Marzo/Aprile 2008

«Tu sei…ti chiamerai…»

La pastorale vocazionale aiuta il giovane a coniugare vocazione e missione

Il sottotitolo dice subito con chiarezza l’obiettivo della presente riflessione: vedere come la pastorale vocazionale (PV) possa (e debba) aiutare il giovane a coniugare tra loro queste due realtà, poiché tale collegamento significherebbe, né più né meno, fare un’intelligente animazione vocazionale. Infatti, a ben riflettere, la PV deve necessariamente coniugare assieme vocazione e missione, poiché il concetto di missione è parte dell’idea di vocazione, il senso della missione è intrinseco all’idea di vocazione (non esiste vocazione senza missione); d’altro lato, questo collegamento facilita la PV, la rende più efficace e convincente, sia perché il giovane stesso è molto più attratto – nonostante apparenze a volte contrarie – da una chiamata che implichi una missione, non da una chiamata semplicemente… ad essere se stesso. È quanto ci dice la Parola di Dio nel suo insieme e, particolarmente, nel brano della chiamata dei primi discepoli, anche se non in maniera diretta ed immediata. È strano e singolare, infatti, come a volte la Parola di Dio, che conosciamo bene e frequentiamo abitualmente, ci sveli aspetti nuovi e inediti, che non avevamo scoperto prima, quasi fosse la prima volta che l’avviciniamo. Ma è proprio questa la forza e la novità perenne della Parola che viene dall’alto. È quello che ho sperimentato quando ho iniziato a pensare questa relazione e mi sono messo dinanzi al titolo, intelligentemente proposto dalla direzione del CNV. Forse chi lo legge distrattamente non s’accorge subito del rimando biblico (cf Gv 1,42) e magari lo trova un po’ strano, ma in realtà quei due verbi senza nomi se da un lato possono rendere non subito riconoscibile il brano evangelico da cui son tratti, dall’altro ci consentono o ci stimolano a riconoscere quel passaggio fondamentale che decide della nostra identità, dal presente al futuro, dall’indicativo all’imperativo, come una storia che tutti abbiamo vissuto o che siamo “chiamati” a vivere in continuazione, e che l’episodio della chiamata di Pietro narrata da Giovanni ci rende ancor più comprensibile, per un verso, e misterioso dall’altro.

 

UNA TEORIA DELLA PERSONALITÀ

Anzi, c’è qui addirittura in sintesi una sorta di teoria psicologica della personalità, nelle sue due componenti elementari strutturali: “Tu sei…” rimanda infatti all’io attuale, a quello che uno è fin dalla nascita, come essere già dotato di risorse e potenzialità, ma ancora fondamentalmente incompleto; mentre “ti chiamerai” rinvia all’altra struttura della personalità, all’io ideale, che esprime quello che uno è chiamato ad essere, compimento e realizzazione definitivi della personalità. Come si vede, l’idea di vocazione è costitutiva dell’idea di uomo, il quale è definito strutturalmente dal fatto d’esser chiamato, e chiamato da qualcuno, ovviamente; dunque l’identità non solo non può essere scoperta se non all’interno della relazione, ma apre alla relazione, non esiste senza relazione, è essa stessa relazione.

In una persona normale, e in cammino verso la maturità devono esser presenti entrambe queste strutture, pur nella loro ineliminabile tensione: se manca l’io attuale avremo un io che dice d’avere grandi ideali, ma in realtà è debole poiché gli viene a mancare quella fondamentale stima di sé che dà il coraggio di camminare e la concretezza di tendere ogni giorno verso il massimo; se non c’è l’io ideale abbiamo l’uomo-senza-vocazione, come un essere monco o primitivo, che resterà perennemente incompleto e incompiuto. C’è chi dice che nel passato (o nel modo di concepire la formazione un tempo) c’era fin troppo io ideale (vedi l’enfasi sui valori di certi metodi pedagogici, valori identici che non ammettevano eccezioni per nessuno), mentre oggi sembra tutto appiattito sull’io attuale (“sii te stesso”, o il modello banale e riduttivo dell’autoaccettazione), per cui ognuno s’accontenta d’esser quel che è, senza avvertire alcuno stimolo verso il “duc in altum”, e bassa disponibilità vocazionale.

Inoltre tali due strutture dovrebbero restare tra loro a una giusta distanza, una distanza ottimale, né troppa né troppo poca, poiché in entrambi i casi il soggetto rischierebbe di restare sempre fermo, o perché dispera d’arrivare all’ideale se è troppo alto, o perché presume d’essere arrivato se l’ideale è troppo ravvicinato.

In realtà, allora, io attuale e io ideale sono come due polarità che solo apparentemente sono opposte o alternative, ma che sarebbe quanto mai errato contrapporre, poiché fanno parte d’una identica realtà, quella del nostro io, o dello stesso mistero, per dirla con un termine più evocativo. E, come sappiamo, mistero significa esattamente quel punto centrale che consente di tenere insieme polarità apparentemente contrapposte, così come lo sono vocazione e missione. Anzi, esse sembrano sottendere altre polarità, e proprio queste altre polarità pensiamo che valga la pena identificare, perché potrebbero esserci utili nel definire la strategia pedagogica.

 

GIOCO DI POLARITÀ (E LOGICA DEL MISTERO)

Abbiamo già indicato la prima, davvero fondamentale: io attuale e io ideale, con quel che significa a livello del rapporto tra le due strutture. Ve ne sono altre, forse a conferma di quel principio secondo il quale le verità si presentano sempre due per volta[1]; ciò non vuol dire che la verità sia duplice, ma che una verità – se è davvero tale – ne suscita o lascia intravedere sempre un’altra, quasi completandosi o rispecchiandosi in essa, in una relazione di tipo complementare e dunque feconda, che fa accedere ad una comprensione ancor più profonda della medesima verità. Per cui la scoperta della verità suppone sempre questo guardare all’altra faccia della medaglia, quella nascosta, quella che sembra opposta. È ancora la logica del mistero, questo punto centrale che consente di aver uno sguardo che tiene assieme questa apparente ambivalenza[2].

 

Bene ricevuto e bene donato

Se cerchiamo di approfondire il contenuto dell’io attuale e dell’io ideale scopriamo un’altra coppia, come una polarità di significati. L’io attuale, infatti, rimanda al senso della vita come un bene ricevuto e assolutamente immeritato, l’io ideale, invece, e non potrebb’esser diversamente, rimanda al senso della vita come un bene che diventa donato, ovvero a quel dinamismo naturale, per cui il bene ricevuto tende naturalmente a divenire bene donato. È, in realtà, il senso della vita e della morte, tutto giocato attorno a questa relazione elementare e fondamentale, che qualcuno potrà volere ignorare o smentire anche, ma che nessuno potrà cancellare dalla propria coscienza, perché è come una legge, una grammatica inscritta nelle nostre membra. E dunque è anche il senso della vocazione, che è essenzialmente dono; dono del Creatore, che non solo chiama la creatura alla vita, ma ad essergli conforme, rendendola simile a sé per grazia. È il senso della missione, che non è nient’altro che quello stesso dono messo al servizio di altri, perché anche altri si aprano allo stesso dono, o prendano co-scienza della straordinaria grazia concessa a ciascuno.

 

Io e tu

In realtà vocazione, intesa come rivelazione della persona, è svelamento dell’io, mentre missione significa l’apertura di questo io all’altro, o la presa di coscienza di come il tu sia passaggio essenziale del processo di realizzazione dell’io. Se il “tu sei” può far pensare a un’autoidentità e a una positività che il soggetto ritrova dentro se stesso, il “ti chiamerai” evoca immediatamente l’altro –  visto che nessuno sano di mente può “autochiamarsi” – spalancando la sua storia verso l’esterno. Un io senza tu è un non-io, è la negazione o contraffazione di se stesso, come una realtà che implode su di sé, un narciso che si guarda allo specchio e non sa che lo specchio è sempre falso e gli rimanda un’immagine regolarmente falsata proprio perché non passa attraverso il tu.

Esser chiamato è la premessa dell’esser mandato. Assieme, vocazione e missione, autoidentità e apertura all’altro, conducono alla realizzazione di sé. La quale, dice un monaco, “passa per l’assunzione di un compito di grazia che fa dell’obbedienza a Dio, nel cammino di fedeltà all’assolvimento di tutto ciò che un tal compito comporta nel concreto delle situazioni, la porta dell’amore. Porta che può essere intravista solo se gli occhi del cuore vedono quanto basta per non tirarsi indietro”[3].

 

Individualità e appartenenza

È un’ulteriore specificazione del punto precedente. La vocazione segnala quel modo unico-singolo-irripetibile tipico dell’individuo di rassomigliare a Dio, dunque la sua individualità specifica e inconfondibile, ciò che lo distingue dagli altri; la missione indica ciò che lo rimanda agli altri, o essa stessa ve lo invia, e non per bontà d’animo più o meno forzata, ma perché, ancor prima, egli viene da un altro e tutta la sua vita non può prescindere dall’altro, egli appartiene all’altro, e come conseguenza è chiamato in qualche modo ad affidarsi a lui, a consegnarvisi, a condividere la vita con lui… in qualche modo, è mandato a lui. Così per ogni essere umano: io appartengo all’altro e l’altro mi appartiene.

 

Libertà e responsabilità

Ancora, se vocazione significa quella libertà che deriva dalla verità, dalla scoperta della verità di sé, la missione sottolinea l’elemento che garantisce in qualche modo la libertà o che la rende vera: la responsabilità. Ovvero, ricorda a colui che è chiamato che è responsabile dell’altro, che la sua chiamata si compie e si realizza nella misura in cui si fa carico dell’altro. E, ancora una volta, non per buonismo o come fosse un’eccezione, ma perché questo è esattamente il senso della vicenda umana, come un’avventura in cui si è tutti coinvolti: nessuno si salva da solo e ognuno deve rispondere dell’altro, nel bene e nel male. “La libertà – annota Bonhoeffer – non è in prima istanza un diritto individuale, ma una responsabilità, la libertà non è indirizzata in prima istanza all’individuo, ma al prossimo”[4].

In qualche modo queste quattro polarità rappresentano i contenuti dell’azione pedagogica che vogliamo proporre, ma, se vogliamo definirla correttamente anche nelle sue articolazioni varie (fasi e momenti educativo-formativi), occorre identificare quel punto centrale che consente di tenere insieme le due polarità.

“Tenere insieme”, cioè far vedere che tendono verso un medesimo obiettivo o che fanno parte d’una stessa verità e identica realtà, che è origine e pure fine d’esse, e centro della vita dell’uomo.

La psicologia ci ricorda l’esigenza d’avere un centro, dandoci però un prezioso avvertimento: questo centro non può né dev’essere l’io dell’individuo, poiché non aggiungerebbe nulla di nuovo, né avrebbe alcun potere trainante sulla vita del soggetto, anzi, rischierebbe di ripiegare l’individuo su di sé.

Qual è questo centrale in una pedagogia credente che voglia avere anche un esito vocazionale?

 

ALFA E OMEGA, CUORE DEL MONDO E D’OGNI VIVENTE

È il mistero pasquale. La croce e la risurrezione di Gesù. “Perché così è piaciuto al Padre, fare di Cristo il cuore del mondo”, dunque non potrebbe che esser questo il “cuore” anche per ogni credente, come ciò in cui si ricapitolano tutta la vita e tutte le tensioni; il punto di convergenza e di attrazione generale, il motivo fondamentale d’ogni scelta; anzi, ciò che dà forza ed energia ad ogni scelta, specie alla scelta vocazionale, alla vocazione e alla missione.

Nulla di nuovo!… dirà qualcuno sbadigliando. E invece è proprio il caso di interrogarsi su quanto la nostra pastorale sia pasquale; su quanto i percorsi pedagogici sgorghino da questo punto di partenza e tendano a tornare lì; su quanto in particolare siamo capaci di mostrare e testimoniare l’amore di Cristo in croce come la centrale di significato, come ciò che dà senso al vivere e al morire d’ogni giorno, all’amare e al soffrire, alle scelte piccole e grandi, al modo d’intender l’esser cristiani in questo nostro mondo post-cristiano (lo era un tempo forse) o pre-cristiano, poiché lo potrebbe diventare certamente se noi …lo fossimo davvero, o se fossimo capaci di presentare un cristianesimo in cui vocazione e missione si saldano regolarmente a partire proprio dalla croce di Cristo. È significativa, in tal senso, l’affermazione di Cacciari, che identifica il cristianesimo esattamente con la croce di Cristo: “Per me il cristianesimo è Colui che sta appeso alla croce”[5]. Straordinariamente espressiva nella sua sintesi questa definizione del cristianesimo.

In effetti è vero che non costituisce nulla di nuovo dire che la croce di Cristo è il cuore del mondo, o che attorno ad essa dovremmo saper “ricapitolare” tutte le cose, quelle del cielo e della terra, come ci ricorda Paolo in un brano delle sue lettere che è come una visione[6]. Il problema è che probabilmente non diamo grande attenzione alla necessità di declinare in termini pastorali o pedagogici questo principio di enorme portata. Figli o nipoti mai del tutto rinnegati d’un certo illuminismo o postilluminismo teologico (o spirituale), per cui ciò che conta è la dottrina o l’espressione teologicamente corretta, non ci siamo preoccupati abbastanza della pedagogia, della traduzione in percorso metodologico accessibile a tutti; come se la pedagogia fosse destinata inesorabilmente ad esser la parente povera di scienze più nobili (la teologia, ad esempio), dimenticando che una teologia che non diventi pedagogia non è teologia cristiana, così come una spiritualità che non possa esser tradotta in cammino che tutti possono fare non merita la qualifica cristiana.

E così è avvenuto che ciò che è peculiare e centrale della nostra fede s’è ritrovato ai margini d’essa, come qualcosa di pressoché insignificante e inefficace. Ma questa è una contraddizione insostenibile. A causa della quale abbiamo perso la prospettiva del mistero, di quella centralità ricca di senso che spiega la vita e la morte… Sono molto convinto che la crisi vocazionale sia stata e continui a esser uno dei segni o delle conseguenze di quella inefficacia e di questa perdita. E che dunque non sia così obbligata e inevitabile come spesso diciamo per consolarci o giustificarci (infatti in certi posti o contesti non c’è questa crisi o c’è molto meno o vi sono segni di ripresa).

Proviamo allora a vedere come declinare il principio pasquale in termini di pedagogia vocazionale[7].

 

PEDAGOGIA VOCAZIONALE “MISSIONARIA”

Lo faremo tenendo presenti quei quattro punti nei quali abbiamo declinato le polarità legate alla polarità centrale tra vocazione e missione. Vedremo concretamente l’atteggiamento generale da tenere in questa pedagogia, l’obiettivo di fondo, lo stile e i percorsi da praticare.

 

Atteggiamento di fondo: dal post-cristiano al pre-cristiano (o dalla crisi delle vocazioni alla cultura vocazionale)

C’è anzitutto un atteggiamento di fondo da curare e sul quale operare una specie di conversione rispetto alle nostre abitudini, specie quando parliamo di vocazioni. È normale, infatti, quando si tocca questo tasto, fare raffronti col passato, coi seminari e i noviziati pieni (e il tasto diventa dolente), come se noi fossimo solo o soprattutto un’epoca che viene dopo un’altra, e come se quest’epoca nella quale noi viviamo non avesse una sua identità autonoma, ma potesse vivere solo di rendita, o fosse ingloriosamente ma inevitabilmente costretta a diventare qualcosa di post, post-moderna o post-cristiana, in particolare.

Il rapporto vocazione-missione, invece, e lo abbiamo appena accennato, indica un atteggiamento contrario, proteso verso il futuro: se vocazione è l’io attuale, missione è l’io ideale, qualcosa che ci sta davanti, qualcosa che noi non possiamo completamente prevedere e programmare, a livello ecclesiale e di identità ecclesiali, ovvero di vocazioni al servizio della Chiesa. Infatti, se proprio vogliamo fare il confronto col passato, certamente troveremo che sono diminuite le vocazioni cosiddette di speciale consacrazione, ma credo sia altrettanto indubitabile l’aumento di vocazioni laicali, ovvero di modi diversi e inediti di vivere la propria identità di credenti al servizio della Chiesa. Allo stesso modo, potranno sorgere ancora nuove identità vocazionali, per nuove missioni. Ma è condizione imprescindibile che manteniamo un atteggiamento aperto verso il futuro, e non ci limitiamo, masochisticamente, a rimpiangere il passato, o – detto diversamente – che passiamo da un atteggiamento post-cristiano ad uno pre-cristiano, come fossimo all’inizio d’una nuova era, come sempre aperta e guidata dallo Spirito di Dio, verso nuove e inedite prospettive missionarie. Come dice

p. Scalia, «Dio non “sopporta” il nuovo, lo vuole»[8]. Dunque la nostra non è una società post-cristiana, ma pre-cristiana; è diverso!

Tale passaggio da un modo di leggere la storia ad un altro è decisivo, e potrebbe cambiare in modo sostanziale il nostro modo generale di fare PV. Perché in effetti è molto diverso leggere il momento storico dal punto di vista del passato che lo ha preceduto o da quello del futuro che gli sta innanzi e che dà i primi incerti e timidi segnali di vita. Cambia completamente la visione del mondo, se lo leggiamo nei fermenti di nuova cristianità presenti in esso oppure continuiamo a raffrontarlo con la più o meno presunta religiosità d’un tempo. Provare per credere! Perché, nel nostro caso, tale cambio di punto d’osservazione sarebbe molto meno soggetto alla logica deprimente del “non c’è più niente da fare…” e più aperto alla creatività di chi sente lo Spirito di Dio aleggiare sulle acque della modernità, come agli inizi.

Ma soprattutto perché lo aprirebbe finalmente alla speranza, facendo dell’argomento “vocazione” non il segno d’una crisi da tamponare in qualche modo correndo ai ripari, ma d’una realtà che sta nascendo, come voce che dice in modo nuovo e secondo prospettive non tutte prevedibili l’identità del cristiano in questi tempi moderni, specie se coniugata con la missione. A questa precisa condizione (il legame con la missione) il tema “vocazione” dice speranza, non crisi; apre al futuro, non è chiuso dentro un confronto perdente-deprimente col passato; non appartiene solo ai convegni vocazionali, ma entra a pieno titolo nelle discussioni e nelle analisi ove si cerca di configurare la Chiesa del futuro[9]; c’introduce dunque in un’era nuova della storia cristiana, proprio come dice il titolo del documento del congresso europeo vocazionale: “Nuove vocazioni per una nuova Europa”; libera cuore e mente da quella diffidenza e sfiducia nei confronti del mondo di oggi e ci fa invece credere e aver fiducia in esso, perché questa generazione è, sì, massimamente dissipata e culturalmente frammentata, ma – dice Accattoli, credente che “crede” fortemente nella possibilità di dialogo costante con essa – è “come rifatta sensibile ai segni spirituali. O in via di ritornarlo”[10]. O, per restare nel nostro tema, basterebbe pensare alla ricerca di Garelli, su cui ci siamo soffermati nel convegno dell’anno scorso, per guardare con occhio nuovo, più positivo e propositivo, più “missionario”, alla realtà del mondo giovanile e di questa generazione, che non è solo quella dei bamboccioni

o delle braghe basse, o dei debosciati e dei mammoni, o degli adultescenti o dei pensionati precoci, ma di chi sa ancora annusare dove c’è vita e autenticità, sa riconoscere dove la proposta è credibile, anche e soprattutto dov’essa è forte e provocante, e vi risponde con interesse e generosità.

 

Obiettivo: il credente adulto nella fede, ovvero responsabile[11]

Diventa allora importante concepire una PV che parta da una certa idea della salvezza e del credente salvato. Ciò non sembri eccessivo, poiché un’autentica pedagogia vocazionale nasce da una fondamentale teologia della salvezza, e da certe sue accentuazioni particolari. Salvezza che non può esser qualcosa di puramente meritato da Cristo, che lascia sostanzialmente passivo il redento; il quale – a sua volta – non può nemmeno considerare la salvezza come un fatto assolutamente privato, di cui al massimo esser grato. La salvezza consiste nel dono della liberazione dal peccato per eccellenza, dall’egoismo, dalla tristezza diabolica dell’autoreferenza, dall’equivoco della salvezza come bene privato; anche e soprattutto da quell’egoismo, autoreferenza e privatismo della salvezza che si travestono magari dietro aspirazioni apparentemente nobili (come l’ideale della perfezione privata). La salvezza cristiana è grazia di trasformazione del cuore, grazia che rende il salvato simile al Salvatore e dunque fa dell’uomo redento un essere libero e capace di farsi carico della salvezza d’un altro. Questa è la salvezza cristiana: un salvato che diventa salvatore, un uomo che sperimenta su di sé il segno più grande ed evidente dell’amore di Dio; che consiste, per l’appunto, non semplicemente nell’esser benvoluto, ma nell’esser amato da Dio così tanto da averne il cuore trasformato, capace di amare con lo stesso amore divino, con la sua libertà e intensità, al punto di sentirsi responsabile della salvezza altrui.

E neppure stiamo dicendo che il redento sia semplicemente un credente di buona volontà che, proprio perché buono e benintenzionato e desideroso di assicurarsi la salvezza eterna, si dà da fare per gli altri, quasi per sua gentile concessione o con suo faticoso atto eroico, eccezionale quanto facoltativo, ma uno che è salvato pienamente e sperimenta pienamente la salvezza solo quando si sente e si rende responsabile per quella altrui. Solo lì abbiamo l’autentico cristiano redento dal sangue di Cristo. Solo lì abbiamo l’adulto nella fede, veramente cresciuto, non un bambino che pretende di esser servito, ma semmai il bambino svezzato del salmo 131, colui che mette insieme l’aspetto passivo della salvezza con quello attivo, il bene ricevuto con quello donato, e vive l’uno nell’altro, o lascia che il primo diventi spontaneamente il secondo. Solo qui c’è la piena maturità della fede. Come anche la nobiltà e dignità della concezione cristiana della salvezza, che rimanda alla nobiltà e dignità della creatura umana e la rilancia, resa capace dal sangue di Cristo di fare la stessa operazione redentrice! Non abita e non riposa forse qui l’espressione o il segno più grande dell’amore di Dio? Mai Dio avrebbe potuto amare l’uomo più di così: fino a renderlo capace di amare come Dio stesso, di dare salvezza!

È il caso di chiedersi se questo sia davvero il cristianesimo che oggi predichiamo e pratichiamo. È lecito avere dei dubbi al riguardo: il cristiano di oggi non sembra il fratello responsabile di suo fratello. Il peccato delle origini, in tal senso, ovvero l’affermazione con la quale Caino ha definitivamente ucciso Abele (“sono forse il guardiano di mio fratello?”), sembra in pratica sottoscritta da tanti, troppi cristiani; continua a raccontare l’irresponsabilità del credente medio, ovvero il suo stato infantile sul piano della maturità credente. Quasi mai le nostre comunità parrocchiali riescono a testimoniare un clima di reciprocità o a celebrare il sacramento della fraternità come luogo e strumento di salvezza, che viene da Cristo, certo, ma si compie quando l’io s’apre al tu e se lo carica sulle spalle. Perfino le comunità religiose o presbiterali raramente riescono a confessare una comunione tra i membri che porti alla reciproca corresponsabilità nell’ordine della salvezza o della santità da vivere e costruire assieme. La comunione dei santi sembra appartenere ad un altro mondo, all’escaton, e quella dei peccatori o è sostanzialmente negata (ognuno si tenga ben stretto il suo carico di male) o è solo ritualmente celebrata (nelle rarissime celebrazioni comunitarie della penitenza).

Ed è chiaro, mestamente chiaro, che con queste premesse o con questo tipo di mentalità la prospettiva vocazionale abbia poche possibilità di riuscita. Una volta ancora siamo costretti a constatare che sulla base d’una povera maturità generale o d’una precaria vita di fede del popolo dei credenti non possono nascere autentiche vocazioni, anzi, la stessa vita cristiana non riesce a esser concepita come vocazione che si compie nella missione.

Un’autentica pedagogia vocazionale “missionaria”, allora, dovrà necessariamente porsi l’obiettivo intermedio di creare credenti adulti, particolarmente in due sensi.

 

Responsabile di ogni altro

L’adulto è chi si fa carico della vita e, ancor prima, è chi si riconosce già “portato” dalla vita, dagli altri, dalla sua propria storia… E dunque decide che è giunto il momento di prendersi sulle spalle gli altri, coloro che ama, anzitutto, ma poi sempre più tutti gli altri e ogni altro, idealmente ma anche realmente. E scopre che tutto ciò è logico e non necessariamente eroico; è conseguenza naturale, non sforzo volontaristico: anche lui è stato portato, coi suoi problemi e limiti e pesi, pure quando non se n’è accorto e non s’è preso la briga di ringraziare nessuno. E allora è giusto o – ripetiamo – del tutto naturale che lui ora accetti di prendersi sulle spalle gli altri, ma senza tanto scegliere e selezionare, né evitando i più pesanti o cattivi.

C’è, in tal senso, un’intuizione molto acuta, o una provocazione molto forte di Berdjaev, che ci riconduce alle origini della nostra storia.

 

“Abele, che ne hai fatto di Caino?”

Lo scrittore russo, infatti, pensa alla storia umana come ad un evento o ad una serie di eventi racchiusi tra due domande che Dio pone all’uomo. Più precisamente, immagina che l’inizio e il termine della storia dell’umanità siano segnati da due interventi inquisitori di Dio, apparentemente simili, ma indirizzati a due interlocutori diversi. All’inizio la domanda è rivolta a Caino, il fratricida, colui che è la personificazione del male, per chiedergli conto di Abele, la vittima innocente, come racconta la Scrittura e come ci par logico, per altro. Alla fine la stessa domanda è rivolta inaspettatamente ad Abele e questo ci sorprende parecchio. Berdjaev, infatti, pensa, con buona dose d’immaginazione, che nasconde in realtà una profonda interpretazione della responsabilità e libertà umana, che alla fine della storia dell’umanità il Padre Dio si rivolgerà ad Abele, la personificazione del bene, domandandogli – stranamente – la medesima cosa: “Abele, cos’hai fatto di tuo fratello Caino?”[12].

Proviamo a esplicitare, con una certa libertà, cosa potrebbe esserci dietro questa domanda (rivolta non solo ad Abele): “Tu che sei il bene, tu che ti senti dalla parte del giusto e che tutti considerano il buono e il santo (al punto che anche tu ne sei convinto…), tu che hai patito, così si dice in giro, l’invidia del fratello balordo, tu che sei stato vittima della sua collera violenta e sanguinaria…, tu cos’hai fatto per lui? Cos’hai fatto per non far nascere, prima, quella violenza o per arrestarla poi, o per non scaricare tutta su tuo fratello la responsabilità di quel gesto? Fino a che punto te ne senti responsabile? Te lo sei mai chiesto? Come mai è stato necessario porre un segno su Caino, per proteggerlo in qualche modo da progetti vendicativi contro di lui (cf Gen 4,15)? Mai sentito parlare della sottile violenza dei giusti? Puoi dire davvero d’averlo perdonato? Tu gli hai mai chiesto perdono?”[13].

Domanda davvero inedita e singolare in bocca a Dio. A noi benpensanti, tutti rigorosamente dalla parte del bene, pare doverosa la prima domanda, quella rivolta con tono di giudizio severo, a Caino; ma come può Dio-JHWH chiedere, con la stessa severità, al bene cosa ne ha fatto del male? Che senso ha lo stesso richiamo, sostanzialmente, rivolto ad Abele e a tutti gli Abele del mondo, o a chi un po’ troppo sbrigativamente si sente come Abele?

In realtà, chiunque voglia davvero essere responsabile deve aver il coraggio di lasciarsi scaraventare addosso una domanda così… appuntita. Perché grande è la tentazione del buono di… sentirsi buono, magari l’unico buono, di doversi solo difendere dal male per proteggere incontaminata la sua virtù, di provvedere unicamente alle sue private economie spirituali, di non aver nulla di cui chieder perdono, finendo per lavarsi le mani di fronte al male del mondo. È ancora una versione del cristiano consumista, che sfrutta la salvezza per sentirsi a posto.

 

“Completo nella mia carne quel che manca alla passione di Cristo”

Quando, infatti, un essere umano, nel piccolo spazio della sua storia, costellata anch’essa di ferite, violenze, ingiustizie e quant’altro s’oppone all’amore per il quale è stato creato, reagisce a tutto ciò ponendosi la domanda giusta, interrogandosi sul “come” rispondere perché l’amore delle origini non venga smentito, in quel momento avviene qualcosa di grande, al di là d’ogni meschino e improbabile moralismo: quell’uomo, o chi fa così, completa nella sua carne quel che manca alla passione di Cristo (cf Col 1,24). Completa la salvezza, non perché manchi qualcosa al gesto dell’Agnello, ma perché solo così si compie il mistero della salvezza: quando il salvato diventa mediazione di salvezza.

Il senso di libertà e responsabilità dell’individuo fa qui partire, allora, un dinamismo assolutamente nuovo, diverso, sensato, giusto, pacifico, in una parola, “responsabile”, o fa di quel gesto aggressivo l’occasione o lo spunto per affermare ciò che s’oppone ad esso, trasformandolo.

In quella trasformazione è racchiuso il cammino e il mistero non solo dell’integrazione del male, ma della vocazione cristiana, d’ogni vocazione. A che serve oggi donarsi a Dio, consacrarsi in qualche modo a lui, se non per farsi carico del male e del dolore del mondo?

 

L’allenamento a scegliere

Altro obiettivo intermedio della pedagogia vocazionale missionaria è rendere la persona capace di prendere decisioni, e dunque provocarla in tal senso. Cosa oggi non semplice, visto che viviamo in una cultura dell’indecisione: a vari livelli, sono tantissimi gli esempi di adulti (genitori, insegnanti, politici, fors’anche preti ed educatori…) che sembrano preferire vivere in un perenne stato d’incertezza, di non compromissione personale, di permanenza in una situazione aperta a tante (tutte?) possibilità, di avvertenza a lasciarsi sempre una porta aperta, in qualsiasi caso, in qualsiasi scelta, correndo così il rischio di non prendere mai una decisione libera e responsabile (e non doverne pagare le conseguenze, per cui se t’ingravido poi potrai liberarti della creatura se non la vuoi; se ti sposo possiamo sempre separarci un giorno; tanto meglio se scelgo semplicemente di convivere con te, ti potrò sempre piantare un giorno se non mi vai più…). È uno dei paradossi più contraddittori della cultura odierna: la libertà è diventata un idolo, ma un idolo sterile (come tutti gli idoli, per altro, come dice il salmo 113: hanno il grembo, ma non partoriscono vita), e ne abbiamo abortito il naturale frutto del grembo, ovvero la scelta o la libertà di scelta, che ci fa una terribile paura.

 

Orfani di padri e madri vivi

C’è chi dice che oggi ci troviamo dinanzi alla prima generazione di orfani di padri e madri vivi… Un gran brutto orfanaggio. Reso ancor più complesso dal fatto che i loro genitori, o la generazione degli attuali giovani adulti, sono a loro volta figli d’un solo Dio, ma orfani di mille diavoli; ovvero, sono in genere stati educati nella fede cristiana, ma poi si son fatti altre divinità, dalle quali poi sono stati regolarmente ingannati e abbandonati. Come due situazioni di povertà e frustrazione pericolosamente incrociate. È chiaro che l’orfanaggio vissuto dai genitori ricade quanto mai negativamente sui figli.

I ragazzi odierni, infatti, vivono esposti a proposte contraddittorie, venduti e svenduti a un mercato di valori e controvalori, di fronte ai quali restano smarriti, con la sensazione strana di non appartenere a niente e a nessuno. Non solo non riconoscono cosa è buono e cosa è cattivo, cosa porta alla vita e cosa alla morte, cosa li aiuta a raggiungere la felicità o a cadere nel baratro…, ma soprattutto non si sentono mai presi sul serio per fare qualcosa di serio e importante, respirano attorno a sé un’aria di sostanziale sfiducia (ci credo, dice il benpensante, certe volte sembrano tirarsela proprio dietro), mai nessuno che li prenda per il bavero e non li illuda, ma gli chieda di fare qualcosa d’impegnativo per gli altri, non solo per sé, magari pagando un certo prezzo, rinunciando a uno svago, facendo un certo sacrificio, pure rischiando di farsi prender in giro dagli altri… E se c’è qualcuno che lo fa, ovvero qualche adulto (insegnante, educatore, genitore, prete…) che propone loro qualcosa di forte, sono i ragazzi stessi che non ci credono (o sono indotti a non crederci), magari anche perché sembra – ed è – cosa rara e strana, eventuale e facoltativa (non costruita sulla logica del bene ricevuto, che tende per natura sua a divenire bene donato, o sulla strutturazione radicale etica dell’essere umano)[14]. O perché viene detta e proposta forse con poca convinzione: infatti poi l’adulto non la ripete più o, mentre la dice, si vede da lontano che non ci crede manco lui; fa la proposta solo perché gli tocca, o gliela mette davanti quasi come una sfida (buttata lì giusto per confermare poi l’idea balorda che l’adulto s’è fatta dei giovani d’oggi, della serie: “visto che avevo ragione io?”). O, ancora, è proposta così alta da risultare troppo difficile in effetti, perché non rispetta una certa gradualità – e siamo di nuovo nel problema pedagogico – o, infine, è completamente scaricata sui ragazzi stessi (mentre l’adulto si defila e non si coinvolge perché spesso lui per primo è un lavativo, senza spina dorsale né speranza)… E allora cade tutto miseramente.

E loro continuano a fare i figli di nessuno. Anzi, non solo figli orfani di genitori vivi, ma orfani anche di educatori ufficialmente presenti, ma praticamente assenti o inefficaci (sperando che non siano anche loro, i formatori e le guide, anche nei nostri contesti cristiani, “orfani di mille diavoli”).

 

La Cresima, sacramento vocazionale

Abbiamo parlato diverse altre volte, nei nostri incontri, di questo argomento[15], ma vorrei tornarci perché lo ritengo una proposta che potrebbe andare nella direzione giusta, e oltretutto anche abbastanza realizzabile in una normale pedagogia della fede, quale si dovrebbe praticare in ogni contesto cristiano. Si riferisce al sacramento della Cresima: perché non dare una valenza esplicitamente vocazionale a questo sacramento? Sappiamo che questo sacramento molte volte diventa il triste capolinea d’un cammino che dovrebbe essere “dell’iniziazione cristiana” e invece si trasforma nel suo contrario: nella chiusura del discorso cristiano, nella fine di tutto, nella festa dell’addio (“c’eravamo tanto amati…”) a Chiesa, preti, catechismo e oratorio… Evidentemente la Cresima arriva in un’età particolare, resa oggi ancor più ostica e difficile da gestire dai problemi intergenerazionali appena visti.

Ma potrebbe anche costituire una risposta a questi problemi, o quanto meno un tentativo di proposta in un contesto culturale spesso privo di forza propositiva e simile a un deserto di offerta formativa. Questo vuoto, vogliamo dire, potrebbe costituire il luogo ove deve farsi trovare oggi l’educatore cristiano. Anzi, egli è proprio “chiamato” ad occupare questo posto (e se non lo fa è un irresponsabile), poiché da un lato non c’è proprio competizione in questo (vista la latitanza delle normali agenzie educative, dalla famiglia alla scuola), dall’altra perché ha dalla sua un armamentario prezioso, una storia, una tradizione, una dottrina, dei modelli, una potenzialità enorme, umana e divina…

È la forza misteriosa del sacramento, e in questo momento particolare del sacramento della Cresima, che segna l’ingresso nella fase adulta della vita e della vita credente. Un sacramento di cui non sempre è facile cogliere l’identità, che infatti è spostato ora avanti ora indietro come fosse non chiaro a quale età appartenga, che a volte – ahimé! – è ridotto a semplice lasciapassare per ottenere l’accesso ad altri sacramenti, che è legato alla figura trinitaria notoriamente meno facile da presentare, lo Spirito Santo, che non ha un gesto corrispettivo esterno (come è la comunione per il sacramento dell’Eucaristia, ad es).

E allora, proprio per questo o per queste difficoltà, non potrebbe la Cresima diventare il sacramento vocazionale, o esser presentata e preparata su un piano pedagogico-catechetico come ciò che in qualche modo chiede al ragazzo o al giovane di fare una scelta di campo per quanto riguarda la fede, e una scelta di campo non solo teorica? Come una dichiarazione d’intenti, ma implicante scelte ulteriori, molto concrete e legate alla vita del giovane, scelte piccole e grandi, quotidiane e pure a lungo termine, coerenti col senso credente della vita e orientate tutte, in un modo o in un altro, nei termini d’una missione, di qualcosa che il ragazzo è stato educato a percepire come la sua missione, come il compito che lui è chiamato a portare a termine, e non solo per la sua salvezza?[16]

La Cresima sarebbe così intesa come il sacramento della scelta, della decisione progressiva, e per nulla scontata, di esser presente da cristiano in una società non cristiana. In una società pre-cristiana sarebbe del tutto logico e opportuno questo atteggiamento pastorale, che incontrerebbe poi una risposta favorevole, al di là dell’apparenza, nel destinatario, perché è assolutamente impossibile che l’adolescente non sia interessato a prender in mano la propria vita e darle un indirizzo preciso, soprattutto quando si sente sollecitato a fare qualcosa di bello e di grande, che da un lato dà alla sua identità un punto di riferimento preciso e stabile, anzi stabilmente positivo, e dall’altro gli chiede qualcosa che solo lui può fare e che porterebbe a piena realizzazione la sua propria identità. La Cresima come chiamata a una missione!

È chiaro che questa concezione della Cresima comporterebbe una parallela educazione dei genitori, cioè una bella sberla per quei genitori sostanzialmente assenti, che scaricano la loro responsabilità educativa sul prete e la loro ignoranza religiosa sui figli, ma proprio per questo tale proposta sarebbe davvero intelligente e provvidenziale, perché coinvolgerebbe più soggetti dal punto di vista dell’attenzione pastorale.

Il vero problema, infatti, non dimentichiamolo, è l’orfanaggio dei loro figli. O padri e madri reimparano il ruolo genitoriale o siamo daccapo. Insomma, è un po’ come l’uovo e la gallina.

 

Stile pedagogico: la dimensione drammatica della proposta cristiana

C’è ancora un altro aspetto molto importante da considerare, molto legato a quanto già visto e sempre in funzione della coniugazione tra vocazione e missione, e che sottolinea una dimensione classica della nostra fede e della redenzione, che è costata, non possiamo dimenticarlo, il sangue del Figlio. È la dimensione drammatica della vita cristiana, che non può non caratterizzare anche il modo, lo stile con cui porgiamo il dono della salvezza e che è per natura sua legato alla prospettiva della missione. Sarebbe una perdita irreparabile la contraffazione di questo stile, in nome d’una presunta, e in realtà sciocca e pagana, maggiore accessibilità del messaggio evangelico.

 

La grazia “a caro prezzo”

La nota espressione è di quel testimone verace che è stato D. Bonhoeffer, che la contrappone a un’altra espressione, la grazia a buon prezzo, che spiega così:

“La grazia a buon prezzo – afferma con la solita illuminata sapienza il pastore e martire – è il nemico mortale della nostra Chiesa. Noi oggi lottiamo per la grazia a caro prezzo. (…) Grazia a buon prezzo è annunzio del perdono senza pentimento, è battesimo senza disciplina di comunità, è Santa Cena senza confessione dei peccati, è assoluzione senza confessione personale. Grazia a buon prezzo è grazia senza che si segua Cristo, grazia senza croce, grazia senza il Cristo vivente, incarnato. Grazia a caro prezzo è il tesoro nascosto nel campo, per amore del quale l’uomo va e vende tutto ciò che ha, con gioia; la perla preziosa, per il cui acquisto il commerciante dà tutti i suoi beni; la Signoria di Cristo, per la quale l’uomo si cava l’occhio che lo scandalizza, la chiamata di Gesù Cristo che spinge il discepolo a lasciare le sue reti e a seguirlo. Grazia a caro prezzo è l’Evangelo che si deve sempre di nuovo cercare, il dono che si deve sempre di nuovo chiedere, la porta alla quale si deve sempre di nuovo picchiare. È a caro prezzo perché ci chiama a seguire; è grazia, perché chiama a seguire Gesù Cristo; è a caro prezzo, perché l’uomo l’acquista al prezzo della propria vita, è grazia perché proprio in questo modo gli dona la vita; è cara perché condanna il peccato, è grazia perché giustifica il peccatore. La grazia è a caro prezzo soprattutto perché è costata molto a Dio; a Dio è costata la vita del suo Figliolo (…). È soprattutto grazia, perché Dio non ha ritenuto troppo caro il suo Figlio per riscattare la nostra vita, ma lo ha dato per noi. Grazia cara è l’incarnazione di Dio”[17].

Credo che a nessuno oggi sfugga la scarsa percezione, da parte della massa dei fedeli, e la debole proposta, da parte nostra, del “prezzo” della grazia, nei termini descritti da Bonhoeffer. Credo che potremmo aggiungere alla sua riflessione quest’ulteriore specificazione: grazia a buon prezzo è grazia senza sequela e vocazione senza missione, o salvezza donata da Cristo che non ha creato alcuna coscienza di responsabilità…

 

Fuga dalla responsabilità missionaria

Quando non c’è l’apprezzamento della “grazia a caro-prezzo”, o prevale la pretesa di quella “a buon prezzo”, non ci può esser neppure la conseguente decisione di assumersi una precisa responsabilità in ordine alla salvezza. La grazia ricevuta, specie se è costata un certo prezzo, sollecita il credente ad attivare lo stesso meccanismo gratuito, a divenire lui stesso grazia. E non solo per un dovere di gratitudine, ma perché – abbiamo detto – il cristiano è salvato proprio per questo e in questo senso: salvato perché diventi e in quanto diventa lui stesso salvezza. Con il prezzo che questo comporta.

Ma purtroppo proprio questo tipo di considerazione non è quella più in voga nelle nostre comunità credenti. Anche per via d’un evidente influsso culturale: com’è vero che oggi viviamo in una società e in una cultura senza padre o di figli orfani a vario titolo, così è pure vero che oggi stiamo assistendo ad una vera e propria fuga dalla responsabilità, che determina, a sua volta, lo smarrimento della libertà e dignità umane. Dice Sequeri: “La decostruzione occidentale, ormai, ha incominciato a erodere la verità morale più condivisa dell’umano: ossia la responsabilità della coscienza. Vale a dire, la qualità spirituale più certa e oggettiva dell’esperienza umana su tutto il pianeta. Quando una civiltà intacca la matrice ultima di tutte le sue risorse propositive, vuol dire semplicemente che ha esaurito il suo ciclo. E sta per essere sostituita”[18]. E oggi, in effetti, tutto sembra concorrere a creare alibi, anche nell’educativo: lo psicologo rassicura che tutto dipende dal passato cattivo, dalla mamma immatura e invadente o dal padre debole o autoritario; l’insegnante rassicura che il ragazzo è intelligente, “solo dovrebbe un tantino recuperare la fiducia in sé…”, poverino; e se c’è qualche insegnante che si permette di richiamare e rimproverare o addirittura di ricorrere a salutari sanzioni, intervengono i genitori a difendere il poveretto ingiustamente accusato e son loro a rimproverare e magari a minacciare l’incauto e ingenuo docente; il giudice (esattamente in Australia) giunge ad assolvere alcuni uomini e ragazzi che hanno commesso stupro di gruppo su una bambina di dieci anni perché “probabilmente non l’hanno percepito come reato, essendo la violenza sessuale diffusa nelle aree indigene australiane”[19]; abbondiamo in analisi rassicuranti che non consolano realmente nessuno e, anche nella direzione spirituale, siamo così condizionati dalla paura di riaprire certe ferite che non sappiamo poi stimolare alcun atteggiamento libero e creativo né condurre il giovane ad assumere un atteggiamento responsabile di fronte ai suoi limiti più o meno legati al suo passato. Persino nei nostri seminari e nelle nostre case di formazione si respira un po’ quest’aria allegra e infetta e alla lunga pericolosa come un veleno perché renderebbe l’educatore di domani portatore “sano” (cioè beatamente incosciente) di un virus mortale.

 

Prevalenza della dimensione autoreferenziale e consumista, ludica o estetica

Dobbiamo ammetterlo: stiamo ancora trasmettendo, da questo punto di vista, un cristianesimo innocuo, da salotto, fatto di buone maniere e di meriti personali, d’indulgenze private da mettere rigorosamente sul proprio conto, un misto di buonismo esaltante e di rassicurante garantismo, di economie autoreferenziali, di santità ancora troppo individuali, di ripiegamenti devozionali (o sottilmente autodevozionali), di percorsi troppo finalizzati e circoscritti all’io e alla sua autorealizzazione…, o un cristianesimo ancora troppo poco relazionale, ove la relazione è un accidente, e non ancora il luogo ove si compie il dramma, il dramma della salvezza; o un cristianesimo così figlio d’una certa cultura dell’analgesico da esser diventato esso pure un analgesico, e dunque per nulla aperto alla responsabilità faticosa, ma pure esaltante, della missione…

E se perdiamo la dimensione drammatica inevitabilmente rischiano di prevalere quella ludica, per cui tutto è preso alla leggera, come cosa facoltativa, se ti va…, o, nel migliore dei casi, quella estetica, come se il cristianesimo fosse solo un’esibizione rituale, e il rito più o meno apprezzabile a seconda dei gusti estetici.

Di conseguenza diventa anche un cristianesimo da consumare e da consumare per sé, perfettamente adeguato alla società dei consumi, ove ognuno è allegro fruitore d’un prodotto confezionato da altri, va, l’acquista e lo consuma, come un cliente qualsiasi, “soddisfatto o rimborsato”, o come uno spettatore d’un dramma interpretato da altri che ormai non lo commuove neanche più. Così è molte volte interpretato e vissuto l’esser credenti in Cristo: in modo passivo, infantile e anemico, all’occorrenza rivendicativo e pretenzioso; in tal modo il “consumatore di redenzione” finisce per non apprezzare più il dono e non saperne più il prezzo, il caro-prezzo della grazia ottenuta, ma dimentica che “nessuno è automaticamente trascinato alle porte del cielo dalla calca generale”, come disse una volta H. U. Von Balthasar.

C’è un infantilismo spirituale dilagante oggi, con varie forme di fuga dalla responsabilità nei confronti di Dio, degli altri e, in ultima analisi, di se stessi. C’è davvero una pastorale dei sacramenti che finisce per esser ridotta alla logica dell’usa e getta. Quante Messe, preghiere, riti, Sacramenti… moltiplicati e semplicemente rovesciati addosso al singolo senza che stimolino alcuna coscienza missionaria, quanta grazia e parola di Dio e beni spirituali sequestrati da singoli credenti, individualisti impenitenti, soprattutto quanta mentalità che esser cristiani significa osservare (certi precetti), non commettere (trasgressioni), celebrare (culti)… per se stessi, e quanto poco siamo capaci di diffondere l’idea che colui che è salvato dalla croce di Cristo deve farsi operatore di salvezza secondo un progetto di vita specifico e responsabilizzante. Quanto poco diamo l’idea che essere amati da Dio non è solo rassicurazione consolante, ma vuol dire esser assunti da lui – non importa se come operai o dirigenti, se alla prima o all’ultima ora – a partecipare responsabilmente all’opera della redenzione, ognuno con una sua missione personale da compiere, così personale che se non la compie lui, resterà cancellata.

 

Il sangue dei martiri

Un mese fa ho partecipato al Convegno Nazionale Vocazionale della Chiesa che è in Messico, praticamente un convegno come quello che stiamo celebrando ora. Erano presenti 900 promotori vocazionali, la maggioranza dei quali dediti a tempo pieno all’animazione vocazionale. E questo forse spiega, almeno in parte, il perché in Messico della grande fioritura vocazionale al momento presente, ma già in atto da alcuni anni. Un solo dato al riguardo. Eravamo ospitati nel seminario minore di Guadalajara, la cui diocesi è di 6 milioni di abitanti.

I seminaristi, tra minore e maggiore, sono qualcosa come 1300!

Quando ho chiesto (a vescovi, sacerdoti, religiosi/e, laici impegnati, ecc.) la ragione di questa abbondanza vocazionale, mi sono sempre sentito rispondere così (sembrava un ritornello): non ci sono segreti particolari, al di fuori di questo fatto storico, la persecuzione della Chiesa nel secolo scorso, è il sangue dei martiri che ha reso feconda questa Chiesa messicana.

Ovvero, quando la grazia continua ad esser a caro prezzo la Chiesa cresce e in essa tutte le vocazioni; quando la pastorale punta in alto si aprono impensabili spazi vocazionali. Forse per questo Clément dice: “bisogna rileggere le beatitudini e soprattutto l’ultima, che parla di persecuzione: credo che il prossimo sarà un secolo di guerre dello spirito come diceva Nietzsche, e serviranno perciò uomini di un’ascesi rinnovata”[20]. E non è senza senso, allora, il fatto che in questi ultimi tempi siano aumentati i martiri, che hanno confessato col sangue l’appartenenza a Dio. “La Chiesa – afferma ancora Clément – gode di buona salute soltanto se può disporre di martiri o di monaci”.

 

Un possibile percorso pedagogico: dalla vocazione alla missione

Vediamo ora di indicare un possibile itinerario pedagogico pastorale, oltre quanto abbiamo già detto, senza affatto pretendere di essere originali né di dare indicazioni assolute ed esclusive. Soprattutto indichiamo una sorta di punti di catechesi sulla vocazione alla missione, che andrebbero posti in essere possibilmente seguendo questo ordine: il chiamato, il Chiamante, il chiamante, la chiamata.

 

Il chiamato

Sottolineiamo anzitutto alcuni aspetti relativi alla persona del giovane chiamato, che sono poi tutti i giovani coi quali lavoriamo, nessuno eccettuato.

Premesse a livello psicologico: il dono crea responsabilità

Anzitutto occorre partire col piede giusto, non ponendo il problema su un piano solo morale, come d’un obbligo legato ad un’eventuale legge, o moralistico, per farsi e sentirsi belli e migliori degli altri, ma su un piano “veritativo”, della verità dell’uomo, d’ogni uomo. E la verità dell’uomo è che in lui vi è una strutturazione etica, o che è costruito su essa, e su una logica o “grammatica” che è il fondamento d’un’etica universale. È quanto abbiamo visto all’inizio della nostra riflessione, quando abbiamo parlato della vita umana (dell’io attuale) come un bene ricevuto, che tende – per natura sua – a divenire bene donato. Tale grammatica semplice ed elementare è anche alla base dell’idea di responsabilità: ogni essere umano, che ha comunque ricevuto in dono la vita, ne è perciò stesso responsabile: il dono crea responsabilità[21].

Anzi, è responsabile anche di fronte agli altri, perché il dono è comunque passato attraverso gli altri. Dice infatti il Talmud: “Se non rispondo di me, chi risponderà di me? Ma se rispondo solo di me, sono ancora io?”[22]. Anche questo tipo di responsabilità nei confronti degli altri appartiene alla solita grammatica elementare della vita; non è virtù né sforzo etico, ma rientra nella norma della vita, nel senso che è del tutto normale questo sentirsi responsabili degli altri e di fronte agli altri, secondo una misura che sarà sempre squilibrata a favore di quanto s’è ricevuto rispetto a ciò che si dona. Ovvero, per quanto mi dedicherò agli altri e alla vita non pareggerò mai il conto con quanto dagli altri e dalla vita ho ricevuto (e continuo a ricevere).

 

Premesse a livello spirituale: consolazione e provocazione

Questo intreccio tra bene ricevuto e bene donato, dal quale sgorga la responsabilità, riceve una conferma a livello di fede e in particolare proprio da quella realtà che è al centro della fede stessa e del mistero, come abbiamo visto, che è la croce di Gesù. Nulla, infatti, come la croce su cui è appeso il Figlio, dà all’uomo queste due certezze: la certezza di esser amato, da sempre e per sempre, dall’Eterno Dio e la certezza d’esser capace d’amare, per sempre e alla maniera di Dio. È la consolazione che rassicura e dà definitivamente all’uomo la sicurezza della propria amabilità (che è alla base della stima di sé) e pure la provocazione a voler bene alla maniera e col cuore di Dio, perché questo significa essere stato salvato da Colui che è appeso al legno. Ebbene, da queste due certezze esce ancor più rinforzata la convinzione d’essere ognuno responsabile non solo della propria vita e dell’amore ricevuto, non solo dell’altro e di fronte all’altro, ma di fronte a Dio: il massimo della responsabilità!

Queste due premesse, a livello psicologico e spirituale, sono indispensabili e vanno chiarite e verificate in un cammino di catechesi e di accompagnamento del singolo, esse costituiscono una conditio sine qua non, senza la quale non si dà alcun autentico discorso vocazionale. Va dunque dedicato a questo lavoro a livello psicologico e spirituale tutto il tempo di cui c’è bisogno.

 

Il Chiamante

L’evento vocazionale ci svela aspetti particolari di Dio, come una teologia della vocazione che diviene teofania.

Dio chiama perché ama (o chi-ama)

Dal lavoro precedente dovrebbe derivare la cosiddetta fiducia di base, come una certezza della propria identità positiva. Ma tale positività non è un dato teorico o una certezza conquistata una volta per tutte (anche se l’esperienza dell’amore del Padre nella croce del Figlio resta esperienza fondante in tal senso), ma è qualcosa che cresce e si rinforza nella misura in cui il giovane credente scopre in tempo reale, per così dire, la sua propria dignità nel fatto che Dio, quello stesso Dio che gli ha dato la prova suprema della sua benevolenza in Cristo, lo ha chiamato un tempo alla vita e non cessa ora di chiamarlo ogni giorno, ogni mattino. Dio chiamante perché amante, e amante proprio perché chiamante, o chiamante. Esser chiamato, anche a livello umano, infatti, è segno di considerazione (da parte di chi chiama): se nessuno mi chiama non conto niente per nessuno. Come può un giovane non commuoversi di fronte a un Dio che lo chiama?

Sarà allora pedagogicamente importante educare, in questa fase, ad avere anzitutto questa percezione di Dio come di Colui-che-chiama, e poi a saper riconoscere le varie sue chiamate, anche attraverso mediazioni umane, perché il giovane impari ad accorgersi di quante chiamate può esser piena una giornata. Qui nasce di solito un rapporto del tutto nuovo con Dio, ma anche con la propria storia, con le situazioni esterne, con gli altri…

 

Il Dio-che-chiama crea l’uomo responsabile (=capace di risposta)

Ma qui nasce anche una nuova percezione della dignità: l’uomo non è solo chiamato da Dio e capace di percepire la divina chiamata, ma da Dio stesso è reso capace di risposta, è responsabile, essere responsoriale. Ed è ancora segno d’amore, di quell’amore che rende liberi e non impone nulla. Dio non vuole realizzare il suo piano di salvezza senza il libero assenso della creatura; per questo l’ha resa libera e capace di assumere posizione dinanzi a lui e al suo progetto, anche per rifiutarlo.

Quanto amore c’è dentro questa volontà creatrice di Dio, che modella la creatura davvero a sua immagine e somiglianza, rendendola libera perché vuole lasciarle tutto il gusto e la gioia di fare una scelta d’amore dinanzi al suo Dio! Il giovane ha bisogno di sentirsi dire che Dio è la fonte della sua libertà, e apprezza il suo sì umano solo se espressione di questa libertà, ovvero di amore per lui[23].

 

Il Dio-che-chiama invia agli altri

Il discorso continua a essere sul versante di Dio, ma con un interlocutore umano che sta imparando a esser attento e motivato all’ascolto, anche perché è tutto suo interesse ascoltare questo Dio a sua volta interessato all’uomo, e che gli sta proponendo qualcosa di molto importante per la sua verità e pure per la sua felicità.

Come riconoscere questo Dio e la sua voce? Ecco il primo segnale: Dio chiama a prendersi cura degli altri, non chiama semplicemente ad autorealizzarsi, tanto meno a procurarsi la propria individuale salvezza e perfezione, al contrario, Dio chiama il singolo per la comunità, per la chiesa, per il mondo[24]. Il Dio-che-chiama spalanca un orizzonte totalmente nuovo alla vita del giovane: esistere per gli altri. Uscendo dalla gretta e soffocante ristrettezza degl’interessi personali.

 

Il Dio-che-chiama affida una missione

Ogni vocazione implica una missione, altrimenti non è vera vocazione e quella ascoltata non era la voce dell’Altissimo.

Missione significa tre cose in sostanza:

– è un altro che t’invia e dunque non stai portando avanti un tuo progetto, ma un piano che viene da Dio e che dunque nasce dall’amore: è piano di salvezza!

– Se viene da Dio fa paura, crea turbamento, non corrisponde forse subito alle simpatie del chiamato, potrebbe anche andare al di là delle sue capacità. È l’impossibile umano reso possibile da Dio (come c’insegna Maria). È normale, dunque, che un giovane senta un istintivo moto di rifiuto dinanzi alla proposta vocazionale; è meno normale o decisamente anormale che un animatore vocazionale prenda queste paure come controindicazione vocazionale.

– Tale compito-missione viene da Dio ma è affidato all’uomo, per quanto vada oltre le risorse del chiamato. È il suo nome detto da Dio una volta sola, è qualcosa che solo lui potrà portare a termine con la sua personalità. Se non lo compie e lo rifiuta, lui resta incompiuto e la missione non realizzata. Mancherà qualcosa all’armonia del mondo. Ma se lo compie, la sua vita avrà un effetto trasformante sul mondo che la circonda[25].

Un’attenta pedagogia vocazionale (missionaria per natura sua, abbiamo ribadito più volte) parte dunque da questa immagine di Dio, ben precisa, come di colui-che-chiama e rende l’uomo capace di risposta, lo invia agli altri e gli affida una missione.

 

Il chiamante

Di solito il Dio-Chiamante si serve di mediazioni umane, di credenti che offrono la loro voce per far sentire l’appello divino. Questo chiamante umano, se davvero vuole mediare fedelmente la chiamata che viene dall’alto, dovrà, per quanto può, ripetere le caratteristiche del Dio-che-chiama e che abbiamo appena viste. Dovrà, in concreto, esser uno che chiama, che ha il coraggio e la fantasia di chiamare, non certo il tipo che con la scusa della libertà da rispettare sta ad aspettare chi non potrà (o non vorrà) mai cogliere la chiamata di Dio.

Dovrà certamente non andare all’estremo opposto, ma di fatto potrà sollecitare la libertà e la responsabilità del chiamato, senza mai sovrapporsi alla sua autonomia di scelta.

Altra mediazione fondamentale: la capacità di presentare la vocazione come qualcosa che apre la vita agli altri, che è in funzione della salvezza altrui e non delle proprie economie. E, particolarmente, la forza di sostenere il cammino vocazionale, specie quando il giovane è tentato dalla tentazione del timore o pensa di non esser capace, o teme che Dio sia nemico della sua felicità.

E infine il chiamante non è semplicemente il grande oratore che nella giornata del seminario in parrocchia fa la grande predica sulla situazione drammatica della diocesi e del seminario, ma il semplice fratello maggiore che si pone accanto ad un giovane, dedicandogli tempo e priorità nella sua agenda, per accompagnarlo a riconoscere la voce del Dio-che-chiama e ad aver il coraggio di rispondergli. L’animazione vocazionale è lavoro sul singolo, molto più che azione sulla massa. Ce ne sono ancora di questi animatori vocazionali disposti a “perder tempo” col singolo o a privilegiare un lavoro così umile ed oscuro?

 

La chiamata

Accenniamo infine brevemente alla chiamata, all’esperienze vocazionali e alle loro componenti, dai luoghi ai contenuti.

Struttura vocazionale della pastorale generale

Anzitutto ribadiamo un concetto già molte altre volte espresso: è tutta la vita cristiana (la pastorale, la liturgia, la catechesi, la diakonia,…) che deve avere un’anima profondamente vocazionale. Se un’omelia, o un’eucaristia, o una confessione, o una lectio, o una devozione qualsiasi non finiscono per metter chi vi prende parte di fronte ad una chiamata, quell’omelia o catechesi o quant’altro non merita il nome di cristiano: sarà qualcos’altro, ma non è pastorale cristiana. Perché non rispetta il dramma della vita cristiana, come abbiamo prima detto. O la dimensione vocazionale è continuamente ribadita e sempre presente, oppure non hanno alcun senso tutte le iniziative vocazionali che si possono prendere e inventare.

 

Esperienze vocazionali “missionarie”

Detto ciò occorre, io credo, rivalutare il concetto di esperienza e di esperienza vocazionale. Oggi viviamo in una cultura molto esperienziale: si è portati a credere solo ciò che si può toccare con mano e verificare personalmente. Anche nei nostri ambienti formativi, dalle parrocchie ai seminari, il concetto di esperienza o l’idea di “fare esperienza” va molto forte, anche sul piano spirituale. E così si accumulano esperienze che però, molte volte, non provocano alcun cambiamento di vita, come esperienze inutili o abortite, se non addirittura “turismo religioso”.

Siccome le esperienze non sono automaticamente formative, esse vanno prima preparate, poi accompagnate durante lo svolgimento, e alla fine attentamente analizzate per trarne sapienza di vita nella catechesi e nel cammino personale d’accompagnamento.

Seconda attenzione: le esperienze vanno dosate secondo il livello di preparazione. Va bene il principio del “pugno nello stomaco”, però non si può pretendere che un “discotecaro abituale” possa regger due giorni (sabato e domenica) nel silenzio totale d’un monastero di clausura, come ha preteso un certo curato mio amico. Dosarle bene, in prospettiva vocazionale “missionaria”, credo voglia dire, innanzitutto, metterle dentro un contesto intelligente, organico, coerente, in cui tutto concorre a far sentire la voce del Dio-che-chiama; e poi sollecitare la risposta (la responsabilità), o fare in modo il più possibile di seguire un percorso che metta insieme e comprenda le due polarità vocazionali classiche, cioè la fase della relazione col Dio-che-chiama all’intimità con lui (“perché stessero con lui”, Mc 3,14), dunque in un ambiente che favorisca silenzio e solitudine, e la possibilità d’una esperienza diretta apostolica (“e anche per mandarli a predicare…”, Mc 3,15). In concreto è da favorire il contatto col mondo della vita contemplativa, perché in ogni giovane c’è un desiderio segreto d’incontrar Dio nel segreto, ma pure il momento della provocazione vera e propria, a contatto con testimoni forti e credibili, in contesti ove sia ben evidente la ricchezza e il fascino d’una vita donata in nome di Dio per il bene degli altri. Molte volte proprio questi contesti diventano i luoghi della chiamata.

 

I luoghi della chiamata

I luoghi della chiamata possono esser i più diversi, possono esser tanti, ma occorre saper valutare sapientemente il coefficiente di attrazione vocazionale che possiedono particolarmente certi ambienti più o meno ecclesiali.

Vi possono essere luoghi vocazionali “straordinari” e “ordinari”.

 

* Straordinari

Straordinarie sarebbero quelle esperienze ove è più visibile e più forte il senso della vocazione cristiana per un giovane, come missione al servizio della vita. Come dice p.Vela, infatti, “la mappa vitale dei giovani si gioca entro il parametro vita/morte. La pastorale è la ricerca del senso della vita contro le possibilità di morte”[26]. Ebbene, io credo che in ogni diocesi italiana vi siano luoghi, esperienze di vita, strutture d’accoglienza che sono come segni in tal senso, ove dei credenti si sono impegnati a fare trionfare la vita sulla morte, dai luoghi di recupero per giovani da esperienze autodistruttive a iniziative di vario genere, ma sempre implicanti una scelta radicale di dono di sé per il bene dell’altro. È vero che il giovane d’oggi è “scafato” o “rotto” alle più diverse esperienze, per cui sembra difficile scuoterlo e commuoverlo; ma proprio per questo occorre cercare esperienze il più possibile provocanti, che “facciano male” dentro, che sappiano creare quella salutare inquietudine, a volte quel senso di schifo vero e proprio per una vita comoda per sé e ignara degli altri, e che risvegli alla fine una certa sensibilità e responsabilità vocazionale. Magari tutto questo inserito nel cammino di preparazione alla Cresima, sacramento vocazionale.

E andando oltre i confini delle nostre chiese locali: perché non offrire più abitualmente l’esperienza tipicamente missionaria nei luoghi tradizionali di missione, specie ad alcuni soggetti, sempre all’interno delle possibilità straordinarie? Quanti casi ormai conosciamo di giovani che sono stati letteralmente sconvolti da questo tipo di esperienza e di contatto con realtà drammatiche ove davvero la presenza d’un credente totalmente dedicato alla causa dei più poveri ha significato e continua a significare il trionfo della vita sulla morte? Invece di fare la vacanza esotica e originale, e poi vuota e persino deprimente, del figlio-di-papà tutto spesato e garantito, perché non provare e provocare a metter in programma abitualmente queste possibilità, ove il senso della missione non ha più bisogno di spiegazioni e contorcimenti intellettuali per risultare convincente? E dove il figlio-di-papà si prende un bel ceffone in faccia e si vergogna di sé e del suo banale e pagano stile di vita? Convinciamo i genitori che questi sarebbero soldi ottimamente spesi, se questo è il problema.

Altra esperienza straordinaria molto opportuna, perché orientata proprio nel senso della missione, potrebbe essere il coinvolgimento diretto in un’esperienza pastorale, specie all’interno del mondo giovanile, come si pratica in vari gruppi, tipo “le sentinelle del mattino”, in cui si fa un annuncio diretto ma essenziale; in cui soprattutto si fa uno specifico cammino di preparazione alla missione e si corre, sì, qualche rischio (e ti fai una bella faccia tosta), ma si sperimenta anche come le vie inedite e sorprendenti della Grazia possano incrociare sorprendentemente le vie solitarie e notturne e a volte disperate di tanti giovani oggi… e si gusta la libertà e la bellezza dell’esser missionari!

Altra esperienza straordinaria è quella della prova temporanea di vita comune, assieme ad altri giovani e magari con la guida discreta d’un presbitero: prova in cui si sperimenta assieme uno stile di vita diverso rispetto al solito, centrato sulla preghiera, sulla celebrazione e sull’adorazione eucaristica, sull’ascolto della Parola, sulla condivisione dell’esperienza spirituale, regolata da un minimo di norme e condotta con uno stile “giovanilmente” povero, casto e obbediente, e che di solito si può conciliare con gl’impegni vari di studio o di lavoro[27]. In molti casi queste esperienze, oggi sempre più diffuse, sono state comunque decisive per una scelta di vita cristiana.

 

* Ordinari

Esperienze ordinarie sarebbero invece non più situazioni più o meno estreme vissute una tantum, ma esperienze d’un certo tipo di servizio individuale o in gruppo, condotte per un certo tempo, che possono anche non intralciare il progetto o l’impegno abituale di vita del giovane e dunque coesistere con esso, come un “far la prova” a spender la vita per gli altri, magari in servizi umili e non così appariscenti, che chiedono un sacrificio coraggioso e la scelta costante e molto concreta a metter l’altro, il povero, al centro della vita e dei propri interessi. Ciò regala in cambio una felicità che il 99% dei nostri ragazzotti, stufi del benessere, traditi dagli adulti e incapaci di divertirsi, manco si sogna. È come un sentirsi in missione nella vita ordinaria, ma è esperienza che può poi consentire di verificare quella missione come la propria vocazione o come il proprio modo di riempire di senso la propria storia.

Un bravo animatore vocazionale dovrebbe far sentire sempre più queste scelte di vita, in modo più o meno radicale, come cosa normale, ovvero dovrebbe far sentire sempre più ai suoi giovani che anormale è semmai chi non capisce che il modo migliore e più intelligente di gestire il proprio tempo libero è darlo liberamente agli altri[28], chi ancora pensa alle ferie come a un tempo di divertimento personalissimo e basta (se non di “stravaccamento” generale), anormale è chi calcola tutto alla luce di interessi privatissimi e meschini, chi vede solo se stesso, insomma. Il matto è chi pensa solo a sé, non chi si dimentica per gli altri! Dobbiamo arrivare al punto che questo diventi cultura di base, tanto che chi non entra in questa mentalità e non gusta la libertà del dono di sé, del volontariato, deve sentirsi come un lebbroso: che se ne stia lontano, perché è infetto! Un animatore vocazionale deve esser molto chiaro e severo in questo, e non aver paura di provocare e “far male”, proprio perché è e dev’esser anzitutto lui stesso convinto che l’uomo conquista la vera felicità solo quando apre la propria vita all’altro; anzi, all’Altro che lo invia agli altri. Per amore.

 

 

Note

[1] Cf A.CENCINI, La verità della vita. Formazione continua della mente credente, Cinisello B. 2007, pp. 181-183.

[2] Ritrovo tale logica nella definizione che p. Christian De Chergé, nel suo testamento spirituale in cui prevede la propria morte violenta a opera degli estremisti islamici, dà dello Spirito Santo, come di Colui “la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze”.

[3] E. CITTERIO, commento alla liturgia della Santa Famiglia, anno A.

[4] D. BONHOEFFER, Barcelona, Berlin America 1928-1933 (a cura di H.C. VON HASE – R. STAATS), in Dietrich Bonhoeffer Werke, Muenchen-Gutersloh 1986-1998,. Cf anche D. BONHOEFFER, Voglio vivere questi giorni con voi, Brescia 2007, p. 151.

[5] Cf intervista a M. Cacciari apparsa su “Avvenire” il 15/1/2005. Molti ricorderanno la reazione, qualche tempo fa, dello stesso Cacciari, in televisione, all’infelice e offensiva affermazione di quel singolare personaggio che è il musulmano Adel Smith circa il Crocifisso (“quel misero cadaverino…”). La cosa sorprendente fu l’immediata e veemente reazione a queste parole del noto filosofo, ma fu pure inquietante il confronto tra la passione delle parole del non credente, come Cacciari, che si sentì come colpito in qualcosa di suo e pure di assolutamente centrale e ricco di senso nella storia dell’uomo, e la compassata reazione del monsignore presente in studio (che si suppone credente), che fece la classica difesa d’ufficio, senz’alcuna passione.

[6] Cf Ef 1,3-14, e Col 1,15-20.7) Ho affrontato questo tema in A. CENCINI, Il cuore del mondo. Accompagnare un giovane al centro della vita, Milano 2005.

[8] F. SCALIA, in Presbyteri, 1(2002), pp. 6-7.

[9] Strano, in tal senso, che – tanto per fare qualche esempio – in quei “laboratori” della Chiesa di domani, come è ormai da tempo il Progetto culturale della CEI, o come è stato il Convegno di Verona, la realtà della vocazione non sia stata considerata da questo punto di vista, ma secondo quello vecchio di argomento critico e preoccupante; nel Progetto culturale, ad es, che pure è portato avanti con grande attenzione, non si parla di “cultura della vocazione”, così come non s’è pensato che una delle famose aree attorno alle quali s’è sviluppata l’interessantissima riflessione del Convegno di Verona, potesse essere proprio la vocazione intesa in senso costruttivo e normale. Insomma, si parla di vocazione solo per parlare della crisi (vocazionale): non è giusto e non ci giova!

[10] L. ACCATTOLI, La speranza di non morire, Milano 1992, p. 134. Così pure il filosofo Llano, già rettore dell’università cattolica di Navarra, intravede profilarsi, dentro questa nostra cultura post-materialista, prodromi d’un personalismo inopinatamente convergente con l’ispirazione cristiana: cf A. LLANO, La nuova sensibilità. Il positivo della società post-moderna, Milano 1995. Cf sempre, in questa linea, S. FAUSTI, Elogio del nostro tempo, Casale M. 1996, e M. GUZZI, L’Ordine del Giorno. La coscienza spirituale come rivoluzione del nuovo secolo, Milano 1999; Cristo e la nuova era, Milano 2000; La nuova umanità. Un progetto politico e spirituale, Milano 2005.

[11] Circa il concetto di responsabilità, da un punto di vista anche psicologico, cf CENCINI, La verità della vita, pp. 137-162.

[12] Cf N.BERDJAEV, Filosofia dello spirito libero. Problematica e apologia del Cristianesimo, Cinisello B. 1997. Cf anche IDEM, Il senso della storia, Milano 1971.

[13] N. BERDJAEV, cit. in E. M. RONCHI, L’amore? Gioca gratis e d’anticipo, in “Avvenire”, 24/ V/2002, p. 26.

[14] O sulla sua “grammatica interiore”, come piace dire a Benedetto XVI.

[15] Cf, ad es, A. CENCINI, Chiamò a sé quelli che volle. Dal credente al chiamato, dal chiamato al credente, Milano 2002.

[16] Sono le varie scelte d’ogni giorno, per le quali occorre un allenamento illuminato: ad es., scegliere come impiegare il tempo libero, come e dove e con chi passare le vacanze, in quale giro di relazioni entrare, quali amicizie coltivare, come vivere le proprie forze interiori impulsive (affettività, sessualità…), che spazio dare all’incontro con Dio, che uso fare dei soldi, che scuola scegliere (quale facoltà), che professione scegliere, in base a quali criteri, che atteggiamento tenere con gli altri, con chi mi è ostile o indifferente, con chi è diverso da me o “mi sfotte”…

[17] D. BONHOEFFER, Sequela, Brescia 1975, pp. 21-23

[18] P. SEQUERI, L’apprendista al timone: il ministero ordinato per la nuova evangelizzazione, in “La rivista del clero italiano”, 10(2002), p. 643.

[19] C. CARDIA, Chi difenderà gli innocenti se si confonde il bene col male?, in “Avvenire”, 15/ XII/2007, p. 2.

[20] O. CLÉMENT, cit. in “Avvenire”, 31/XII/1999. Gli fa eco Bernanos: “Non capiremo niente della civiltà moderna, se prima non ammettiamo che si tratta di una cospirazione universale contro ogni forma di vita interiore”.

[21] Per un’analisi generale del concetto di responsabilità cf A. CENCINI, L’albero della vita, Cinisello B. 2005, pp. 135-162.

[22] Talmud, Trattato Abòth 6°.

[23] Da un punto di vista psicologico e assieme credente, responsabilità significa questi tre passaggi: a) disponibilità obbedienziale (=ascolto ob-audiens) nei confronti della vita e degli altri (dell’Altro); b) capacità di risposta assolutamente personale e dunque molto coinvolgente e spesso costosa; c) testimonianza individuale di quel legame universale che vincola tra loro tutti i viventi in un “farsi carico” reciproco (cf CENCINI, La verità della vita, p. 138).

24] Significativa la reazione di Gesù sulla croce dinanzi alle provocazioni della folla (“Se sei il figlio di Dio, salva te stesso e scendi dalla croce”): Gesù non è preoccupato della sua salvezza, ma di quella altrui, per questo non scende dalla croce, neanche di fronte alla sfida dei soldati e d’uno dei ladroni, poiché la sua unica preoccupazione è proprio la loro salvezza o la salvezza dell’umanità, anche di quella a lui ostile.

[25] P. GIANCARLO BOSSI, il missionario rapito dai guerriglieri filippini, racconta che una volta andò da don Zeno di Nomadelfia per avere un consiglio sulla strada da intraprendere e si sentì dire: “Noi dobbiamo fare la rivoluzione”. E lo prese in parola… (cf L. BELLASPIGA, Io torno alla mia rivoluzione, intervista a p. G. BOSSI apparsa su “Avvenire”, 23/XII/2007, p. 6).

[26] J. A. VELA, Il paradigma della pastorale con i giovani, in “Concilium” (Le età della vita e l’esperienza cristiana), 5(2007), p. 121.

[27] Un esempio di questa vita comune tra giovani credenti è l’esperienza iniziata da don Franco Mastrolonardo al Punto Giovane di Riccione.

[28] Si calcola che attualmente, nel nostro contesto socio-culturale, il tempo libero occupi il 30% circa del tempo totale dei nostri giovani: un potenziale enorme per una pastorale intelligente (cf J. A. VELA, Il paradigma, p. 119).