N.03
Maggio/Giugno 2008

Esperienze forti e scelte vocazionali: il passato non conta? Per un futuro che duri

Il tema proposto nel titolo va a toccare uno degli aspetti interessanti e problematici della nostra proposta di pastorale giovanile e vocazionale: che senso assumono le cosiddette “esperienze forti” nel processo di un cammino di ricerca vocazionale? C’è un momento in cui vale la pena proporle o in ogni caso vanno offerte sempre, perché possono davvero scuotere la vita di tanti nostri giovani? E poi: che rapporto ci può essere fra questo tipo di proposta e il resto della vita della persona?

 

Esperienze forti

La prima considerazione da farsi è attorno al termine “esperienza forte”: che cosa definisce un’esperienza come “forte”? Quali sono gli ingredienti di un’esperienza forte? Come s’inseriscono nel vissuto di una persona e nelle altre esperienze “non forti”?

Credo che senza voler essere esaustivi potremmo dire che un’esperienza è forte quando propone alla persona qualcosa che è considerato al fuori della normalità della vita. Nel nostro contesto, c’è la speranza che con l’esperienza forte la persona possa rientrare in se stessa e cogliere con maggiore verità la sua identità profonda alla luce della fede, alla luce di un incontro con il Signore. Di solito, poi, in un contesto giovanile c’è anche la possibilità di una condivisione dell’esperienza con dei coetanei, in modo che il confronto possa diventare un’ulteriore elemento di riflessione e di crescita. Ecco allora gli ingredienti: l’esperienza da proporre in un certo arco di tempo, diversa dalla routine, l’occasione di pensare e riflettere anche nel confronto con altre persone che vivono la stessa esperienza, la possibilità di un incontro “diverso” con il Signore. Forte è l’aggettivo che implica un tipo di contatto con la verità della vita, sia essa di dolore o gioia, che dovrebbe entrare in risonanza con quella stessa verità che la persona non sa più riconoscere nel profondo della propria interiorità. La proposta esterna dovrebbe essere in grado di riattivare la persona al cammino, al rimettersi in movimento, sia dal punto di vista umano che da quello spirituale.

 

Quando e come proporre un’esperienza forte?

Per rispondere a questa domanda potrebbe essere utile recuperare un’idea che si usa in pedagogia quando si parla di “zona di sviluppo prossimale”. Di che cosa si tratta? Con questo termine s’intende la distanza fra il livello attuale di capacità che il bambino è in grado di fare da solo, e quello che invece è in grado di raggiungere sotto la guida di un adulto. L’idea di fondo è che lo sviluppo del bambino non è solo il frutto di forze interne, ma piuttosto è il risultato di un’interazione continua con la realtà esterna, soprattutto con l’educatore, che diventa il primo mediatore e filtro della complessità esterna. Una proposta che si ponesse al di fuori di questa zona non sarebbe riconosciuta come significativa dalla persona stessa. L’esito potrebbe essere quello di una banalizzazione dell’esperienza considerata troppo facile, oppure, in senso contrario, in una sua incomprensione per il fatto che risulta troppo alta, al di fuori della comprensione del bambino. Solo se la proposta rientra nello spazio dello sviluppo prossimale, quell’esperienza sarà davvero significativa e stimolerà la persona con un possibile esito positivo.

Mi sembra che questo principio pedagogico possa essere usato, con le dovute attenzioni, anche per altre esperienze che la persona vive. In questo senso proporre un’esperienza forte ad un giovane vuol dire proporre un’esperienza riconosciuta dalla persona come significativa per la sua vita in quel particolare momento; dovrebbe esserci nella persona una disponibilità, un’apertura ad interrogarsi, alla curiosità verso la vita, alla ricerca di un senso che l’esperienza stessa può aiutare a veicolare e che la persona sembra non essere in grado di trovare da sola. Se non c’è questa disponibilità, forse il primo passo da fare è proprio quello di stimolare la persona, creando in lei questo spazio esistenziale.

Un esempio che ci può aiutare a cogliere quest’idea è quello di Gesù che, incontrando i primi discepoli, li invita a diventare “pescatori di uomini”: mi sembra che Gesù abbia veicolato una proposta forte e nuova, come quella del discepolato, usando un concetto che i suoi interlocutori conoscevano bene e quindi in grado di capire e di accettare. Nel corso del Vangelo, poi, Gesù ha precisato meglio la sua richiesta, ma sempre con quella gradualità che permetteva ai discepoli di capire, anche se non fino in fondo.

 

I rischi delle esperienze forti

La nostra pastorale giovanile è ricca di esperienze forti. Per questo credo che come educatori dobbiamo stare attenti ad alcuni rischi sempre possibili ed insidiosi.

Un primo rischio mi sembra sia quello di una proposta forte, vissuta come una possibile risposta ad una fatica propositiva e di incontro da parte dell’adulto verso il mondo giovanile. In qualche modo si sposta sull’esperienza la responsabilità che invece dovrebbe essere del rapporto educativo con la persona stessa. Si prende la voglia di novità, di emozioni forti, di avventura del giovane per proporgli qualcosa che se non è rielaborato in modo personale in un rapporto educativo può diventare inutile. E nel proporre esperienze forti i luoghi di missione o di povertà sono spesso le scelte preferite, perché considerati più capaci di mettere in discussione il giovane.

Un secondo rischio, in questo contesto, è legato a quello che si potrebbe chiamare “consumismo spirituale”: una sorta di traduzione cristiana del consumismo tipico della nostra società. Si tratta di giovani che si muovono da un’esperienza ad un’altra, da una proposta ad un’altra, da un cammino ad un altro, con una certa fatica a farsi toccare in profondità da quello che vivono. Ci possono anche essere esperienze significative, dai toni emotivamente forti, eppure sembrano incapaci di cambiare davvero la vita, di svincolarla da quei cortocircuiti nei quali è finita.

È chiaro che le cause di queste situazioni possono essere molteplici e non solo dalla parte di chi fa la proposta. A noi, però, preme mettere a fuoco il nostro compito e la nostra responsabilità educativa, per aiutare il giovane a prendere in mano la vita.

 

L’uomo come mistero

Prima di addentrarci nello specifico del tema dobbiamo fare un’altra precisazione. Nell’avvicinare la persona dobbiamo avere sempre la consapevolezza del “mistero” che ci sta di fronte. Il termine non è una novità nel contesto psicologico, anche se di fatto è usato con accezioni diverse. «C’è chi lo usa quando parla dell’inconscio, a significare quella parte dell’Io che sembra destinata a rimanere sconosciuta e impenetrabile. C’è chi se ne serve, invece, per indicare quella zona non ben definita della nostra psiche ove la dimensione spirituale si apre al trascendente. […] C’è chi ne parla anche troppo, quasi applicando tale termine a… tutto: dal mistero dell’io a quello del tu, dal mistero dell’amore a quello della sessualità…, lasciando l’impressione che la parola rischi addirittura l’inflazione; o sia diventata un contenitore qualunque più che un contenuto preciso; o un termine utile per lasciare qualcosa di indefinito, ma circondandolo d’una aureola quasi magico-mistica; o per parlare di qualcosa che non si conosce gran che bene ma convinti di suscitare l’impressione contraria»[1].

Credo invece che l’uso di questa parola debba essere preciso, indicando con essa che la persona stessa è mistero nella sua realtà più intima; è intrinsecamente mistero, per cui in ogni sua attività esprime in modo più o meno chiaro questa sua identità. La persona non può fare nulla senza esprimersi, fra le altre cose, come mistero, per cui l’osservatore, l’educatore è chiamato a cogliere questo aspetto e ad aiutare la persona stessa a scoprirlo in quello che fa, anche se lei potrebbe non esserne pienamente consapevole. Molte volte questo percorso si traduce con l’idea di “fare verità” su se stessi, di cogliere con pienezza la propria identità, di “ascoltarsi nel profondo” come premessa necessaria per ogni possibile scelta di vita.

È nel corso della vita, nel corso dello sviluppo personale, che il mistero che è la persona stessa si manifesta. «Lo sviluppo umano, avvenimento assolutamente unico per ciascun individuo, è il luogo dove il mistero ha preso corpo come serie di mediazioni, di “come”, di problemi; è il luogo dove i singoli problemi possono rinchiudersi sul loro carattere di problema mettendosi allora effettivamente in opposizione al mistero, oppure possono divenire, dinamicamente, un’incarnazione, una presenza trasparente del mistero, un’occasione di crescita nella manifestazione della realtà mistero»[2]. Per il nostro lavoro di educatori, questa affermazione non è priva di conseguenze, nel senso che se la biografia della persona è il luogo dove il mistero si è espresso o in senso opposto, si è nascosto, il ripercorrere quella stessa storia almeno in alcuni passaggi significativi ci può permettere di svelare quello che prima era velato. Concretamente, aiutare una persona a fare discernimento vocazionale secondo la prospettiva di mistero vuol dire non solo guardare ai suoi ideali, ai suoi desideri, ma anche recuperare le radici profonde di quegli ideali, così da poterli radicare in modo stabile nel passato personale, perché possano affrontare le sfide del futuro.

 

Quando ci sembra che tutto sia cambiato

Quante volte ci è capitato di incontrare un giovane che dopo un’esperienza forte condivide il suo entusiasmo e la sua percezione che qualcosa nella sua vita sia successo, quasi un inizio, una novità, un cambiamento! Tutto è cambiato, nulla è più come prima! Don Oreste Benzi, ai giovani che facevano esperienze di condivisione con i poveri, spesso diceva: «Adesso che hai visto che i ciechi possono vedere, che gli zoppi camminano, che chi è su una sedia a rotelle può fare due rampe di scale… per te non è più come prima. Non puoi più fare finta che non sia successo nulla. Ecco i cieli nuovi e terra nuova». Sì, l’esperienza è quella di una novità; ma questa come si radica, dal punto di vista umano, con il resto della vita di quel giovane? Non è che questa novità resta un fuoco di paglia, che scalda subito, ma che fa anche presto a finire? Molte belle intuizioni che nascono in un contesto di esperienze forti finiscono poi con lo svuotarsi a contatto con la routine quotidiana, che sembra esaurire la carica ideale dell’esperienza vissuta e dove il passato che si illudeva di aver cancellato ritorna con le sue domande e le sue inquietudini. Fermiamo, allora, la nostra attenzione al rapporto fra cambiamento di vita e passato. Basta “voltar pagina” sulla scia del nuovo evento illuminante o bisogna, in qualche modo, collegare la novità con quello che c’era prima?

In prima istanza, possiamo riconoscere che fra presente e passato c’è una reciproca influenza. Il passato segna il presente mentre, in senso contrario, l’esperienza del presente deve essere in grado di modificare il passato, mitigandone la sua influenza, selezionando quali aspetti potranno avere un peso maggiore o semplicemente trasformandolo. Se così non fosse, non ci potrebbe essere nessuna vera opera educativa che nel presente, l’unico momento che viviamo concretamente, diventa occasione di cambiamento e di crescita personale.

 

Il momento presente come “kairòs”

Alcuni autori danno attenzione, a partire da una prospettiva fenomenologica, al presente, all’ora della relazione educativa, così come è vissuta dai protagonisti[3]. È loro convinzione che «tanto nella vita quotidiana quanto nella situazione clinica, ciascun momento presente implica un piccolo kairos, nel senso che sono in gioco decisioni di vita minori e un breve tratto del proprio destino»[4]. In altri termini, si tratta di riconoscere l’importanza, nel presente, di alcuni momenti significativi e particolarmente profondi, che possono diventare apertura a qualcosa di più grande, oltre il presente stesso. Sono frammenti di storia vissuta nell’incontro profondo con l’altro, che possono essere verbalizzati o meno e che portano in sé non solo il vissuto della persona, ma anche una prospettiva di senso che va oltre il momento stesso. Sono elementi di novità, che raggiungono la persona in modo improvviso, nell’ordinarietà della vita, dell’incontro e che necessitano di una decodifica, possibile grazie alla presenza di un altro, il quale permette alla persona di trovare il significato che il fatto porta già in sé.

Qualcuno, per illuminare questo discorso, parla di matrice intersoggettiva dell’esperienza umana, vale a dire di una condizione tipica e in qualche modo innata della persona. Si dà così, in una logica di incontro intersoggettivo, importanza al frammento di storia che la persona condivide con l’educatore, realizzando nel concreto qualcosa di nuovo, che può aprire la strada ad un cambiamento più radicale nella vita della persona stessa.

«Il momento presente, in quanto storia vissuta, può anche essere condiviso. È in questo modo che prende forma l’intersoggettività: nel momento in cui, tra due persone, ciascuno può partecipare alla storia vissuta dell’altro, o creare insieme all’altro una storia vissuta, si stabilisce un diverso tipo di contatto umano. Ha luogo qualcosa di più di un semplice scambio di informazioni. È questo il “segreto” del qui e ora»[5].

È lo sviluppo della persona che, mai terminato, si esplicita in quel “momento” e in quel “luogo” e diventa espressione dell’unicità delle persone coinvolte, anche se con ruoli diversi. Si può allora capire come l’esperienza che abbiamo classificata come forte possa inserirsi in questo orizzonte di senso che la persona va cercando.

 

La fatica a vivere il tempo

I riferimenti temporali visti ci portano ad una considerazione per alcuni aspetti scontata, ma allo stesso tempo determinante per cogliere il processo evolutivo: l’esistenza umana si snoda nel tempo e nello scorrere del tempo prende progressivamente forma. Lo scorrere dei giorni diventa storia personale che si incontra con la storia di altre persone e questo intreccio diventa biografia, racconto intriso di fatti-ricordi, di emozioni, di speranze[6]. Il tempo diventa così una delle componenti fondamentali per la progressiva configurazione della nostra identità, al punto che si possono rileggere alcune fatiche psicologiche proprio a partire da questa chiave di lettura[7]. Per esempio, la persona depressa, rivista in quest’ottica, appare come prigioniera del proprio passato, dove il presente e il futuro sono destinati ad essere mere ripetizioni di un programma già visto. È una situazione in cui il futuro non esiste, se non come edizione aggiornata di qualcosa di già sperimentato: il passato, di fatto, non è passato e blocca il presente e il futuro della persona. In senso contrario, una persona in preda ad un delirio maniacale appare incapace di vivere il presente, continuamente proiettata nel futuro, quasi senza radici nel proprio passato.

Altre volte, c’è solo lo spazio per un eterno presente, come nel caso di chi si descrive come persona impulsiva. In una prospettiva temporale, ciò può voler dire che la persona è come schiava del proprio presente momentaneo, incapace di decidere in base ad altri criteri che non siano quelli dell’urgenza dell’impulso.

Ci sono poi situazioni che ci presentano persone ancorate in modo nostalgico al loro passato e il loro desiderio è quello di far ritorno o di far tornare un passato idealizzato[8]. La persona nostalgica rimpiange alcuni aspetti del suo passato: può riferirsi a qualche momento dell’infanzia oppure a qualche altra tappa della vita. La radice comune sembra essere il dolore per quel passato non più recuperabile e il desiderio cocciuto di renderlo, invece, ancora presente ed attuale. Il meccanismo della nostalgia si associa allora all’incapacità di vivere e di superare la sensazione di aver perso qualcosa per sempre. Tenacemente attaccato ad un passato che non c’è più, il nostalgico non sa viverlo nel presente con modalità nuova e per esso rinuncia al presente. Paradossalmente, anche per lui quel passato tanto rimpianto non è accettato nelle sue conseguenze più profonde: prova ne è il fatto che quei ricordi operano nel presente come forza frenante e di disturbo rispetto ai nuovi contesti di vita. Possiamo pensare che la situazione ripresenta, a livello evolutivo, una fase di separazione-individuazione che la persona dovrebbe essere in grado di vivere e che invece non si è ancora completata.

Passato ripetuto, negato, subìto, conservato… modalità diverse di vivere il rapporto con il tempo, così da favorire o meno il passaggio verso il principio di realtà, vera svolta nella maturazione dell’individuo.

 

Attenzione al passato

Interrogarsi sul passato della persona che incontriamo per un cammino educativo o vocazionale, obbedisce, dal punto di vista psicologico, ad un presupposto teorico importante: per costruire qualcosa di significativo nel futuro della persona bisogna essere attenti al suo passato, dal quale non si può prescindere, nel bene o nel male. Il riferimento al mondo ideale e ai valori personali o la conoscenza delle sue attuali caratteristiche non sembrano, così, essere sufficienti per poter fare un progetto che sfidi il tempo nel segno della perseveranza.

Se su questo assunto teorico molti approcci psicologici sembrano ritrovarsi, non è poi sempre chiaro come si debbano gestire le informazioni sul passato della persona. Il rischio è di cadere in una sorta di determinismo deresponsabilizzante che, con un’eccessiva semplificazione, tende a ridurre la complessità dell’essere umano a poche categorie che dovrebbero essere capaci di illuminare il vissuto. Abbiamo già visto invece come presente e passato siano indissolubilmente connessi, per cui la domanda non sarà sul come sbarazzarci del passato o come conservarlo ma: che cosa ne facciamo, oggi, del nostro passato inevitabilmente presente? Che tipo di presenza vogliamo riservargli?

La domanda è interessante, anche perché nell’incontro con diverse persone e storie si può facilmente verificare che il passato è considerato e vissuto in modi molto diversi: per alcuni è peso insopportabile di ricordi da dimenticare, per altri è un bagaglio di eventi indimenticabili da immortalare, per altri ancora si tratta semplicemente di leggerezze da ricordare con sorriso bonario, per altri di un periodo da sconfessare, in nome di quella novità o conversione che dovrebbe aver segnato un nuovo inizio.

 

Il passato non conta!

In questa modalità si dice a se stessi e agli altri che quello che è successo prima non è poi così importante e si può anche farne a meno. Questa interpretazione fiorisce là dove si enfatizza l’importanza del presente per la forza rigeneratrice che la nuova esperienza vi ha innescato. Abbiamo visto che c’è senz’altro questa forza di rinnovamento, ma questo non significa annullare tutto il peso della storia personale precedente all’esperienza stessa.

Molte volte questo atteggiamento di negare il passato trova una sua ulteriore teorizzazione a partire da una falsa interpretazione della prospettiva teologica e spirituale, che pone al centro dell’uomo l’azione potente di Dio, capace di fare nuove le cose vecchie. Certamente non si tratta di annullare quest’orizzonte, ma di inserirlo nel contesto del profondo rispetto che Dio ha per la storia dell’uomo. Più che distinguere lo spirituale dall’umano si tratta di riconoscere che «la vita dello Spirito non si sovrappone mai alla nostra psicologia, ma fa interamente corpo con essa»[9].

L’atteggiamento dell’accompagnatore che accentua questa prospettiva sarà quello di rinforzare la novità seguita all’esperienza. Anzi, proprio nel momento della proposta forte ci poteva essere la speranza che succedesse qualcosa di grande e di bello come espressione della cura premurosa di Dio. C’è così un nuovo inizio e questo è quello che davvero conta! Anche la proposta di esperienze successive potrebbe andare in questa stessa direzione, cercando in qualche modo di seppellire, di far dimenticare la “vita di prima”.

 

Il passato è determinante!

Una seconda possibilità è quella di accentuare la dimensione del passato come determinante per qualsiasi passo verso il futuro, per cui il peso e l’attenzione all’esperienza presente della persona viene in un certo senso minimizzato.

In questo caso, per l’accompagnatore, il primo passo da fare con la persona sarebbe quello di mettersi a ricostruire la biografia del suo passato, con particolare attenzione ai passaggi cruciali.

Come l’archeologo, si va così alla ricerca delle tracce dei passaggi più importanti che hanno segnato la vita della persona e in qualche modo ne hanno determinato le scelte future: la famiglia, le amicizie, le sue diverse esperienze… in modo da ritrovare in questo percorso le tappe del suo cammino.

In questo secondo percorso c’è uno sbilanciamento nella prospettiva del passato, con maggiore attenzione agli elementi inconsci della persona piuttosto che a quelli consci presenti nelle intenzioni e nel raccontarsi. In altri termini, si presuppone un peso determinante dell’inconscio, capace di frenare e/o annebbiare la libertà e la volontà del soggetto nelle sue scelte consce.

 

Il passato per un futuro che duri

Questa modalità parte dall’assunto che se è vero che non si può prescindere dal passato di una persona, dall’altra parte non si può dimenticare il suo libero progettarsi nel futuro.

Si ritengono pertanto utili ma insufficienti i due approcci precedenti: ognuno dei due, infatti, sfrutta solo la metà del potenziale contenuto nell’esperienza. Il primo perché si limita alle attuali forze presenti nel soggetto e alla loro organizzazione in rapporto ad un fine. Il secondo perché si concentra sul rapporto simbolico fra passato e presente e fra inconscio e conscio. Per vivere bene il presente si può tornare indietro ad un passato già consolidato e scavare nel profondo, oppure felicitarsi della novità del presente. Ma anche – e questa è la terza modalità – guardare avanti per scoprire come ci si stava e ci si sta preparando al futuro. Quando ci volgiamo indietro, l’oggi è il risultato di un passato. Quando guardiamo solo all’oggi, il rischio è che sia lasciato a se stesso. Quando guardiamo solo in avanti, vogliamo garantire quello che succederà da oggi in poi. Sono tre modi di trattare il presente: come effetto del passato, come organizzazione dell’oggi, come progettazione del futuro.

Questo terza modalità, invece, vede la novità del presente, che assume la forma di nuove speranze e desideri nella vita della persona, ma non lo isola in se stesso, perché se il presente non rimanda alle puntate precedenti, cioè non rimanda alle fasi precedenti della vita della persona, non è detto che sia anticipo di un futuro migliore.

 

L’azione del presente sul passato

Spesso noi pensiamo alla nostra memoria come ad un insieme di ricordi, già in qualche modo pronti da essere usati, nel momento in cui la persona vuole recuperare qualche fatto della sua vita. Più che quest’immagine, forse corrisponde al vero il considerare la memoria come una collezione di frammenti, di esperienze che convergono a formare un ricordo, secondo una modalità di montaggio successivo, in cui gli eventi e le esperienze del presente contribuiscono a contestualizzare il ricordo, selezionandolo, assemblandolo e organizzandolo in un modo che è legato proprio a quello che la persona sta vivendo in quel momento. «Le esperienze del presente agiscono da innesco nel selezionare ed assemblare i frammenti del passato che, una volta integrati, ci aiutano a riconoscere quanto sta accadendo nel presente e ad affrontarlo nel bene o nel male»[10]. Di conseguenza, i ricordi non saranno mai uguali a se stessi, anche se il fatto accaduto cui si riferiscono è il medesimo. Per esempio, una testimonianza che sono chiamato a fare sarà molto diversa a seconda del contesto in cui sono chiamato a parlare, ma non solo: sarà diversa anche a seconda della mia situazione nel momento in cui parlo. In un certo senso, allora, e non solo dal punto di vista neurologico, il passato è riscritto continuamente proprio a partire dal presente. Appare quindi sensato poter affermare che il presente può cambiare il passato, non in una prospettiva storica, ma in senso esperienziale. S’innesta in questa prospettiva l’importanza, non solo dal punto di vista spirituale ma anche psicologico, dell’esperienza che proponiamo ai giovani come capace di dare luce nuova a tutta la biografia della persona. Naturalmente, tutto questo avviene molto lentamente e può accadere che il “il nuovo passato” non sostituisca quello “vecchio”, così che entrambi permangono presenti per la persona.

 

L’azione del passato sul presente

In senso contrario, vediamo ora il rapporto fra passato e presente, a partire da come il primo influenza il secondo. Nel momento del ricordo si ha come l’incontro fra due linee temporali: da una parte il ricordo che percepiamo come appartenente al nostro passato, alla nostra storia e che tuttavia si manifesta nel presente e dall’altra il mio presente, quello che sono in quel momento. Nell’incontro che avviene in quel momento si ha il confluire di queste due direttrici di movimento, che realizzano così una specie di dialogo, dove passato ricordato e presente vissuto interagiscono per creare qualcosa di nuovo. È il modo attraverso il quale l’esperienza diventa viva, personale, nel senso che mi appartiene in modo unico, proprio a partire da quello che sono io, dalla mia storia. Abbiamo molte occasioni per verificare questo tipo di reazione nel presente “causato” dal passato: per esempio in certe paure, in certe modalità relazionali che riconosco in modo più o meno esplicito, come dipendere da mie precedenti esperienze, in certe memorie affettive.

Le due prospettive evidenziate, quella del presente verso il passato e quella del passato verso il presente, ci permettono di recuperare una visione più equilibrata fra passato e presente come partner paritari, entrambi impegnati a scrivere il futuro della persona stessa. Così l’esperienza non si esaurisce nello spazio in cui avviene: se ha delle radici nel passato, dall’altra parte deve essere proiettata anche nel futuro della persona. «La sfida consiste nell’immaginare il momento presente in una sorta di equilibrio dialogico con il passato ed il futuro. Se il momento presente non è ben ancorato ad entrambi, rischia di disperdersi come un puntino insignificante, mentre se il legame è troppo forte corre il pericolo di essere sottovalutato. Anche il presente deve poter influenzare, probabilmente allo stesso grado, il passato e il futuro, così come essi influenzano il presente»[11].

Da questo incontro-dialogo fra presente, passato e futuro nasce una delle sfide più grosse per un educatore e cioè quella di aiutare la persona a riscrivere il suo passato a partire dalle esperienze che ha vissuto e in vista di un futuro che possa resistere. Vedremo allora come questo passaggio si possa realizzare. Indichiamo a livello operativo una triplice direttrice: accettazione, responsabilità, chiamata[12].

 

Accettazione

In primo luogo si deve lavorare per favorire una reale accettazione della propria storia. Il che non è scontato, perché accettare non significa subire l’ineluttabilità del dato («Non ci posso fare niente»), né la sua insignificanza («non importa, non è nulla!») e neppure rassegnarsi («è andata così, pazienza!»), quanto piuttosto lasciare che esso parli con informazioni utili ad aprire nuovi orizzonti. Non è facile, soprattutto se si tratta di un passato che, in prima battuta, parla solo in negativo, che ha fatto male e continua a ferire anche a distanza di tempo. Accettare vuol dire che ci sono fatti e cose della vita che non possono essere cambiati, anche se la persona vorrebbe che la sua storia si fosse scritta in modo diverso.

Lasciare che il passato esprima parole di saggezza per l’oggi e per il domani è ancora meno facile, perché il passato offre, di solito, parole di nostalgia, di svalutazione, oppure di rabbia e di colpa. Perché escano parole utili occorre passare attraverso l’elaborazione del tutto e attraverso la capacità di un reale distacco da quello che c’è stato, per trovare spazi di autonomia e di libertà.

Il passato della persona è importante, perché il suo cammino di ricerca vocazionale non sia senza radici, come la casa costruita sulla sabbia. Occorre lavorare su di esso, per trovarvi sia le linee di forza che quelle di fragilità, per trovare le situazioni che sono ancora ingarbugliate e che solo nel confronto paziente con l’altro si potranno lentamente dipanare. È un lavoro di semplificazione, perché quelle potenzialità intraviste, anche grazie all’esperienza forte, possano essere esplicitate nella direzione di una quotidianità da reimparare a vivere come straordinaria.

La storia da accettare e non da dimenticare è quella storia che, pur dentro le tante contraddizioni che la persona può riconoscervi, ha spinto la persona stessa a fare quella particolare esperienza. Può essere che essa dica che è stato un caso; può essere invece che la guida, l’educatore riconosca in quel frangente la presenza illuminante dello Spirito, ma nell’uno e nell’altro caso c’è da operare un collegamento fra il prima e il dopo: il passato non è qualcosa da dimenticare, perché proprio in quel passato c’erano degli appelli, magari espressi anche solo come ferita o desiderio, che hanno spinto il giovane a mettersi in movimento. E forse – e la cosa per l’educatore è ancora più interessante – di questi appelli ce ne sono altri che aspettano di trovare voce! Accettare il passato è allora vivere un atteggiamento di continua e progressiva rielaborazione della propria storia, perché sia una storia parlante del mistero della vita di quella specifica persona. Fatti che in un primo momento si volevano dimenticare il prima possibile, perché pesanti e inutili, sono spesso le prime vere tappe di una storia vocazionale.

È un po’ come un tema musicale di un’opera: annunciato fin dalle prime note, quasi di passaggio, solo un po’ alla volta assumerà tutto il suo spazio e la sua centralità. Ma solo allora ci sarà come un riconoscimento retrospettivo del senso di quelle prime note, che quasi ci erano sfuggite.

 

Responsabilità

La seconda direttrice di lavoro assume la prospettiva della responsabilità che il giovane deve assumersi: nell’oggi deve riconoscere la paternità del suo passato. «In quel passato, in quella storia ci sono io!». Lavorare in questa direzione vuol dire approfondire con la persona la propria storia nei suoi aspetti più intrecciati. Temi come la ricerca dell’autonomia e di spazi di libertà, il bisogno di riconoscimento da parte degli altri, la ricerca di qualcuno che sia accogliente sono nuclei tematici che spesso possono riproporsi in contesti diversi e che dovrebbero essere oggetto di verifica. Il riconoscerli nel proprio passato aiuta a far sì che tanto nel presente quanto nel futuro possano essere vissuti in modo nuovo e più responsabile.

Il passato accettato non è più coazione a ripeterlo, ma scuola di libertà, da rigiocarsi nella quotidianità del presente, secondo una formula che potrebbe essere quella di un “pensiero responsabile” dove il futuro, intuito grazie anche all’esperienza forte, diventa scelta concreta di quegli impegni quotidiani che la persona può essere tentata di evitare in nome del nuovo!

 

Appello al futuro

Accettazione e responsabilità indicano la terza direttrice: quella della chiamata o appello al futuro. Abbiamo già evidenziato che il passato conteneva in sé un anelito alla novità, al voler rischiare qualcosa di nuovo, che spinge la persona a muoversi alla ricerca di qualcosa di diverso. Ora c’è un’ulteriore possibilità che diventa appello e chiamata, che però è radicato non solo nell’esperienza forte vissuta, ma nel passato della persona. Quell’appello provocato dai fatti vissuti, la persona lo riconosce come suo, perché in qualche modo vi ha trovato una sintonia in quell’inquietudine, in quella domanda che era già ben presente in profondità nella sua vita. Il presente, come abbiamo visto, è in qualche modo punto d’incontro, ponte fra passato e futuro; è il kairos di quell’esperienza che può emergere in tutta la sua valenza. Resta la domanda: come rispondere a quest’appello, a questa chiamata? Non sarà la guida a dover dare la risposta, ma nel corso dell’accompagnamento il futuro apparirà come una dimensione già in atto nel presente e la grande scelta sarà costruita giorno dopo giorno.

Bisogna fare attenzione al rischio di concentrarsi troppo in fretta sui contenuti specifici che possono essere connessi con l’esperienza vissuta. Non è importante trovare subito le modalità di azione da attuare, quanto piuttosto interrogarsi sull’orizzonte di vita, sullo stile di vita da fare proprio.

Troppi giovani, dopo un’esperienza forte, vengono in qualche modo “bruciati” nella logica del fare – più comodo per loro e, forse, anche per noi – piuttosto che aiutati ad interrogarsi seriamente sullo stile di vita che la persona dovrebbe assumere, uno stile concretizzabile in primo luogo nell’ordinarietà della vita.

Mi sembrano belle e sintetiche, a questo punto, le annotazioni di Angelini in relazione alla scelta vocazionale:

«Magari oggi non siamo ancora riusciti a scorgere in forma sufficientemente concreta e persuasiva quale meta il vangelo di Gesù intenda assegnare alla nostra vita. E tuttavia già disponiamo di tante piccole“vocazioni”, e cioè di tante singole occasioni di confronto con il suo vangelo che, senza trasmettere una vocazione unificante, pure ci chiamano a singole scelte parziali, relativamente precise e moralmente impegnative. […] Forse domani, quando avremo alla fine operato le scelte più decisive della nostra vita, guardandoci indietro scopriremo come esse fossero già abbozzate nel nocciolo in piccole scelte precedenti, le quali pure, considerate una per una, nel momento esatto in cui erano prese, ci sembravano così poco decisive. Quello che saremo e dovremo essere nella vita si mostrerà al momento opportuno, e tuttavia quello che saremo è in qualche modo come anticipato nello Spirito, da ciascuna delle piccole scelte che oggi già facciamo»[13].

 

La mia vita è cambiata? Meglio dire: trasformata!

L’intreccio fra accettazione-responsabilità-chiamata nei confronti della propria storia opera una vera e propria trasformazione della vita delle persone. Il passato non cambia nei suoi fatti oggettivi ma nel potenziale di sapienza che sa fornire alla persona che lo vive.

Un’espressione concreta di questa trasformazione la potremmo trovare anche nella capacità di vivere il perdono: ricevere il perdono da una persona non vuol dire semplicemente e banalmente che quella persona non si ricorderà più della sofferenza che era stata causata e in senso opposto il dare il perdono non sarà solo il gesto di un ideale amore filantropico. Non è amnesia o dimenticanza, ma occasione, nella concretezza del gesto dato e/o ricevuto, affinché il comune passato conflittuale sia trasformato e fecondato in nuovo slancio vitale; è un gesto di fiducia, perché la memoria torni ad essere scuola di vita.

Ripensare ad un cammino vocazionale alla luce della temporalità è, allora, un invito a scoprire la propria esperienza come espressione del mistero che le appartiene. La persona è in qualche modo meravigliata nello scoprire dentro il proprio vissuto non solo delle dinamiche umane, ma anche il fatto che si sta esplicitando il mistero dell’uomo in dialogo con il mistero di Dio.

 

Note

[1] «Mistero», Tredimensioni, 4 (2007), 4.

[2] IMODA, Sviluppo umano, psicologia e mistero, EDB, Bologna 2005, pp.13-14.

[3] STERN, Il momento presente. In psicoterapia e nella vita quotidiana, Raffaello Cortina, Milano 2005.

[4] STERN, Il momento presente, p. 7. Nella prima parte del libro l’autore spiega il senso che attribuisce al momento presente e le caratteristiche principali.

[5] Ibidem, p. 49. Stern riconosce che nella vita ci sono anche molte esperienze, quali per esempio quelle dell’amicizia o dell’innamoramento, che esprimono una logica intersoggettiva.

[6] Cf F. IMODA, Sviluppo umano, psicologia e mistero, 108-123.

[7] GALIMBERTI, Psichiatria e fenomenologia, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 251-272.

[8] J. KLEINER, Nostalgia, in Solitudine e Nostalgia, Bollati Boringhieri, Torino 1993, pp. 61-96.

[9] LOUF, Generati dallo Spirito, Qiqajon, Magnano (BI), 1994, p. 61.

[10] STERN, Il momento presente, p. 164.

[11] Ibidem, p. 25.

[12] IMODA, Sviluppo umano; psicologia e mistero, pp. 113-116.

[13] ANGELINI, Le ragioni della scelta, Qiqajon, Magnano (BI), 1997, pp. 83-84.