N.03
Maggio/Giugno 2008

Missionari martiri contemporanei: testimoni contagiosi del fuoco della missione.

Il martirio, un’opzione sempre possibile per chi segue Gesù “da vicino”

«Non ogni sequela si conclude di fatto col martirio, ma ogni vera sequela ne custodisce la possibilità. Il martirio è un dono che Dio fa ad alcuni, ma la disponibilità a testimoniare fino alle ultime conseguenze fa parte della vocazione del discepolo. Il punto è che non si può cercare di seguire Gesù “da lontano”, come ha cercato di fare Pietro, nel tentativo impossibile di separare il suo destino da quello del Maestro».

Dall’introduzione di padre Gian Battista Zanchi a “Rapito. Quaranta giorni con i ribelli, una vita nelle mani di Dio”
di padre Giancarlo Bossi.

 

Il martirio è un dono che Dio fa. Nel modo più imprevedibile e “speciale”. Ci sono martirii eclatanti, “canonici”, ce ne sono altri “grigi”, più anonimi; ci sono casi di uccisi per sbaglio, diventati martiri “malgrado”… Chi non crede, di fronte a tutto questo, può classificare tutto questo come insensatezza”[1]. Chi assume una prospettiva di fede, al contrario, può pensare che, come Dio regala a ciascuno un’esistenza unica e irripetibile, allo stesso modo – amante dell’uomo com’è – offre a ciascuno una modalità di realizzazione umana e cristiana assolutamente originale[2].

Il nostro Dio non ama le cose in serie: anche l’esperienza del martirio lo dimostra. E io, scrivendo il mio libro sullo “scandalo del martirio”, l’ho constatato.

 

 

Rufus Halley: un volto concreto di missionario martire

Padre Rufus Halley, irlandese, missionario di San Colombano, è stato ucciso il 29 agosto 2001 nel Sud delle Filippine. Aveva 57 anni. «Quando, circa vent’anni fa – continua Niall – padre Rufus si offrì volontario per andare come missionario nella prelatura di Marawi (Mindanao, Filippine meridionali) il suo desiderio era di prender parte ad una meravigliosa avventura di riconciliazione e di ricerca della pace tra due comunità (cristiani e musulmani ndr) in urto da centinaia d’anni». Scelte del genere, specie in un contesto arroventato come quello del Sud delle Filippine, non s’improvvisano.

Infatti: «Questa “vocazione nella vocazione” era sgorgata facilmente in uno come Rufus, che per alcuni anni era stato catturato dall’esperienza ecumenica della comunità di Taizé e dalla spiritualità di fratel Charles de Foucauld, con la sua vita di contemplazione nei deserti algerini, accanto ai musulmani. Una delle amiche più intime di Rufus era entrata tra le Piccole sorelle di Gesù e quindi lui conosceva bene il loro speciale spirito di riconciliazione con l’islam, abbinato ad un profondo attaccamento alla contemplazione» (educazione alla fede, le radici nella preghiera).

Il «povero in spirito» Halley sceglie di farsi povero a tutti gli effetti. Fino a privarsi dello status di missionario (la scelta della kenosis, come il Crocifisso). «Una volta giunto a Marawi, Rufus trovò gusto per la sua nuova vita. Con una delle sue mosse fantasiose scioccò gli abitanti, musulmani e cristiani, della cittadina. Decise infatti di andare a lavorare dietro il bancone di una drogheria come dipendente di un commerciante musulmano. La cosa deve avere completamente scombussolato tutti», commenta padre Niall. La disponibilità al dialogo, a tessere relazioni buone con chiunque, era un tratto distintivo della sua personalità, diventato via via uno stile di missione: «Rufus dirigeva la scuola di Nostra Signora della pace e non perdeva occasione per incoraggiare gli studenti musulmani e cristiani a conoscersi e apprezzarsi reciprocamente.

Un momento particolarmente felice della vita di Rufus è stato quando due clan musulmani che si combattevano da anni, con morti da entrambe le parti, gli chiesero di fare da paciere. Alla fine i nemici deposero le armi e la gioia fu grande» (testimone contagioso: il suo esempio ha fatto scuola).

Dove attingeva, padre Rufus, la forza per la sua testimonianza? Padre Niall non ha dubbi: «Rufus si alzava alle quattro e mezzo del mattino e pregava per un’ora, prima di fare la doccia e celebrare la Messa. La sera trascorreva mezz’ora in adorazione del Santissimo Sacramento e invitava gli eventuali ospiti ad unirsi a lui nella preghiera prima di cena».

Non ha realizzato grandi opere, padre Rufus. Forse non ha nemmeno coronato tutti i sogni nel cassetto, visto che la morte l’ha strappato alla terra quando ancora era attivo e dinamico.

Eppure, che la sua vita abbia lasciato un segno indelebile in chi gli stava attorno, che la sua esistenza quotidiana abbia raccontato il Vangelo, lo testimonia la semplice frase di una donna della sua parrocchia. Racconta padre Niall: «Ha detto che se mai le avessero chiesto come sarebbe Gesù se tornasse sulla terra, lei avrebbe risposto: “Assomiglierebbe a Rufus”». (l’ideale supremo del missionario e del martire: far vedere Gesù).

 

Missionari martiri: testimoni contagiosi

È vero che i missionari martiri sono testimoni contagiosi? A quali condizioni lo diventano?

Cominciamo con lo sfatare alcuni stereotipi o visioni sbagliate del martirio. I martiri sono testimoni, non eroi in cerca di gloria o “perdenti radicali” (parafrasando quello che dei kamikaze islamici scrive lo scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger):

 Il testimone è uno che “ha visto”, che attesta che qualcosa è vero, anzi: uno che s’invoca a sostegno di una verità. Il martirio è innanzi tutto questo: testimonianza; la prova, fino all’estremo dono di sé, che quel Cristo cui si è donata la vita giorno dopo giorno è meritevole di prendersela tutta in un colpo solo.

Dunque il martirio non è un incidente di percorso, che manda in frantumi un progetto perseguito, bensì il coronamento di una vita dedicata, donata, già «persa in partenza». Volontariamente, gioiosamente.

 

Suor Maria Esther Paniagua Alonso, uccisa in Algeria da fondamentalisti islamici nel 1994, poco prima di morire disse: «Non possono prendersi le nostre vite, le abbiamo già donate».

Guardiamo al caso di padre Giancarlo Bossi, “candidato al martirio”: egli stesso ha spiegato che prima di essere rapito fisicamente da una banda di delinquenti, era stato “rapito” da altro: dalla radicalità del Vangelo, dall’appello di Cristo “Andate in tutto il mondo”, dai poveri, destinatari privilegiati dell’annuncio. Il suo sequestro, allora, non è da leggersi come uno spiacevole “incidente”, uno stop improvviso all’attività missionaria (quasi che l’evangelizzazione consista in un attivismo frenetico), bensì come una tappa di un cammino più lungo: il cammino della missione.

Da questo punto di vista, si può fare un parallelo tra i 30 anni in cui Gesù visse a Nazareth nel nascondimento e la vita “ordinaria” del missionario (pre-martirio, per così dire): non si tratta di una parentesi insignificante “in vista di”, bensì di un tempo di grazia che prepara l’“atto finale”, ma che ha pienamente significato in sé!

 

Quando è vissuta per Cristo, anche la morte apparentemente più banale prende senso.

È la scelta fondamentale che determina la vita a rendere sensata anche una morte che spesso non lo è. Perciò da cristiani osiamo dire, a dispetto di quanto affermerebbe “il mondo”, che il martire non è un fallito, uno che vede morire i suoi sogni e i suoi ideali a causa della cattiveria altrui, dell’ostilità di qualche fondamentalista. No. Fra’ Angelo Redaelli – missionario dell’Ordine francescano dei Frati minori (Ofm), originario di Turate (Como) – è il classico caso di uno che «non meritava di finire com’è finito». Men che meno a quarant’anni. Il 12 settembre 2005, fra’Angelo muore linciato da una folla inferocita, dopo aver involontariamente investito con un’auto una bambina di 3 anni, in un villaggio della diocesi di Owando, circa 500 chilometri a nord della capitale del Congo-Brazzaville.

Fra’ Angelo si trovava in Congo-Brazzaville dal settembre 2003. Una vita stroncata nel pieno della maturità fisica e spirituale (quando l’“efficienza” è al massimo), dopo due soli anni di missione (troppo pochi per raggiungere “risultati”). Un bilancio in rosso. Inevitabile porsi la domanda: ne valeva la pena? Un confratello di fra’Angelo, Luigino Belloli, all’indomani dell’uccisione, ha scritto una bellissima lettera provando a rispondere all’inquietante interrogativo. «Nessuno, tra quanti conoscevano Angelo, sarebbe stato in grado di prevedere per lui una tale fine. Come interpretare, allora, la morte di Angelo e quella di tanti altri fratelli missionari che hanno dato la vita o l’hanno persa in modi apparentemente banali o insignificanti? Come gesti di fede, di abbandono ad un amore più grande».

 

 I missionari martiri sono contagiosi non in virtù delle loro doti, della loro “bravura”, ma per la dedizione che esprimono.

Il caso di Antonio Bargiggia, ucciso in Burundi negli anni ‘90, è esemplare: «Lo ricordo fin da ragazzo ai campeggi organizzati dal Vispe, ong cristiana che ha contribuito a far maturare la sua vocazione religiosa, e con la quale ha fatto il volontario per due anni in Burundi. Era mingherlino, secco, quasi indifeso. Tanto che per prenderlo in giro i suoi amici gli appiopparono, con una buona dose di ironia, il nomignolo di “Super”, un appellativo che poi gli è restato tutta la vita». E in realtà qualcosa di speciale Antonio Bargiggia, milanese, classe 1958, l’aveva davvero. «Predicava con la vita le beatitudini evangeliche ed era stato capace – sottolinea don Cesare – di fare scelte radicali senza sbandierarle. Come per esempio quella di impegnarsi come cappellano nelle carceri di Mpimba».

 

 I missionari martiri sono contagiosi perché subiscono la morte,  ma amano la vita. E se l’hanno spesa per gli altri, consumandola nelle periferie più dimenticate del mondo, è perché hanno trovato in  quella strada (che a noi sembra una via crucis), il cammino per realizzarsi pienamente.

Il martire cristiano non è un eroe dannunziano in cerca della bella morte, dell’impresa gloriosa. Al contrario: il martire cristiano è una persona che ama appassionatamente la vita.

Come la amava padre Daniele Badiali, un prete sempre allegro, cappellano dell’OMG, ucciso dai ribelli di Sendero Luminoso in Perù e tanti altri con lui… Amavano la vita, ma hanno accettato di metterla in gioco per amore di Cristo.

 

Di fronte ad un martirio, dunque, la prima domanda che un cristiano dovrebbe porsi non è «chi l’ha ucciso?», bensì «in nome di Chi ha vissuto?».

Il martirio non è un bollino di qualità, in mancanza del quale la validità di una vita missionaria (o cristiana tout court) verrebbe meno.

Che religione triste, finanche disumana, sarebbe il cristianesimo, così interpretato! In realtà, se si ha la pazienza di indagare nelle biografie dei martiri, si scoprono esistenze vissute in pienezza, nel segno del servizio, della condivisione estrema.

«La vita è bella» e i primi a crederlo e a testimoniarlo, a dispetto delle apparenze, sono loro. Prima che «eroi», i martiri cristiani, infatti, sono uomini realizzati, felici. Contenti perché credenti e non, come spesso si è tentati di pensare dando retta alla pubblicistica nostrana, felici nonostante la fede.

 

Il martirio possiede un’eloquenza che va al di là delle parole. L’esempio di don Santoro è emblematico: la sua morte ha scosso i musulmani locali.

Pensiamo anche ai martiri di Tibhirine. Spiega p. T. Becker: «In questi dieci anni, dal martirio dei trappisti ad oggi, il monastero, pur abbandonato, non ha subito vandalismi o furti; non è stato portato via un chiodo! E questo pur essendo l’Algeria un Paese islamico».

Come si spiega? Con il tipo di relazione amicale, cresciuta col tempo tra la comunità monastica e la gente del posto, tutta musulmana. I vicini, che avevano preso a lavorare con i monaci, hanno capito gradualmente la particolarità di quegli stranieri che avevano scelto l’Algeria come casa loro, fino a farsi carico totalmente della situazione di dolore ed angoscia che il popolo algerino ha vissuto per lunghi anni.

 

    Il missionario martire è una persona capace di perdono: non odia i suoi persecutori, non subisce il martirio come una disgrazia, non sparge morte attorno a sé (a differenza del kamikaze), ma invoca il perdono per i suoi carnefici.

Il perdono è il sigillo di un martirio autenticamente evangelico. Spesso, anzi, il perdono concesso dalla vittima o, a nome suo, dai suoi familiari, mette in crisi l’uccisore e lo conduce alla conversione[3].

 

 

I missionari martiri, testimoni del fuoco della missione

* I missionari martiri sono profeti di radicalità

I martiri non sarebbero tali se non fossero, innanzitutto, cristiani, in misura alta: una misura prossima alla santità.

Valgono per tutti i martiri le parole che Enzo Bianchi, priore del monastero di Bose, nella prefazione alla nuova edizione di Più forti dell’odio, dedicata ai monaci di Tibhirine, quando scrive:

«È proprio per aver voluto essere cristiani ogni giorno, semplici monaci, “oscuri testimoni di una speranza”, che i fratelli dell’Atlas sono diventati “martiri”, testimoni fino al sangue versato. Il télos, il fine ultimo di una vita donata, può a volte, per sola grazia di Dio e non per calcolo umano, trovare la sua piena manifestazione in una morte violenta: quando accade, non fa che mettere in evidenza ciò che si era desiderato che la vita quotidiana rendesse visibile. Appare così agli occhi di tutti quello che prima era nascosto: chi ha una ragione per morire rende manifesta la ragione che ha per vivere. E per un discepolo di Cristo questa ragione ha un nome, un volto: quello del suo Maestro e Signore, Gesù di Nazaret, morto e risorto».

 

* I martiri sono testimoni di gratuità

Scrive padre Timothy Radcliffe, già Maestro generale dei domenicani, uno degli autori spirituali più penetranti del nostro tempo: «Il missionario non è un turista, (…) è solo un segno del Regno. Per citare le parole di uno dei miei fratelli: tu non ti accontenti di disfare i bagagli, tu i bagagli li getti via».

Il missionario che si incarna in un popolo ha lasciato le valigie per sempre ed ha assunto, giorno dopo giorno, un’identità nuova». Laddove la missionaria o il missionario occidentale afferma – con le opere, non solo a parole – la sua disponibilità alla condivisione totale in nome di Cristo, si creano i presupposti perché cadano pregiudizi, diffidenze e incomprensioni tra popoli, culture e religioni. Quando, in nome dell’Altro per eccellenza, mi faccio «altro» all’altro, costui non può non riconoscermi come suo prossimo.

Ancora Radcliffe:

«Essere missionario non è ciò che si fa; è ciò che si è. (…) Essere presente presso l’altro, vivere sulle linee di frattura, implica una trasformazione di chi sono io. Nell’essere con e per l’altro, scopro una nuova identità. Penso a un vecchio missionario spagnolo che ho incontrato a Taiwan, il quale aveva lavorato in Cina per molti anni e aveva conosciuto la prigionia: divenuto vecchio e malato, la sua famiglia insisteva affinché facesse ritorno in Spagna. Ma egli disse: “Non posso tornare. Sono cinese. Sarei uno straniero in Spagna”».

 

* Il fuoco della missione è l’apertura incondizionata a tutti

Tale apertura porta a varcare i confini, a far causa comune con gli ultimi, ad abbracciarne la condizione senza riserve.

C’è un brano bellissimo del testamento spirituale di Annalena Tonelli, che vorrei qui ricordare:

«Lasciai l’Italia dopo sei anni di servizio ai poveri di uno dei bassifondi della mia città natale, ai bambini del locale brefotrofio, alle bambine con handicap mentale e vittime di grossi traumi di una casa famiglia, ai poveri del Terzo mondo, grazie alle attività del Comitato “Per La Lotta Contro La Fame Nel Mondo”, che io avevo contribuito a far nascere. Credevo di non poter donarmi completamente rimanendo nel mio paese … i confini della mia azione mi sembravano così stretti, asfittici… compresi presto che si può servire e amare dovunque, ma ormai ero in Africa e sentii che era DIO che mi ci aveva portata e lì rimasi nella gioia e nella gratitudine. Partii decisa a gridare il Vangelo con la vita, sulla scia di Charles de Foucauld, che aveva infiammato la mia esistenza. Trentatré anni dopo, grido il Vangelo con la mia sola vita e brucio dal desiderio di continuare a gridarlo così, fino alla fine. Questa la mia motivazione di fondo, assieme ad una passione invincibile da sempre per l’uomo ferito e diminuito senza averlo meritato, al di là della razza, della cultura, e della fede».

 

Tale condivisione totale crea fraternità e abbatte i muri

Franchette Rodary, oggi ultranovantenne, è stata una delle compagne di Madeleine Delbrêl, la «mistica delle strade». Ha passato 14 anni (dal 1965 al 1979) tra i musulmani della Cabilia, in Algeria, lavorando come infermiera in un centro di formazione per donne.

«Non era l’islam fondamentalista che oggi è sulle pagine dei giornali – puntualizza – era un islam quotidiano, fatto di riti e cultura. Non abbiamo mai avuto alcun problema con questo islam aperto e tollerante. Condividevamo la stessa vita e registravamo un’attenzione simpatica verso di noi. Come infermiera, io avevo un rapporto particolare con le persone: conoscevo le famiglie, entravo nelle case degli ammalati. I musulmani conoscevano bene i Padri Bianchi, molto ben inseriti in Algeria, per cui la gente ci assimilava volentieri a loro. Il complimento più bello – testimonia Franchette – è quello ricevuto da un algerino che mi ha confessato: “Lei mi ha fatto cambiare idea su voi francesi. Prima dicevo: odio tutti i francesi. Adesso aggiungo: eccetto i cristiani”»[4].

 

Educare alla missionarietà

Educare ad una misura alta della vita cristiana: pensare di abbassare l’asticella per favorire i giovani non porta lontano. Ciò non significa cadere nella trappola del settarismo, dei “pochi ma buoni”, ma avere il coraggio di fare proposte affascinanti ed esigenti al tempo stesso. La cosa importante, secondo me, è educare fin da piccoli ad un modello di vita. Mi piace citare ancora Annalena Tonelli:

«Scelsi di essere per gli altri – i poveri, i sofferenti, gli abbandonati, i non amati – che ero una bambina e così sono stata e confido di continuare a essere fino alla fine della mia vita. Volevo seguire solo Gesù Cristo. Null’altro mi interessava così fortemente: LUI e i poveri in LUI. Per LUI feci una scelta di povertà radicale … anche se povera come un vero povero, i poveri di cui è piena ogni mia giornata, io non potrò essere mai. Sono non sposata perché così scelsi nella gioia quando ero giovane. Volevo essere tutta per DIO».

Mi sia consentita qualche battuta provocatoria:

1) vedo in giro troppo “turismo spirituale”: giovani che fanno mille esperienze (di volontariato, missione ecc.), ma poi non prendono decisioni, si arrendono al piccolo cabotaggio…

2) noto che spesso si fanno proposte in sé interessanti e valide (ad es. il commercio equo), ma col rischio di dimenticare un orizzonte missionario più ampio, come se ci si auto-limitasse in nome di ciò che è più di moda, più “politicamente corretto”…

3) una certa insistenza sugli “stili di vita” (sobrietà, non violenza ecc.) rischia di far mettere tra parentesi il capitolo “scelte di vita”. L’una cosa, evidentemente, non esclude l’altra, anzi: gli “stili di vita” sono propedeutici alle scelte coraggiose. Ma, appunto, vanno interpretati così, non come degli assoluti…

 

Dal punto di vista educativo, la scommessa è quella di coniugare radicalità con gradualità. La fatica dell’educatore sta nel proporre un cammino “individuale”, con tappe precise…

 

– Mostrare la possibilità di esistenze piene, belle, che non si sottraggono alla fatica, alla rinuncia. Occorre far vedere il famoso “centuplo quaggiù”, una vita realizzata, seppur in mezzo alle prove.

Un esempio attuale: Chiara Castellani, medico missionario in Congo. Non è martire, certo; tuttavia possiamo parlare di una persona che vive sulla sua pelle la “persecuzione” di cui parla il Vangelo. È partita per il Nicaragua, neolaureata in Ostetricia e ginecologia, ma anziché far partorire le donne le è toccato trasformarsi in chirurgo di guerra. È partita insieme col marito, condividendo un progetto di coppia, ma poi il marito l’ha lasciata. Ripartita per la missione alla volta del Congo, è stata vittima di un grave incidente stradale, ma non si è fermata. È una donna che si è consacrata a Dio e ai poveri totalmente, sperimentando la croce nel concreto del suo quotidiano. Eppure, lei stessa scrive di sperimentare il “centuplo quaggiù”, ossia una vita piena, ancorché non priva di ostacoli e prove.

 

– Educare alla perenne attualità/urgenza della missione

Oggi si ha talora l’impressione che il dialogo abbia preso il posto della missione. Come se ogni religione valesse come l’altra… Si parla spesso della missione (in particolare ad gentes) come se fosse l’opzione possibile quando tutto il resto – la pastorale, ecc. – è a posto, come se si trattasse di un di più per chi “ce la fa”. Non solo. Assistiamo, oggettivamente, a un calo di tensione missionaria. In una delle sue pagine sferzanti, Madeleine Delbrêl scrive questa frase fortissima: «Se la parola “apostolato” è ormai così fuori moda non sarà per caso che il mondo ci ha resi timidi al suo cospetto?». Occorre allora davvero riscoprire il “fuoco della missione”.

 

– Dare radici profonde

Le radici stanno nella preghiera, nell’amore personale a Cristo (riferimento alla storia di Rufus Halley). Uno non diventa martire se innamorato di uno slogan: al massimo, va in corteo. Missionari e santi non ci s’improvvisa: uomini normali che all’occasione diventano eccezionali (cf Bossi: mai sentito, eppure…).

 

Oggi noi non abbiamo a che fare, in Italia, con il martirio di sangue. Sperimentiamo piuttosto quella cortina di indifferenza, quel muro di gomma che a M. Delbrêl fece dire: «È più gradito alle volte venire uccisi che sentirsi rispondere “Ti ascolteremo un’altra volta”».

Il vescovo Ilario di Poitiers, nel V secolo dopo Cristo, quando ormai il tempo delle aspre persecuzioni degli inizi poteva dirsi terminato, ebbe a scrivere un monito che vale ancora oggi:

«Noi non abbiamo più un imperatore anticristiano che ci perseguita, ma dobbiamo lottare contro un persecutore ancora più insidioso, un nemico che lusinga…, non ci flagella la schiena, ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni (dandoci così la vita), ma ci arricchisce per darci la morte; non ci spinge verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù, invitandoci e onorandoci nel palazzo; non ci colpisce il corpo, ma prende possesso del cuore; non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l’anima con il denaro».

Oggi, in Europa o in Nordamerica, i cristiani non rischiano l’eliminazione fisica in quanto credenti, come accade altrove. Ad altro genere di martirio sono esposti. Il grande teologo Olivier Clement, in un’intervista di qualche anno fa, ebbe a dire:

«Potrebbe perfino esserci una nuova forma di persecuzione dei cristiani. In Francia si registra oggi una sorta di persecuzione dei cristiani attraverso la derisione. Certo, la parola “persecuzione” è forte, ma c’è comunque qualcosa di questo. Non è solo indifferenza. Davanti ad un certo rinnovamento del cristianesimo l’indifferenza che si rafforza diventa derisione. In fondo è un buon segno, è l’ultima delle beatitudini: “Beati voi quando vi si dirà ogni sorta di male per causa mia”».

 

Note

[1] Cf G. FAZZINI, Lo scandalo del martirio, ed. Ancora, p. 44.

[2] Cf C. PEGUY, Pagine scelte, Jaca Book, p. 260.

[3] Episodi del genere si sono verificati – ad esempio – nel caso dell’uccisione di p.Tullio Favali e di Antonio Bargiggia.

[4] Cf G. RIPAMONTI, Le nuove terre di Madeleine, “Mondo e Missione”, ottobre 2004.