N.04
Luglio/Agosto 2008
Studi /

“Chiamati a prendersi cura dell’altro”

La pastorale vocazionale come “specifico” della pastorale giovanile

Sappiamo che anche ai nostri giorni, e certamente oggi più che in passato, la parola “vocazione” evoca ancora sentimenti di paura, diffidenza e ostilità: basterebbe pensare alla reazione nelle nostre “buone” famiglie se un figlio o una figlia comunica il proprio orientamento di consacrare la sua vita al Signore… 

Evidentemente c’è alle spalle un uso socio-culturale di questa espressione, là dove si pensava sempre e comunque ad un tentativo sottile di “accalappiare” qualcuno o qualcuna e indirizzarlo sulla via dell’essere prete o suora, monaca o missionario… 

Indubbiamente ha contribuito a creare un certo alone di “timore”, la paura che questa chiamata particolare tocchi proprio a me. Finché coinvolge qualcun altro dei miei amici o delle mie amiche, passi… ma se il Signore vuole qualcosa proprio da me? Qui cominciano i dolori! 

La parola “vocazione” è per tutti noi una “provocazione” in cui si prende coscienza che “la vita è vocazione e la vocazione è vita”. 

Di qui, la stretta interconnessione tra PV e PG che sono assolutamente interfacciate tra di loro, perché la Vocazione diviene sempre più la risposta personale di ogni battezzato, e in particolare di ogni giovane, al suo originale modo di seguire il Signore e alla ricerca della propria personale beatitudine. 

 

La pastorale vocazionale: sfide e interrogativi 

Essa dovrebbe davvero attraversare trasversalmente ogni impegno del credente, del discepolo di Gesù, (liturgia, lavoro, tempo libero, servizio, solidarietà, catechesi, famiglia, scuola…), ma in realtà molto spesso non è così. Diviene un settore relegato ai margini della pastorale ed eventuale esperienza di qualche giovane “più sensibile”. Eppure… non è assolutamente una questione di età: la ricerca di senso vale per tutta una vita; “là dove finisci, di lì ricomincia!” (Thomas Eliot, Quartets). 

Ciò significa riscoprire che ognuno ha dei carismi e che ognuno può vivere il suo ministero (minus-stare = servizio nella e per la Chiesa), con un anelito di autotrascendenza, liberandosi dai lacci di un’ostinata ricerca della propria autorealizzazione. Questa credo sia la prospettiva corretta per un cammino di crescita e di formazione. 

Il rischio che personalmente intravedo in tante nostre chiese locali è quello di fare la… “pastorale dell’attimo fuggente”: un anno lo dedichiamo alla famiglia, uno ai giovani, uno alla catechesi, un altro alla carità, e così via, con il rischio di non mettere radici in nulla e di non approfondire nulla… 

La pastorale vocazionale, se vuole diventare un humus fecondo per interfacciarsi con la realtà densa di ricchezza e bellezza della PG, è chiamata ad accettare la sfida di confrontarsi con un cammino alla riscoperta della figura di Gesù, nei suoi tratti di umanità e di proposta della buona notizia del Regno, e questo lo può fare non prescindendo da uno stretto legame nell’ambito della Parrocchia (e della diocesi), per quanto concerne un cammino di evangelizzazione della vita, di catechesi, di coinvolgimento nei gruppi ecclesiali associativi e caritativi, nei vari momenti formativi di vita spirituale…), nella decisa ricerca di un confronto con la vitalità e, talvolta, anche la provocazione che viene dai Movimenti di spiritualità (Rinnovamento nello Spirito, Focolarini, Neo-catecumenali, Comunione e Liberazione e tanti altri nuovi movimenti che stanno facendo breccia con proposte assolutamente nuove e ricche di appeal…). 

Una significativa proposta di annuncio e di proposta vocazionale diventa tanto più efficace quanto più  s’innesta in quel tessuto pastorale che già esiste in una Chiesa locale e crea delle sinergie di riflessione e di operatività, di creatività e vitalità, senza tuttavia rinunciare alla sua specificità. 

Più che mai, oggi, dovremmo capire (ma attenzione, amici cari, non è poi così scontato!), che o lavoriamo insieme o buttiamo il seme buono non nell’humus fecondo del terreno, ma nel vento che lo disperde; dove uno ha seminato, l’altro può passare e calpestare quel seme: la parabola dei quattro terreni è più che mai attuale sotto questo profilo. 

 

Alcuni punti di non ritorno tra PG e PV

Una PV coinvolta nel cammino comune con PG, occorre viva la nuova consapevolezza di come sia “necessario portare il proprio annuncio e la propria proposta vocazionale nel vivo delle comunità cristiane, là dove la gente vive e dove i giovani in particolare sono coinvolti più o meno significativamente in un’esperienza di fede” (NVNE 29). 

Per questo credo che nel cammino di questi anni stia crescendo e maturando, forse con fatica, questa comune sensibilità di “incontro e di sentieri di comunione”, per lasciare emergere dei punti qualificanti di “non ritorno”, che stanno alla base del rapporto tra pastorale giovanile e vocazionale: 

– Il giovane ha il diritto di essere aiutato a vivere la fede come risposta ad una chiamata. Eppure è importante capirsi: la “vocazione” è un modo d’intendere e di vivere la propria vita; un modo che vale per ciascuno di noi, visto che è in ballo una libertà di scelta che ci è stata donata e non ci viene tolta. 

– Ogni esperienza di vita del giovane che tende ad essere globale e definitiva è sotto l’invito e la chiamata personale di Dio. Ciò comporta una responsabilità nell’assunzione di un impegno fedele di vita, ben sapendo che la parola “responsabilità” deriva dal verbo latino “respondeo”, che significa letteralmente “rispondere”. Rispondere, ovviamente, a Qualcuno che ci chiama. 

– È necessario che ogni vocazione vissuta con fede e decisione sia visibile e sperimentabile nel tessuto di relazioni che caratterizzano la vita di ogni giovane e la sua esperienza ecclesiale: è la riscoperta della “intersoggettività”, che tanto segna la storia di ogni esistenza, da un punto di vista umano, spirituale e vocazionale. 

– Ogni chiamato è obbligato a riscrivere la sua esperienza in termini percepibili dal mondo giovanile: questo comporta il vivere una “testimonianza” chiara e coerente, ma soprattutto gioiosa; l’essere delle scie luminose di luce… 

– La proposta vocazionale fa parte integrante del progetto di pastorale giovanile. 

Vorrei chiarificare questi aspetti alla luce di 4 sentieri comuni che stanno alla base non solo del nostro desiderio, ma della comune necessità di “muoverci in sincronia” di passi e movimenti 

1. Per un cammino comune di crescita nella verità 

2. Per un cammino comune di crescita nell’amore 

3. Per un cammino comune di crescita nella speranza 

4. Per un cammino comune di crescita nel dono di sé 

 

Una crescita nella verità: la via della interiorità… della “teshuvàh”

Rientrare in se stessi è essenziale… non è un optional, è costitutivo per l’uomo stesso. In noi, infatti, c’è una duplice forza: centripeta e centrifuga. 

 

* Ma noi, spesso, privilegiamo la forza centrifuga… 

È una tentazione tipica dell’uomo della nostra epoca della “post-modernità”. 

E ripercorriamo l’interessante analisi dello psicoanalista italo-americano Silvano Arieti, dopo l’ansia, l’alienazione, la rabbia, la depressione, ecco l’homo pavidus, ecco l’homo fugiens ed ecco l’uomo dislocato e spaesato... Questa è la conseguenza del suo essere costantemente in fuga dalla verità di se stesso. 

Giona fugge perché non entra in se stesso. 

Elia fugge perché non entra in se stesso. 

Giuda fugge perché non entra in se stesso. 

Giobbe, Qohélet, Geremia, Osea, Pietro, Paolo, Maria di Magdala non fuggono… perché osano rientrare in se stessi. 

 

* Occorre recuperare la dinamica della forza centripeta: essa ci aiuta a… 

−      ricompattare i frammenti della nostra storia 

(la preghiera è un momento in cui riannodare i fili spezzati della vita…); 

−      riunificare realtà divise e spesso… nemiche tra di loro (Ef 2,14-18); 

− amare il senso del “provvisorio”, perché non distratto da realtà esterne:

è la spoliazione 

(cf la parabola del Rabbi di Varsavia e della sua stanza spoglia… “sono di passaggio!”). 

 

* È la via della interiorità

Ci si avvia alla fase adulta della vita e della fede quando si ama, si cerca e si vive l’interiorità. Essa può declinarsi in alcuni passaggi: 

interiorità — silenzio — umiltà — Verità (alétheia = svelamento) 

esteriorità — parlare tanto di sé — apparenza esteriore — falsità e menzogna 

Può aiutarci a comprendere tutto ciò l’icona evangelica racchiusa nella 

parabola del fariseo e del pubblicano: (Lc 18, 9-14). 

L’amicizia è una straordinaria via alla interiorità… Essa è un prenderti teneramente per mano, per entrare dolcemente in te stesso”. (A. de Saint-Exupéry)

 

 

Una crescita nell’amore 

 

Vocazione e amore: quando i sentieri convergono 

Le due “parole” messe a tema per questa riflessione sono di quelle che… mettono i brividi addosso; da una parte perché in esse è sottesa una grande carica di idealità nel tradurle concretamente in ipotesi di vita; dall’altra, perché ognuna di esse evoca, in ciascuno di noi, modi particolari di intenderle. 

Ecco, allora, che risulta difficile parlare di “vocazione”, senza il rischio di essere fraintesi facilmente, pensando che si utilizzi questa espressione nel senso univoco di “via alla consacrazione”, come se il resto della vita rimanesse ai margini di una propria, unica e originale chiamata. C’è poi l’altro polo del nostro approfondimento, che riguarda l’amore: anche qui siamo di fronte ad una delle parole magiche, se non “mitiche” della vita, come si usa dire spesso tra i giovani, oggi. 

Si parla tanto di amore, certo, ma non c’è forse il rischio di gonfiarlo a dismisura, come una mongolfiera che poi se ne va impazzita per il cielo; una specie di dirigibile “Italia” che si abbatte in maniera catastrofica sui ghiacci del Polo? Non c’è il rischio di banalizzarlo in uno sterile “parolismo” che tanto lo afferma, quanto finisce per renderlo confuso, fragile, inconcludente, spesso privo di un significato radicale e totalizzante per la vita stessa? Anche in questo caso ciò che conta è imparare a vivere “di amore” e “per amore”. 

Immaginiamo una pianta con due rami ben robusti: dal ramo “vocazione” e dal ramo “amore” occorre scuotere con forza tante parole inutili; quello che resterà sarà ciò che è essenziale ed è importante per il nostro cuore e la nostra vita[1]

 

L’incontro tra vocazione e amore 

Troppo spesso si è parlato della vocazione in termini asettici, come se essa nulla avesse a che fare con una vera e propria scelta di amore nella vita, come se in essa non fosse coinvolta tutta l’enorme carica di affettività di cui è capace il cuore umano. 

Troppo spesso la vocazione è divenuta un modo di vivere “ritagliato” entro le dimensioni anguste di un… “ruolo”. Troppo poco, amici miei; troppo poco per impegnare una vita rischiando tutto di sé. Se non c’è amore, ci ricorda S. Paolo, siamo anche noi come campane di bronzo che suonano nel vuoto o, peggio ancora, sono completamente stonate! 

Eppure, l’amore non può essere ridotto a puro sentimento spontaneistico, non può essere solo un’emozione con la quale talvolta giocare e trastullarsi nella vita. L’amore è chiamata, è impegno, è libertà di scelta ed è responsabilità di coerenza nella fedeltà. Qualcuno t’invita, perché ti vuole bene: tu puoi dire sì o no, ma non puoi eludere questa Voce che ti chiama, come la voce dello Sposo chiama la Sposa nei versi stupendi del Cantico dei Cantici: ecco emergere, come dalla nebbia del mattino, la “dimensione nuziale” della vocazione. 

Amore e vocazione camminano insieme; debbono farlo, ne va della loro autenticità; oserei dire: ne va della loro esistenza.

– L’amore è “mistero”. Chi mai può definirlo, chi può restringerlo entro gli angusti spazi della parola; chi può esprimerne con pienezza tutta la forza e l’immensità? Esso ci supera sempre, come supera sempre se stesso.

Anche la vocazione è “mistero”. Chi può decifrare con certezza i tempi e i modi di una chiamata? Chi può capire fino in fondo perché qualcuno sente questa chiamata e altri non la avvertono? Chi può addentrarsi negli spazi infiniti della imprevedibilità di Dio?

– L’amore richiede un cammino “verso l’invisibile”; non lo si può computerizzare o ridurre in una        formula algebrica; non puoi togliergli il fascino del rischio.

Anche la vocazione “scala” la montagna dell’invisibile. È chiamata verso l’Eterno invisibile che lascia trasparire appena uno spiraglio del suo volto; e questo ti affascina. Per Abramo e Mosè, per Geremia ed Osea, per Pietro e Maria di Magdala non è stato forse questo il modo di percepire la loro chiamata? Una piccola briciola di invisibile si è fatta visibile… ed è bastato!

– L’amore ti “sporca le mani”, come si usava dire a proposito dello stesso Cantico dei Cantici. Che   significato possiamo dare a quest’espressione? Credo una lettura semplice: quando ami devi impara re a coinvolgerti tutto, senza mezze misure, in un’intimità totalizzante e assolutamente “svelata e sincera”.

Ma anche la vocazione è questo: essa non tollera che ti volti indietro, quando hai posto mano all’aratro; non tollera i cuori angusti e stretti, “sclerotici”, sempre pronti a calcolare se conviene fare questo e lascia re quello. La vocazione è la via dei “cuori ardenti”, così direbbe P. Teilhard de Chardin, per coloro che non si accontentano di andare nel bosco a fare il pic-nic, ma vogliono salire sulla cima della montagna, anche se il sentiero si fa duro, stretto, e sole e fatica ti asciugano ogni energia.

– Infine, l’amore come la vocazione sono in grado di essere il “Tabor” della nostra vita: la possono veramente trasfigurare in maniera determinante. Lo affermava anche il grande poeta francese Paul Claudel, per cui una vita “amorosa” – e noi potremmo aggiungere anche: una vita “chiamata” – esprime una freschezza ed una forza, una limpidezza e una carica che prima non lasciava trasparire. Così il fuoco sotto la cenere è stato riattizzato. Così il fiore, quasi appassito, è stato irrorato dalla rugiada e ha ripreso la vita, i colori, il suo profumo.

– Amore e vocazione come il Tabor della nostra vita: è tornare a gusta re quello che spesso cerchiamo e non troviamo: la pace interiore, la pienezza del senso, la creatività gioiosa e feconda, il gusto del vivere. Un Tabor che è ricarica per il tempo della sofferenza; un Tabor che è apprendistato di “abbandono” per il giorno in cui la grande Mano ci chiederà di rilassarci nella sua tenerezza accogliente.

 

Una chiave di lettura quanto mai suggestiva potrebbe essere legata all’approfondimento del tema della intimità. 

Non sto qui parlando di una forma di intimità sdolcinata, che ci viene proposta a fiumi nei recenti film del neo-sentimentalismo alla Federico Moccia … che mandano in brodo di giuggiole i nostri adolescenti (e forse non solo loro!). Non penso neppure ad un’intimità che sia solamente frutto di una relazione sessuale, ma che abbia drasticamente compresso ogni altra modalità di comunicare in profondità e trasparenza. 

Penso a quella forma di intimità nella quale, in qualsiasi relazione, ci si possa sentire a proprio agio, si possa essere veramente se stessi, senza orpelli, frange e maschere… Un’intimità che permetta di svelare il proprio cuore alla persona a cui si vuole bene… 

Un’intimità che sia la sorgente viva di un’accoglienza totale dell’altro e che insieme permetta all’altro di “camminare a piedi nudi nel nostro cuore, senza pungersi e farsi male”, parafrasando una stupenda immagine di Henri J.M. Nouwen, noto psicologo e pastoralista americano.

 

Una crescita nella speranza 

C’è una sera d’estate, detta la notte di San Lorenzo, in cui molti di noi stanno con gli occhi rivolti al cielo, tutti tesi a cercare di scorgere la scia luminosa ed improvvisa di una… stella cadente. 

Se abbiamo la fortuna di essere fuori dalle città, il cui cielo è reso opaco dai riflessi delle luci e dall’aria ormai così poco trasparente; se ci troviamo in qualche luogo isolato o magari in montagna, un po’ più vicini al cielo, queste scie luminose sono più facili da vedersi; si moltiplicano, si rincorrono e quasi si fa a gara nel dirsi gli uni agli altri: “Ne ho visto una… e un’altra ancora…” 

La notte di San Lorenzo… la notte dei desideri: sì, perché sulla scia di una stella cadente, la tradizione dice che puoi formulare un desiderio tenuto profondamente celato nel proprio cuore, nella SPERANZA che questo tuo desiderio possa essere esaudito. Ecco, la notte dei desideri si trasforma allora nella notte della speranza, perché ognuno di noi porta dentro di sé la speranza che qualcosa di molto personale possa finalmente essere “ascoltato” e trovare un suo compimento. 

 

Il coraggio di “desiderare” 

Poi, si sa, non tutti i desideri formulati in una calda sera di Agosto trovano realizzazione, ma io credo fermamente che il nostro cuore abbia il diritto, se non il dovere, di desiderare e quindi di sperare… 

Troppo a lungo un certo tipo di educazione ha compresso tutto il mondo dei “desideri”; intendo dire di quei desideri legittimi, che ci aprono su orizzonti più ampi del nostro piccolo mondo finito e spesso pieno di illusioni e disillusioni; che ci proiettano non tanto in un mondo di fantasie infantili, quanto in una modalità di vita che ci dà il coraggio di cercare il di più, di cercare più in là; che in fondo ci aprono su quel mondo che potremmo chiamare “il fascino del nuovo”; un mondo che evoca e provoca il coraggio di cercare o forse… di saper ancora aspettare. È un fascino che attira e polverizza ogni dinamica di risucchio nella monotonia, nella banalità, nella mediocrità di un cuore angusto e stretto, che non fa abbeverare a quelle “cisterne screpolate” di cui parla il profeta Geremia, segnate dalle nostre paure, dai nostri condizionamenti, dai nostri conformismi, dalle nostre insicurezze, rassegnazioni e sfiducie. 

Credo che il cielo stellato dei desideri si regga su due colonne: la voglia della novità, non fine a se stessa, ma capace di dare un colpo d’ala alla nostra vita e la perseveranza dell’attesa, perché il coraggio dell’attesa paziente, alla lunga, viene premiato. Certo, se una di queste colonne si spezza, tutta la “volta celeste dei desideri” è seriamente minacciata…

 

Chiamati a … “crescere” 

Il contesto culturale in cui noi viviamo e dal quale non possiamo prescindere, perché fa da sfondo ad ognuna di queste riflessioni, privilegia l’istante rispetto alla durata, l’esperienza immediata ed intensa rispetto a quella riflessa, preparata e riletta senza affanno e con disincanto; non si cresce prescindendo dalla durata, dal tempo assimilato, dalla pazienza accettata. 

La speranza non diventa allora solo un’esperienza emotiva: in essa si ha la consapevolezza piena che nel nostro cuore l’uomo può andare a fondo in un abisso di disperazione, ma può anche alzare gli occhi al cielo e credere che egli può salire… e non solo cadere. Felice il pellegrino della vita che porta la sinfonia della speranza nel cuore: essa lo aiuta a superare le paludi, il deserto arido e sassoso, il bosco oscuro e impenetrabile nei momenti più difficili della vita. 

Ma questa speranza non s’improvvisa; è necessario imparare a farla crescere, cercare in noi stessi tutte le risorse di vita e di fecondità, che Dio ha posto nel cuore di ogni uomo. Del resto la prima parola di Dio all’uomo è, guarda caso, proprio un appello a crescere; in Genesi 1, 28 la sua parola risuona decisa: “Crescete, siate fecondi e riempite la terra”. Non è solo appello ad una crescita biologica o demografica; è anche un appello ad intendere tutta la vita come una “forza di crescita”. 

Nel Vangelo troviamo tantissime immagini che ci richiamano alla mente e al cuore la dinamica della crescita: il seme chiamato a maturare, il lievito che fermenta, la rete che si riempie di pesci, la sala di nozze verso cui convergono o no gli invitati, la città che viene edificata sulla cima della montagna… 

 

…a crescere in una relazione 

Non penso di parlare solo per esperienza personale: sempre più mi vado convincendo, guardando alla storia di tante persone giovani e meno giovani, che “non si cresce da soli, ma in una relazione”. 

Nella relazione con gli altri, (che poi diviene anche uno specchio spesso assai realistico della nostra relazione con Dio), noi portiamo quello che siamo, talvolta anche senza accorgercene: in essa viviamo la possessività o l’oblatività, l’aggressività o la fiducia, la docilità o il senso di competitività e di dominio che ci urgono dentro, la gioia e la serenità o l’inquietudine e la malinconia del nostro essere e del nostro esistere… 

È fondamentale riandare all’importanza dell’amicizia, per far nascere in noi la speranza; ora potremmo semplicemente aggiungere quanto sia importante l’amicizia per… CRESCERE. 

Dice la scrittrice Zenta Maurina Raudive, in uno dei suoi stupendi squarci di percezione di umanità, che “l’amicizia è una pietra preziosa, la fedeltà è l’oro che tutta la abbraccia, e senza questo sicuro abbraccio il prezioso gioiello non arriva a risplendere in tutta la sua bellezza e finisce per perdersi”. 

Ma la relazione non è solo strada piana e sicura: può anche essere un insieme di imprevisti e la fedeltà ad essa conduce a fare l’esperienza della notte. Crescere significa accettare “le morti” che l’incontro con l’altro ci fa vivere. Non sempre una relazione vive nella luce piena… Ci sono momenti in cui il legame sembra attenuarsi fin quasi a sparire, in cui la rinuncia sembra pesare più della gioia di quello che s’incontra, in cui i passi con l’altro si fanno incerti e silenziosi; quello che mai si pensava potesse succedere, invece può accadere in un istante. Eppure, anche queste “morti” possono diventare un passaggio di crescita… 

Ciascuna delle nostre storie personali non avrebbe senso se non fosse finalizzata: l’incontro con DIO, ma anche con il desiderio più profondo del cuore umano, si apre sempre su di un “avvenire” e si fonda su di una “promessa di speranza”; non è solo una parola pensare al nostro Dio come al Dio della Promessa. Ma occorre ripetercelo ancora una volta: bisogna lasciare qualcosa, anche di quello che ci sembra importante e… saper attendere. Il Dio della Promessa diviene anche il Dio dei distacchi…; ma ciò è indispensabile per non ridurre tutto il nostro anelito all’angusto orizzonte del nostro desiderio.

 

Una crescita nel dono di sé 

So bene, anche per esperienza diretta e personale, quanto sia difficile trattare una tematica che ponga sullo sfondo la parola “vocazione”. Ma anche qui si tratta di intenderci: è da qualche tempo, oramai, che si sta facendo uno sforzo di sensibilizzazione per vivere in maniera meno drammatica e meno riduttiva la dimensione vocazionale della vita. 

Eppure quest’opera non è facile e non è detto che sempre arrivi a buon fine. Tuttora mi capita, con tanta frequenza, di incontrare giovani che pur interrogandosi sul senso della loro vita, pur vivendola con il desiderio e la ricerca di uno sbocco libero e consapevole, sentono il cuore farsi trepidante quando solo si accenna che la loro vita (ma sarebbe più giusto dire che… ogni vita), dovrebbe imparare a muoversi in un’orbita vocazionale. 

Sì, perché vocazione può certamente essere intesa come quella chiamata particolare che porta un cuore a donare tutto se stesso al Signore, in una modalità di consacrazione e di missione, attraverso la scelta di diventare prete o suora, monaco o missionaria; ma la corretta interpretazione della parola vocazione va inscritta in un’orbita a 360° che tutto investe nella vita: desideri e attese, motivazioni e scelte. 

Ogni vita è chiamata! 

Ogni vita ha una sua preziosità, con la quale cercare di vivere la dimensione dell’abbandonarsi e del consegnarsi a qualcuno da AMARE. 

A questo proposito mi ritornano alla mente le parole che Sister Helen Prejean canta, davanti alle sbarre della cella, quando incontra il condannato a morte Matthew Poncelet, nello stupendo film di Tim Robbins “Dead Man Walking” (Uomo morto in cammino). Ricorrendo ad uno stupendo testo del profeta Isaia, Sister Helen gli sussurra con un filo di voce: 

“Non temere, io ti ho chiamato per nome e ti ho liberato; tu sei mio.

Se tu attraverserai fiumi profondi io sarò con te:le acque non ti sommergeranno.

Se passerai attraverso il fuoco tu non brucerai:le fiamme non ti consumeranno.

Io sono il Signore tuo Dio, il Santo di Israele che ti salva.

Tu sei prezioso ai miei occhi. Io ti stimo e ti amo.

Non temere, io sono con te…” (Isaia 43,1-5).

E poi, tenendo stretta la mano sulla spalla di Matthew, mentre egli si avvia verso la camera dell’esecuzione letale, continua a sussurrargli: 

“Ti voglio bene. Tu sei prezioso ai miei occhi… 

In quegli ultimi istanti guardami… 

Voglio che il tuo ultimo sguardo veda  uno sguardo di bontà…” 

Non è solo facile sentimentalismo, questo. 

Siamo di fronte ad una Parola di Dio che è in grado di chiamare all’amore e al riscatto ogni vita, anche quella che sembra più cinicamente sprofondata nella palude dell’odio e della violenza. 

Siamo chiamati a scegliere… ma ad una condizione… 

 

Avere un rapporto “affettuoso” con il nostro Dio 

È importante ricordare che la capacità di scelta affonda le sue radici anche in un rapporto sereno e affettuoso con Dio: si tratta di sentire la sua presenza “vicina a noi”, al nostro cammino quotidiano, e di vivere con essa una relazione profonda e permanente. È il Dio della tenerezza e non del giudizio, sperimentato come sorgente di acqua cristallina, a cui attingere ogni giorno, nei momenti di gioia, di luce, di pienezza, come pure in quelli tristi, sofferti e densi di oscurità. In questo rapporto entrano in gioco tutte le nostre facoltà: mente, volontà, emozioni. Se questa relazione è discontinua, langue o viene meno, è tutta la nostra persona che ne risente e si blocca. 

Ricordate: ognuno di noi ha una “vocazione-missione” da compiere nella vita; una missione che si traduce in un modo di essere, un compito da svolgere, un ruolo da assumere, un impegno totale cui consegnare se stessi. Per arrivare a ciò, occorre una sincera ricerca, un confronto leale, magari con una “guida spirituale” che si fa compagno/a di cammino. E questa ricerca vi chiede di diventare e di essere persone affidabili e non qualunquiste, in balia dell’umore, del “mi piace/non mi piace” o di interessi particolari. Questo rende ancora più necessario lavorare su se stessi, per rendersi idonei, affidabili, responsabili per ciò che si è chiamati a vivere. La vita come vocazione è una risposta di amore all’Amore. Tutti noi siamo chiamati a capire quale può essere, con verità, questa risposta e a collaborare perché sia una risposta di pienezza e non selettiva o parziale, egoistica o interessata. 

Affido ad alcuni passaggi di una poesia di Pablo Neruda, lo stimolo provocatorio e amico per“non lasciarci rubare le scelte della nostra vita”, avvelenati da piccole dosi di apatia e di rassegnazione, proposte senza scrupoli da chi non ha né valori umani né valori divini. 

Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine,

ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,

chi non cambia la marcia, chi non rischia e chi non cambia colore dei vestiti,

chi non parla a chi non conosce. (…)

Lentamente muore chi non rischia la certezza per l’incertezza, per seguire un sogno,

chi non si permette, almeno una volta nella vita, di fuggire dai consigli sensati. (…)

Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,

chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,

chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo

richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.

(Pablo Neruda)

 

Alcune ricadute sul ministero pastorale di noi presbiteri… 

– Sicuramente la PG ha un bacino di utenza più ampio nelle attività dirette al mondo giovanile, però, la dimensione vocazionale, intesa come una ricerca di significato profondo per la propria vita, è una dinamica che appassiona i giovani, che li aiuta ad uscire dalla loro apatia e che è profondamente trasversale ad ogni loro realtà di vita, da quella della appartenenza a quella della marginalità. È la risposta ad una loro profonda ricerca di “identità”. 

– La PG spesso si gioca sui grandi eventi che l’hanno contraddistinta in questi anni: pensiamo alle GMG, all’Agorà, all’incontro europeo dei Giovani di Taizé… Il rischio è sempre quello che sia una realtà emotivamente molto forte, ma che poi appassisce in fretta, al di là dei ricordi affettivi che ognuno porta con sé. La pastorale vocazionale è più legata al tempo della ordinarietà, al cammino del “dopo-evento” per dare la possibilità di elaborarlo e metabolizzarlo. Allora davvero può portare frutto. La PG sta alla PV, come la vita pubblica di Gesù sta ai 30 anni passati da Gesù a Nazareth!!! 

– Oggi è sempre più importante, come educatori e come presbiteri, imparare ad accettare la sfida che viene dal mondo giovanile di intercettare il loro bisogno di ascolto. E su questo spesso non ci trovano disponibili… oberati come siamo dalle mille cose da fare. Eppure, credo che una componente essenziale del ministero del presbitero, oggi, sia proprio il ministero della “consolazione”, della paràclesis, dell’essere accanto, come letteralmente ci dice la parola consolazione. È la via della prossimità, della vicinanza, così ben evocata dall’icona di Gesù che cammina con i due discepoli di Emmaus, o dell’icona medioevale del Maestro che cammina con il suo discepolo a fianco… 

– Questo apre anche la strada ad un cammino di accompagnamento spirituale, la disponibilità alla direzione spirituale. Certo, è un’esperienza che non s’improvvisa, ma essa deve fare parte degli attrezzi del mestiere di un presbitero… 

– Nel recente messaggio per la GMPV, il papa Benedetto parlava di “testimonianze luminose e commoventi” che inducono poi i giovani a dire sì… Non penso che dobbiamo essere altrettanti Giovanni Paolo II o Madre Teresa o frère Roger Schutz; ma sicuramente siamo chiamati a vivere la sfida di una coerenza tra quello che proponiamo e quello che viviamo. La martiria è la prima via di annuncio/proposta vocazionale… E, possibilmente, è una dimensione di testimonianza semplice e di speranza, di positività, perché di musi lunghi e di facce tristi e tenebrose è già pieno il mondo dei nostri giovani! 

– Noto che spesso i nostri adolescenti e giovani non conoscono neppure l’abc della Parola di Dio… Anche i più volenterosi e impegnati nei gruppi e nelle associazioni. Questa è una via straordinaria per declinare la Parola di Gesù in maniera semplice e a loro vicina, nel creare i presupposti di quello che amo chiamare una “fede umanamente sensata”, perché trova nella Parola di Dio molti spunti per un cammino di crescita di una vera umanità e affettività, di una disponibilità all’Amore. 

– “La Bellezza salverà il mondo”: è quanto proponeva il Card. Martini in una sua famosa lettera pastorale alla vigilia del Giubileo, riprendendo un’affermazione del grande romanziere russo F. Dostoevskji. Credo che la via estetica sia profondamente “vocazionale”; tutto ciò che evoca la bellezza, la musica, l’arte, la natura, le cose belle della vita non possono non portare a riscoprire la bellezza del volto di Gesù: “…il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto” (Sal 26, 8b-9). 

– E tutto ciò apre la via a creare una pedagogia della preghiera che rispecchi una sensibilità dei giovani, che tocchi le loro fibre, che parli il loro linguaggio. In questo humus la chiamata del Signore Gesù può ancora diventare viva ed efficace. 

 

Gli input che sono sin qui maturati, mi pare possano essere bene interpretati da un racconto semplice ma incisivo di Teofane il Monaco: 

“Lasciate che vi racconti cosa avvenne l’ultimo giorno del mio ritiro. Avevo detto al padre guardiano che non sapevo quando sarei potuto tornare, poiché molto probabilmente non ne avrei avuto il tempo. Egli, subito, replicò: “Il problema non è il TEMPO, il problema è la GRAVITÀ”. Poi si allontanò un attimo, scese le scale, e quando tornò aveva con sé un piccolo tappeto. “Ecco, tieni – disse – è un tappeto magico. Sedendovi sopra riuscirai a sottrarti alla tua gravità e potrai andare dove vuoi. Non è questione di tempo”. Ora so che è davvero così, ma la gente ride quando glielo racconto. Ridete anche voi? Benissimo. E allora rimanete dove siete.” 

Anch’io vorrei dire a questo punto: “I have a dream…”; porto in me un piccolo, grande sogno: che questo nostro incontro, che il nostro “camminare insieme” ci aiuti a superare il peso, la gravità del nostro io. Così ciascuno di noi potrà muoversi con una nuova intensità interiore, riscoprendo sia la bellezza del proprio cuore che la bellezza del volto di Gesù, nella piena libertà di un cuore chiamato a “diventare dono per far fiorire la vita”.

 

Note 

[1] Alcuni spunti ripresi in questa parte della proposta, fanno riferimento ai suggestivi articoli apparsi nella rivista “Credere oggi”, ed. Messaggero, Padova 1993, n. 3. In particolare cf I. DE SANDRE, Nuovi percorsi dei legami di coppia; A.N. TERRIN, Per una fenomenologia dell’amore umano; C. ROCCHETTA, La corporeità nell’educazione all’Amore; N. DAL MOLIN, L’amore vuole eternità: la progettualità nell’amore; B. BORSATO, Amore come apprendimento della alterità. È assai utile anche una rilettura della rivista del CNV, “Vocazioni”, n. 3/2003: Affettività, Sessualità e Vocazioni: quale cammino di maturazione nella Direzione Spirituale. In particolare gli articoli di E. BOSETTI, L. MAINARDI, A. CENCINI, G.P. DI NICOLA e A. DANESE).