N.04
Luglio/Agosto 2008

Paranoid Park

Presentato al Festival di Cannes, dove ha ottenuto il Premio della Giuria, il film è tratto dall’omonimo romanzo di Blake Nelson, uno scrittore dell’O che racconta storie di adolescenti e si pone in linea con gli ultimi lavori del regista americano: ELEPHANT, che mostrava la tragedia avvenuta alla Colombine e LAST DAYS, sull’ossessione autodistruttiva di una rock star. Qui l’autore si concentra sullo smarrimento esistenziale del mondo dell’adolescenza in un contesto ambientale alienato e “disordinato” (“paranoico” appunto). E lo fa ambientando la vicenda nella città in cui vive, Portland (Oregon), “un microcosmo da cui puoi osservare meglio l’America”.

 

La vicenda

È quella di Alex, un ragazzo “normale” di circa sedici anni, che vive a Portland.

Un giorno viene invitato da un amico (Jared) a recarsi all’East Side Skateboard Park, comunemente chiamato “Paranoid Park”, dove passano le giornate orde di giovani alla ricerca di emozioni e di evasione nel mondo magico e irreale dello skateboard. Alex ci va e ne resta affascinato. I due decidono di ritornarci il sabato successivo, ma, all’ultimo momento, Jared preferisce cambiare programma per andare in cerca di avventure amorose. Alex decide allora di andarci da solo. Qui incontra alcuni balordi che lo circuiscono. Con uno di questi, Alex vuol provare l’emozione di salire su un treno merci in corsa, che passa proprio vicino al parco. Scoperto da un guardiano che lo aggredisce, Alex si difende con la sua tavola di skate e provoca, involontariamente, l’orribile morte dell’uomo, che finisce sotto le ruote di un treno. Sconvolto per quanto accaduto, il ragazzo che non sa a chi rivolgersi, decide di continuare nella sua vita di tutti i giorni, mentendo e simulando come se niente fosse successo. 

 

Il racconto 

Si è preferito sintetizzare al massimo l’esposizione della vicenda per recuperare a livello di racconto altri elementi – pur narrativi – che tuttavia mutuano la loro significazione più dai modi strutturali (e semiologici) che dai fatti nudi e crudi. 

Va sottolineato innanzitutto il titolo del film, che corrisponde al nome che viene dato a quel parco di Portland: il riferimento è al termine “paranoia” (dal greco = follia; disordine o disturbo della mente), per indicare quindi qualcosa di anormale, qualcosa che nel linguaggio comune, e specialmente nel gergo giovanile, indica uno stato di confusione mentale, una condizione di crisi, di prostrazione psichica. 

Le prime immagini del film introducono subito in questo tipo di atmosfera. Sono le immagini (su cui scorrono i titoli di testa) del ponte e della città di Portland. Tutto sembra finto e irreale; la m.d.p. è fissa, ma quelle variazioni di luce, quel movimento fortemente accelerato delle automobili che sfrecciano per le vie della città e del battello che naviga sul fiume, quella musica di Nino Rota (tratta dal film GIULIETTA DEGLI SPIRITI di Federico Fellini), conferiscono a ciò che è rappresentato un carattere quasi magico, certamente affascinante, ma decisamente e pericolosamente irreale, in un certo senso “fuorviante”. Queste immagini sono chiaramente emblematiche, con funzione universalizzante: l’autore non intende parlare solo del parco o del mondo degli skaters, ma di tutta la città che, a sua volta, rappresenta quel microcosmo che, stando alle dichiarazioni del regista, permette di osservare meglio l’America.

 Inoltre queste immagini inaugurano, per così dire, tutto un filone – che verrà analizzato più avanti – caratterizzato da evidenti de/formazioni di tipo semiologico (sul cui significato ritorneremo). 

 

La struttura 

La struttura del film è alquanto complessa e articolata e non segue lo sviluppo cronologico della vicenda. Questa infatti è raccontata dallo stesso Alex, che scrive su alcuni fogli quanto gli è accaduto. Tutta la vicenda è quindi racchiusa all’interno di un grosso flashback, che però – a sua volta – non segue un percorso lineare. Si può notare che anche lo scrivere di Alex è, in un certo senso, “vicenda” (si potrebbe dire che il film è la storia di Alex che scrive raccontando la sua storia); tuttavia, come detto, si è preferito limitare la vicenda a quanto Alex rievoca e trattare a livello di “racconto” tutto il resto. Strutturalmente si delineano tre filoni

 

1. IL FILONE DELLA VICENDA 

Comprende tutto quello che Alex racconta in quella sorta di lettera che egli scrive su invito – come si capirà più avanti – di una sua amica, Macy. «Scrivo tutto alla rinfusa. Non sono mai stato bravo nella scrittura creativa. In ogni caso l’importante è scrivere», sentiamo dire da Alex, che si accinge a rievocare quanto gli è accaduto. Questo spiega – almeno in parte – lo spezzettamento della storia, i diversi punti di vista, le ripetizioni. «Al montaggio ho cambiato il posto ad alcune scene e accentuato quel senso di scomposizione che evidenzia lo stato d’animo di Alex», ha dichiarato l’autore [1]

Questa impostazione strutturale ha anche la funzione di creare una sorta di “suspense” (lo spettatore viene a conoscere poco alla volta ciò che è successo) e di trasmettere un senso di malessere esistenziale, a causa della non chiarezza della narrazione. Il racconto di Alex sembra essere costituito da due parti, da due momenti, o, forse, da una doppia narrazione: la prima parte va dalla scritta “Paranoid Park”, che il ragazzo traccia a matita su un foglio di carta, fino al momento in cui Jared s’accorge dell’acquisto di una nuova tavola da skate da parte di Alex; la seconda parte va dalla ripetizione della scritta fino all’invito che Macy fa ad Alex, di scrivere una lettera per raccontare ciò che gli è capitato e che rappresenta il motivo del suo turbamento. Nelle due parti è possibile rilevare elementi di ripetizione, ma anche di differenza. Inoltre la prima parte arriva solo fino ad un certo punto e non rivela il fatto cruciale (l’orribile morte del guardiano): sembra essere soltanto un abbozzo di racconto. Mentre nella seconda parte gli avvenimenti sono molto più chiari ed esaustivi. Analizziamole brevemente, cercando di fare emergere anche i modi semiologici e i motivi tematici di fondo.

 

Prima parte 

Dopo la scritta, s’ode la voce di Alex che inizia a raccontare. Tutto è cominciato in una giornata di fine estate, quando Jared, un po’ più grande di Alex, invita quest’ultimo ad andare a Paranoid Park. Alex è incerto: «Non so se sono pronto»; ma Jared ribatte: «Nessuno è mai pronto per Paranoid Park». 

Emerge già un elemento di suspense e d’inquietudine: che cosa sarà mai questo Paranoid Park? 

Dopo una breve descrizione del parco, si passa all’interrogatorio di Alex da parte di un detective che sta indagando su un delitto. Da notare che nella seconda parte si racconta di un interrogatorio collettivo (di tutti gli skaters della scuola), mentre qui è solo Alex ad essere interrogato. 

Emergono pertanto alcuni elementi che riguardano il protagonista ed il mondo in cui vive. Alex si trova a scuola e viene chiamato tramite un megafono. È strana questa scuola (per certi aspetti ricorda quella di ELEPHANT): squallidi refettori, mancanza di professori, lunghi corridoi anonimi che vengono percorsi con indifferenza, nessun rapporto umano se non con quel detective sospettoso che lo interroga con apparente gentilezza. 

Naturalmente Alex risponde alle domande mentendo, ma veniamo a conoscere alcune sue caratteristiche: ha un fratello di circa tredici anni, una ragazza (Jennifer) e due genitori che sono «separati già da un po’ di tempo e stanno per divorziare». Significativa l’osservazione del poliziotto che racconta che anche i suoi genitori hanno divorziato e che per un ragazzo «non è una cosa facile da superare». Così come è importante la risposta di Alex alla domanda se i suoi genitori sapevano che lui avrebbe trascorso la notte da Jared (senza i genitori di quest’ultimo): la prima volta risponde: «Non credo che gliene importi un granché»; la seconda: «Non credo che a mia madre gliene freghi un granché». 

L’immagine è quasi sempre su di lui, lo “punta” per spiare le sue reazioni: il ragazzo sembra completamente apatico, ma un gesto istintivo tradisce la sua tensione quando il poliziotto nomina lo skateboard (e si sente un urlo, probabilmente quell’urlo atroce che si era impresso nella mente del ragazzo). 

Poi Alex ripercorre quel lungo corridoio e l’immagine lo riprende col ralenti, mentre la sua figura risulta sempre più in ombra, ad indicare il turbamento e il disagio, nonostante l’apparente indifferenza. 

Riprende il racconto con le motivazioni che spingono Alex ad andare in quel parco: «Una delle cose più belle di Paranoid Park sono i tipi che stanno lì a skatare. Si sono costruiti tutto da soli, senza permessi: hippies con la chitarra, girovaghi acchiappatreni, ubriaconi, skaters veri, ragazzini di strada. Per quanto la tua vita faccia schifo, loro di sicuro se la passano peggio». 

Poi le osservazioni su Jennifer: «Era una bella ragazza, non le mancava niente. Solo che era vergine e questo significava che ad un certo punto avrebbe voluto farlo. E da quel momento la cosa sarebbe diventata molto più seria». 

È chiaro che Alex trova in quel parco una sorta di compensazione alla (e di evasione dalla) propria vita. Così com’è chiara la sua incapacità di impegnarsi in relazioni più serie, forse anche perché la stessa Jennifer non cerca qualcosa di serio, ma solo qualcosa da poter esibire, qualcosa di cui poter vantarsi (come si capirà in seguito). 

Ed ecco che Alex ritorna al parco. Questa volta da solo. Ma il suo pensiero va, significativamente, su altre cose (e qui parte un flashback all’interno del flashback): «…Tipo i miei genitori: mio padre in teoria se n’era andato, ma continuava a telefonare, a darci fastidi e mia madre non lo sapeva gestire per niente bene… E a tredici anni il mio povero fratellino aspettava solo di sapere che cosa avrebbe dovuto vomitare a cena: era devastato dallo stress… Intanto pensavo a Jennifer. Sembrava intenzionata a fare sul serio con me… ma avrei voluto che mi piacesse di più, che avessimo più cose in comune». Ritorna poi a parlare di quei balordi incontrati per caso e del suo desiderio di saltare sul treno in corsa. Poi, con un’ellissi, salta la descrizione del fatto cruciale e racconta un episodio che verrà ripetuto nella seconda parte: la notte trascorsa a casa di Jared e il suo tentativo di telefonare al padre. 

Poi lo vediamo con Macy, che ha intuito che gli è successo qualcosa. Alex all’inizio minimizza. Parlando del divorzio dei genitori, dice che ci sono cose più gravi, tipo «la gente che muore in Iraq o la fame nel mondo». Ma poi, con delle parole estremamente significative, si lascia un po’ andare: «Mi sento come se ci fosse qualcosa che non c’entra con la vita normale; cioè che non c’entra con gli insegnanti, con le storie che finiscono, con le ragazze. Qualcosa di sospeso a metà. Nel senso che è al di fuori. Cioè, sai, ci sono diversi livelli di cose reali. E poi, sì, qualcosa mi è successo». C’è, infine, un accenno a Jennifer, che vuol fare di lui il suo ragazzo e l’incontro con Jared, che nota la sua nuova tavola e lo guarda con aria sospetta. 

 

Seconda parte 

Sembra che il racconto di Alex riprenda daccapo con la scritta sul quaderno e l’invito (questa volta visualizzato) di Jared ad andare al parco. E qui vengono chiariti tanti elementi che erano rimasti in sospeso e viene sottolineata la reazione del ragazzo in seguito al tragico incidente. 

Prima di tutto, davanti alla notizia data dal telegiornale, in cui ci si chiede se si è trattato di una fatalità o di un efferato omicidio. Alex è evidentemente turbato. Lo vediamo leggere il giornale per cercare ragguagli (significativo che, in questo contesto, un giovane venga arrestato per detenzione di droga). C’è poi la convocazione degli skaters in segreteria e l’interrogatorio (questa volta collettivo) da parte del detective, che mostra loro la foto del disgraziato, letteralmente tranciato dal treno in due tronconi. Di fronte ai suoi compagni che sghignazzano, Alex va in crisi: «Io avevo cercato di cancellarmi dalla testa quel momento, ma la fotografia lo aveva riportato in superficie». È costretto ad andare in bagno, a vomitare. E poi, questa volta sì, la visualizzazione del terribile incidente. 

Alex è sconvolto. Sente il bisogno di dirlo a qualcuno e continua a ripetersi che si è trattato solo di un incidente, di legittima difesa. Ma: «Come potevo calmarmi? Il mio cervello avrebbe potuto delirare per tutta la notte». Ed eccolo rifugiarsi a casa di Jared, in una scena già vista, ma ora più particolareggiata. Alex si toglie gli abiti insanguinati e si lava. Tutta la sua angoscia viene resa dai modi semiologici: il rumore in crescendo dell’acqua della doccia; il gioco dell’illuminazione sul suo primo piano (con le mani davanti alla faccia); il suo “scendere” nella vasca fino quasi a scomparire dal quadro; la sua immagine sfocata quando si stende sul letto. Forse c’è una sola cosa da fare: «Avevo bisogno di dirlo a qualcuno, di togliermi quel peso di dosso. La persona giusta con cui parlarne era mio padre… Al solo pensiero di dirglielo mi sentivo già sollevato». 

Lo rivediamo nel tentativo di telefonare al padre, ma poi, subito dopo, desistere. Perché Alex non telefona? Evidentemente sa di non poter contare su nessuno. Lo si capirà meglio in seguito, quando avrà occasione di parlare col padre che gli annuncia il divorzio: nonostante le belle parole, l’uomo è ripreso con evidenti sfocature (segno della sua inconsistenza) e, quando viene messo a fuoco, si vedono le sue braccia completamente tatuate (segno di superficialità e di narcisismo). Alex non può contare neppure sulla madre, altra figura inconsistente (si sente la sua voce fuori campo, poi la si vede in Campo medio, ed infine ripresa di spalle): fa delle domande al figlio e si accontenta delle sue imbarazzate risposte, senza andare a fondo. Non può contare su Jennifer, da cui si lascia sedurre nella più completa indifferenza, per poi lasciarla poco dopo aver costatato la sua vacuità e il suo esibizionismo. Non può contare sugli amici, che pensano solo al sesso e fanno discorsi banali e utilitaristici (significativa la sottolineatura della solitudine di Alex, nella scena in piscina con gli amici, con il suo volto che viene reso sempre più scuro). 

L’unica che dimostra un po’ di saggezza e che fa qualcosa per lui è Macy. Dopo aver osservato (finalmente un discorso serio!) che «…il nostro problema è proprio questo: a nessuno frega niente di niente; la gente è apatica», ella suggerisce ad Alex una soluzione, quella di scrivere una lettera: «Quello che conta è riuscire a sfogarsi, solo così troverai un po’ di pace… Quando ti sarai sfogato ti sentirai subito meglio… Però ci sono delle regole: va scritta a qualcuno di cui ti fidi, con cui ti senti davvero di parlare. Quindi, niente genitori, niente professori. Scrivila ad un amico… scrivila a me». 

 

2. IL FILONE DI ALEX CHE SCRIVE 

Tutta questa storia è raccontata da Alex in quella lettera che Macy lo aveva invitato a scrivere. La scrittura della lettera diventa pertanto un vero e proprio filone strutturale, con un suo preciso significato. Alex si trova nella casa vicino al mare dello zio Tommy (altra figura di adulto inconsistente: si limita a chiedere al nipote che cosa stia facendo e l’immagine lo riprende sempre in modo parziale). 

La scrittura della lettera avviene in parte all’interno della casa e in parte su una panchina vicino al mare. La m.d.p. segue il protagonista nei suoi spostamenti con lunghe carrellate, riprendendolo in figura intera (vestito con quella felpa col cappuccio), sia da dietro (quando va verso il mare) sia frontalmente (quando torna verso casa). Alex scrive, strappa i fogli, riscrive. Poco alla volta si delinea la sua storia, fino al compimento: «Adesso smetto, si è fatto tardi». Ma Alex, invece di spedire quella lettera a Macy, come ci si potrebbe attendere, la brucia. I fogli alimentano quel fuoco che diventa sempre più alto, mentre s’ode una canzone suggestiva che sottolinea l’importanza di quel gesto. Perché Alex non spedisce quella lettera? Forse ha pensato che neanche di Macy ci si poteva fidare; che anche lei fosse “interessata”; che non ne valeva la pena; che tanto tutto era inutile. Sta di fatto che il suo rimane uno sfogo personale, che forse lo libera dall’angoscia, ma che non si traduce in una vera comunicazione

E alla fine lo vediamo sui banchi di scuola con gli occhi chiusi, la faccia appoggiata sul dorso delle mani, in un atteggiamento di totale apatia, completamente assente al richiamo dell’insegnante. 

 

3. IL FILONE DELLE IMMAGINI DE/FORMATE 

Sono soprattutto le immagini del parco e degli skaters. Ma non tutte. Certe volte le immagini sono “normali”, possiedono cioè una funzione descrittiva. Si tratta di un parco frequentato da una fauna umana come quella descritta da Alex nel suo racconto, pieno di murales, di ostacoli e di tracciati che favoriscono le evoluzioni di questi giovani «duri e puri». Ma spesso le immagini sono fortemente de/formate dall’uso della telecamera digitale (spesso montata sulla tavola da skateboard), che, come in una specie di danza, accompagna lo spettatore in un mondo irreale e affascinante. Numerosi gli slow motion, le angolazioni e le inclinazioni suggestive, le musiche composite che vanno dal grunge al post-punk radiofonico. È significativo che questo parco venga definito come attraente e pauroso al tempo stesso («Nessuno andrebbe mai a Paranoid Park da solo: quel posto è angosciante», dice uno dei ragazzi durante l’interrogatorio). 

È importante notare che tali modi semiologici richiamino le immagini iniziali del ponte e della città, concludano il film (in cui gli skaters non sono più nel parco ma in vari luoghi della città) e si “trasmettano”, per così dire, alla stessa storia di Alex. È come un clima, un’atmosfera magica e ipnotica che investe tutto, conferendo alle cose un aspetto affascinante e attraente, ma che, come dice Alex, «è qualcosa di sospeso a metà, è al di fuori», e quindi impedisce il contatto con la realtà (proprio come avviene con l’uso della droga e nello stato paranoide). 

 

Significazione 

Il parco, che dà significativamente il titolo al film, diventa pertanto metafora non solo di una città, ma di un sistema di vita sostanzialmente falso, inautentico, privo di valori, benché affascinante. Un sistema in cui le istituzioni hanno un ruolo puramente coercitivo (il ragazzo arrestato per droga, la figura del detective), o sono inesistenti (la scuola, la famiglia), o pensano ad altro («Gli adulti pensano solo ai soldi; non vedono altro», afferma uno dei ragazzi in piscina). Un mondo alienato, paranoico, all’interno del quale un giovane “normale” («Alex è solo un adolescente che vive un momento critico. Non lo giudico, lo osservo», ha dichiarato il regista), cui capita di fare un’esperienza traumatica, non trova nessuno con cui comunicare e confidarsi e può soltanto sfogarsi (solipsisticamente) per liberarsi da quel trauma. Per poi rituffarsi e lasciarsi assorbire in quel mondo fuorviante e deresponsabilizzante. 

Un film complesso e difficile da leggere, ma che, se opportunamente presentato e compreso, può contribuire a far riflettere sul vuoto di un mondo alla deriva, di cui i giovani sono al tempo stesso rappresentanti e vittime.

 

Note 

[1] V. CIAK, n. 12 / 2007, p. 73.