N.04
Luglio/Agosto 2008
Studi /

Un dialogo di crescita in “presa diretta…”

Riportiamo in questo numero i passaggi essenziali dell’incontro assembleare che si è svolto presso il Centro Carraro di Verona, nell’ambito del seminario di formazione alla direzione spirituale, la mattina del 27 Marzo 2008. In questo incontro sono state riportate le domande maturate nei laboratori, che hanno trovato risposta in un dialogo comune tra partecipanti ed esperti: Gabriella Tripani e Andrea Peruffo. 

 

È opportuno entrare nella storia personale di chi è accompagnato per leggervi una storia esistenziale? Come aiutare un giovane a raccontare la propria storia? Come sollecitarne la ricerca e la risposta vocazionale? Con il rispetto del criterio di ognuno? Quali suggerimenti e proposte? 

Andrea Peruffo

Non abbiamo la pretesa di dare risposte esaustive: non abbiamo ricette, ma cerchiamo di mettere insieme qualche idea e, a partire dalla nostra esperienza costruire percorsi. 

È necessaria la consapevolezza di avere davanti a noi una persona che è“mistero”, che si costruisce come mistero, che si autocomprende giorno dopo giorno, nel divenire della sua storia. Essa, mentre capisce chi è, capisce anche quello che le manca; si autocomprende in una prospettiva apertura, non tuttavia a priori e totalmente, ma a partire da una propria esperienza, da una particolare situazione, in cui si rende conto che ogni realtà rimanda ad altro. Non è qualcosa di semplicemente pensato, bensì qualcosa di vissuto e di esperienziale. Questa è l’idea di mistero…

 Noi non abbiamo bisogno di dimostrare che l’uomo è un essere razionale: se lo paragoniamo all’animale, per quanto intelligente esso sia, vediamo subito la differenza e non c’è bisogno di una ulteriore dimostrazione. 

Ugualmente, il “mistero” nella nostra vita si svela giorno dopo giorno, si esplicita in modalità sempre nuove. 

Perché è importante questa prospettiva? Perché ci aiuta a capire che, nel nostro servizio, non possiamo applicare risposte standardizzate. 

La fatica più grande di un accompagnatore e di un educatore è quella di trovare delle risposte adeguate. Abbiamo visto insieme delle situazioni di vita: che risposte dare alla ricerca di Erica? Ognuno, a partire dalla propria esperienza, ha cercato di dire qualcosa, però mi sembra che non ci sia una risposta più giusta di altre… 

Forse ci sono risposte che, a partire dai dati che abbiamo, non sono propriamente adeguate, vanno magari a ripercorrere difficoltà che abbiamo sempre presenti: quello funziona 

o non funziona, quindi si vedrà poi, strada facendo, senza delegare, senza togliere la libertà alla persona stessa. È una premessa importante, altrimenti qualcuno potrebbe dire: ma… non mi hanno risposto! 

Sulla prima domanda: relazione tra storia personale e competenze. Certamente ci sono delle competenze diverse, però un minimo di competenza personale ciascuno di voi, nel percorso che ha compiuto, è chiamato ad averla e ce l’ha. 

La prima competenza è “imparare a vivere”: questa è una competenza che, più che sui libri, si impara dalla vita stessa. Pertanto, se nel vostro istituto, nella vostra comunità, nella vostra diocesi qualcuno vi ha chiesto la disponibilità per un servizio di accompagnamento, certamente c’è una chiesa, una comunità che ha visto in voi delle capacità, delle possibilità. Questa competenza nasce quindi dalla vita e non dobbiamo abdicare, delegando ad altri: “Ma io non sono un esperto… meglio che quel giovane vada da uno psicologo, meglio che vada da quel prete; meglio che vada da quell’altra suora, ecc… No, c’è una competenza di vita che ciascuno di noi è chiamato ad acquisire. Essa è possibile nella misura in cui sappiamo fermarci e riflettere sulla nostra vita. Credo che questo sia importante. Non è solo la successione cronologica di tante esperienze che ci rende competenti, ma la “rilettura personale” che ciascuno di noi ha fatto e sta facendo delle proprie esperienze, dei propri vissuti. 

Come leggere la storia personale dell’altro? 

Se io sono abituato a rileggere, alla luce della fede, la mia storia personale e i fatti della mia vita, avrò acquisito degli strumenti umani e spirituali per aiutare a leggere la storia di un giovane. È importante che ciascuno sappia assumersi questa responsabilità. Una responsabilità che deriva non solo dal servizio affidato,  ma da un’intensa vita interiore e spirituale. 

Si potrebbe tradurre così: ciascuno di noi dovrebbe avere imparato qualcosa dalla propria esperienza. Se non impariamo niente dalla nostra esperienza, probabilmente ci sono difficoltà da parte nostra. All’esperienza dell’altro possiamo accostarci dopo aver attinto all’esperienza della nostra vita interiore. 

Vi sono certamente domande possibili da fare, su aree di ricerca importanti. Nel caso di Elda, per esempio. Dalla prima parte del suo racconto ricaviamo un insieme di dati: che cosa l’ha portata lì? A questo punto si può formulare una domanda: “Ma chi sei tu?” È una domanda per un percorso di conoscenza. Chi sei in quanto storia? Chi sei in quanto famiglia? 

Ecco che la storia personale risponde alle domande: “chi sei, che esperienze hai fatto, che percorso di vita hai avuto, che formazione hai?”. Vicino al “chi sei?” c’è un “chi sei nella fede?” Cioè, tu che vieni a chiedere di fare un’esperienza in missione, come sei giunto a porre questa domanda, e perché la poni a me, responsabile di una comunità religiosa e non la fai ad un’organizzazione non governativa, che fa proposte molto più ampie? Perché vieni da me e non vai da un’altra parte, dove la fede non c’entra niente?… Quale percorso di fede ti ha portato qui? 

Un’altra area che mi sembra suggestiva da indagare è senz’altro quella del modo di porsi in relazione: come la persona vive le sue relazioni. Ha qualche amico, qualche amica? È significativo! Questa è un’area importante anche in vista di un’esperienza che porta a confrontarsi, a mettersi in ascolto, a dialogare con l’altro. Nella vita consacrata la dinamica delle relazioni è fondamentale. 

Un’altro aspetto significativo è il mondo dei desideri, il mondo degli ideali; che sogni hai? Che paure hai? Che cosa vorresti?… Non è che tutto si possa fare la prima volta, ma gradualmente, in un processo di conoscenza progressiva: sono elementi significativi sui quali soffermarsi. 

Ci potrebbe essere anche un’altra via da percorrere (qualche accenno lo trovate nel fascicolo inserito nella cartellina, che si riferisce al seminario dello scorso anno su S. Agostino): è il “percorso del racconto autobiografico”. Si potrebbe chiedere uno scritto autobiografico: come ti racconteresti, come ti presenteresti a me? 

Può essere un modo attraverso il quale far maturare un dialogo nell’incontro successivo, dal quale possono nascere domande sulle quali interrogarsi o approfondire… “Vedo che c’è stato un momento difficile… che cosa è successo… perché…”. Potrebbe essere una via che, in un contesto di accompagnamento vocazionale, ha una sua valenza, una sua significatività; come metodo è “molto meno psicologico”, per non dare l’impressione di essere lo psicologo che fa l’intervista per sapere chissà che cosa. È molto più relazionale, più umano ed efficace, soprattutto se in esso si sanno decifrare momenti di serenità, momenti di passaggio come li ha vissuti la persona. Ci si può soffermare insieme sul racconto che la persona fa in alcuni fogli, cos’è successo, come ha vissuto i momenti di passaggio che descrive. È un sottolineare certi passaggi da un prima ad un dopo, da una modalità ad un’altra, oppure: “Come vivevi? Che cosa ti dava serenità?”. 

Dal racconto possono emergere momenti di tranquillità: era tutto veramente tranquillo, oppure sotto sotto covava qualcosa? E ancora: “cos’è che ti rendeva tranquillo in quel momento?”. Questo è un metodo molto indiretto, ma aiutandoci a conoscere la persona, ci permette anche di indagare su alcuni suoi aspetti specifici. In questo senso credo di aver risposto alla domanda: “Come aiutare un giovane a raccontare la propria storia?”. 

Serve molta pazienza, perché non è possibile raccontarsi tutto d’un fiato e in maniera quasi… affannata. Ci possono essere situazioni in cui la persona ha voglia di raccontarsi subito o ci può essere la persona che è più discreta, timida; quindi lo stile è diverso. 

Bisogna tener conto della differenza culturale: per esempio, è diverso dialogare con un giovane italiano piuttosto che con una persona di un altro paese, dove il riferimento culturale può incidere sulle modalità relazionali con cui uno esprime i propri vissuti: questo è molto importante. Il non avere fretta può essere un elemento di aiuto; successivamente, quando si sarà creato un minimo di fiducia, si potrà essere più precisi. Su una certa situazione si può “glissare” una prima volta, forse anche la seconda, però in seguito ci si dovrà soffermare con più attenzione. Mano a mano che si stabilisce una certa sintonia e viene a stabilirsi quel “rapporto magico” a cui si faceva riferimento, nel momento dell’incontro profondo si percepiscono certe sfumature, si comprende se è bene forzare un poco o se è saggio attendere. Di regola, meglio non forzare! Alcune situazioni problematiche emergono dopo mesi e mesi di lavoro. 

Su come accordare l’opportunità di sollecitare la ricerca e il rispetto del “mistero”, ci sono i tempi giusti per le proposte. Che cosa vuol dire giusto? In base a cosa è giusto? 

Noi dobbiamo avere in mente la gratuità del nostro lavoro: questo elemento ci aiuta ad avvicinarci… Gratuità significa: agire per il bene della persona, perché in questo momento ha bisogno di questo piuttosto che di quest’altro. Le faccio anche “quella” proposta, anche se non ha niente a che fare con la mia comunità, con il mio istituto. È vero che noi animatori vocazionali siamo sollecitati tante volte dai numeri, dal sentirci dire: “ma tu lavori, lavori e non si vedono risultati…” ma non è questo che ci aiuta ad essere gratificati! La serenità nasce dal come facciamo un determinato servizio. Tanti giovani si arrabbiano, sono sospettosi e si chiudono, se avvertono che certe proposte non sono gratuite, ma nascono dalla voglia di “catturarli”. Alcuni sono molto sensibili e pensano: “ecco che mi vogliono incastrare”; e allora scatta il desiderio di libertà, di autonomia: “…io non mi faccio incastrare!”. 

Questo è un criterio generale, ma è anche molto preciso. È vero che verso qualcuno potrei avere delle aspettative, dei desideri: mi faccio amica di quella persona perché vedo che ha delle potenzialità; ciò è normale! 

Poi è importante che ci sia un desiderio di curiosità; il lasciarsi provocare da parte dei giovani è un elemento importante. Quando posso far qualcosa? Quando vedo che c’è uno spiraglio… si sta aprendo una possibilità e in quella possibilità c’è un desiderio di vita, c’è un mistero che si sta esprimendo, forse è confuso, ma si sta esprimendo; dentro a quello spiraglio sta la nostra capacità di porre una domanda come provocazione ad una risposta. 

La sfida è quella di porre la provocazione nel momento opportuno, in modo tale che poi ci si lavori dentro. “…Ma non ci avrei pensato…” 

Una domanda che ha poi trovato un terreno fertile dove lavorare, maturare… magari buttata lì tra il serio e il faceto oppure fatta al gruppo, ma riferita direttamente ad una persona, poiché conoscendo quel giovane mi rivolgo direttamente a lui. 

Potrebbe dirmi: “ Mi guardavi… perché?” “Ti guardavo, perché quella domanda potrebbe essere interessante anche per te”. Capite? È importante suscitare le domande almeno sugli inizi del cammino… 

 

Talvolta sembra di non avere desideri… Come arrivare al desiderio di desiderare?

Gabriella Tripani

Se sembra che una persona non abbia desideri, penso a quanto essi siano impliciti o espliciti. Credo che il caso di Erica aiuti a capire quanto delle “mezze frasi” dette possano rivelare desideri molto più grandi di quello che la persona stessa è capace di verbalizzare ed esporre chiaramente. In ogni modo, ammettiamo davvero che ci si presenti un giovane che sembra non desiderare o desidera pochissimo: noi parliamo sempre di giovani che arrivano, giovani che incontriamo; in ogni caso la prima cosa da fare è domandarci se crediamo che c’è un intimo desiderio nella persona. È una condizione di incontro… 

Siamo convinti che un giovane ha dentro di sé una vocazione? E che di conseguenza ha dentro di sé un desiderio? Dobbiamo interrogare noi stessi, se pensiamo che ci sia gente che non ha speranza! Crediamo che c’è un desiderio in ogni persona? Io parto da questo presupposto. Ho usato la parola “vocazione”: parliamo quindi di un desiderio spirituale. Ma c’è anche un desiderio umano di crescita: pertanto bisogna partire dalla convinzione che la persona, per quanto bloccata possa essere, vuole stare meglio e potrebbe sperimentare che essere più maturi è sempre meglio che essere meno maturi. 

Noi dobbiamo credere che dentro la persona c’è questa apertura. 

Questa è quindi la prima convinzione da cui ciascuno dovrebbe partire: credo che c’è un desiderio, un’attesa, però riconosco – perché questa è l’esperienza – che a volte ciò non appare. 

Come mai il desiderio non si vede e non emerge? È essenziale interrogarsi sulle ragioni per cui la persona seppellisce il suo desiderio. Possono essere varie: uno può non permettersi di desiderare perché ha paura; perché desiderare vuol dire aspettarsi qualcosa e poi rimanere delusi e se una persona ha esperienze di delusione smette di desiderare. “Almeno dopo non sto male”. 

Generalmente è sempre quella la ragione vera per seppellire una cosa bella: la paura di sentirsi vulnerabili di fronte ai desideri. 

In qualche modo potrebbe esserci anche una mancanza di stimoli, di provocazioni… Ha già avuto esperienze di esposizione a desideri grandi? La persona è stata molto protetta, fino a quel momento, dal desiderare? E qui si potrebbe fare una parentesi sull’educazione nelle famiglie di oggi: il non educare i bambini a desiderare… Non voglio generalizzare, perché le situazioni sono troppe e troppo variegate, ma, in ogni caso, il fatto che ci sia una tendenza a soddisfare immediatamente i bisogni mi pare indiscutibile. 

Ora, soddisfare immediatamente un bisogno vuol dire togliere il tempo del desiderio. Questo è evidente sia nel mangiare una merendina all’ora che voglio, sia nell’avere subito il regalo che desidero; non si aspetta più né la domenica, né il compleanno. Non si desidera più: mi basta aver bisogno (che non è la stessa cosa del desiderio) e mi viene data la risposta. 

Anche di questo possiamo tener conto: una certa generalizzazione del “non desiderio”, perché non si è più abituati a desiderare e ad aspettare. 

Questa però è un’esperienza che possiamo aiutare a compiere. Mi riaggancio anche alle ultime parole di don Andrea sul provocare, sul non dare risposte subito, sul creare uno spazio di tempo in cui ho bisogno di una cosa e non mi viene data; è lì che nasce il desiderio, quello che si chiama, in termini psicologici, “la capacità di rinvio”. Io sento che vorrei una cosa e quella cosa non ce l’ho, devo aspettare; allora cresce il desiderio… l’abbiamo provato tutti: tanto più si aspetta, tanto più aumenta il desiderio. Quindi anche culturalmente potrebbe esserci la ragione di un certo appiattimento. 

A volte la persona è superficiale: ma che cosa vuol dire essere superficiali? 

Ci sono quelli che detestano le complicazioni, e anche solo il pensare, il riflettere potrebbero essere sentite come tali; anche nei gruppi ci può essere questa sensazione. Talvolta un aspetto di superficialità, un aspetto di “basta andare in fondo!”, è una reazione di timore di approfondimento o una reazione a complicazioni subite: “a casa mia ci sono molte tensioni, molti problemi; la mia ragazza è molto complicata e allora, semplifichiamoci la vita!” …e appiattisco tutto: in qualche modo, mi sembra di non avere desideri! 

Ci sono varie ragioni su cui ci si può interrogare. Ci sono anche persone molto più “quiete” che non sentono molto, e questo bisogna rispettarlo. 

Qualche volta bisogna aiutare a formulare la domanda: in realtà non è che la persona non desideri niente, ma desidera stare in pace… stare tranquilla! Occorre aiutarla a formulare la domanda. 

Quindi serve lavorare su questa linea: cercare le ragioni e il desiderio emerge prima o poi. 

Guardiamo come si è comportato Gesù con la Samaritana: quella donna, che andava di routine al pozzo per attingere l’acqua, sembrava non avesse nessun desiderio. Invece in lei il desiderio si è risvegliato quando Gesù l’ha invitata a chiedere a lui l’acqua, …le sembrava più comodo, ma la domanda di Gesù è abilissima, molto profonda… diretta: “Vai a chiamare tuo marito e poi torna qui…!” Dal fatto che lui sapeva… Allora anche noi dobbiamo cercare di sapere, di conoscere un po’ la persona e saper fare le domande che toccano, che svegliano qualcosa nella persona stessa. 

 

Quali sono i tratti della paternità spirituale?

Andrea Peruffo

Mi sembra importante sottolineare innanzitutto una distinzione che non è indifferente. È il caso in cui uno è in noviziato o in seminario e ha delle figure di riferimento che la congregazione, o la struttura, garantisce. 

C’è un altro caso, quello della pastorale giovanile-vocazionale, dove incontriamo dei giovani che possono o meno chiedere un aiuto. Una delle cose sulle quali mi sto interrogando è questa: in base a cosa un giovane pone la classica battuta: “posso scambiare due parole con te?”. In base a che cosa un giovane, una giovane, “chiede ascolto” ad un adulto, ad un prete, ad una suora, ad un animatore,… ad un formatore? 

Cos’è che rende interessante agli occhi di un giovane la persona che gli sta di fronte? Credo che in ciò sia presente un elemento importante: se e come la nostra vita è “interessante”. 

Interessante vuol dire che sa colpire. In termine mediatico, si direbbe “bucare lo schermo”, cioè sa entrare… Si crea una sintonia tra il desiderio che il giovane ha di un’esperienza di vita, di una situazione esistenziale che porta dentro di sé, e magari non è ancora ben espressa, e quella che l’adulto vive e concretizza nella sua vita. Questo è un primo tratto di un padre e di una madre spirituale: e cioè quanto sappia vivere in pienezza, seppure in cammino, la propria vocazione. 

Un secondo aspetto, con alcuni altri elementi molto concreti. Si accennava alla “gratuità”, legata ad un amore gratuito: il padre, la madre è colui/ colei che ama gratuitamente. Sta a noi valutare quanto, come, se una telefonata è inopportuna o no. 

Gratuito vuol dire che è libero, ma anche capace di suscitare nell’altro la libertà di esprimersi. Ci sono delle persone che si donano, altre che trasmettono tristezza e pesantezza. Se voi ci pensate, ritrovate qualche esperienza della vostra vita: provate a pensare ai rapporti con i vostri padri o con le vostre madri spirituali. 

Se il padre e la madre sono coloro che, non solo accolgono e amano, ma anche introducono al mondo, spingono, aprono, allora qui abbiamo un’altra dimensione importante: uno che certamente aiuta e che certamente c’è, è anche uno che non è possessivo, ma è capace di lasciar andare. 

Quante volte un certo senso di protezione fa dire: questa è una “mia creatura”, l’ho scoperta io; quella la gestisco io; quella è parte del mio orto, quindi là tu non ci mettere il naso! E quanta fatica è presente nei vari passaggi formativi nelle comunità religiose, nella vita del seminario, per lasciare una guida e passare ad un’altra. Ci sarebbero delle riflessioni da fare su questo… quello che è importante è che la persona possa essere libera: “Ora vai, perché puoi camminare, perché hai degli elementi interessanti, perché ti puoi fidare della persona che troverai”. 

Non l’ho detto finora, ma è importante sottolinearlo: una delle caratteristiche centrali, forse la prima, per un padre od una madre spirituale è che abbiano una propria vita spirituale; che, cioè, essi per primi, vivano intensamente il rapporto con il Signore. 

Altrimenti possiamo avere sapienza umana, ma non c’è paternità spirituale, almeno nel nostro contesto. È importante che ci sia una vita spirituale: qui ci sono anche parecchi testi, come quello già citato, “Generati dallo Spirito” di André Louf: un bel libro sulla paternità, sull’essere guide spirituali e accompagnatori. C’è anche un film, “La leggenda di Bugger Vance”. È interessante, perché è la storia di un allenatore di golf, interessantissima figura di esperto, che aiuta il giovane a fare una partita a golf e in qualche modo aiuta se stesso a riscoprire la propria vena, che aveva perduto. Ci sono alcune caratteristiche interessanti per una guida spirituale e per l’accompagnamento. 

 

Come accompagnare nel momento del dolore, nell’esperienza della croce? Quali attenzioni avere per riconoscere quando le crisi sono il passaggio di Dio e aiutano a crescere? Con quali criteri affrontare il momento difficile che la persona vive? 

Gabriella Tripani

Anche in questo caso partirei dal porre la domanda a noi stessi: siamo convinti che il momento della delusione, del fallimento, della sofferenza in generale, è un momento di grazia oppure no? Lo diciamo così per dire, ma facciamo di tutto per evitarli, oppure abbiamo fatto esperienza, almeno qualche volta, che realmente il momento di fallimento, di sofferenza, di delusione si apre alla luce “pasquale”? 

Prima di tutto, è da rafforzare questa convinzione, altrimenti si mandano messaggi ambivalenti. Si potrebbe pensare all’esperienza di Paolo in 2Cor,12 dove affronta la debolezza e la delusione con se stesso. Interpreta, cioè, il momento del fallimento in senso educativo, per poter crescere. L’esperienza di Paolo è molto chiara: la mia potenza si manifesta nella tua debolezza. Cioè, io sono un Dio così, che preferisce la debolezza: io sono il Dio crocifisso. Il momento di difficoltà diventa occasione per conoscere meglio il Signore. Nel momento in cui la persona espone la delusione, il fallimento, la sofferenza, bisogna dare spazio sufficiente per verbalizzarla ed esprimere il proprio dolore e la propria delusione. 

Non si dovrebbe immediatamente aiutare a vedere la positività comunque, anche se alcune volte si vuol difendere Dio. Il momento del fallimento smuove molte cose. 

È interessante vedere come nel vangelo le persone che vanno da Gesù ci vanno perché stanno soffrendo, perché hanno un bisogno. Se questo succede nel vangelo, è vero anche per noi: in fondo, anche noi cerchiamo qualcosa di più quando stiamo male, quando siamo delusi. L’importante è aiutare la persona a non rendere questa esperienza un capitolo chiuso. Come si diceva prima a proposito del “desiderare”, se un’esperienza di fallimento e di delusione non viene elaborata, verbalizzata, interpretata alla luce della fede e anche alla luce del cammino umano, rimarrà una scatola chiusa, seppellita da qualche parte, e ci sarà qualche area che non si vorrà toccare più. Questo è il senso per non chiudere il discorso, per aiutare ad interpretare: “Che cosa significa questa cosa che ti è successa?”. 

Questa è sicuramente la nostra esperienza ed è forse uno dei regali più grandi che possiamo fare ai giovani: non evitare loro fallimenti, delusioni, sofferenze, (comunque, non ci riusciremmo…), ma aiutarli a rileggerli con un senso. Un senso a livello umano, di crescita: quante cose ho imparato da quell’esperienza! O, ancora meglio, un senso profondamente spirituale e teologico: ho incontrato il Signore! 

 

Non dobbiamo essere difensori di Dio… ma come presentare il volto di Dio quando tace?

Andrea Peruffo

Il lutto e la sofferenza sono esperienze che possono aprire a Dio o possono chiudere. Come fare in queste situazioni? Dio non lo difendiamo, siamo d’accordo: lui si arrangia da solo a difendersi! Ma noi cerchiamo almeno di non fargli fare brutta figura, nel senso di vivere il rapporto con lui. Lo dico come esperienza e come considerazione. 

Credere non è facile per nessuno, né per noi né per i giovani che ci stanno davanti e dobbiamo avere questa consapevolezza: il momento del dolore, del lutto, sono esperienze che portano ad avvicinarsi, a fuggire o ad arrabbiarsi con Dio. Serve del tempo per cogliere il significato dell’esperienza di delusione e di fallimento. Sarà lo Spirito ad aiutare, a lavorare, a precedere. 

Tante volte questi sono problemi “forti”, che vanno a toccare in profondità il mistero della vita. Il nostro compito di accompagnatori è quello di essere vicini e presenti. Una regola per vivere il lutto, che vale sempre e comunque, consiste nel fatto che non è bene che nessuno soffra da solo; la comunità cristiana deve trovare i modi per far sì che nessuno sia solo. 

È stato pesante e difficile per Gesù vedere dalla croce gli amici che lo hanno lasciato solo e che al massimo lo “seguivano da lontano”. Quel seguire da lontano ci suggerisce di essere più prossimi rispetto a queste situazioni per le quali sembra che non possiamo fare niente. 

Ho in mente una persona che, a distanza di 27 anni, è riuscita ad ammettere la propria rabbia nei confronti del Signore per la morte di un fratellino di tre mesi. È una persona molto credente, impegnata in parrocchia, e qualche settimana fa mi diceva: “Ascoltando il brano della risurrezione di Lazzaro, che per me è un brano molto significativo…”. Cos’è che lo rende significativo? In qualche modo, io la provocavo in quel contesto, conoscendo la sua storia. “Quello che domando è soprattutto: se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto”. Per lei questa era una domanda centrale: “che senso ha che mio fratellino di tre mesi muoia? Per la prima volta, ho sentito dentro di me un tale disturbo… ho capito che ero arrabbiata con il Signore!”. Questa era una delle prime volte che lo diceva a se stessa, a distanza di molti anni nei quali aveva sepolto quel lutto che invece le creava difficoltà. Si parlava di accettazione… ma non è un fatto immediato; può essere necessario molto tempo per riuscire a dare un nome al proprio vissuto. 

 

A volte i giovani “chiudono” con la fede per colpa di determinate esperienze… Altri tornano alla fede a partire da quelle stesse esperienze. Riemerge il “passato” che non è stato ripreso… come gestirlo?

Andrea Peruffo

Si parlava di quanto e come il presente è capace di influenzare il passato, e di come il passato possa influenzare il presente, con tutta una serie di esperienze affettive… 

Un passato che ritorna: cosa dobbiamo fare? Lo si può paragonare alle mine antiuomo che continuano ad uccidere anche se la guerra è finita. Il passato rimosso è come una mina che è là, e può capitare che per errore si metta un piede, una mano ed essa esplode! 

Il passato ritorna, anche se la situazione che ha generato quel fatto è passata da molto tempo. Voglio dire: meno male che qualche volta c’è l’occasione di un passato che ritorna. Non è che noi dobbiamo recuperare tutto il passato; lasciamo perdere questa pretesa! 

È un’idea che non esiste da nessuna parte la necessità di scavare nel passato per trovarci tutto quello che vi è ancora nascosto. Ci sono cose passate e basta! 

Quello che può essere problematico sono le situazioni conflittuali che continuano a farsi sentire nel presente. Ma non è che si debba far emergere tutto, ed ecco… anni di lavoro, perché non ho risolto tutto. Ci sono lavori psicologici che vanno in questa direzione: anni e anni di introspezione per scavare il proprio passato… 

Ci sono alcune cose che meritano di essere affrontate, perché il presente ha riattivato un problema, ma ce ne sono altre passate e chiuse… lasciamole lì, non fanno niente di male, anche perché non le possiamo recuperare tutte!

 E poi, ci possono essere situazioni passate così problematiche, così dolorose che non dobbiamo metterci le mani, se non abbiamo una competenza specifica, perché talvolta c’è la possibilità di peggiorare le cose. 

Quindi… riconoscere che possibilità ho, ma anche riconoscere i miei limiti e trovare spazi di competenza di fronte ai quali devo sapermi rivolgere anche ad altri. Questa è la gratuità dell’accompagnatore, che sa dire: in questa situazione io ti posso aiutare; in quest’altra è importante che tu possa parlarne, però io ti posso solo ascoltare, non posso fare di più… forse un’altra persona potrebbe aiutarti con più competenza…. Ci sono situazioni in cui è meglio non mettere le mani senza un minimo di competenza e senza gli strumenti giusti per gestire situazioni che possono essere molto dolorose. 

 

Come l’educatore può gestire le emozioni (rabbia, tenerezza) nella relazione di aiuto? E come queste influiscono? 

Gabriella Tripani

Questa domanda è interessante perché rimanda a noi stessi: la relazione di accompagnamento è una “relazione”. Vuol dire che noi non siamo solo presenti a dire qualche cosa, ma siamo coinvolti anche con la nostra affettività; siamo coinvolti con tutta la nostra persona. 

Che cosa fare delle proprie emozioni? Quello che dico forse è banale, ma è bene ribadirlo. 

La prima cosa è conoscere le emozioni che noi proviamo, perché spesso invece, con una beata innocenza, ci sembra di essere molto liberi nei confronti di tutti i giovani che avviciniamo. Ma non è vero! 

Ci sono delle emozioni suscitate in noi dal fatto che la persona viene, dal fatto che la persona si apre, dal fatto che la persona dice, dal fatto che è un maschio o una femmina, dall’età che ha, ecc. Ci sono degli aspetti che influiscono sulla nostra persona. 

Si richiede poi una conoscenza di se stessi abbastanza approfondita, per capire che effetto mi fa e come gestisco una determinata situazione. Un esempio molto semplice: se un giovane tenta di dominarmi, io sento un po’ di fastidio e di rabbia nei confronti di questo giovane; allora dovrei riconoscere che sento la rabbia per questa ragione, e sapere che mi fa rabbia il fatto che una persona cerchi di dominarmi. È solo in quel momento che acquisto un po’ di libertà per essere consapevole di che cosa voglio fare per rispettare lo scopo di aiutare questa persona; non devo vincere io, se provoca in me dominazione; non decido io che cosa fare o se mi fa paura, …per cui pian piano riduco gli incontri, invece che ogni mese, ogni mese e mezzo; invece che ogni mese e mezzo, ogni tre mesi, così poi sparisce, perché mi mette soggezione, m’intimorisce; è una persona troppo dominatrice e io non l’accetto… 

Quindi, la prima cosa da fare è proprio conoscersi, sapere che cosa suscita in me questa persona e quindi poter decidere con libertà. 

Un punto ancora molto importante è la scelta di non gratificarci, la scelta di non gratificare se stessi nell’incontro con il giovane. Anche questo sembra molto ovvio, ma non lo è! 

Dopo un po’ di tempo, quando c’è una particolare sintonia e quando ci sono particolari situazioni ci può essere, anche inconsciamente, questa voglia e si comincia a gratificare se stessi. Qualcuno lo incontrate volentieri, altri non li incontrate volentieri. 

Va bene, non è possibile incontrare tutti volentieri allo stesso modo, no? Però prendetene coscienza! 

Che cosa fate allora con quelli che incontrate più volentieri? Magari ha più bisogno un’altra persona, che è più difficile, che non riuscite a capire, che protesta sempre, che si lamenta spesso… e invece il primo segue così bene, ascolta, è più facile da seguire: ma siamo sicuri che è meglio incontrare più frequentemente il secondo che non il primo? Ma se non ci pensiamo, inconsapevolmente seguiamo la via della nostra gratificazione. 

Occorre quindi osservare cosa proviamo coi giovani, le differenze che facciamo fra di loro, quanto tempo diamo, quanto parliamo di loro, quanto li lasciamo andare, quanto tempo lasciamo tra un colloquio e l’altro. 

C’è una frase molto bella di don Manenti, che nel suo libro “Pensare psicologico”, parlando della relazione di aiuto, dice che la dedizione di sé comporta molte cose tra cui, per esempio, staccare il telefono mentre si parla con i giovani: è un aspetto molto concreto, ma molto vero, per non essere disturbati nel tempo che si dà. Può essere un tempo limitato, ma quel tempo è dato tutto a loro e la forma migliore della dedizione di sé è essere “tutto” per quella persona nel momento dell’incontro e poi dimenticarla tra un incontro e l’altro. 

Non vuol dire naturalmente che non posso preparare il prossimo incontro, ma mi pare che significhi non rimanere con la persona se è solo per la mia personale gratificazione. Sono capace di metterla in disparte e di rincontrarla di nuovo, quando ha bisogno lei e non io. 

Aggiungo un ultimo punto, che mi sembra molto importante: in linguaggio psicoterapeutico si parla di “controtrasferenza”: è quello che la persona mi fa provare dentro, in un rapporto. Una controtrasferenza avviene in qualsiasi relazione d’aiuto: la persona si relaziona con me in un certo modo, come lei sa relazionarsi con le persone che l’aiutano, e in me fa nascere una certa reazione di risposta. Ora, prendere coscienza di questa mia modalità di risposta al suo modo di essere con me, è molto utile anche per capire la persona stessa. 

Ci sono dei momenti in cui mi sento come sua madre: è la persona che si pone nei miei confronti trattandomi da madre e mi suscita dentro lo stile dell’essere madre. È molto utile che io mi renda conto se in quel momento la persona sta cercando in me una madre o un padre o un fratello, o è arrabbiata con me o sono io quel Dio con cui è arrabbiata, perché in fondo sono una persona consacrata… il prendere coscienza di quello che mi provoca questa particolare persona è molto utile, per conoscere anche lei.

Un certo livello di competenza, come diceva all’inizio don Andrea, l’abbiamo tutti e possiamo approfittarne un po’, purché siamo vigili e attenti su quello che proviamo durante i colloqui con i giovani. Non dobbiamo stare, quindi, semplicemente lì ad ascoltare, magari pensando addirittura ad altro, ma seguendo con attenzione i giovani e ascoltando continuamente se stessi. Ascoltando se stessi, occorre decidere come porsi e fare questo atto di rinuncia alla gratificazione personale: questo è uno dei doni più belli che possiamo fare ai giovani.

 

 

Moderatrice:

Le domande che i gruppi hanno preparato sono ancora parecchie, però rispondendo a quanto è stato preparato in precedenza non ci sarebbe interazione con quello che magari è stato suscitato dagli interventi appena fatti, quindi preferiamo fare altre domande libere a don Andrea e sr. Gabriella. 

Può darsi il caso di una persona che viene a parlare, si sfoga, ha bisogno, è coinvolta emotivamente e sta a lungo a parlare. Può essere che sia controindicato ascoltare a lungo e sentire anche cose molto personali della persona? Mi pongo la domanda perché in parte l’ho vissuta: come aiutare questa persona, con discrezione, a fermarsi un certo momento, perché quando ha finito il suo dire non si debba pentire di aver parlato troppo e di aver detto certe cose? 

Gabriella Tripani

Quando nel mio intervento precedente dicevo di lasciar parlare a lungo – faccio ora una precisazione – non intendevo nello stesso pomeriggio o nella stessa mattinata: intendevo parlare di un processo di elaborazione di quello che è successo, e dare la possibilità di esprimere quello che si è vissuto, ma naturalmente non intendo ciò come durata. 

Questa può anche essere una precisazione tecnica abbastanza utile: è sempre meglio stabilire un tempo (penso che lo facciate) per i colloqui con i giovani. 

Allora, quale elasticità usare? 

L’elasticità è dovuta al fatto che se il giovane, quando l’ora sta finendo, comincia a piangere, è entrato in un momento abbastanza difficile, non si può bloccare perché è passato il sessantesimo minuto! Ma questo non significa che normalmente uno può andare avanti delle ore. 

Non fa bene né a lui e non fa bene a voi, perché poi vi stancate, vi irritate dentro perché avete fuori molte persone che aspettano! 

Quindi occorre trovare il modo, il linguaggio giusto per dire: “oggi abbiamo questo tempo a disposizione”, per poi fissare un appuntamento per la volta seguente. 

Occorre trovare il momento di dire: “fermiamoci qui perché è sufficiente! Tu ci ripensi, ci ripenso anch’io, ci rincontriamo”. Ci sono molti modi di mettere dei confini. 

Può succedere, però, che la prima volta in cui viene una persona, si sfoghi su di un problema. 

Lì, magari, serve un po’ più di disponibilità per dare più tempo. Sulle cose molto personali – mi vien da dire – non se ne pentirà comunque se avete ascoltato veramente col cuore e riuscite a fargli fare esperienza positiva di quel che ha detto in assoluta riservatezza. 

Non ha ragione di pentirsene, anche se dovesse affermare: “non avrei voluto dirlo”, se la persona che lo ha ascoltato lo ha fatto con rispetto. Quindi possiamo evitare che se ne penta. 

Però capisco che ci possono essere persone psicologicamente disturbate. 

Se ci sono situazioni patologiche, in cui la persona “perde i confini”, allora s’interviene, dicendo: “per un problema così, puoi venire a parlarmene ogni tanto” – e fissate il tempo – “ma è bene che trovi una persona che ti aiuti”. 

Perché facilmente, se non è un giovane in particolari difficoltà in quel momento preciso, quando la persona dice troppo, disordinatamente e troppo a lungo, ha qualche problema più serio. 

Quindi bisognerebbe essere capaci di intuire se è una patologia seria 

o se invece è un momento per cui la prima volta potete accettare che lo sfogo sia prolungato. In seguito dovete mettere dei confini, che sono utili sia a lui che a voi. 

 

Andrea Peruffo

Sul discernimento comunitario e personale, credo che quasi sempre le comunità formative abbiano più persone di riferimento. Questo perché in più persone si coglie meglio la situazione. 

È chiaro che poi il giovane avrà una madre spirituale, un padre spirituale, avrà una guida, qualcuno che lo segue più direttamente, però, al di là di un tipo di racconto che viene fatto alla guida, all’accompagnatore, ci sono tante cose che si vedono tutti insieme ed è importante confrontarsi. 

A mio parere, è importante avere chiarezza sui ruoli, perché spesso la confusione di ruoli e di competenze crea difficoltà in comunità che non sono interattive e che non sono educative. 

Oppure ci sono situazioni in cui tutti parlano con tutti e non si capisce bene chi è il vero responsabile. Allora è importante mettere insieme la responsabilità di una figura singola con la responsabilità di un gruppo che abbia delle competenze particolari (penso ai noviziati e ai seminari, realtà in cui si trovano delle figure ben precise). 

Penso anche che se c’è un’équipe educativa sia importante scambiarsi qualche opinione; poi ci sarà una figura direttamente responsabile nelle situazioni legate a scelte definitive o importanti. 

La Chiesa, quando ci sono scelte definitive, prevede qualcuno che deve decidere: il vescovo, il superiore, la maestra delle novizie… Ogni congregazione ha le sue regole in questo senso! 

Nella vita religiosa, il noviziato è un tempo prolungato, un tempo preciso che ha un inizio e una fine. In tanti giovani che fanno cammini di ricerca o altre esperienze, c’è un inizio ma non c’è mai una fine… 

In certi casi, un educatore dovrà anche dire: “Senti, è il quinto anno che fai questa esperienza. Non è che forse devi decidere o che comunque vale la pena di… fare qualcos’altro?” 

Nella mia diocesi, per scelta, l’esperienza nel gruppo diocesano dura un anno solo. Ciò crea qualche disagio in tantissimi giovani, che vorrebbero prolungarla e fare due anni… 

Abbiamo scelto, per una serie di motivi, di fermarci ad un anno, dopo di che il giovane è invitato a guardarsi attorno, non casualmente, ma a partire dal cammino fatto. Il passo seguente ha un senso se è stato fatto un cammino; quando si fa una scala c’è il primo gradino, c’è il secondo e c’è il terzo. Allora dobbiamo aiutare i giovani a dire: bene, questo è il primo gradino …ma il secondo qual è? …e il terzo? 

Qui dobbiamo essere un po’ esigenti, con tutte le flessibilità del caso, però dobbiamo anche, se i giovani non ne sono capaci, essere noi a dire, nel servizio che facciamo loro: “Senti, ti puoi dare una mossa? Una minestra troppo lunga… non fa bene a nessuno!”.