N.05
Settembre/Ottobre 2008

Possibilità e limiti di una pastorale vocazionale on line

 

 

 

 

 

Un argomento complesso ed alcuni rischi

Il tema che ci apprestiamo ad affrontare – non pretendendo di poterlo analizzare nella sua totalità – non rappresenta indubbiamente un facile “scoglio”.

Se è vero, infatti, che la pervasività dei new media, specialmente nelle fasce giovanili, nei ragazzi che frequentano i nostri oratori e le nostre scuole, rappresenta un elemento di indubbia rilevanza, è altrettanto vero che questi nuovi strumenti nascondono problematiche complesse, riferite ad ambiti educativi multidisciplinari quale quello psicologico, pedagogico, terapeutico, e quant’altro.

È giusto, perciò, anche se metodologicamente sarebbe più efficace un approccio “positivo”, definire alcuni rischi sui quali porre molta attenzione. Saranno una sorta di “paletti” che porremo sulla strada, certamente non facile da percorrere, della comprensione pastorale dei new media.

Il primo rischio – li enumero in ordine sparso – è quello di considerare questi nuovi media in una prospettiva totalizzante: se pensassimo, infatti, che questi media costituiscano in se stessi la totalità della comunicazione, incorreremmo in un tragico errore, ed ovviamente – proseguendo la nostra metafora – finiremmo subito fuori strada. Non esiste infatti “la comunicazione”, né si può pensare di vincolare ad un esclusivo “strumento” tutta la potenzialità comunicativa.

I nostri giovani, d’altra parte, non comunicano solo attraverso questi strumenti, ma per fortuna hanno ancora qualche alternativa di relazione, che va al di fuori della loro stanza e del loro computer.

Il secondo rischio rimane più “nascosto” e si annida all’interno del mondo degli “esperti”, e di chi si pone come “studioso” nei confronti delle dinamiche tecniche, pedagogiche, educative e pastorali che questi media realizzano tra gli utenti.

Il rischio è quello di limitarne lo studio alla semplice dimensione valutativa. Peggio ancora (se ci può essere cosa peggiore…) se si considera la dimensione valutativa una semplice verifica “pseudoscientifica” dell’effettiva possibilità di questi strumenti di essere in grado di veicolare dei contenuti.

Questo modo di concepire la verifica nasconde, infatti, un’errata concezione del rapporto tra teoria e prassi, oltre a celare in sé il principio in base al quale uno strumento consista “semplicemente” in un oggetto inanimato, atto – nel nostro caso – a veicolare dei “dati”, dei “bit”, delle “informazioni”.

Il terzo ed ultimo rischio – se vogliamo anche quello più banale, ma sempre presente nel nostro modo di pensare i new media – è quello della “classica” contrapposizione dialettica, sia a livello di studi che a livello di confronto ecclesiale e pastorale, tra “integrati” ed “apocalittici”; tra coloro che mitizzano i new media come la panacea della “nuova comunicazione” e coloro che individuano in essi uno “strumento del demonio” o, peggio ancora, un inutile strumento di “chiacchiera” e di “comunicazione elitaria”.

 

Dal rischio alla possibilità

Quale atteggiamento avere di fronte a questi rischi? E soprattutto: quali atteggiamenti nei confronti delle indubbie problematiche di ordine relazionale, comunicativo, pastorale che ci si pongono dinanzi nel momento in cui desideriamo considerare questi strumenti in una prospettiva “pastorale”? Come conciliare il “Gesù dell’incontro” e il Cristo che annunciava (parafraso): “non sono le cose che entrano nella bocca che rendono impuro il cuore dell’uomo”, con le complicate reti d’interazione, spesso ambigue, che caratterizzano questi media? La risposta è indubbiamente complessa.

Quel che è certo è che risulta inutile procedere senza prima aver tentato di risolvere, con metodo scientifico, dotandosi di un profondo studio teologico-pratico, i rischi precedentemente elencati, in modo da porsi in una prospettiva non elitaria né tanto meno censoria, bensì realistica e costruttiva.

Ma prima ancora occorre, a mio parere, crescere a livello di formazione pastorale e spirituale, nella consapevolezza non solo teorica, ma soprattutto esperienziale/mistica, del cosiddetto principio del “divinoumano”. In buona sostanza occorre vivere quotidianamente come pastori – e non solo come comunicatori asettici o “gestori” del “problema delle vocazioni(!)” – l’esperienza del Cristo Risorto che, pur nel mistero del male e del peccato, redime con il suo sacrificio ed il suo dono totale l’uomo, restituendo al cosmo le sembianze della “casa di Dio e dell’uomo”, e restituendo al mondo la sua impronta di salvezza e di bene.

Occorre crescere, personalmente ed ecclesialmente, nell’esperienza (e non solo nella conoscenza teorica) di un Dio fatto uomo per la nostra salvezza; occorre sperimentare la “concretezza” del kerygma vissuto nella presenza dello Spirito, che semina nel cuore di ogni uomo e nei solchi della storia. Occorre vivere veramente la dimensione dell’incarnazione, avendo fiducia nella presenza dello Spirito, che anima il cuore dei credenti e che rende possibile, nel mistero dei “semi della Parola”, l’incontro con ogni uomo.

Risolto questo fondamentale nodo, che insiste sul nostro operare in quanto manifestazione storico-salvifica dell’“essere cristiani”, possiamo considerare con maggiore consapevolezza gli altri aspetti sopra elencati. In modo particolare, mi preme toccare alcuni punti di immediato interesse pastorale e specificatamente di carattere “vocazionale”, riferiti a quello che abbiamo indicato come il secondo rischio.

Partiamo dall’aspetto più pratico e comprensibile.

Quando noi riflettiamo sui new media, la prima cosa a cui pensiamo è un insieme di strumenti e, di conseguenza, vi riflettiamo dando loro una definizione esclusivamente “tecnicistica”. È strumento (per semplificare) un oggetto che serve per fare qualcosa: nel nostro caso, per veicolare informazioni, il Vangelo, o per indurre un giovane a considerare la vita nella sua dimensione vocazionale, o – ancor più grossolanamente – il fatto che possa o no “entrare in seminario”. In quest’ottica avrebbe utilità l’utilizzo dei new media solo se riuscissero a sortire questi effetti, in modo quasi “miracoloso”!

In realtà studi seri applicati ai new media (ma in qualche modo a tutti gli “strumenti” comunemente intesi) hanno dimostrato come il loro utilizzo (anche se non mi piace molto questa parola) si strutturi sostanzialmente attraverso tre importanti e complesse dimensioni: una dimensione cognitiva, una comunicativa ed una relazionale.

In estrema sintesi, non si può dare un semplice “uso” di uno strumento che non sia foriero di almeno tre effetti: il passaggio di informazioni (dimensione comunicativa), la costruzione del sé personale e sociale in relazione al mondo con il quale il media mi interfaccia (dimensione cognitiva) e la realizzazione di una serie di rapporti interpersonali e la costruzione di una vera e propria “comunità di comunicazione” (dimensione relazionale).

L’uso di ogni strumento attiva queste dinamiche. E se questo vale per l’uso di una semplice “zappa di ferro” o della ruota, maggiormente vale per i media espressamente dedicati all’informazione, alla relazione ed al “racconto/costruzione” dell’esperienza personale e sociale.

Già grazie a queste semplici (anche se troppo sintetiche) suggestioni, ci rendiamo conto di quali e quanti potenzialità e rischi i new media ci riservino e di come – senza dubbio – non si possano intentare processi al loro utilizzo sulla base della semplice capacità “tecnica” di veicolare streaming di dati (fossero anche frasi di Vangelo!).

Tra queste dimensioni ce n’è una sulla quale credo sia giusto e produttivo soffermarsi: la dimensione relazionale.

 

Comunicazione in relazione: spazio pastorale e vocazionale

Abbiamo visto precedentemente come il concetto di “strumento” in riferimento ai new media appaia di difficile uso e comprensione. Esso da solo non basta per una loro reale e profonda conoscenza, specialmente in prospettiva pastorale-vocazionale.

A venirci in aiuto (con il “buon senso” tipico della concretezza) è il concetto di “luogo” e di “casa”, molto usato in relazione ai media elettronici. Dalla parola “rete” a quella di “room” (stanza) la metafora “spaziale/temporale” risulta vincente ed anche epistemologicamente efficace.

Non è questa la sede per addentrarci in una compiuta analisi semiopragmatica. Per il nostro discorso occorre però partire da un dato di fatto: più che parlare di “mezzi di comunicazione”, in riferimento ai new media, dobbiamo parlare di “luoghi di comunicazione”.

Essendo, poi, la comunicazione che avviene in questi luoghi, una multicomunicazione attraverso le tre dimensioni comunicativa-relazionale-cognitiva, è possibile dedurre che ciò che si crea “nella comunicazione” non è semplicemente un luogo bensì un luogo di comunicazione/relazione. Un luogo – utilizzando ancora la metafora della “casa” – da abitare.

Naturalmente, l’abitante di questi luoghi, pur con tutte le problematicità tipiche della comunicazione mediata dal computer (CMC) è e rimane sempre l’uomo. Un “uomo complesso” certamente, che si esprime attraverso interfacce, non sempre in compresenza, in modi spesso ambigui e mai semplicemente decifrabili. Insomma: un uomo “nuovo”, che ovviamente chiede di essere incontrato attraverso modi nuovi e strumenti nuovi. Certamente un uomo che non merita di essere… abbandonato.

Nei confronti di quest’uomo, toccato come la donna del Vangelo dal “mantello di Cristo”, l’ambiente comunicativo non può non aprirsi a nuovi spazi di “relazione pastorale”.

Ecco che si aprono allora nuovi ambiti di valorizzazione non riferiti a nuovi “strumenti”, ma a nuovi “luoghi” comunicativi nei quali trovare – fidandosi di Dio che “semina abbondantemente” – “luoghi di incontro pastorale”, nel senso dell’incontro con il Pastore, che è Cristo.

Da qui sorge, poi, la domanda se possano o no, questi luoghi di incontro comunicativo, celare “aperture” dal punto vocazionale.

La mia personale risposta è sì.

Tale risposta, lungi dall’essere passionale o illusoria, deriva ovviamente dalla sperimentazione e dallo studio dei new media, già in parte suggerita nelle pagine precedenti, ma soprattutto attraverso l’approfondimento delle loro dinamiche tipiche secondo una prospettiva “narratologica”.

All’interno di questa dimensione narrativa, che non consiste solo nel racconto di una storia, ma nel racconto “della storia” di vita che gli utenti dipanano attraverso mail, blog e chat, l’uomo, il giovane, in qualche modo “racconta se stesso”, in una dimensione di dialogo con l’altro. Questa narrazione (ed autonarrazione) può essere, perciò, a mio parere, il “luogo comunicativo” all’interno del quale collocare una qualche riflessione di tipo vocazionale.

 

Per una pastorale vocazionale on line

Ma quale pastorale vocazionale è possibile realizzare all’interno di questi “luoghi comunicativi”?

La risposta ad una domanda complessa come questa non può che essere altrettanto complessa. Non abbiamo a che fare – lo scrivevamo prima – con un semplice strumento, ma con atti comunicativi, con luoghi di esperienza, con ambienti di relazione. E tutto questo crea complessità. Ovviamente, per noi cristiani, questa complessità è anche ricchezza e non possiamo non considerarla in una prospettiva tanto realistica (e non mitizzante o demonizzante) quanto propositiva.

Gli ambiti che a mio parere rappresentano un “punto di attenzione” sono tre.

Il primo è rappresentato da una sorta di “rivalorizzazione dei luoghi” all’interno dei quali i giovani si incontrano, comunicano ed hanno relazioni (per loro comunque significative).

L’utilizzo di uno strumento in comune con i nostri ragazzi (una chat, un blog, ecc.) non ci mette solo in comunicazione con loro, ma in qualche modo ci predispone ad una certa sintonia. La coabitazione all’interno dello stesso luogo comunicativo rappresenta già un valore, in un tempo in cui l’incontro con i nostri giovani diventa sempre più rarefatto… e spesso banale!

Ed ecco qui lo spazio che una corretta impostazione pastorale ci spinge a creare e nel quale la nostra presenza di “pastori” può esprimersi in tutta la sua carica positiva. Il luogo abitato per chiacchierare (come ad esempio una chat line) può così essere “forzato” a diventare un luogo di approfondimento e di comunicazione valoriale, che vada oltre il semplice chiacchiericcio. Il luogo nel quale le relazioni sono sempre multiple (si parla con più persone contemporaneamente), e la comunicazione è veloce e superficiale, può diventare il luogo nel quale io “mi dedico” all’altro (non “gli dedico tempo”, ma “mi dedico a lui”…), dimostrando e facendogli sperimentare che la parola può diventare non solo un insieme di lettere e di frasi buttate a caso, ma un “luogo d’incontro” profondo e personale.

Il secondo ambito può essere rappresentato da una sorta di “rialfabetizzazione” delle esperienze ecclesiali del giovane e del ragazzo.

Vado molto sul concreto: cosa posso dire di meglio ad un ragazzo che, magari in età adoloscenziale, ha sperimentato una Chiesa “chiusa” e giudicante, se non “fargli sperimentare” che la Chiesa stessa ha il coraggio di “abitare“ i suoi luoghi, senza necessariamente “invitarmi” nei suoi? Cosa posso dire di meglio ad un ragazzo che percepisce la Chiesa come una SPA (e quindi – non affascinandosi più – se ne allontana) se non fargli sperimentare un incontro con una Chiesa “presente”, che si dedica a lui in particolare e non solo genericamente “all’umanità”?

Solo questi esempi ci fanno comprendere come l’utilizzo “coabitativo” dei luoghi creati dai new media possa in qualche modo riallineare le esperienze del giovane con una Chiesa vera, smitizzando le rappresentazioni che egli se ne è fatto e che spesso lo allontanano inesorabilmente.

Il terzo ed ultimo ambito (secondo la mia analisi, ovviamente) può essere rappresentato dai “luoghi della narrazione”: luoghi come i blog, le mail e le chat, possono essere abitati (ovviamente conoscendone le potenzialità ed i rischi) non già con l’intento di “far proseliti”, quanto con quello di fare sperimentare la vita come una continua “narrazione di sé”, in riferimento a se stessi, alla proposta di Dio, all’interno di una vita sociale della quale il giovane inizia a far parte. La narrazione di sé può, infatti, aiutare il giovane a concepire la propria esistenza come un’esperienza in cammino, all’interno della quale “farsi delle domande”, o – volesse il cielo – cercare alcune risposte.

 

Conclusione

Chi si è messo a leggere questo mio breve articolo sperando di avere risposte alla domanda: “Internet può essere usato per le vocazioni?”, non sarà certamente soddisfatto!

Come dicevo precedentemente, ad una domanda complessa non si può che rispondere in modo complesso. Ma già la comprensione di questo “principio” sarebbe un ottimo risultato, almeno per me.

Il mondo dei new media, e quello della comunicazione in generale, non è infatti un mondo semplice e forse proprio per questo esso può diventare per noi, pastori ed educatori, un luogo “rilevante”, interessante e stimolante per l’opera evangelizzatrice, catechetica, pastorale e vocazionale; un luogo nel quale fare vivere Cristo, “sempre presente”, incarnato; un luogo nel quale far toccare ad ogni giovane (meglio sarebbe dire: lasciare che ogni ragazzo tocchi…) il “lembo del mantello” di Cristo salvatore.