N.06
Novembre/Dicembre 2008

Itinerari vocazionali in san Paolo

Una valorizzazione, in chiave pastorale-vocazionale, dell’anno paolino

«L‘amore di Cristo ci spinge» (2Cor 5,14) e «mi sono fatto tutto a tutti» (1Cor 9,22) sono due tra le molteplici espressioni che caratterizzano la vita e la missione dell’apostolo Paolo. Infatti, se la prima ci segnala il motore della sua intraprendenza (l’amore del Cristo), la seconda ci precisa il suo livello di coinvolgimento personale (farsi “tutto”) e la sua grande apertura missionaria (verso “tutti”).

In questo anno dedicato alla conoscenza e approfondimento di San Paolo siamo sollecitati ad individuare nuovi percorsi e traiettorie di annuncio e di proposta vocazionale. Iniziamo da cinque stimoli forti che ci vengono dalla figura del grande apostolo delle genti.

 

Nuovi sentieri di animazione vocazionale

Fuori dagli schemi

Forse nessun animatore vocazionale dei nostri giorni darebbe fiducia ad un giovane che si presenta alle porte delle nostre istituzioni religiose con le caratteristiche di San Paolo. Sarebbe eventualmente l’ultimo – diciamo così – ad essere accolto, a motivo della sua storia, del suo mostrarsi troppo orgoglioso e del suo essere stato persecutore fanatico: tutti elementi decisamente in contrasto con i nostri schemi e le nostre attese. Noi in genere aspettiamo giovani seri e ben disposti, flessibili e docili, educati e possibilmente maturi, provenienti dall’ambiente ecclesiale e che condividono già la nostra visione del mondo e dell’uomo. Cerchiamo e ci impegniamo lungo sentieri sicuri e collaudati, lasciando là dove sono tutti gli altri, tutti quei giovani che ci sembrano lontani, diversi, aggressivi, poco raccomandabili… Paolo era proprio così invece:

“Perseguitavo ferocemente la Chiesa di Dio e la devastavo, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri” (Gal 1,13-14).

Eppure Dio sceglie proprio lui, il Paolo persecutore, rompendo tutti gli schemi come già altre volte aveva fatto lungo la storia biblica.

Da questo modo di fare di Dio cogliamo una provocazione per noi a cercare e raggiungere giovani fuori dai nostri soliti recinti e ambienti, cogliamo l’invito ad inventare percorsi di animazione che siano nuovi e diversi, un po’ anticonformisti come ad es. quelli della rete in Internet o dei ritrovi giovanili dell’happy hour… Bene ha fatto l’arcivescovo di Napoli, Crescenzio Sepe, a mettersi in gioco aprendo un suo profilo sulla rete sociale Facebook. “Acquisto 200 amici al giorno”, ha rivelato il cardinale. “Bisogna andare laddove c’è la gente e se la gente è su Facebook andiamo pure là”[1]. Non possiamo continuare a lamentarci per le poche entrate nei seminari e a pregare per le vocazioni se non ci mettiamo in gioco nei confronti di coloro che nessuno cerca.

Paradossalmente, uscendo fuori dai nostri schemi, potremmo insegnare ai giovani a… “restare a casa” e a guardare dentro se stessi: li potremmo educare a ricercare la volontà di Dio all’interno dei propri schemi, a partire dai loro desideri, da quello che sentono nel cuore, senza aspettare l’intervento miracolistico o l’evento sensazionale. Diversamente da come è avvenuto per Paolo, a noi il Signore si fa sentire pian piano, come una brezza leggera che scalda il cuore dentro il quotidiano, dentro la vita ordinaria. Sarà allora necessario disporsi all’ascolto.

 

I giovani ci aspettano

Paolo è stato un itinerante, sempre in cammino per portare il vangelo di Cristo, per fondare comunità ecclesiali e per sostenerle. Qualcuno ha anche calcolato pressappoco quante migliaia di chilometri ha percorso nei suoi numerosi viaggi… Sì, scrivo “numerosi viaggi” perché siamo certi di quelli descritti da Luca negli Atti, ma non conosciamo quelli non descritti o anche solo ipotizzati, come ad es. la visita in Spagna. Orbene il Paolo viaggiatore ci sollecita ad essere a nostra volta itineranti, nel pensiero e nella realtà. Per itineranza nel pensiero intendo la capacità di pensare e programmare dei percorsi che anticipino le richieste giovanili, che corrano là dove essi sono e li cerchino, li chiamino ad un progetto che dia senso alla loro vita. Anticipare, correre, cercare e chiamare sono verbi che implicano dinamicità e impegno, ansia apostolica affinché tutti trovino una risposta ai desideri del loro cuore. Sono verbi che ci obbligano non solo ad uscire dai nostri schemi, ma soprattutto ad andare, a farci tutto a tutti superando paure e timori, condizionamenti e pregiudizi, comodità e perbenismi.

Il metodo di Paolo consisteva nel raggiungere chi sta sulle frontiere, i pagani, i dimenticati insieme ai vicini, i frequentatori delle sinagoghe. E come Paolo è entrato nella cultura greca e romana, così noi non possiamo trascurare il linguaggio e la cultura giovanile di oggi. Dobbiamo stare accanto ai giovani per conoscerli nelle loro esigenze, per anticiparli nei loro interrogativi e per accompagnarli nella loro ricerca. Dobbiamo davvero valorizzare il tanto buono che già c’è e centrare la nostra passione di educatori sui desideri e sulle domande giovanili. Noi siamo tanto ricchi di contenuti, certo, ma spesso è la nostra pastorale che fa acqua, cioè non sappiamo come farli arrivare alle nuove generazioni. Abbiamo tante risposte, ma non sappiamo intercettare le vere domande, a motivo del poco tempo di ascolto. Eppure siamo convinti che è nell’attenzione pastorale che si dimostra la benevolenza e l’amore di Dio verso ogni sua creatura. Ma quanto siamo disposti a perdere la faccia, il tempo e le nostre sicurezze pur di mostrare in concreto l’amore gratuito?

Se queste sono le nostre fatiche di animatori, d’altra parte abbiamo da educare i giovani ad accorgersi delle risorse da cui sono circondati perché sappiano valorizzarle: quali e quanti incontri di contenuto vengono proposti lungo l’anno, quanti animatori e animatrici attendono di essere “disturbati” per offrire aiuto…

 

La relazione

Paolo non ha solo fondato una serie di comunità cristiane, ma le ha sostenute e incoraggiate attraverso visite e soprattutto attraverso le sue tredici lettere. In tal senso, l’Apostolo viene considerato l’antesignano del giornalismo cattolico e della moderna evangelizzazione nel mondo della cultura e della comunicazione. La sua opera pastorale di attenzione e sostegno ci provoca a prestare particolare cura nella costruzione di relazioni che siano stabili e durature. È infatti nella continuità che si manifesta davvero la benevolenza e quanto ci stia a cuore l’altro; è nella perseveranza che un giovane può cogliere la gratuità del nostro servizio. Quando vediamo che, nella conclusione della lettera ai Romani, Paolo elenca decine di nomi di persone, ci facciamo un’idea della sua capacità di relazione e ci convinciamo che l’evangelizzazione non è qualcosa che passa sulle teste degli individui ma è contatto, dialogo, relazione e amicizia con persone precise, che hanno un volto ed una storia. Allora da Paolo cogliamo la provocazione a costruire relazioni solide e durature con i giovani, senza nulla omettere pur di mostrare interesse per ognuno. Quanto e come noi curiamo le relazioni con i giovani? Quale e quanto tempo dedichiamo all’ascolto reale della loro storia e delle loro domande?

Scrivendo ai Tessalonicesi (cf 1Ts 2,7-12) Paolo si presenta sia come padre che come madre dimostrando di saper coniugare la fermezza paterna con la tenerezza materna. La madre, in genere, ha più a cuore la relazione affettiva che nutre con tanta benevolenza, mentre il padre è più attento ad esortare ed incoraggiare per far camminare sulla retta via. Alla base, sostiene Paolo, c’è la premura per i figli, cioè un desiderio così ardente di bene da essere disposti a trasmettere non solo il vangelo ma la vita stessa: “Ci eravate diventati così cari… da essere disposti a darvi la nostra stessa vita” (v. 8). Il plurale è legato al fatto che Paolo scrive insieme ai collaboratori Silvano e Timoteo. Con espressioni vivaci e quotidiane, prese dalla vita familiare, Paolo riesce a trasmettere la sua visione positiva degli altri. Una simile visione fonda la relazione affettiva e consente la fiducia che apre al cambiamento e alla maturazione. Paolo è uomo così libero nelle relazioni da riuscire a coinvolgersi totalmente; la qualità delle sue relazioni dipende certamente dal suo legame profondo e originario con il Signore Gesù. Egli può amare nella pienezza della sua umanità perché ancorato al Cristo.

Dalla metodologia di Paolo possiamo imparare molto: i suoi scritti evidenziano che, dopo il saluto, anche quando doveva rimproverare, egli tendeva innanzitutto ad incoraggiare. Un esempio per tutti è nella prima lettera ai Corinti dove nel primo capitolo troviamo che l’invito all’unità arriva solo dopo il rendimento di grazie per tutti i doni di Dio alla comunità: segno della sua attenzione alla relazione, a far sì che il richiamo cada in un terreno favorevole e solleciti al cambiamento di vita senza compromettere la comunione affettiva. L’incoraggiamento dovrebbe sempre precedere, poiché è il motore del rinnovamento. Una domanda qui è d’obbligo per noi: quale immagine, quale visione abbiamo dei giovani di oggi? Non sarà che predomina una percezione così negativa che deborda al di là delle nostre buone intenzioni?

Più sopra dicevamo dell’importanza di valorizzare il positivo, il buono che c’è già. Sì, una buona pedagogia tende innanzitutto a far fiorire il positivo e colloca i richiami all’interno di un contesto affettivo solido. Come potrebbe del resto un giovane maturare adeguatamente se venisse per lo più rimproverato? Oltretutto sappiamo bene quali ferite e dubbi si porta dentro ognuno dall’esperienza infantile. Preziosa per noi è l’annotazione di W. Goethe citato da Frankl: “Se noi prendiamo l’uomo per quello che è, lo rendiamo peggiore di come è; se invece lo prendiamo per quello che dovrebbe essere, lo facciamo diventare quello che può veramente essere”[2].

Noi quindi desideriamo essere attenti a costruire con i giovani relazioni calde nella continuità, ma intendiamo anche indurre in loro il senso della responsabilità e della fedeltà nei loro contatti ordinari. Verso i genitori, ad es., si riscontra per lo più contrasto invece che maturità e riconciliazione; verso gli amici un fluttuare di sentimenti invece di solidarietà e condivisione; verso i coetanei rivalità e invidia piuttosto che dialogo e sostegno reciproco… ben sapendo che il conflitto è inevitabile, mentre è il “come” lo affrontano che fa la differenza!

 

Testimoniare

Un aspetto sorprendente dell’apostolo Paolo è la sua viva convinzione di proporsi quale modello da imitare (cf Fil 3,17; 1Cor 4,16; 11,1). Ci sorprende perché sembra in contrasto con l’umiltà cristiana e con i suoi stessi inviti a non sopravvalutarsi. Così Paolo diventa provocatorio per noi, che ci appelliamo troppo ai principi forse con l’intento recondito di evitare la responsabilità della testimonianza. In effetti, siamo abilissimi a evitare quegli aspetti di rigore insiti nella testimonianza cristiana con giustificazioni più o meno plausibili.

Paolo, invece, è ardito e ai nostri occhi appare persino superbo nel presentare se stesso all’imitazione. Perché Paolo riesce ad essere così? Perché noi non riusciamo ad essere così incisivi attraverso la nostra testimonianza di vita cristiana e religiosa? Quello che a noi sembra superbia per Paolo è in realtà la consapevolezza della sua missione; è la logica conseguenza della missione ricevuta che lo spinge a farsi mediatore, interprete, intermediario di Cristo, affinché tutti aderiscano alla fede nella morte e risurrezione di Gesù. Il suo slancio missionario, che deriva dalla sua salda e profonda relazione con Gesù, lo induce a non temere di mettersi al centro poiché imitando lui si arriva al Cristo: “Fatevi miei imitatori come io lo sono di Cristo” (1Cor 11,1).

Alla base del coraggio di Paolo sembra esserci la sua chiarezza nell’identità di chiamato e di apostolo: ben ancorato al Signore Gesù, egli aveva fatto esperienza della propria forza e debolezza per cui poteva fidarsi e osare senza equivoci. Tutto preso dal Cristo, che sentiva vivere in sé come forma e modello della propria personalità, Paolo godeva della possibilità di manifestarlo alle genti.

Egli ci incita a non temere, ci scuote dal nostro torpore provocandoci a diventare “affascinanti” per far sorgere interrogativi in coloro che ci vedono e ci frequentano. È l’immagine della Chiesa che si è sbiadita e che ha bisogno di ritrovare il proprio look per rispondere adeguatamente alla sua missione. Paolo era piccolo (almeno sembra) e forse anche non tanto dotato, eppure vibrava di una forza e di un fascino che sorprendeva tutti. Era la forza dello Spirito che sostiene chiunque parli e operi in nome di Dio. Anche noi non abbiamo nulla da temere:

“Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza. Non vergognarti dunque della testimonianza del Signore nostro, né di me suo prigioniero, ma soffri piuttosto con me per il Vangelo, confidando nella forza di Dio” scrive l’Apostolo al giovane discepolo Timoteo (2Tm 1,7-8).

Per chi si affida con fiducia a Dio che salva non sarà difficile offrire una gioiosa testimonianza del proprio credo e del proprio stile di vita autenticamente cristiano.

Nella pluralità di occasioni che la vita presenta possiamo aiutare i giovani a riconoscere quelle testimonianze eloquenti che indicano un percorso o uno stile di vita; quelle persone che parlano con il silenzio della loro rettitudine e della loro fortezza interiore. Possiamo aiutarli a scoprire che ogni cammino di vita è una sfida per la crescita che dura tutta l’esistenza; possiamo aiutarli ad aprire gli occhi su una “santità” quotidiana che li circonda.

 

La vita interiore

Paolo è l’apostolo delle genti, colui che ha vissuto e praticato un’apertura missionaria davvero universale poiché ha viaggiato, ha fondato numerose comunità e ha raggiunto idealmente tutti i popoli del mondo allora conosciuto. Ma “perché Paolo è così grande?” si chiede il beato Giacomo Alberione, fondatore della Famiglia Paolina. La sua risposta è: “Tutto il segreto della grandezza di S. Paolo è nella vita interiore”.

In una società come la nostra, centrata sull’apparire e dove la stima si misura sulle riuscite e i successi, Paolo ci ricorda e ci provoca a recuperare la vita interiore come motore di ogni attività, scelta o progetto. Non ha senso il fare soltanto se non è la conseguenza dell’essere e dell’essere in relazione con il Cristo. È Lui che sceglie, che consacra, che manda e sostiene nell’apostolato.

Quanto tempo impieghiamo nelle attività pur sacrosante e quanto invece lo destiniamo all’incontro con l’autore della nostra vocazione e missione? Davvero quanto realizziamo è espressione, frutto della nostra preghiera? I giovani cercano delle guide dalla profondità e spessore spirituale e non dei semplici attivisti per quanto bravi e solleciti. Da Paolo abbiamo molto da imparare: egli mostra una eccezionale unità di vita, un’unificazione interiore per cui l’evangelizzazione scaturisce dal suo essere costantemente in Cristo, in relazione con Lui. Il suo dire, esortare, sollecitare deriva dalla pienezza del cuore consegnato al Cristo e pieno di Lui. Paolo è talmente unificato in se stesso da vivere ogni suo incontro quale manifestazione del Signore Gesù. Possiamo davvero affermare che l’amore del Cristo è il motore, l’anima della sua opera missionaria.

I giovani stessi, a loro volta, devono essere avviati alla vita interiore, ad aver cura della propria relazione con Cristo perché da essa scaturirà il progetto di vita. Dobbiamo quindi educare alla profondità, al raccoglimento, all’interiorizzazione, alla consapevolezza, al silenzio e alla preghiera, perché ognuno costruisca la propria identità cristiana nel dialogo con l’unico maestro che è il Cristo.

 

Dalla vocazione di Paolo alla nostra: proposta di itinerario

Proseguiamo chiedendoci quali altre suggestioni possono venire a noi dall’esperienza vocazionale di Paolo per costruire degli itinerari di annuncio e di proposta vocazionale.

Oltre ai tre racconti della vocazione di Paolo presenti nel libro degli Atti, che hanno ispirato numerosi itinerari vocazionali, anche nelle lettere troviamo alcuni preziosi passaggi dal tono autobiografico. Tra di essi spicca quello del cap. 3,4-14 della lettera ai Filippesi, che ha il pregio di essere una manifestazione sufficientemente riflettuta della sua esperienza vocazionale. In essa possiamo cogliere e sviluppare degli stimoli utili per un possibile percorso pedagogico a tappe da far vivere ai giovani come riflessione, verifica, discernimento vocazionale lungo questi mesi dell’anno paolino.

Suddividiamo il nostro percorso in tre momenti: i vantaggi, la perdita, la motivazione: per il Cristo.

 

I vantaggi

Il brano autobiografico si apre con una serie di elementi sui quali l’Apostolo sostiene che avrebbe potuto riporre la propria fiducia: “Se qualcuno ritiene di riporre la sua fiducia nella carne, io a maggior ragione” (3, 4). Paolo comunica che la sua vita di un tempo gli aveva consentito delle acquisizioni, dei vantaggi, delle sicurezze che lo rendevano alquanto sicuro di sé:

“Circonciso all’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo figlio di Ebrei; quanto alla legge, fariseo, quanto a zelo, persecutore della chiesa, quanto alla giustizia legale, irreprensibile” (3, 5-6).

Si tratta di sette privilegi, di cui quattro gli venivano dalla nascita, tre dalla sua personale esperienza. Non si tratta di semplici osservazioni, ma per Paolo essi contengono la sua identità profonda di membro del popolo eletto da Dio e di persona completamente guidata dal desiderio di fare la volontà di Dio in ogni momento. È del tutto convinto che alla benevolenza di Dio occorre rispondere diventando zelante nell’osservanza della legge. Egli dunque sembra essere il classico “bravo ragazzo”, un tipo a posto, di buona famiglia e convinto di quel che fa, incamminato verso una brillante carriera, anche grazie ai suoi molti sforzi religiosi e morali… un giovane impegnato e coerente, diremmo noi!

Questa fisionomia di Paolo non si attaglia tanto a quella dei giovani del nostro mondo attuale, che appaiono un po’ più confusi e indecisi circa il proprio futuro, ma certo ha qualcosa da dire a tutti coloro che si sono costruiti il proprio progetto da soli, a prescindere da un discernimento della volontà divina. Quante energie vengono impiegate per essere qualcuno nel mondo lavorativo e nella società! Le energie fanno parte di un corredo di cui Dio dispone ognuno al momento della nascita: si tratta di doni, doti e potenzialità che ognuno ha da scoprire lungo il cammino della propria maturazione e crescita. In essi sovente è racchiuso un progetto che deve essere riconosciuto e fatto proprio. Ecco: i privilegi di elezione riguardanti Paolo ci lasciano intendere che ogni persona nasce e si sviluppa dentro un contesto familiare e sociale che lo orienta e che la storia delle nostre origini è parte preponderante della nostra personalità.

Ogni giovane va aiutato a riconoscere i suoi privilegi esterni, quelli provenienti cioè dal contesto sociale, e quelli interni, insiti nelle doti e potenzialità proprie, per riconoscere a cosa e dove il Signore chiama. Nessuno cresce privo di una storia, di una tradizione, di un passato che costituiscono il fondamento della propria identità. Non ci può essere progetto per il futuro senza la solida radice del passato, anche laddove questo passato è stato doloroso. In esso, infatti, noi abbiamo le nostre radici, il nostro fondamento con delle tradizioni e specifici modi di essere e di guardare alla vita. Se doloroso, il passato ci ha costretto a reagire per costruirci e svilupparci… Lo stesso San Paolo, che apostolo sarebbe stato senza la sua storia precedente, senza i privilegi ed il suo puntare sull’osservanza della legge? Attenzione quindi a sostenere ogni giovane perché scopra il suo orientamento di vita, il suo progetto dentro la propria storia, nella valorizzazione delle capacità e potenzialità ricevute da Dio.

La spinta di Paolo all’osservanza della legge fino ad essere irreprensibile ci suggerisce, poi, un altro aspetto del nostro servizio di orientamento vocazionale. Possiamo trovare dei giovani che interpretano la vita alla stessa maniera di Paolo prima della trasformazione interiore. Sono coloro che sembrano avere abbastanza chiaro il loro itinerario, sono coloro che si sono fatti da sé e si presentano a noi con lo schema definitivo cercando al massimo una semplice conferma. Questi giovani così “sicuri” vanno confrontati e interpellati soprattutto sulle motivazioni, per verificarne l’autenticità. Anche coloro che desiderano la consacrazione religiosa o il presbiterato portano in se stessi ideali e visioni non sempre corrispondenti alla realtà. La prova di certe visioni non corrette arriva quando lungo gli anni di formazione il giovane si accorge di dover modificare i propri schemi e la propria identità per abbandonarsi a quella che il Signore gli indica.

Attenzione, quindi, a non confermare tanto facilmente coloro che si atteggiano da “bravi ragazzi”: si tratta di un rischio sempre attuale per chi ha da dimostrare numeri e successi ai propri superiori o che si è capaci come animatori.

 

La perdita

Proprio coloro che sono così sicuri di sé vanno interpellati ed aiutati a capire quanto avvenuto nell’esperienza vocazionale di Paolo. L’Apostolo racconta di aver giudicato i suoi privilegi come una perdita, cioè come qualcosa che non conta più, che non è più un vantaggio e non dà più sicurezza. Il passaggio ha coinvolto tanto profondamente l’interiorità di Paolo da lasciarne traccia nel suo linguaggio. In due versetti, infatti, ben quattro volte parla di perdita o rifiuto e per altrettante volte ne riporta la motivazione del cambiamento. Ecco le sue parole:

“Ma per il Cristo ho giudicato una perdita tutti questi miei vantaggi. Anzi li giudico tuttora una perdita a paragone della sublime conoscenza di Gesù Cristo, mio Signore, per il cui amore ho accettato di perderli tutti, valutandoli rifiuti, per guadagnare Cristo…” (3, 7-8).

Così viene spazzata via la fonte della propria sicurezza: in un attimo quello che sembrava decisivo per la vita scompare, diventa “perdita”, “rifiuto”. Paolo fa capire qui che, pur essendo preziosi i doni e le potenzialità con cui nasciamo, essi da soli non possono garantire la nostra realizzazione. Possiamo e dobbiamo certamente sviluppare il bagaglio delle nostre doti ma in ordine ad un fine, ad una motivazione che ci porti ad uscire da noi stessi.

È sconcertante come per Paolo quello che prima era fonte di sicurezza in un battibaleno diventi inutile, una perdita, qualcosa che non ha più valore. La sua storia così genuina e reale, come traspare dal racconto autobiografico, ci sorprende e insieme ci spinge a ritrovare nella nostra stessa esperienza di vita la dinamica del cambiamento. Ci siamo certo persuasi negli anni che la risposta vocazionale implica un lasciare, un abbandonare la nostra idea e visione di cosa sia la vita e di come vada gestita. Paolo ci mostra che viene naturale puntare tutto su se stessi nel tentativo di avere in mano, di controllare la vita, la realtà e persino Dio stesso. Ma questo modo non ripaga, non è conveniente e quindi non è saggio continuare a praticarlo.

Paolo ci aiuta, parlando della sua esperienza, a superare possibili errori e insieme si propone a noi come indicatore di un corretto percorso di fede e adesione a Cristo e al vangelo. Cristo e il suo amore ci impegna ad un cambio di prospettiva, ad un cambio di logica, per cui lì dove tendiamo alla sicurezza umana dobbiamo invece lasciar posto all’affidamento nell’amore di Dio. Scrive mons. Giancarlo Bregantini, vescovo di Campobasso-Bojano, agli studenti della sua diocesi:

“La scienza ci dice che il carbonio può trasformarsi o nel nero carbone, pesante e rozzo, oppure, per un particolare processo di calore, in un magnifico diamante. Carbone e diamante hanno la stessa composizione chimica. Cambia solo la loro relazione di particelle. La loro finalizzazione. Così è stato san Paolo: poteva essere un carbone scuro e cattivo, che sporca ed inquina. Ma con il calore dell’Amore di Dio, lui è divenuto un diamante purissimo e luminosissimo”[3].

Occorre insegnare questo cambio di prospettiva ai giovani, aiutandoli a non puntare tutto sulle proprie riuscite e conquiste. Ci aiuta l’osservazione cruda, ma puntuale, di Nouwen il quale ha scritto che oggi si sentono attorno a noi due voci: la prima ci provoca a conquistarci stima e riconoscimenti con le nostre forze mentre la seconda ci suggerisce di non fare nulla in quanto già amati da Dio. La nostra vita dipenderà da quale delle due voci noi ascolteremo[4].

 

Per il Cristo

La motivazione è l’asse portante del cambiamento: è per Gesù che Paolo decide di lasciare, di perdere tutti i suoi vantaggi. Lo dice subito al v. 7 e lo ripeterà più volte in quelli successivi. Il nome “Cristo” apparirà così ben cinque volte e ad esso si possono aggiungere i sei pronomi o aggettivi possessivi che si riferiscono a lui. L’elemento più importante risulta essere Cristo, che costituisce la causa unica del cambiamento avvenuto in Paolo; i privilegi di nascita e quelli derivanti dall’osservanza della legge non sono considerati spazzatura per qualche mancanza o difetto intrinseco, ma “per Gesù”. In seguito al suo incontro con Gesù sulla via di Damasco Paolo cambia i criteri di valutazione, assumendo un altro metro di misura. Quello che prima era importante non conta più, ora la sua misura è Gesù. Infatti egli ora parla di sé con le stesse parole con cui aveva descritto poco prima Gesù “che non stimò un bene irrinunciabile l’essere uguale a Dio, ma svuotò se stesso” (Fil 2, 6-7) e dice: “Ma per il Cristo ho giudicato una perdita tutti questi miei vantaggi” (il verbo greco è lo stesso). La scelta di fede di Paolo è – con le dovute differenze – una replica di quella di Gesù stesso: Cristo aveva dei vantaggi (l’uguaglianza con Dio), si è svuotato; Paolo aveva dei vantaggi, si è svuotato[5].

Il cambiamento di valutazione trova ragione poi in forza della conoscenza di Cristo. Paolo dichiara cioè di lasciare tutto “a paragone della sublime conoscenza di Cristo Gesù” (v. 8). Non si tratta ovviamente di una conoscenza intellettuale o teorica, ma di una relazione vitale, di comunione, di reciproca presenza. Solo qui Paolo definisce Cristo come “mio Signore” a conferma di quanto egli fosse in comunione profonda, concreta e personale con Lui. Sembra addirittura che Paolo non conosca solo il Cristo, ma anche quanto egli ha lasciato nel suo vangelo. La svolta avvenuta in Paolo potrebbe collegarsi davvero a quanto Gesù chiede ripetutamente ai suoi discepoli: “Chi vorrà salvare la propria vita la perderà; chi invece perderà la sua vita per causa mia e del vangelo, la salverà” (Mc 8, 35). Perdere, rinunciare, odiare, lasciare sono verbi ricorrenti nel vangelo e che Gesù rilancia con insistenza al fine di far emergere la vera priorità che è Dio e il suo regno. La sequela di Gesù è esigente, implica l’accettazione della croce da subito e quindi lo spostamento di attenzione da se stessi verso il dono di sé e della propria vita.

I verbi di Gesù sono verbi che scombussolano le categorie interpretative del giovane di oggi e lo sfidano ad uscire dal suo egocentrismo, dal suo costruirsi da sé per entrare in una nuova visione, antitetica rispetto ai valori del mondo sociale. Anche papa Benedetto XVI, nella sua prima enciclica, aveva sintetizzato bene tutta la difficoltà dei nostri giovani ad uscire da sé, a compiere cioè “l’esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la liberazione del dono di sé”[6].

Perché avvenga l’esodo e la disponibilità a perdere la propria vita occorre che sappiamo offrire prospettive di vita davvero affascinanti ai nostri giovani, attraverso la proposta di valori validi e degni di essere vissuti, qualcosa per cui valga davvero la pena lasciare tutto. Dobbiamo saper presentare adeguatamente la persona di Gesù, colui che – come dice il salmo 45 – è il più bello tra i figli dell’uomo e sulle sue labbra è diffusa la grazia. Lì dove c’è la testimonianza di una persona bella, autentica e carica di fascino i giovani saranno portati ad interrogarsi e confrontarsi. Il cambiamento viene successivamente giustificato ancora dal desiderio profondo nell’apostolo Paolo di

“guadagnare Cristo ed essere trovato in lui… e conoscere lui con la potenza della sua risurrezione e la partecipazione alle sue sofferenze, trasformandomi in un’immagine della sua morte, per giungere, in qualche modo, a risorgere dai morti” (cf Fil 3, 8-11).

Non più solo una conoscenza tra persone, ma una compartecipazione, una condivisione nella morte-sofferenza e nella risurrezione. Anzi, la partecipazione alle sofferenze e alla morte di Gesù, esperienza ben presente nella vita dell’apostolo (cf 1Cor 4, 9-13; 2Cor 4, 8-12; 6, 4-10), è possibile nella forza della risurrezione che egli già sperimenta. I termini esprimono molto bene lo spessore della relazione tra Paolo e Gesù. Con l’aiuto di altri riferimenti (cf Gal 2, 20; 4, 19; Rm 8, 17) possiamo scoprire il vero progetto di Paolo, l’intenzione cioè di non appartenersi più, ma di manifestare con tutto se stesso il Cristo morto e risorto.

Sembra un vero paradosso: impieghiamo tanti anni per sviluppare la nostra identità e poi la dobbiamo lasciare per assumere quella di Cristo. Paradosso sì, ma non novità: prima di noi Paolo ha seguito l’esempio di altri personaggi biblici i quali proprio mentre stavano costruendo il loro piccolo progetto di vita sono stati chiamati da Dio ad un progetto ben più grande e prezioso.

Ecco come spiega la dinamica del cambiamento papa Benedetto XVI:

«“Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Vivo, ma non sono più io. L’io stesso, l’essenziale identità dell’uomo Paolo è stata cambiata. Egli esiste ancora e non esiste più. Ha attraversato un non e si trova continuamente in questo non… La frase è espressione di ciò che è avvenuto nel Battesimo. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande. Allora il mio io c’è di nuovo, ma appunto trasformato, dissodato, aperto mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza»[7].

Negli ultimi tre versetti del brano paolino ai Filippesi troviamo alcune sottolineature preziose circa lo sforzarsi di avanzare sempre, di protendersi fino a lanciarsi verso la meta, sorretti dalla convinzione di essere già stati “afferrati da Cristo Gesù” (v. 12). Si procede allora nella corsa verso il premio non per iniziativa propria, ma in quanto si è già stati chiamati dall’amore eterno del Padre in Cristo. Nel nostro cuore umano vi è una scintilla che ci conduce a trovare riposo solo in Dio. Lo sforzarsi di cui parla Paolo non è l’acquisizione di vantaggi o privilegi, non è l’accumulo di riuscite, ma l’impegno di restare nell’amore eterno del Padre in Cristo.

 

In concreto…

L’esperienza autobiografica di san Paolo è particolarmente utile e preziosa in quanto ci aiuta a riconoscere che amare alla maniera di Gesù implica per noi animatori la disponibilità:

– ad uscire dai nostri schemi (costruire l’identità)

– per andare verso i giovani (missionarietà)

– coltivando in maniera autentica le relazioni (crescita affettiva)

– per un’efficace testimonianza (coerenza di vita)

– che deriva dal “prendersi cura” del mondo interiore (spiritualità).

 

Proporre ai giovani di vivere imitando Paolo significa:

– declinare in un’ottica divina i vantaggi che custodiamo e possediamo;

– scegliere oggi ciò che vogliamo essere domani, attraverso la prospettiva del “perdere” ciò che è importante per orientarci a ciò che conta veramente;

– impegnarsi e dare la vita non per un ideale, ma per una persona: Cristo Gesù Maestro e Signore, unica motivazione della nostra vita.

Questi passaggi condurranno gradualmente ad assumere i lineamenti di Gesù per poter non solo parlare di lui, ma essere in lui “fino a che il Cristo non sia formato in voi” (Gal 4, 19).

Ecco la sfida: crediamo che questa svolta è possibile anche ai giovani? Riusciremo a trasmettere loro la passione per ciò che conta veramente? Paolo ci assicura che sarà possibile nella misura che il nostro essere tra loro esprimerà l’esserci di Gesù, anzi se il nostro essere tra loro diventerà un “riconoscere” in loro il volto del Cristo “povero” da servire e amare!

 

Note

[1] La notizia, ripresa dall’Ansa del 28 ottobre 2008, è riportata nel sito www.zenit.org (9/11/ 2008).

[2] V. E. FRANKL, La sofferenza di una vita senza senso. Psicoterapia per l’uomo d’oggi, LDC, Leumann (TO) 1992, p. 14.

[3] “Paolo giovane, diamante di Dio”, lettera del vescovo Mons. Giancarlo Bregantini agli studenti (settembre 2008), scaricabile nel sito della diocesi di Campobasso-Bojano.

[4] Cf H.J.M. NOUWEN, L’abbraccio benedicente. Meditazione sul ritorno del figlio prodigo, Queriniana, Brescia 1994, pp. 57-59; Sentirsi amati. La vita spirituale in un mondo secolare, Queriniana, Brescia 2005, pp. 24-29.

[5] Cf L’amore del Cristo mi spinge. L’ascolto delle Scritture, a cura della Pastorale giovanile della diocesi Milano, ed. In dialogo, Milano 2007, p. 31.

[6] BENEDETTO XVI, Deus caritas est, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, n. 6.

[7] BENEDETTO XVI, Omelia della Veglia pasquale, 15 aprile 2006, dal sito www.vatican.va