N.06
Novembre/Dicembre 2008

«So a chi ho dato fiducia» (2Tm 1,12): proposta di Lectio Divina di 2Tm 1,1-14

Il tema vocazionale che viene proposto nell’anno 2009 verte sull’istanza della fede/fiducia. Aiutati anche dal cammino ecclesiale offerto dall’anno paolino e dalle sue molteplici iniziative nelle nostre diocesi, fermiamo l’attenzione su una pagina molto espressiva di Paolo: 2Tm 1, 1-14. Si tratta di un testo autobiografico che raccoglie diversi temi che riguardano l’esperienza apostolica di Paolo e sintetizza le principali motivazioni dell’esortazione rivolta al fedele discepolo Timoteo. Dopo aver presentato il contesto letterario in cui si colloca il nostro testo, proponiamo una lettura meditata della pericope seguendo il metodo e le tappe della lectio divina, che può aiutare a cogliere e ad interiorizzare i messaggi vocazionali contenuti nel brano della lettera.

 

Il contesto di 2Tm 1,1-14

La Seconda lettera a Timoteo è stata definita il «testamento spirituale» di Paolo (S. Lyonnet), in quanto l’Apostolo consegna al fedele discepolo Timoteo la sua testimonianza di fede e la sintesi della sua missione apostolica. Si tratta di uno scritto con una forte valenza vocazionale, in cui la memoria del passato si unisce al realismo del presente ecclesiale e alla prospettiva futura della responsabilità per la Chiesa affidata a Timoteo.

Paolo «apostolo» è alla fine del suo ministero (2Tm 4, 6-8) e consegna al suo «figlio carissimo» (2Tm 1, 2) la responsabilità pastorale della comunità cristiana che vive ad Efeso[1]. La lettera inizia con il saluto e il ringraziamento a Dio per la storia di salvezza realizzata nella vita di Timoteo e nella sua tradizione familiare (2Tm 1, 1-5): Timoteo ha ricevuto una solida testimonianza dalla mamma e dalla nonna e a partire da questa testimonianza egli deve mostrarsi forte a servizio del Vangelo (2Tm 1, 6-8). Fondando la sua fede su Dio, che in Cristo Gesù ha manifestato il suo amore, Paolo si dice pronto a sopportare tutte le sofferenze e le prove senza vergogna né rispetto umano, perché egli ha posto «la sua fiducia» unicamente nel suo Salvatore (2Tm 1, 9-12). In tal modo questa testimonianza deve costituire uno stimolo per Timoteo affinché «con l’aiuto dello Spirito Santo» egli possa trasmettere il «bel deposito» del Vangelo che gli è stato affidato (2Tm 1, 13-14).

Il primo capitolo termina con la menzione delle alterne vicende subite da Paolo: da una parte la sofferenza a motivo di quelli dell’Asia che lo hanno abbandonato, come Figelo e Ermogene, dall’altra l’ammirazione per Onesiforo, che gli è stato vicino con l’aiuto materiale e il conforto spirituale. Guardando Paolo, Timoteo deve imparare a fidarsi di Dio, per diventare un pastore attento e premuroso per il gregge che gli è stato affidato.

In 2Tm 2, 1-26 vengono riportate le raccomandazioni spirituali e pastorali dirette al discepolo, che deve saper attingere alla grazia di Gesù Cristo per esercitare il suo ministero: accettare le sofferenze, impegnarsi in una quotidiana lotta per il vangelo, sforzarsi di essere un uomo integerrimo, un lavoratore instancabile, un predicatore della verità contro i falsi credenti che destabilizzano la comunità e diffondono sospetti e sfiducia. Viene così prospettato il profilo ideale del servo del Signore: «non deve essere litigioso, ma mite con tutti, atto a insegnare, paziente nelle offese subite, dolce nel riprendere gli oppositori» (2Tm 2, 24-25).

In 2Tm 3 l’attenzione si sposta sui «tempi difficili» che attendono la sfida del messaggio cristiano e sull’aumento della malvagità nel contesto sociale del tempo. L’autore propone un lungo elenco di vizi che coinvolgeranno gli uomini ed il loro comportamento (cf 2Tm 3, 2-5), invitando il fedele discepolo ad essere vigilante e radicato nella dottrina sicura. Consapevole delle persecuzioni e delle sofferenze per il Vangelo, egli deve fondare la propria vita sulla saldezza della Parola di Dio, che ha imparato a conoscere ed interiorizzare fin da bambino attraverso la frequentazione delle «sacre lettere» (2Tm 3, 15: iera grammata). La novità del messaggio è centrata sulla fede in Gesù Cristo, per mezzo del quale si ottiene la salvezza (2Tm 3, 15). La predicazione della Parola, ispirata da Dio in tutta la Scrittura (para graphē theonpneustos) è in grado di far maturare ciascun credente nella giustizia e di prepararlo a compiere ogni opera buona (2Tm 16-17).

L’insistenza sul ministero dell’evangelizzazione colpisce il lettore e schiude la prospettiva ecclesiale che segna l’ambiente in cui sta vivendo la comunità guidata da Timoteo. Paolo insiste sull’attività pastorale dell’uomo di Dio, che deve saper incidere nel contesto socio-ecclesiale della sua comunità: «annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina» (2Tm 4, 2). In 2Tm 4, 6-8 l’Apostolo fa riferimento alla sua vicenda missionaria che ormai è al crepuscolo: il suo sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di «sciogliere le vele». Si tratta di un testo autobiografico di grande suggestione, che fotografa il passaggio dal tempo apostolico allo sviluppo della Chiesa sub-apostolica. Le ultime raccomandazioni nei vv. 9-18 e i saluti finali nei vv. 19-22 concludono questa splendida composizione epistolare, nella quale si respira un clima di commozione e di condivisione interiore[2].

 

Il brano di 2Tm 1, 1-14

La pagina che riportiamo contestualizza il messaggio vocazionale tematizzato sulla fiducia. Consideriamo l’articolazione delle unità interne. Inizialmente si situa l’esordio epistolare che ripropone lo schema protocollare comune alle altre lettere paoline, formato dal mittente, dal destinatario e dai saluti (vv. 1-2). Segue la preghiera in forma di ringraziamento (v. 3: charin echō), unito alla memoria (memnemenos) della fede schietta di coloro che hanno educato Timoteo: la nonna Loide e la madre Eunice (vv. 3-5). In 2Tm 1,6-14 l’autore inserisce un discorso parenetico, volto ad incoraggiare Timoteo nel suo ministero, contrassegnato dalla fiducia in Dio e dalla fedeltà al ministero del Vangelo, affidatogli per l’imposizione delle mani.

Seguiamo la traduzione CEI (Roma 2008), riportando il brano di 2Tm 1, 1-14:

1Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio e secondo la promessa2della vita che è in Cristo Gesù,  a Timòteo figlio carissimo: grazia, misericordia e pace da parte di Dio Padre e di Cristo Gesù Signore nostro. 3Rendo grazie a Dio, che io servo, come i miei antenati, con coscienza 4pura, ricordandomi di te nelle mie preghiere sempre, notte e giorno. Mi tornano alla mente le tue lacrime e sento la nostalgia di rivederti per 5essere pieno di gioia.  Mi ricordo, infatti della tua schietta fede, che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce e ora, ne sono certo, anche in te. 6 Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per 7l’imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di 8timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza.  Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per 9lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia, Questa ci è stata 10data in Cristo Gesù fin dall’eternità, ma è stata rivelata ora, con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli ha vinto la morte e 11ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo, per il quale io sono stato costituito messaggero, apostolo e maestro. 12È questa la causa dei mali che soffro, ma non me ne vergogno: so infatti in chi ho posto la mia fiducia e sono convinto che egli è capace di custodire 13fino a quel giorno ciò che mi è stato affidato. Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me, con la fede e la carità che sono in 14Cristo Gesù. Custodisci mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato.

 

Lectio

– Il brano paolino si articola in tre unità: l’introduzione (vv. 1-2), il rendimento di grazie (vv. 3-5) e l’esortazione (vv. 6-14). Particolarmente in questa lettera, l’analisi della relazione tra Paolo e Timoteo fa emergere il genere del «discorso di addio» ed è su questo registro espressivo che si intonano le affermazioni e soprattutto si percepisce il pathos della comunicazione paolina. Nel dialogo epistolare va notata una triplice prospettiva[3]: l’esortazione coinvolge anzitutto il «presente» ecclesiale di Timoteo, chiamato a vivere la fedeltà e a sopportare le sofferenze apostoliche (cf 2Tm 4, 5). In secondo luogo Paolo fa memoria del «passato» del giovane discepolo, che ha ricevuto dai suoi cari la testimonianza di una «fede sincera» (cf 2Tm 1, 5) e il dono di Dio mediante l’imposizione delle mani (cf 2Tm 1, 6). Infine l’esortazione si apre al «futuro», che implica l’impegno della vigilanza e della capacità di rispondere alla sfide lanciate dalle false dottrine e da modelli opposti alla sana e solida dottrina (cf 2Tm 4, 2-3). In questa dinamica viene presentata la figura di Paolo nell’atto di designare come erede del proprio ministero la persona di Timoteo, che riceve l’investitura ufficiale e solenne.

– Similmente alle altre lettere paoline, Paolo esordisce qualificandosi come «apostolo per volontà di Dio»[4]. La memoria va all’evento vocazionale segnato dall’incontro con Cristo sulla via di Damasco (cf At 9, 1-7). Timoteo (che significa «colui che teme Dio») è definito «figlio carissimo», in linea con l’elogio paolino che ritroviamo in 1Cor 4, 17. Il saluto comprende tre termini: la grazia (charis), la misericordia (eleos) e la pace (eirēnē): si tratta dei tre doni spirituali che Dio elargisce al credente e che santificano la sua vita in vista della missione pastorale. Questi doni discendono da Dio Padre e da Gesù Cristo, Signore nostro e non sono frutto dell’impegno meritorio dell’uomo.

– Nei vv. 3-5 si esprime l’azione di grazia che sottolinea la «coscienza pura» (katara syneidēsei) di Paolo e il suo commosso ricordo di Timoteo (le lacrime, forse in riferimento all’episodio di At 20, 37). Dobbiamo ritenere che la relazione tra Paolo e Timoteo sia stata intensa, profonda, familiare, ispirata alla comunione fraterna sul modello del Vangelo. Paolo ricorda Timoteo nella preghiera e vive la nostalgia di rivedere il suo volto e di gioire con lui. Il motivo della gioia (chara) esprime la gratitudine a Dio per l’esperienza ecclesiale condivisa. Paolo si fa portavoce di questa esperienza, arricchita dal ricordo della «fede senza ipocrisia» (anypokritou pisteōs) presente nel discepolo carissimo, ereditata dal suo ambiente familiare: la testimonianza autentica fu già nella nonna Loide e nella madre Eunice[5]. Si tratta dell’unico caso in cui Paolo fa memoria di familiari dei suoi collaboratori: questo aspetto personale rivela la profonda conoscenza che l’Apostolo aveva di Timoteo e della sua storia familiare[6].

– Nei vv. 6-14 troviamo una solenne esortazione che include la «confessio fidei»[7] affidata da Paolo al discepolo. L’articolazione evidenzia il seguente schema: vv. 6-8 (esortazione iniziale); vv. 9-11 (confessione di fede); vv. 12-14 (esortazione finale). Tre sono le parole-chiave che spiccano nel brano: il «carisma di Dio» (to charisma tou Theou), il Vangelo (to euaggelion) e «il buon/bel deposito» (ē kalē parathekē) della fede. In questa esortazione viene presentata in modo illuminante la figura del pastore e la sua missione nella Chiesa. Anzitutto Paolo esorta Timoteo a «ravvivare il dono di Dio» (anazōpyrein to charisma tou theou). Il termine charisma (cf 1Tm 4, 14) fa riferimento al dono del ministero conferito a Timoteo mediante l’imposizione delle mani, in vista del servizio sacro nella Chiesa. Inoltre già in 1Tm 3, 1-13 e in Tt 1, 6-9 si trovano le indicazioni dei requisiti necessari per svolgere il servizio ministeriale nella Chiesa. Il verbo «ravvivare» (hapax NT) include l’immagine del «riaccendere il fuoco», in stretto collegamento simbolico con lo Spirito Santo (cf At 2,1-4). Il «charisma» è inteso come un «dinamismo spirituale» e viene paragonato all’attività del focolare che sprigiona luce e calore. Allo stesso modo il discepolo deve ravvivare il dono dello Spirito divino, che crea e rinnova continuamente l’attitudine del ministero a presiedere degnamente, con l’insegnamento, l’esortazione e la difesa della sana dottrina. L’esortazione comprende la responsabilità ministeriale di Timoteo, consacrato per il servizio e chiamato da Dio a vivere in modo autentico ed autorevole il suo compito di pastore nella comunità a lui affidata.

– Proseguendo questa riflessione, Paolo parla dello Spirito donato da Dio: esso non è uno spirito di timidezza (deilias, letteralmente: impotenza di fronte ad un ostacolo), ma «di fortezza, di amore e di saggezza» (dynameōs, agapēs, sōphronismou). Si tratta di tre importanti condizioni spirituali che il pastore deve possedere ed esercitare in prima persona, illuminato e guidato dall’azione dello Spirito Santo[8]. La fortezza è la spinta interiore che guida il pastore nella missione del Vangelo; l’amore effuso nel cuore da Dio è la partecipazione della stessa vita divina in noi; la saggezza indica la maturità dell’uomo di Dio, che sa essere equilibrato, moderato e saldo nel discernimento (cf 1Tm 3, 2; Tt 1, 8; 2, 12). L’esortazione prosegue con l’inserimento di un nuovo termine-chiave: il vangelo (euaggelion). Timoteo non deve vergognarsi della testimonianza (to martyrion) da rendere al Signore, ma deve soffrire insieme a Paolo per il Vangelo (cf Rm 1, 16; 1Cor 1, 23), sostenuto dalla forza di Dio (dynamis theou).

– L’esempio di Paolo «in carcere» deve rafforzare, in Timoteo e nell’intera comunità, la convinzione che il Vangelo richiede il sacrificio della propria vita. Così, anche se si vive nelle restrizioni, nelle catene e nelle persecuzioni, a maggior ragione i cristiani devono trovare la forza spirituale di testimoniare Cristo nel mondo. La stessa idea viene ripetuta in Rm 1, 16; 1Cor 1, 23; 4, 9-13; 2Cor 12, 9-10; Fil 1, 7.12-26; 3, 10-11: si tratta di un motivo costante nella predicazione paolina, che trova tutta la sua attualità nelle odierne frontiere dell’evangelizzazione. Timoteo è giovane (cf 1Tm 4, 12), chiamato ad esercitare il ministero in una chiesa «di frontiera» quale è quella che vive ed opera nella metropoli efesina, con tutte le conseguenze e le difficoltà di un ambiente complesso, cosmopolita e tanto diversificato. Da notare il singolare impiego del verbo syg-kakopatheō (con-soffrire, cf 2Tm 2, 3), che sottolinea la comunione profonda nella sofferenza tra Paolo e il suo fedele discepolo[9].

– Nei vv. 9-11 si colloca la confessio fidei che, secondo alcuni, sarebbe un frammento di un antico inno battesimale[10], ben collegato con il contesto epistolare. Il testo è denso di contenuto teologico e delinea il piano salvifico di Dio, realizzato nella persona e nella missione del Figlio. Nel v. 9 si descrive l’opera divina con due aoristi: Dio ci ha salvati (sōsantos) e ci ha chiamati (kalesantos) con una «vocazione santa» (klēsei agia)[11]. Si tratta di due verbi-chiave propri della sintesi teologica di Paolo, che descrivono l’avvenimento storico della missione del Cristo: la salvezza universale avviene mediante la chiamata alla testimonianza (cf 1Tm 6, 12), che si esplica nella realizzazione di un cammino vocazionale, da cui emerge tutta la dinamica della risposta di fede. La chiamata di Dio non avviene «in base alle nostre opere» e a motivo dei doni e dei meriti personali, ma per un misterioso progetto (idian prothesin) e per la sua «grazia» (charin), che è puro dono celeste. Si tratta di una profonda sintesi dell’avvenimento cristiano, collegato alla categoria della vocazione. La salvezza avviene mediante la vocazione e la vocazione risponde ad un preciso progetto misterioso di Dio nella vita dei credenti (cf l’uso del «noi» comunitario).

– La rivelazione (phanerōtheisan) della «grazia» divina accade mediante l’apparizione (epiphaneias) del salvatore Cristo Gesù nella storia. Per tale ragione l’eternità entra nel tempo (cf l’avverbio nyn-adesso) e la Chiesa ha la certezza di vivere «in questo momento» l’incontro con Colui che ha portato a compimento la storia della salvezza. Al centro di questo inno c’è la persona di Gesù Cristo definito «il salvatore» (o sōter)[12]: mentre nel mondo ellenistico la «manifestazione del salvatore» era collegata alla nascita di un re, nell’interpretazione cristiana la venuta di Cristo nel mondo come «unico salvatore» rappresenta il compimento del progetto di Dio, non paragonabile a nessun altro potere o evento storico[13]. Un re umano vince i nemici, si circonda di amici potenti, combatte l’ingiustizia, protegge il regno dai pericoli ma rimane pur sempre mortale: mentre Gesù Cristo è il salvatore perché «ha vinto la morte» (katargēsantos ton thanaton) e «ha fatto la vita e l’immortalità» (phōtisantos zōēn kai aphtarsian). Siamo nel cuore dell’annuncio cristiano, che Timoteo deve accogliere e trasmettere: il «vangelo» è mistero di morte e di risurrezione, è passaggio dalla vita presente all’immortalità, è illuminazione che viene dall’alto, che sgorga dalla risurrezione del Cristo.

– Nel v. 11 spicca in posizione enfatica l’«io» paolino e la specificazione del suo ruolo ministeriale[14]. Paolo si presenta davanti a Timoteo e a tutta la comunità come «messaggero» (kēryx), «apostolo» (apostolos) e «maestro» (didaskalos). Si tratta di tre qualificazioni che permettono di specificare la personalità ministeriale di Paolo: «messaggero» del Vangelo, che ha ricevuto e a sua volta deve annunciare a tutte le genti; «apostolo» di Cristo, scelto come «strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele» (At 9, 15); «maestro» che insegna con autorità ed è chiamato a difendere la sana dottrina. La sottolineatura personale continua nel v. 12, in cui Paolo si presenta come modello evangelico per confermare la fede di Timoteo.

– Per la causa del Vangelo anche Paolo è chiamato a «soffrire» senza vergognarsi. Come nella precedente esortazione (v. 8) egli invitava Timoteo a non vergognarsi, così ora egli dichiara che non si vergogna della sua condizione di dolore. Chi ha scelto di servire la verità di Cristo e del Vangelo deve pagare di persona e condividere le stesse sofferenze di Cristo (cf 2Tm 2, 3; 3, 11; 4, 5). In tal modo l’Apostolo «confessa» la sua fede senza paura e si presenta come «modello» da imitare e testimone da additare. La forza di questa testimonianza viene dall’adesione a Cristo. L’affermazione paolina risulta centrale per comprendere la dinamica spirituale che egli sta descrivendo: «So infatti in chi ho posto la mia fiducia (oida gar ō pepisteuka) e sono convinto che egli è capace di custodire (pepeismai oti dynatos estin tēn parathēkēn mou phylaxai) ciò che mi è stato affidato fino a quel giorno». Paolo è consapevole di aver fatto la scelta più importante della sua vita: credere ed affidarsi a Cristo. Il verbo pisteuō (credere, avere/dare fiducia) è utilizzato al perfetto, tempo che indica una fede emessa nel passato e attualmente viva ed operante, tanto che è seguito da un altro perfetto pepeismai (da peithō), che include i concetti di «fiducia e di certezza».

– La fede, che si declina con la fiducia e l’abbandono in Dio, è il fondamento della vocazione e della missione apostolica di Paolo. È questo l’aspetto determinante della nostra riflessione vocazionale e che permette di cogliere la straordinaria testimonianza offerta a Timoteo in questa lettera. Paolo non si vergogna del Vangelo, sopporta le sofferenze del ministero e le catene, perché ha creduto ed ha posta tutta la sua fiducia in Cristo. Cristo è diventato il fondamento della vita dell’Apostolo, che ha scelto di appoggiare tutto il suo essere, passato, presente e futuro sul suo Signore e salvatore. Il binomio verbale pepisteuka kai pepeismai costituisce una pregnante espressione della spiritualità paolina: essa indica «entusiasmo, fiducia, adesione stabile, rapporto definitivo, fede, persuasione»[15].

– Nei vv. 13-14 Paolo completa l’esortazione a Timoteo, invitandolo ad avere «come modello» (hypotypōsin eche) le «sane parole» (hygiainontōn logōn) udite, insieme alla fede e alla carità. La consegna di questa testimonianza, fondata sulla fede e sull’amore, deve rassicurare Timoteo nella prosecuzione del ministero apostolico, contro i pericoli che provengono dalle perverse dottrine e dagli ingannatori. Per questa ragione Timoteo deve custodire il «bel deposito» (tēn kalen parathēken) (cf 1Tm 6, 20), che riassume il contenuto del messaggio evangelico e comprende anche le «sane parole» udite da Paolo. L’espressione tēn kalen parathēken è tipica delle Lettere Pastorali (cf l’uso di kalos in 1Tm 3, 7; 4, 6)[16] e indica, nella sua completezza, il tesoro della tradizione cristiana, il nucleo delle verità da credere, che si oppongono alle menzogne dei falsi maestri. Ancora più forte deve essere la comunione tra l’Apostolo e il suo discepolo prediletto nell’unico Spirito (v. 14): con l’aiuto dello Spirito Santo, «che abita» nel cuore dei credenti, Timoteo potrà proseguire il ministero ecclesiale, continuando l’opera iniziata da Paolo[17].

 

Meditatio

* L’analisi di 2Tm 1, 1-14 fa emergere alcune indicazioni per svolgere la meditatio sul brano studiato, avendo presente il tema vocazionale che fa da sfondo al cammino annuale. Un primo aspetto da evidenziare è costituito dalla relazione tra Paolo e Timoteo, che si propone come un modello di comunicazione e di condivisione ecclesiale. Paolo, ormai anziano e lontano, si fida di Timoteo, consegna al giovane discepolo le «sane parole» del Vangelo e incoraggia il pastore a vigilare con saggezza e prudenza sulla Chiesa efesina a lui affidata. Esercitare il ministero significa realizzare la propria vocazione alla luce della Parola salvifica di Dio. In questo contesto la Parola diventa paradosis, tradizione, che passa da una generazione all’altra, dal primo evangelizzatore al successore, rimanendo autentica e mantenendo tutta la sua efficacia. L’atto di ringraziamento che l’Apostolo esprime nell’esordio epistolare, ricordando le lacrime ed esprimendo la nostalgia di rivedere Timoteo, segna allo stesso tempo l’intensità della relazione ecclesiale e la «fiducia» riposta nella presenza e nell’azione del giovane pastore.

* Un secondo aspetto è dato dalla responsabilità ministeriale che Paolo ripropone a Timoteo. Anzitutto egli deve «ravvivare» il dono spirituale del ministero istituito per l’imposizione delle mani. Ravvivare il dono significa crescere nella maturità e nella stabilità del proprio servizio verso la Chiesa e i fratelli. L’esplicazione di questo ministero è leggibile nelle esortazioni che seguono: non vivere la timidezza, ma la forza di amare; non vergognarsi del Vangelo, ma proclamare la dottrina sicura, mediante le «sane parole» udite da Paolo; non fuggire la responsabilità, ma imparare a condividere le sofferenze e le persecuzioni a causa della Parola di vita. Il tenore della parenesi paolina è chiaramente dettato dall’impegno di far crescere la Chiesa e di assicurare uno stile cristiano senza ambiguità né cedimenti di fronte alla cultura pagana dominante. Paolo sta formando il cuore di Timoteo, nella consapevolezza che il cammino della Chiesa sarà caratterizzato da difficoltà e ostacoli.

* Un terzo aspetto è rintracciabile nella confessio fidei dei vv. 9-11: la centralità del progetto salvifico di Dio per l’umanità. Le Lettere Pastorali sono scritti prevalentemente esortativi e normativi, ma ritraggono frammenti innici e passaggi teologici di grande rilevanza. Siamo di fronte ad una delle più efficaci sintesi del cristianesimo antico: questo frammento di inno battesimale compone il fondamento determinante della fede cristiana: la centralità della decisione di Dio che vuole salvare l’uomo dalla morte e lo chiama alla vita e all’immortalità. Questo progetto si realizza nella vocazione e missione del Figlio Gesù Cristo: guardando a Lui, noi possiamo riscoprire la nostra vocazione e svolgere il compito che Lui ci affida. Dalla morte all’immortalità, dal mondo presente a quello futuro, dalla fragilità dell’esistenza terrena al dono della salvezza escatologica: questo processo implica l’adesione della fede al Vangelo. Credere significa affidarsi, consegnarsi a Dio, lasciare che la sua grazia trasformi il nostro cuore, perché possa abitarvi lo Spirito Santo.

* Proseguendo in questa direzione, un ultimo importante messaggio è costituito dalla testimonianza stessa di Paolo: egli soffre molti mali a causa del Vangelo e si mostra consapevole della sua adesione a Cristo, nel quale ha riposto la sua fiducia. È la fede fiduciale il nucleo del messaggio che l’Apostolo vuole affidare al discepolo. La fede è insieme «adesione alla dottrina» che genera la stabilità, il fondamento, la fermezza e allo stesso tempo è «affidamento alla persona» di Gesù Cristo, che si traduce in preghiera, condivisione, consolazione e speranza. Notiamo il collegamento dell’espressione paolina con il tema della Giornata Mondiale di preghiera per le vocazioni proposto in questo anno: «So a chi ho dato la mia fiducia» (2Tm 1, 12). Si tratta di accogliere la portata spirituale, teologica e pastorale di questa confessione paolina e di interiorizzarla, affidando al Signore il cammino vocazionale di questo tempo e l’intera opera dei credenti nelle comunità cristiane sparse nel mondo. È facile lo scoraggiamento e la mancanza di speranza, di fronte ai tanti problemi del mondo. Così poteva essere anche nel contesto sociale ed ecclesiale di Timoteo.

L’Apostolo propone la sua esperienza ministeriale per ripetere anche a noi la necessità di riacquistare la fiducia, di vivere l’oggi della fede che sa costruire la comunità e lottare per la verità del Vangelo. Nella persona di Timoteo sono rappresentati i credenti, chiamati ad assumersi la responsabilità di annunciare il Vangelo e di testimoniare, nella forza dello Spirito Santo, la salvezza di Dio.

 

Oratio: «Tu apri la mano»

La nostra preghiera è racchiusa nello splendido testo del Sal 144 (145), attraverso il quale possiamo rileggere l’esperienza dei credenti che confidano in Dio e che si abbandonano alla sua provvidenza[18]. Riportiamo il testo[19]:

1O Dio, mio re, voglio esaltarti
e benedire il tuo nome in eterno e per sempre.
2Ti voglio benedire ogni giorno,
lodare il tuo nome in eterno e per sempre.
3Grande è il Signore e degno di ogni lode,
senza fine è la sua grandezza.

4Una generazione narra all’altra le tue opere,
annunzia le tue meraviglie.
5 Proclamano lo splendore della tua gloria

e raccontano le tue imprese.
6Parlino della tua terribile potenza:
anch’io voglio raccontare la tua grandezza.
7Diffondano il ricordo della tua bontà immensa,
acclamino la tua giustizia.
8Misericordioso e pietoso è il Signore,

lento all’ira e grande nell’amore.

9Buono è il Signore verso tutti,

la sua tenerezza si espande su tutte le creature.

10Ti lodino, Signore, tutte le tue opere e ti benedicano i tuoi fedeli.

11Dicano la gloria del tuo regno e parlino della tua potenza,

12per far conoscere agli uomini le tue imprese e la splendida gloria del tuo regno.

13 Il tuo regno è regno eterno, il tuo dominio si estende per tutte le generazioni.

Fedele è il Signore in tutte le sue parole, e buono in tutte le sue opere.

14Il Signore sostiene quelli che vacillano e rialza chiunque è caduto.

15Gli occhi di tutti a te sono rivolti in attesa
e tu dai loro il cibo a tempo opportuno.
16Tu apri la tua mano e sazi il desiderio di ogni vivente.

17 Giusto è il Signore in tutte le sue vie, e buono in tutte le sue opere.

18Il Signore è vicino a chiunque lo invoca,
a quanti lo invocano con sincerità.
19Appaga il desiderio di quelli che lo temono,
ascolta il loro grido e li salva.
20 Il Signore custodisce tutti quelli che lo amano,
ma distrugge tutti i malvagi.
21Canti la mia bocca la lode del Signore
e benedica ogni vivente il suo santo nome,
in eterno e per sempre.

 

Il salmista riprende una lode di Davide (v. 1a) per benedire Dio nella sua provvidenza. Nei vv. 1b-2 emerge la fiducia dell’orante in Dio: egli desidera «esaltare e benedire» il suo nome «per sempre». Di fronte alla storia, il credente riconosce l’opera stupenda di Dio e ne canta le meraviglie, descrivendo gli attributi del Signore e la sua grandezza: egli è grande, la sua potenza è smisurata, il suo splendore traspare dalle opere compiute nella storia, egli è bontà infinita e la sua giustizia è misericordiosa e ricca di grazie (vv. 3-8).  La sua «tenerezza» si espande su tutte le creature (v. 9). Per spiegare la provvidenza celeste, l’orante presenta Dio come colui che governa la storia e «sostiene» i vacillanti, senza abbandonare coloro che sono caduti. Da queste espressioni si può cogliere la confidenza del credente nei riguardi del Signore e del suo amore misericordioso. Oltre alle persone vacillanti e fragili, il salmo presenta la cura amorosa di Dio che «nutre» come un padre e una madre i suoi figli, elargendo doni con le sue stesse mani. In questo senso risulta suggestiva l’immagine della mano tesa verso i poveri e i bisognosi del popolo, nell’atto di donare il cibo della vita. Il salmista riconosce che tutto è dono di Dio e che ogni giorno è lui a donare all’uomo la vita: «Tu apri la tua mano e sazi la fame di ogni vivente» (v. 16). Questa mano diventa l’espressione di un incontro significativo ed arricchente: Dio è vicino a coloro che si affidano a lui e che hanno posto in lui la loro fiducia. Mettersi in dialogo con il Signore attraverso le parole di questo testo salmico, significa rivivere il proprio cammino vocazionale nella preghiera e nella lode, confermando in Dio la nostra vita.

La creazione è opera delle mani di Dio (cf Sal 27, 5) e i credenti devono sapersi affidare alle sue mani, perché egli è fedele per sempre (Sal 30, 6).

 

Contemplatio: «La mano del Signore»

– La metafora della «mano» può aiutarci a fare un ulteriore passaggio nella preghiera: scrutare il volto del Signore e contemplare la sua persona nell’atto di comunicare la vita, la salute, la benedizione mediante le sue mani[20]. Con segni e parole, Gesù ha annunciato la venuta del Regno, che ha trovato in tanti uomini e donne una risposta di accoglienza e di vita. Fermiamoci a contemplare tre episodi evangelici che riportano il segno del contatto con la mano, mediante il quale l’incontro tra il Signore e i suoi interlocutori si trasforma in esperienza di fiducia e di salvezza.

– Un primo episodio ha come protagonista un anonimo lebbroso che invoca la guarigione mentre Gesù è sulla strada (Mc 1, 40-45). Postosi in ginocchio in segno di umiliazione, l’uomo gli grida: «“Se vuoi, puoi guarirmi!”. Mosso a compassione, Gesù stese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, guarisci!”. Subito la lebbra scomparve ed egli guarì» (Mc 1, 40-42). È la mano che supera la prescrizione della Legge (Lv 13, 49) e che apre alla fiducia e alla guarigione: si tratta di un atto di liberazione che raggiunge l’uomo emarginato ridonandogli la speranza e la vita.

– Un secondo episodio descrive due figure femminili: l’emorroissa e la figlia di Giairo. La prima, facendosi strada in mezzo alla folla, tocca con la sua mano il mantello del Signore e ottiene la guarigione. Gesù la chiama alla verità e le ridona la pace interiore: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male» (Mc 5, 34). La seconda è raggiunta da Gesù insieme a Giairo e a sua moglie, nella stanza interna della casa dove giaceva e il Signore «presa la mano della bambina, le disse: “Talità kum”, che significa: “Fanciulla, io ti dico, alzati!”. Subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare» (Mc 5, 41-42). L’intervento del Cristo completa l’incontro con la donna emorroissa facendola uscire dall’anonimato e ridonandole la gioia di appartenere alla comunità da cui era esclusa. La mano della bambina di Giairo indica il dono della vita che passa dal Signore alla fanciulla, la quale risorge e si rimette in cammino.

– Un terzo episodio è rappresentato dall’esperienza di Simon Pietro nel lago di Genezareth, nel contesto della tempesta notturna. L’apostolo temerario mette alla prova il Signore sulle acque e cammina verso di lui, ma la sua «poca fede lo fa affondare» e sta per annegare nell’abisso. Allora è Gesù ad intervenire: «Subito Gesù stese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”» (Mt 14, 31). È la mano che viene tesa per salvare, per chiedere fiducia, per sostenere l’uomo in mezzo alle difficoltà ed alle incertezze. In Simon Pietro siamo tutti noi ad essere sottratti dalla morte e dai pericoli che nascono dalla «poca fede» in Dio.

– Nel nostro testo l’indicazione della mano è collegata alla «imposizione delle mani» che Timoteo ricevette da Paolo in vista del ministero. Il fare memoria di questo gesto aiuta soprattutto le persone consacrate a tornare alla sorgente della loro esperienza ministeriale, al dono dello Spirito Santo che ha segnato l’esistenza in modo irreversibile, configurandola all’immagine di Cristo, capo, sposo e pastore.

 

Actio

La pagina paolina si caratterizza per la sua densità parenetica, che traduce la riflessione teologica riguardante il ministero di Timoteo. In particolare sono tre gli aspetti che meritano l’attenzione per vivere l’actio nella nostra vita.

* Un primo aspetto è rappresentato dal «dialogo di comunione» con le persone che mi sono vicine e mi sono affidate nel servizio ministeriale. Il dialogo tra Paolo e Timoteo si presenta come un modello ideale di come si può costruire un dialogo ecclesiale: l’affettuosa paternità di Paolo trova l’ascolto premuroso del «carissimo discepolo» che condivide le sofferenze apostoliche e si prepara ad affrontare gli ostacoli e le prove del suo ministero, sentendo Paolo vicino a sé.

* Un secondo aspetto è dato dal motivo del «Vangelo», per il quale Timoteo non deve vergognarsi, né vivere con timidezza e senso di inferiorità. Paolo sottolinea il motivo della grazia divina e la forza dello Spirito Santo ricevuto: la passione apostolica e la centralità dell’opera di Cristo in noi ci aiutano a vincere le paure e i limiti collegati al rispetto umano, per diventare schietti annunciatori di Cristo in mezzo alla gente.

* Un ultimo aspetto che emerge dal brano paolino è la fiducia e tutto ciò che comporta l’esercizio della fiducia in rapporto a Dio e agli altri. Come modello da imitare, Paolo dichiara a Timoteo di essere consapevole «a chi ha creduto e in chi ha posto la sua fiducia». Non si tratta solo di esercitare una fede nella dottrina, ma di sperimentare una fiducia che consiste nel sapersi abbandonare in Dio e nel vivere l’incontro con Cristo con un cuore puro ed accogliente. Solo così il testimone avrà dal Signore la forza di condividere le sofferenze e di conservare intatto il «deposito» della fede che gli è stato consegnato.

 

Conclusione

La dimensione vocazionale della fede/fiducia conosce un lungo percorso biblico e viene attestata ampiamente nella storia dei personaggi raccontati nella Sacra Scrittura. La radice antico testamentaria, per indicare l’avvenimento della fede, si compone di due espressioni ebraiche. La prima, ‘āman, significa originariamente «essere attendibile, essere fedele, essere stabile» e, in diversi casi, indica l’idea di ricevere un incarico, l’atto di affidamento (cf Nm 12, 7; 1Sam 3, 20; Os 12, 1), la condizione di stabilità per esercitare un ministero (cf la stabilità della dinastia davidica: 2Sam 7, 12). La fede assume il significato di un’adesione su ciò che è stabile, su ciò che può fondare l’esistenza. È questo il concetto reso in greco con il termine pistis e con il verbo pisteuō. La seconda radice ebraica è bātakh, che esprime una fede intesa come «ricerca di sicurezza», oppure l’atto di fare affidamento, di dare fiducia (Ger 39, 18; 2Re 18, 30). Questa espressione è resa in greco con pepoithenai (fidarsi, convincere) ed elpizein (sperare).

Questa doppia dimensione dell’esperienza della fede e della fiducia si confermano sia nella storia del popolo d’Israele che nella realtà del discepolato di Gesù e della Chiesa primitiva. Fedeltà e fiducia, consapevolezza intellettiva e consegna esistenziale sono le due dimensioni dell’esperienza religiosa e segnatamente della risposta vocazionale. L’annuncio del Vangelo riproposto a tutti gli uomini come «novità di Dio per l’uomo» chiama ciascuno di noi, così come è stato per Paolo e per Timoteo, a vivere pienamente la nostra esistenza vocazionale come un cammino di fede e di fiducia, toccati ogni giorno dalla mano rassicurante del Signore. Anche per noi sembra ripetersi la scena vissuta dal giovane profeta Geremia, nell’essere introdotto al ministero: «Il Signore stese la mano, mi toccò la bocca e il Signore mi disse: “Ecco, ti metto le mie parole sulla bocca”» (Ger 1, 9).

 

Note

[1] Per un approfondimento della struttura e della teologia della lettera, cf C. MARCHESELLI-CASALE, Le lettere pastorali (SOC 15), Bologna 1995, pp. 627-673; P. IOVINO, Lettere a Timoteo. Lettera a Tito (I libri Biblici. Nuovo Testamento), Milano 2005, pp. 32-56.

[2] Cf la monografia di C. MARTIN, Pauli Testamentum. 2 Timothy and the Last Words of Moses, Rome 1997.

[3] Cf P. IOVINO, Lettere a Timoteo. Lettera a Tito, pp. 177-178.

[4] Cf Rm 1, 1; 1Cor 1, 1; Gal 1, 1; Ef 1, 1; Col 1, 1.

[5] Commenta Marcheselli Casale: «vi si avverte il ricordo riconoscente verso la madre, che gli ha trasmesso i fondamenti di quel ricco patrimonio religioso che oggi si ritrova. In 1Tm 5,2 la figura materna lo spinge a formulare un’esortazione analogica: sostieni le donne anziane come fossero tua madre» (C. MARCHESELLI-CASALE, Le lettere pastorali, p. 640).

[6] Sulla figura di Timoteo, cf C. MARCHESELLI-CASALE, Le lettere pastorali, pp. 44-45; P. CAMASTRA, «Timoteo», in G. DE VIRGILIO (ed.), Dizionario biblico della vocazione, Roma 2007, pp. 925-932.

[7] Cf P. IOVINO, Lettere a Timoteo. Lettera a Tito, p. 182.

[8] Circa l’imposizione delle mani, cf l’excursus in C. MARCHESELLI-CASALE, Le lettere pastorali, pp. 643-653; M. MAZZEO, «Imposizione delle mani», in G. DE VIRGILIO (ed.), Dizionario biblico della vocazione, pp. 423-427.

[9] Annota Iovino: «A partire da questa comunione, l’invito a soffrire per il Vangelo acquista tutta la sua ricchezza di significato. Anche la sofferenza di Timoteo e di quanti gli succederanno nel compito di guida potrà recare l’impronta salvifica di quello Spirito che è all’origine del charisma e che accompagna la testimonianza dell’euaggelion, ma a condizione che sia vissuta kata dynamin Theou, “con la forza di Dio”, che è appunto il suo santo Spirito» (P. IOVINO, Lettere a Timoteo. Lettera a Tito, p. 186).

[10] Per l’approfondimento, cf C. MARCHESELLI-CASALE, Le lettere pastorali, pp. 656-664.

[11] Sul tema paolino della «chiamata», cf G. DE VIRGILIO, «L’uso teologico di kalein-klçsis in Paolo», in S. GRASSO – E. MANICARDI (a cura di), «Generati da una parola di verità» (Gc 1,18). Scritti in onore di Rinaldo Fabris nel suo 70° compleanno (SRB 47), Bologna 2006, pp. 237-249.

[12] Nelle Pastorali l’espressione sôtçr era stata applicata solo a Dio, mentre in questo contesto è attribuita a Gesù Cristo (cf P. IOVINO, Lettere a Timoteo. Lettera a Tito, p. 186).

[13] Cf G. BARBAGLIO – R. FABRIS, Le lettere di Paolo, III, Roma 1980, p. 475.

[14] Cf L. OBERLINNER, Le lettere pastorali  (CTNT 11/1-3), II, Brescia 1999, p. 76.

[15] Cf C. MARCHESELLI-CASALE, Le lettere pastorali, p. 672.

[16] Cf gli studi in G. DE VIRGILIO (ed.), Il deposito della fede. Timoteo e Tito (SRB 34), Bologna 1998; l’excursus «Didascalila e deposito della fede» in C. MARCHESELLI-CASALE, Le lettere pastorali, pp. 675-679.

[17] Circa la sottolineatura della «tradizione ministeriale», cf L. OBERLINNER, Le lettere pastorali, II, p. 86

[18] Cf G. RAVASI, Il libro dei Salmi, III, Bologna 1985, pp. 734-789.

[19] Cf CEI, La Sacra Bibbia, UELCI, Roma 2008.

[20] Cf F. LAUBACH, «mano», in Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, a cura di L. COEHEN, E. BEYREUTHER, H. BIETENHARD, Bologna 1976, pp. 974-976.