N.01
Gennaio/Febbraio 2009

«In Lui c’è stato il “sì”» (2Cor 1,19).

L’esperienza vocazionale di Paolo: eco attualizzata del sì di Gesù, che vive in lui

Introduzione

Alla scuola di Paolo vogliamo penetrare nello “studio contemplativo” del suo itinerario di conformazione all’esperienza di realizzazione vocazionale del Signore Gesù, Verbo del Padre, che entrando nel mondo dice, facendo eco al Sal 40: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo mi hai dato, allora io ho detto ecco io vengo, o Dio, per fare la tua volontà» (cf Eb 10,5). Paolo vive l’esperienza unitiva con Gesù, «il mio Signore», come lo chiama al versetto 8 del capitolo 3 della Lettera ai Filippesi, in una maniera forte e paradossalmente capace di giungere all’urlo esperienziale, che è il vertice della sua “vocazione personale” di Gal 2,20: «Sono stato concrocifisso con Cristo e non sono più io che vivo ma Cristo vive in me; questa vita che io vivo nella carne la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me». Il mistero pasquale di Gesù, che è l’espressione più alta del suo al Padre e che giunge al «Tutto è compiuto» di Gv 19,30, è l’esperienza vissuta da Paolo sin dall’inizio del suo incontro con Gesù stesso. Esperienza pasquale vissuta dal Signore, dopo che, nel giardino del Getsemani, ha sudato sangue per bere il calice della volontà del Padre ed essere totalmente ed essenzialmente un’autentica libertà libera, che si dona nel “più dell’Amore” a vantaggio di tutti. È Gesù, l’Amore nudo crocifisso e risorto, che chiede in questo modo a Saulo sulla via di Damasco, secondo il racconto lucano di At 9, perché lo perseguiti, e da tale momento la vita e la sequela di Paolo è un correre continuo questa via, che lo porterà a vivere una sempre più intensa ed autentica esperienza di “cristificazione”, fino a «giungere alla piena maturità del Cristo che vive in lui» (cf Ef 4,13).

 

1. Il cammino di cristificazione[1] di Paolo, “conquistato da Gesù”

L’itinerario vocazionale e di sequela di Paolo, che si delinea e si presenta come questo autentico cammino dicristificazione, ha il suo inizio ed il suo compimento in una vera esperienza di relazione affettiva profonda con Gesù, così come lui stesso ricorda nello splendido capitolo autobiografico di Fil 3:

«Se qualcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui: circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo persecutore della chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge. Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura al fine di guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede» (Fil 3,4b-9).

Queste parole ci fanno vedere con immediatezza come per Paolo il non vivere più lui ma il vivere del Cristo in lui significa giungere ad avere una profonda e vera capacità contemplativa della vita, che lo porta ad incarnare la capacità esistenziale di considerare skýbala[2] (Fil 3,8) tutto il suo essere e la sua storia. Considera, così, tutte le circoncisioni risposta alla berît[3] di Dio, sterco. Considera la preghiera come combattimento e resa d’amore, alla stregua di Giacobbe; sterco[4]. Considera l’avventura del cammino della fraternità ritrovata come sterco[5]e tutto questo perché fondamentalmente ed essenzialmente è conquistato da Gesù Cristo (Fil 3,12). Così Paolo sente di passare, nella sua esperienza spirituale e vocazionale profonda, dall’Io idolatrico, saccente, arrogante, autonomo, autarchico, all’Io kenotico dello spogliamento e dello svuotamento di sé, come Gesù, secondo quanto ricorda egli stesso in Fil 2,6-8:

«Cristo Gesù pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio. Apparso in forma umana umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce».

Questo sentire profondo si fa autentica capacità di rivestirsi dei sentimenti di Cristo, della mente, del cuore, della volontà di Cristo (cf Fil 2,5) e permette all’Apostolo delle Genti di entrare nel clima della pagina-esperienza del di Gesù, che è la lavanda dei piedi raccontata da Giovanni (13,1-17), con la sua precipua e caratteristica valenza eucaristica e pasquale. Questa dinamica di conformazione al Signore Gesù che vive in lui, giunge ad essere descritta in forma mirabile nel versetto 12 di questo capitolo 3 della Lettera ai Filippesi, dove Paolo afferma che è stato conquistato da Gesù Cristo. Il verbo greco katalambàno[6], usato da Paolo in questo versetto, rimanda al verbo ebraico patah, usato da Geremia nel vertice narrativo ed evocativo della sua quinta Confessione, quando, al v. 7a del capitolo 20, dice espressamente: «Mi hai sedotto, hai fatto violenza e hai prevalso e mi sono lasciato sedurre»[7]. Questa esperienza ci introduce nel più autentico vissuto intimo ed esperienziale di Paolo, che gli permette di vivere un’autentica esperienza di mistica apostolica[8]. Questa esperienza unitiva è davvero il vertice della sua risposta d’amore al Signore Gesù, che lo ha chiamato a stare con lui mi e a rimanere con lui, così come era avvenuto per i Dodici (cf Mc 3,13-14) e per l’esperienza tutta particolare di Andrea e Giovanni (cf Gv 1,35-42). Tutto questo porta il nostro Apostolo a sperimentare come la chiamata del Padre a renderlo conforme all’immagine del Figlio si rivesta di alcuni connotati davvero unici e caratteristici nella sua esperienza spirituale, che lo portano a sentire, secondo il racconto di Gal 1,15-16, come il Padre stesso si sia compiaciuto di rivelare in lui il Figlio perché Paolo lo annunci a tutte le Genti. L’immedesimazione con il suo Signore, allora, è davvero unica ed irripetibile: l’Apostolo diventa in questo modo il profumo[9] di Cristo (cf 2Cor 2,15) e del di Cristo per il mondo.

 

2. La Liturgia della vita di Paolo divenuta

 Abbiamo visto come tutta l’esperienza vocazionale e di sequela dell’Apostolo delle Genti sia caratterizzata da un progressivo itinerario di maturazione, che lo conduce ad una continua e sempre più approfondita esperienza spirituale di cristificazione, divenuta a sua volta sempre più cristificante per molti. Questo itinerario si è concretizzato in un cammino esistenziale vissuto nell’ordinarietà della vita, percepita e sperimentata come un’autentica e straordinaria Liturgia della vita[10]. Il testo fondamentale di questo sentire paolino è sicuramente Rm 12,1-2, in cui l’Apostolo introduce la parte parenetica di questo suo importante ultimo scritto, databile intorno al 58 d.C.:

«Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto».

Siamo, allora, invitati da Paolo a prendere consapevolezza dell’invito esistenziale siglato e formulato in questi due versetti per  essere nel di Gesù e nel di Paolo, facendoci “suoi imitatori come lui lo è di Cristo” (cf 1Cor 11,1). È un invito ad entrare nell’”intelligenza del sacrificio” del nostro culto spirituale, che è la “liturgia della nostra vita”, penetrando nello stesso significato etimologico e semantico del termine sacrificium, che rimanda al Sacrum facere: è una chiamata, cioè, a “fare sacro”, a rendere sacro ogni nostro “qui ed ora” nella logica del tempo come una somma sinergica di tanti kairòi, di tanti “momenti favorevoli”, ben differente dalla semplice logica di un tempo continuo e prolungato rappresentato dal fluire dei secondi, dei minuti e delle ore, cadenzati dalle lancette dell’orologio, quale è invece il chrònos. Entrare in questa logica del kairòs in una prospettiva oblativa e sacrificale permette di comprendere il significato esistenziale e sapienziale del monito di Qo 3,3-8, secondo cui c’è un tempo (nell’ebraico troviamo il sostantivo ’et ) per ogni cosa sulla terra:

«Un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per
demolire e un tempo per costruire.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per
gemere e un tempo per ballare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo
per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
Un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per
serbare e un tempo per buttar via.
Un tempo per stracciare e un tempo per cucire, un tempo per
tacere e un tempo per parlare.
Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la
guerra e un tempo per la pace».

Ogni momento della vita è unico ed irripetibile per entrare nella logica spazio-temporale dell’offerta della propria concretezza relazionale, del proprio corpo:

«Sacrificio ed offerta non hai gradito, un corpo mi hai dato. Allora ho detto ecco io vengo per fare o Dio la tua volontà» (Eb 10,5.7).

 Tutto questo si realizza e si percepisce per Paolo esclusivamente nella logica dell’unico suo vanto, che è la croce di Cristo (cf Gal 6,14). La logica della croce e della “parola della croce” (cf 1Cor 1,18), stoltezza per i greci e scandalo per i Giudei (cf 1Cor 1,23-25), è da sempre operativa esistenzialmente in Paolo, così che per lui non è possibile dire del suo rapporto e della sua relazione con il Signore, Maestro e Sposo altro che questo: «Non conosco altro che Cristo crocifisso…!» (cf 1Cor 2,2). Conoscere Cristo crocifisso è la logica della sponsalità paolina. È allora ancora necessario riflettere in profondità sull’esperienza personale e vocazionale del suo conoscere lo Sposo, come è descritto per la sposa del Cantico nel capitolo 3 e nel capitolo 5, fino a che lei non riesca a portarlo «nella casa di sua madre, nella stanza della sua genitrice» (Ct 3,4).

Nella logica della conoscenza del Cantico, il rapporto di Paolo con il Cristo maestro e Signore crocifisso si coniuga nelle categorie del «sono malato d’amore» (2,5; 5,8): Paolo è davvero, in questo modo, l’amante nell’Amato trasformato[11] e può giungere profondamente al «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20) perché è stato conquistato dal Crocifisso Risorto e può divenire ed essere nel suo d’amore al Padre e alla sua volontà:

«Per conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dei morti» (Fil 3,10-11).

Il Crocifisso Risorto con il suo lo ha sedotto, ha fatto forza ed ha prevalso, come su Geremia secoli prima, come ricordavamo sopra. Per questo esistenzialmente Paolo sperimenta la stessa comunione orante e liturgico-vocazionale alle sue sofferenze:

«Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità» (2Cor 11, 23-27); ed in questo modo

«completa nella sua carne quello che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24).

Così egli entra nella logica conoscitiva-sponsale del del Crocifisso Risorto, che significa per lui penetrare e rimanere nella dinamica esistenziale e spirituale della “spina nella carne”, della skòlops:

«Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,7-10).

Paolo è, così, profondamente immedesimato al Cristo Maestro e Signore, che nel Getsemani suda sangue per “essere”, e di conseguenza “fare”, in ogni suo “qui ed ora”, la volontà del Padre sempre, in tutto, con piena adesione ed umiltà[12](Lc 22,41-44).

Il Crocifisso suda sangue per essere la volontà del Padre: è uno stress, dove le catecolamine producono l’ematoidrosi[13]. Paolo è immedesimato a questa particolarissima esperienza del Signore Gesù e la completa in qualche modo nella sua originalità ed irripetibilità.

Il al calice della volontà del Padre non è tolto al Maestro crocifisso dopo le tre richieste, anzi, il suo deve consentirgli di «alzare il calice della salvezza ed invocare il nome del Signore» (Sal 115). La spina nella carne del suo non è tolta a Paolo, dopo che lo ha implorato per tre volte, ma invece gli viene chiesto di abbandonarsi all’unico valore e all’unica certezza che conta e che dà senso, e che libera in pienezza il proprio sì nel più dell’Amore: Ti basta la mia grazia, la mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza…!”.

Così Paolo completa nella sua carne debole e fragile l’opera di Dio e custodisce e trasfigura il suo tesoro, il suo , nel “vaso di creta” (cf 2Cor 4,7), che è lui stesso. Conoscere Cristo crocifisso e solo Cristo crocifisso fa, allora, di lui un esperto di questa “liturgia della vita” vocazionale, sacrificale ed oblativa, in cui è chiamato ad offrire il proprio corpo in un sacrificio vivente nella logica del “più dell’Amore” (cf Sal 40,7-9; Eb 10,5). Conoscere Cristo crocifisso e risorto significa divenire sempre più un sacrificio, un corpo sacrificale, un corpo donato totalmente in un “più dell’Amore”, che per Paolo diviene e rappresenta un amore particolare, così come lui stesso ci comunica:

«E perciò prego che la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento (aìsthesis), perché‚ possiate distinguere sempre il meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo» (Fil 1,9-10).

Questo amore (agàpe) deve aumentare non in un semplice discernimento, ma in aìsthesis, cioè in delicatezza, raffinatezza, sensibilità, tenerezza. L’amore crocifisso e risorto è raffinato, sensibile, delicato e in questo modo discerne il frammento circostanziato della volontà di Dio in ogni proprio “qui ed ora” sacrificale ed oblativo della Liturgia della vita, che sale al Padre come preghiera intrisa di “profumo d’incenso” (cf Sal 140): l’incenso esistenziale del Cristo, che vive in noi ed è per eccellenza il «sacrificio di soave odore» (Ef 5,2).

Allora, in conclusione, davvero il di Gesù, che Paolo ha incarnato e fatto suo in modo originale ed irripetibile, bussa alla porta del nostro cuore perché il Signore, che ha iniziato in noi la stessa opera buona di Paolo, la porti a compimento (cf Fil 1,6) secondo il suo d’amore alla nostra vita e a quella del mondo intero.  

 

Note

[1] Con il caratteristico e forte termine cristificazione voglio intendere e delineare chiaramente, alla scuola dell’esperienza spirituale dell’apostolo Paolo, tutti gli elementi e gli aspetti che concernono l’itinerario spirituale di ogni credente cristiano, che vive la sua lenta e graduale conformazione al Signore Gesù, iniziata nella immersione battesimale (cf Rm 6) per vivere fino alla pienezza (plêrôma) della piena maturità di Cristo (cf Ef 4,13): il «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» di Gal 2,20.

[2] Il sostantivo skýbalon, di cui skýbala è il nominativo neutro, è un hapax legomenon paolino. Il suo significato forte ed incisivo sta ad indicare tutto ciò che è il risultato ed il frutto del processo metabolico e fisiologico, ottenuto durante le peristalsi gastriche ed enteriche insieme al processo di assorbimento dei villi intestinali negli esseri viventi. Lo Zerwick lo traduce insieme alla Vulgata con stercus (Analysis Philologica Novi Testamenti Graeci, 4a ed., Pontificio Istituto Biblico, Roma 1984, p. 443). La nuova traduzione della Bibbia della Conferenza Episcopale Italiana, edita in questo anno 2008, ha ritenuto opportuno conservare la traduzione “spazzatura”, come era già presente nella precedente versione della traduzione italiana di questo versetto paolino.

[3] Cf la pagina di Gen 15, in cui Dio stipula l’alleanza (karat berît) con Abram secondo il rito nomadico del passare attraverso gli animali uccisi e divisi a metà ed invocando su di sé la morte se non fosse rimasto fedele a questa alleanza, e la pagina di Gen 17, dove Dio chiede ad Abramo il segno della circoncisione come risposta e collaborazione ad un’alleanza bipolare e non solamente unilaterale.

[4] Cf la pagina di Gen 32,23-33, in cui Giacobbe, per chiedere a Dio la benedizione, ingaggia con lui un combattimento nel quale Dio benedice, sì, Giacobbe cambiandogli il nome in Israele: «Ti chiamerai Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto», ma al termine di questo combattimento Giacobbe-Israele lascia lo Iabbok passando a Penuel zoppicando, perché Dio lo ha ferito all’anca.

[5] Cf l’esperienza del cammino che Giuseppe deve compiere per giungere a rivestirsi dell’autentica tunica dalle lunghe maniche, espressione della sua vocazione di essere a servizio dei fratelli e della vera ed autentica fraternità, dopo aver dovuto purificare la sua pretesa di ottenere subito e in maniera quasi meccanica e capricciosa il raggiungimento della realizzazione feconda della sua stessa vocazione e del suo .

[6] Il verbo katalambàno ricorre 13 volte nel NT: 7 volte in Paolo e ben 2 volte in questo versetto. Il suo significato spazia dall’ottenere al conquistare, prendere di sorpresa, afferrare. È sicuramente un verbo che esprime una forte passione-relazione, come vediamo immediatamente di seguito nella ripresa dello stesso verbo all’aoristo passivo, che descrive l’esperienza con il Signore Gesù con il linguaggio della seduzione dell’amore appassionato. È interessante notare l’assonanza di katalambàno con il testo delle Confessioni di Ger 20,7a dove è presente il verbo patah, che L. Alonso Schökel così commenta a p. 581 del suo I Profeti (Assisi 1980): «È come se il Signore avesse richiesto relazioni amorose al profeta fino a sedurlo. Bisogna ricordare che il Signore ha proibito al profeta di accasarsi e di prendere moglie, perché lo vuole tutto per sé». Anche per Paolo l’esperienza con il “tu” relazionale del Signore Gesù è un’esperienza di seduzione, è un lasciarsi sedurre in una passione d’amore (cf la Teologia affettiva). Paolo non potrebbe essere quello che è se non fosse oggetto-soggetto di questo reciproco amore passionale (non solo emotivo, e quindi necessariamente destinato a volatilizzarsi), ma di un amore che vede protagonisti due cuori, due “Io profondo”, che trovano nell’essere oblativamente l’uno nell’altro l’unica ragione di vita e di sussistenza. È la logica dell’amore, cantato e celebrato dal Cantico dei Cantici. È la logica dell’amore di sempre del Dio fedele, che in tutta la storia della salvezza assume i connotati e la valenza di un amore sponsale, seducente e terreno.

[7] Ho usato la nuova traduzione della CEI, più conforme al significato forte e pregnante del verbo ebraico patah.

[8] Siamo davanti ad un forte linguaggio espressivo e comunicativo di un’autentica e propria “mistica apostolica”. Per approfondire questa è bene poter andare ad alcuni studi specifici tra i quali: J. HUBY, La Mistica di S. Paolo e di S. Giovanni, Firenze 1950; A. WIKENHAUSER, La Mistica di San Paolo, Morcelliana, Brescia 1958 (orig. ted. 1955); ATENAGORA DELLO SPIRITO SANTO, «L’esperienza mistica», in Spiritualità Paolina, a cura di E. Ancilli, Teresianum s.d., pp. 266-295; R. PENNA, «Problemi e natura della Mistica paolina», in La Mistica. Fenomenologia e riflessione teologica, a cura di E. Ancilli e M. Paparozzi, I, Roma 1984, pp. 81-221; Ch. A. BERNARD, San Paolo Mistico e Apostolo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2000.

[9] Il sostantivo greco euôdía usato da Paolo è un sostantivo che ricorre solamente tre volte nel Nuovo Testamento. Tutte e tre le ricorrenze sono presenti nell’epistolario paolino. Quindi siamo davanti ad un termine di chiaro stampo paolino.

[10] Per approfondire questa interessante tematica paolina rimando all’interessante e stimolante libro di R. CORRIVEAU, The Liturgy of Life. A Study of the Ethical Trought of St. Paul in His Letters to the Christian Communities, Desclée de Brouwer, Bruxelles-Paris-Montréal 1970.

[11] «Notte che mi hai guidato, notte più gentile dell’alba, o notte che hai unito l’Amato con l’amata, l’amata nell’Amato trasformata sul mio petto fiorito che per te solo avevo custodito rimase addormentato e io lo vezzeggiavo alla brezza leggera. L’aria degli alti torrioni quando scioglievo i suoi capelli. Dimentica di me quei legami il volto reclinato sulla mano tutto cessò e mi staccai da me abbandonando i miei pensieri in mezzo ai cedri»: GIOVANNI DELLA CROCE, La notte oscura, quinta strofa.

[12] Cf il motto della scolastica: agere sequitur esse. Non esiste fare se non come conseguenza dell’essere…!

[13] Nel racconto dell’episodio del Getsemani secondo l’evangelista Luca, il “caro medico” di Paolo (Col 4,14), si racconta che il sangue di Gesù cadeva come gocce (tròmboi) di sangue per terra.