N.01
Gennaio/Febbraio 2009

Personaggi e storie vocazionali nella Bibbia

Introduzione

Nell’orizzonte della rivelazione storica della Bibbia, il termine “vocazione” e, più in generale, l’atto del “chiamare” fanno riferimento ad un processo che descrive la condizione dell’uomo invitato a dialogare con il Creatore e, in conseguenza di tale relazione, a scegliere di vivere secondo un progetto di felicità e salvezza[1]. Tale relazione “progettuale” determina e definisce l’essere stesso dell’uomo, il suo destino di creatura posta di fronte al “tu” di Dio, in modo tale da poter affermare che tutta l’esistenza umana è intesa come un “compito vocazionale”.

Secondo la descrizione contestuale che emerge dai numerosi racconti biblici, l’uomo “non ha la vocazione” come fosse un bene di possesso, bensì “deve cercare e realizzare la propria vocazione” come una graduale scoperta da compiere in relazione al progetto di Dio, origine e sorgente di ogni vocazione[2]. Insieme al termine “vocazione”, che esprime già una connotazione teologica, si trova comunemente l’idea della “chiamata”. Con la parola “chiamata” si allude più specificatamente all’appello contestuale, all’intervento puntuale che Dio fa giungere ai suoi destinatari in modi e forme diverse, affinché conoscano e accolgano l’invito a seguirlo nel compimento della sua volontà: nel corso dell’esistenza intesa come “itinerario di vocazione” si possono realizzare più “chiamate” di Dio rivolte agli uomini perché accolgano, confermino, perseverino, testimonino la verità progettuale del proprio “divenire” nella storia. Pertanto la vocazione è “il compito” di tutta l’esistenza umana, che a sua volta è contrassegnata da diverse “chiamate”.

Sul versante fenomenologico, la vocazione-chiamata si può descrivere come «l’intuizione fondamentale che la persona umana coglie progressivamente e in momenti successivi all’ascolto della parola rivelata, dello Spirito illuminante nell’animo, dai moti intenzionali di adesione al Signore nella comunità ecclesiale, dalla propria disponibilità in servizio degli altri, da ideali di promozione a vita adulta, da tendenze intellettive e affettive, dall’ambiente educativo, dalle idealità dell’epoca, dagli avvenimenti quotidiani, dai rapporti con le persone, luoghi e situazioni» (T. Goffi)[3]. Una tale articolazione si ritrova nei personaggi e nelle narrazioni bibliche che descrivono i dinamismi dell’appello divino e della risposta umana. In questo contributo ci proponiamo di focalizzare la dinamica che caratterizza la categoria della “vocazione-chiamata” così come viene coniugata nei “racconti di vocazione”, che segnano in vario modo i personaggi e le storie vocazionali della Bibbia, avendo presente l’importanza progettuale del verbo “eleggere” (bahar; eklegomai)[4] e “chiamare” (kalein)[5] e il suo impiego tecnico di klēsis in Paolo[6]. Infatti, dal punto di vista lessicale, l’atto attraverso cui Dio chiama è espresso mediante il verbo ebraico qārā(876 ricorrenze nell’AT), reso prevalentemente in greco con kalein (659 ricorrenze nell’AT [LXX]; 148 nel NT)[7].

Tenendo conto dell’ampiezza del tema, ci limitiamo ad offrire un panorama sintetico dei personaggi e delle storie vocazionali, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento.

 

  1. Personaggi e storie vocazionali nell’Antico Testamento

– La creazione, i patriarchi, il popolo, la monarchia

Fin dall’inizio della narrazione biblica, Dio «chiama» le cose all’esistenza (cf Bar 3,33-35; Is 40,26) e dopo aver creato la coppia umana, le affida una missione secondo un progetto di benedizione (Gen 1,28-30). Nondimeno l’atto della chiamata presuppone un disegno previo sulla storia e una libertà di risposta da parte di coloro che sono stati interpellati. Per tale ragione l’appello che l’Onnipotente fa sentire ai singoli personaggi biblici implica sempre una “elezione” previa in vista di una “missione”. In Gen 1-11, dopo la caduta originaria e il dilagare del male sulla terra (cf Gen 6,5-7), l’elezione-missione del «giusto ed integro» Noè (Gen 6,8-22) costituisce un nuovo inizio della storia umana, rinnovata dalle acque del diluvio e sorretta dall’alleanza cosmica del Creatore (Gen 9,9-11).

Le storie patriarcali sono fortemente rappresentative della dialettica vocazionale, in particolare l’esperienza di Abramo, che assume una posizione esemplare nei racconti genesiaci[8]. Nella vicenda dell’Arameo errante di Ur (Dt 26,5) si inaugura la prima fondamentale “paternità vocazionale”, contrassegnata dall’obbedienza piena alla Parola divina (Gen 12,1-4) e alle sue promesse (Gen 15,1-21) e allo stesso tempo forgiata dalla prova di fedeltà (Gen 22,1-18). La vicenda abramitica mette in luce gli aspetti focali della dialettica vocazionale: l’iniziativa di Dio che elegge e chiama in modo irrevocabile; la risposta di fede dell’uomo nella sua piena libertà e disponibilità (cf Rm 4); l’inizio di una “storia vocazionale” il cui destino è nelle mani di un Dio che promuove i deboli e «rovescia le sorti» (cf Est 4,26). Un esempio del “rovesciamento delle sorti” è scolpito nel mirabile racconto didattico di Giuseppe (Gen 37-50), l’uomo giusto «fino alla morte», che vive la sua vocazione-missione nella fedeltà a Jhwh superando tutte le prove ed infine ritrova la sua famiglia e l’affetto del vecchio padre Giacobbe (Gen 48).

Nei racconti dell’Esodo la vocazione di Mosè (Es 3,1-12) anticipa profeticamente quella dei «figli di Israele», chiamati a diventare il «popolo di Jhwh» (‘am jhwh)[9]. Le pagine di Es 3-6 costituiscono il primo stadio della scoperta della vocazione, un vero «esodo personale dentro l’esodo» (R. Fabris)[10]. Il Signore si manifesta imprevedibilmente al pastore di Madian come «Dio di tuo padre, di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» (Es 3,6) e lo manda a liberare il suo popolo. È un Dio che chiama per nome e rivela la sua paternità all’interno delle vere relazioni familiari (non quelle della corte egiziana): «Dirai agli Israeliti: Il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi» (Es 3,14). La vocazione si colloca nella memoria viva di una comunità: i patriarchi “appartengono” a Mosè e al suo popolo sofferente, perché sono “parte della sua storia” e senza di loro egli non potrà capirsi, né capire gli avvenimenti drammatici che stanno accadendo. Le paroledella chiamata e dell’invio, sentite riecheggiare in un luogo di esilio e di emarginazione, rivelano a Mosè che egli “appartiene a Dio” e che la terra dove risiede non è luogo straniero e maledetto, bensì “terra santa”. A partire dalla teofania del roveto ardente, il protagonista intuisce che non è lui ad aver visto le sofferenze del suo popolo in schiavitù, bensì Dio (Es 2,24-25). Da una parte Jhwh si rivela come solidale con i poveri, gli oppressi, partecipe delle sofferenze del suo popolo (Es 3,7-9); dall’altra Mosè, chiamato a rendere presente in mezzo al popolo questa partecipazione salvifica di Dio, entra frequentemente in crisi e oppone resistenza[11]. Nondimeno nello sviluppo narrativo del cammino attraverso il deserto, Mosè impara dalle sue resistenze a conoscersi e a conoscere sempre più il misterioso disegno salvifico di Jhwh. La fede del liberatore cresce in una progressiva “mediazione” caratterizzata da un rapporto intenso con Dio e nello stesso tempo dalla solidarietà con la sua gente, alla quale egli deve testimoniare la fedeltà di Jhwh. La vocazione personale di Mosè si intreccia con quella del popolo di Israele, definito il «mio figlio primogenito» (Es 4,22; cf Dt 14,1; Os 11,1ss.) e invitato da Dio a fare «alleanza» presso il Sinai. L’elezione di Israele mediante il rito del sangue, in cui si riporta l’appello di Jhwh e la risposta dell’assemblea riunita (Es 24,1-8), sancisce in modo chiaro la dialettica vocazionale tra Jhwh e l’assemblea santa, secondo la promessa di Dio: «Se ora vorrete ascoltare la mia voce e osservare la mia alleanza, sarete mia proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra. Voi sarete per me un regno di sacerdoti, una nazione santa» (Es 19,5-6).

L’intero cammino dell’esodo attraverso il deserto e l’ingresso nella terra promessa possono essere intesi come un “itinerario vocazionale”, che culmina nella risposta corale delle tribù in Sichem di fronte al compimento della promessa divina: «Noi serviremo il Signore nostro Dio e obbediremo alla sua voce!» (Gs 24,24).

Troviamo racconti di chiamata in diversi “libri storici”, a testimonianza di come Dio interviene per sostenere il suo popolo che implora la salvezza (cf Gdc 3,9.15; 4,3; 6,6; 10,10). Tra le varie figure di giudici di Israele la storia di Gedeone (Gdc 6,11-24) rivela con straordinaria vivacità la dialettica vocazionale, impastata di insicurezze, segni prodigiosi e prove da parte di Jhwh. Il valoroso israelita accoglie l’annuncio dell’angelo del Signore (Gdc 6,16) e riceve un “segno” di conferma delle parole profetiche circa la sua missione (cf Gdc 6,36-40).

In modo diverso, la tragica vicenda di Sansone ricorda la storia di un personaggio forte e debole, che non sceglie di vivere secondo la “vocazione di Dio”, ma segue il proprio istinto egoistico ed auto-referenziale: il prezzo della dura schiavitù e l’epilogo eroico ridanno valore al giudice «ribelle» e ne recuperano l’onore della memoria (Gdc 16,21-31).

Nei libri di Samuele si narrano alcune importanti vocazioni, che rivelano come la storia degli uomini sia guidata dalla mano provvidente di Jhwh. Il notissimo racconto della chiamata di Samuele (1Sam 3,1-18) riassume le caratteristiche dell’incontro Dio-uomo: il profeta è presentato come un «dono di Dio» fin dalla nascita, perché generato da una donna sterile (1Sam 1,19-28), vive nel contesto templare (1Sam 2,18-21) e da bambino fa esperienza dell’incontro notturno con Jhwh, che lo chiama a fare giustizia nei riguardi di un popolo corrotto ed infedele (1Sam 3,11-14)[12]. Nella persona di Samuele s’incrociano motivi patriarcali e ruoli profetici, che rendono questo personaggio un punto di riferimento della storia di Israele e dell’istituzione monarchica. In tal senso i racconti collegati all’investitura regale possono essere intesi nell’ottica vocazionale, in quanto è Dio solo che elegge e indica chi dovrà essere consacrato re di Israele. Così accade nella scelta di Saul (1Sam 9,15-25) e nella consacrazione del suo successore, Davide (1Sam 16,1-13). Nondimeno lo sviluppo della storia monarchica conoscerà una progressiva crisi che culminerà nella dissoluzione del regno del Nord e successivamente nella caduta di Giuda e di Gerusalemme con la tragedia dell’esilio.

 

1.2 I profeti

Unitamente allo sviluppo dell’istituzione monarchica, Jhwh suscita profeti in Israele[13]. È proprio nell’ambito del movimento profetico che trova uno sviluppo notevole l’evento della vocazione di Dio. Tra le costanti letterarie del genere profetico spiccano i “racconti di vocazione”, che hanno la finalità di legittimare la natura divina del ministero della Parola. Nei cicli di Elia ed Eliseo (1Re 17-2Re 11) si descrive l’esperienza vocazionale che i due «uomini di Dio» vivono nel contesto della persecuzione e della crisi religiosa del IX secolo. In 1Re 19,19-21 si narra la chiamata di Eliseo, mediante il gesto simbolico della copertura del mantello di Elia, che indica l’appartenenza del giovane discepolo a Jhwh e la determinazione a seguire il suo progetto di salvezza. Eliseo abbandonerà la propria famiglia e il proprio lavoro per mettersi a servizio del suo maestro e succedergli quando questi «sarà rapito in cielo» (2Re 2,1-13). Va notato come la vocazione-chiamata dei profeti si contrapponga alle forme di successione al trono dei governanti e alle loro scelte politiche, spesso frutto di intrighi di corte e di compromessi iniqui. L’autore deuteronomista riporta la storia dei Regni e dei loro governanti non come “storie di chiamate”, ma come cronache politico-militari, le cui gesta vengono sottoposte al giudizio di fedeltà/infedeltà da parte del Signore (cf 1Re 13,33-34; 15,30; 16,7.13.19.26.33). L’esperienza vocazionale non è frutto di calcoli umani né di successioni dinastiche o lotte di potere, ma si manifesta come una libera ed imprevedibile elezione di Jhwh nei riguardi dei suoi consacrati, senza distinzione di persone e ceti sociali.

Le storie vocazionali narrate in chiave autobiografica dagli stessi protagonisti rivelano la dinamica sconvolgente della chiamata divina, che implica un cambiamento radicale della vita del profeta. Amos ricorda ad Amasia l’origine divina della sua vocazione: «Non ero profeta, né figlio di profeta; ero un pastore e raccoglitore di sicomori. Il Signore mi prese di dietro al bestiame e il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele» (Am 7,14-15)[14]. L’esperienza vocazionale di Isaia viene riferita dallo stesso protagonista con maggiori particolari: stando nel contesto della liturgia templare, il profeta è avvolto in una teofania, purificato nelle labbra da un serafino e destinato da Jhwh a predicare al popolo di Israele (Is 6,1-13). Accogliendo la chiamata divina, Isaia trasforma la sua esistenza e la mette a completo servizio della Parola di Dio, affidando la sua testimonianza ai suoi discepoli (Is 8,16). Non sappiamo molto della vocazione di Michea di Moreset, a cui Dio «rivolge la Parola» (cf Mic 1,1) affinché possa annunciare a Giuda e a Gerusalemme il giudizio celeste e la necessità della conversione al Signore, perché tutti possano ritrovarsi in Sion (cf Mic 4,1-5). Mentre della vicenda vocazionale di Osea è molto nota la metafora sponsale, che raffigura il profeta nelle vesti di uno «sposo», unito a Gomer, donna «infedele», la cui esperienza matrimoniale diviene «segno e testimonianza» dell’amore misericordioso (hesed) di Jhwh nei riguardi del suo popolo (cf Os 1-3)[15].

Tra le vicende dei profeti esilici spiccano tre storie vocazionali: Geremia, l’anonimo profeta indicato come Deuteroisaia ed Ezechiele. La storia di Geremia s’impone per la sua densità autobiografica e il pathos narrativo. Sono state individuate almeno tre tipologie dei testi vocazionali riguardanti l’opera di Geremia: i racconti biografici in terza persona (cf Ger 19,1-3); le confessioni autobiografiche, molto vicine al genere delle lamentazioni e dei salmi penitenziali, in cui il profeta parla in prima persona (cf Ger 11,18-20; 20,7-18); gli oracoli, che rappresentano il modo in cui Geremia affronta concretamente la sua missione e che riguardano aspetti della vita personale e azioni simboliche (cf Ger 16,1-6; 19,1-2; 27,1-2). È interessante constatare come lo sviluppo della vicenda vocazionale del protagonista sia contrassegnato da resistenze e crisi che faranno maturare il profeta e la sua missione[16].

Schematizzando l’esperienza del giovane chiamato, si possono indicare tre fasi della sua vocazione: in primo luogo troviamo nel profeta chiamato, ancora giovanissimo, da Dio, una risposta di tipo “ricettivo” (Ger 1,4-9); in seguito Geremia matura una “fede oblativa”, tipica dello stadio giovanile, che gli consente di mettersi a servizio di Dio e della Legge con entusiasmo e voglia di fare. Nel suo animo sensibile si riflette, pungente, il contrasto tra la ribellione del popolo incorreggibile e le ragioni di Dio, che egli deve far valere; piange per l’ostinazione della sua gente (Ger 4,19-22; 8,23; 9,17; 13,17; 15,10-18; 21,9) e intercede a favore del suo popolo (7,16; 11,14; 14,11), da cui ottiene solo persecuzione, violenza e rifiuto. Tuttavia, nel prosieguo della sua missione, il punto di arrivo dell’esperienza vocazionale è caratterizzato da un passaggio alla fede “adulta”, secondo la quale il profeta allarga la propria visuale in prospettiva universalistica e qualifica la propria relazione con Dio. Il profeta passa dalla resistenza alla “consolazione”, quando comprende che è Dio il solo a “scrivere” la storia della salvezza e della liberazione del suo popolo. Gli oracoli della consolazione (Ger 30-34) si aprono alla speranza nuova, che si realizzerà mediante la ricostruzione della comunità e il ritorno della pace tra il popolo. Geremia diventa il profeta della misericordia di Jhwh (Ger 31,3), della nuova alleanza promessa alla comunità reduce dall’esperienza dell’esilio: «Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo» (Ger 31,33).

La stessa speranza con cui si chiude il ministero di Geremia è cantata dal profeta della “consolazione” (naham), l’anonimo predicatore esiliato in Babilonia che viene indicato come Deuteroisaia (cf Is 40-55). Della sua personale esperienza vocazionale non sappiamo nulla, ma nel libro si presenta la storia di un personaggio messianico, il “servo di Jhwh” (hebed jhwh) che viene chiamato, consacrato e mandato da Dio ad annunciare la salvezza a tutte le genti. La vocazione-chiamata è riportata in Is 42,1-9, il primo dei quattro carmi del servo: il Signore presenta il “servo” come un «eletto di cui si compiace» e su cui ha posto il suo spirito (v. 1). Le caratteristiche della sua missione riflettono un tempo di pace e di misericordia: il servo «proclamerà la giustizia di Jhwh» senza violenza né pre-varicazione e tutti i popoli conosceranno il diritto di Dio e la sua provvidenza (vv. 4-5). La dichiarazione finale del Signore indica la natura della missione affidata al suo servo: «Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre» (vv. 6-7). Nel secondo canto (Is 49,1-6) viene delineata la missione universale del servo, chiamato fin «dal grembo materno» (vv. 1.5) ad essere «luce delle nazioni» (le´ôr gôyìm), per recare la salvezza fino all’estremità della terra (v. 6). Nel corso della sua predicazione il servo sarà provato (v. 7) e nel successivo terzo canto il servo viene presentato come un testimone sofferente di fronte ai suoi nemici (Is 50,4-11): egli oppone resistenza e riceve persecuzione, mostra fedeltà alla Parola di Dio e subisce violenza. La vocazione-missione del consacrato di Jhwh culmina nella sua morte vicaria, descritta con toni lirici nel quarto canto (Is 52,13-53,12): sfigurato, disprezzato, maltrattato «fu eliminato dalla terra dei viventi, per l’iniquità del mio popolo fu percosso a morte» (Is53,8). Per le sue piaghe offerte in espiazione a Jhwh, l’intero popolo ha ricevuto la salvezza: la morte del servo ha recato vita a tutta la comunità.

La rilettura cristologica di questi carmi nella prospettiva della passione di Cristo pone in evidenza il senso della vocazione cristiana e la sua rilevanza salvifica.

Contrassegnata da una dimensione mistica, la storia esilica di Ezechiele esordisce con una teofania (Ez 1: la rivelazione del carro di fuoco) a cui segue la visione del “libro” da mangiare e la vocazione-missione del profeta (Ez 2-3). Il profeta “ascolta” la Parola di Jhwh, obbedisce alla sua richiesta e si prepara ad annunciare al popolo «dalla dura cervice e dal cuore ostinato» (Ez3,7) l’invito alla conversione. Con la forza dello Spirito, il profeta dovrà essere una «sentinella della casa di Israele» (Ez 3,16-21); come “figlio di uomo” in tutta la sua fragilità, egli è chiamato a vivere con la sua gente e proteggere il popolo dal ricorrente pericolo dell’idolatria e dall’insidia dei falsi profeti.

Tra i profeti post-esilici spicca la straordinaria vicenda vocazionale di Giona, rielaborata all’interno di una tradizione “universalistica”, che apre l’idea della salvezza alle nazioni straniere[17]. La costruzione del racconto è manifestamente didattica, così come l’epilogo della missione: Jhwh rivela il progetto della salvezza al di fuori dei confini di Israele, chiamando genti straniere (rappresentate dai niniviti) alla conversione e alla fede nell’unico Dio (cf Gn 3,10; 4,11). Il racconto pone l’accento sul binomio chiamata-risposta e sulle sue conseguenze. Alla pietà divina si contrappone la contestazione e la resistenza del profeta. Di fronte alla prima chiamata, Giona sceglie di fuggire in una direzione opposta (Gn 1,1-3). L’esperienza drammatica del naufragio e lo “scendere” nell’abisso della morte, spingono il profeta israelitico divorato da un pesce ad implorare l’intervento salvifico di Jhwh (Gn 2,1-11). Dio non desiste dal suo progetto e l’avventura personale del profeta anticipa la conclusione positiva della storia: la Parola raggiunge per la seconda volta Giona, che finalmente si reca a malincuore nella capitale assira per predicarvi l’imminente giudizio di condanna (Gn 3,4). Per mezzo del ministero del profeta contestatore, la chiamata di Jhwh raggiunge il cuore dei niniviti che decidono di fare penitenza «sperando nella pietà divina», per scongiurare la distruzione della grande città «di tre giornate di cammino» (Gn 3,3). La diatriba sapienziale culmina nell’epilogo del racconto, in cui si riassumono le posizioni teologiche che ruotano intorno all’esperienza vocazionale del profeta: la vocazione-missione non è opera dell’iniziativa umana, ma progetto di un «Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore, che si lascia impietosire…» (Gn 4,2). Dopo aver predicato la conversione ai niniviti, è proprio il profeta che scopre di essere «chiamato a convertirsi» e ad acquisire una nuova visione di Dio e della sua opera redentrice (Gn 4,10-11).

Nell’evoluzione apocalittica del fenomeno profetico, oltre allo scritto di Zaccaria, s’impone la figura vocazionale di Daniele, la cui personalità riveste un ruolo esemplare per la comunità giudaica, sottomessa e perseguitata durante il periodo seleucide (cf Dn 1,2; 3,8-23). Pur nella complessa redazione del testo danielico, il risultato finale dell’opera pone in evidenza la dinamica appellativa di Dio nei riguardi dei suoi eletti che subiscono prove e persecuzioni: colui che è “signore della storia” non abbandona il suo popolo, ma “cambia la sorte” dei poveri e di coloro che perseverano nella fede. È proprio il motivo della perseveranza e della fortezza nelle persecuzioni che caratterizzerà l’identità ebraica di fronte alla sfida del paganesimo imperiale.

 

1.3 La dimensione vocazionale nei personaggi e nelle figure sapienziali

Il motivo vocazionale inserito nella “domanda esistenziale” emerge in tutta la sua ricchezza ed attualità negli insegnamenti contenuti nella tradizione sapienziale. L’attenzione degli scritti sapienziali non verte tanto sui “racconti di vocazione”, bensì sul senso del vivere umano e sulle istruzioni che sostengono il retto agire dell’uomo saggio: poiché la sapienza biblica (hôkmah) si presenta anzitutto come l’arte del saper condurre la propria vita per ottenere la felicità, sussiste una stretta relazione tra gli insegnamenti sapienziali e la dimensione vocazionale dell’uomo[18].

L’ideale dell’uomo felice, la cui esistenza fortunata rispecchia i canoni della “visione retribuzionista”, viene messo in crisi da due scritti sapienziali colti: la vicenda del giusto Giobbe e la panoramica esistenziale contenuta nelle riflessioni di Qoelet. Entrambi i libri possono essere letti in chiave vocazionale. Giobbe costituisce senz’altro la critica più serrata al dogmatismo della sapienza tradizionale, proprio perché l’autore pone in termini inquietanti la questione “vocazionale” dell’uomo (non solo dell’ebreo!) come problema teologico. Infatti la dimensione teologica rappresenta l’ossatura dell’intero scritto: la questione centrale dell’opera verte sulla credibilità di Dio di fronte all’assurdità della vita segnata dal dolore e dal male.

L’intera vicenda di Giobbe è interpretata come una scommessa di Dio per l’uomo ed è in questa prospettiva che occorre leggere il superamento della teoria retribuzionista per comprendere il senso della sofferenza umana[19]. Sulla medesima linea interpretativa si muove la riflessione di Qoelet, che ruota intorno al senso e al “non senso” dell’esistenza umana. Anche in questa complessa opera il protagonista coglie la dimensione della caducità della vita dell’uomo, paragonata al «vapore» (hebel) che cela fugacemente il vuoto e il limite delle cose (Qo 1,2; 12,8). La critica sapienziale tocca la dimensione vocazionale in termini profondi: perché impegnarsi in un cammino di cui non si vede la meta? Perché sperare se «tutto rimane come ieri» e non c’è «nulla di nuovo sotto il sole» (Qo 1,9)? L’uomo non vive di vocazione, bensì di rassegnazione: egli deve accontentarsi del poco che la vita gli può offrire, consumando la propria allegria finché dura (Qo 3,12; 9,7-9). Tuttavia accanto a questa posizione radicale “al limite dell’ortodossia israelitica”, l’autore scorge una ragione di vita importante: egli ha compreso che la vita proviene dalle «mani di Dio» (Qo 2,24-25) e che all’uomo non rimane che una speranza: la fedeltà di Dio illumina anche lo scandalo della debolezza e della morte e si schiude nell’orizzonte di una «vita nuova»[20]. Mentre l’autore del Qoelet lascia aperto questo spiraglio, l’orizzonte escatologico è dischiuso nel libro della Sapienza, composto nel contesto del giudaismo alessandrino.

La vita come “vocazione” non è collegata unicamente alla dialettica agonica che domina il presente, bensì è proiettata in una visione escatologica, illuminata dall’azione della «sapienza» che ha guidato attraverso i secoli la storia di Israele (cf Sap 10-19). La morte prematura dei giusti non può né deve nascondere la verità della nostra fede: gli empi verranno giudicati e puniti, mentre i giusti saranno «amati e beatificati da Dio» (Sap 3,1-9). Pertanto l’uomo  che sceglie di realizzare la propria esistenza nella giustizia e nella fedeltà a Dio riceverà la sua ricompensa non solo con la prosperità terrena, ma anche con la beatitudine celeste (Sap 5,15-16).

 

1.4 La dimensione vocazionale nella poesia e nella preghiera d’Israele

Un ulteriore ambito che pone in risalto la dimensione vocazionale è costituito dalla poesia e dalla preghiera d’Israele, con particolare riferimento al Cantico dei Cantici e al Salterio[21]. La celebrazione dell’amore umano e divino svolta nella storia poetica del Cantico lascia trasparire la “ricerca vocazionale” che culmina nell’incontro della coppia e nella celebrazione della bellezza dell’amore, che si traduce in shalôm. Si tratta di uno dei libri più suggestivi della tradizione ebraica, in cui possiamo leggere attraverso i simboli del fidanzamento e della relazione affettiva la stretta connessione tra “vocazione” e “amore sponsale”. Proprio perché la chiamata di Dio è sempre una “vocazione d’amore”, i protagonisti del Cantico incarnano in forma drammatica la ricerca e il desiderio struggente dell’altro/a come originaria dialettica vocazionale fondata sull’amore «forte come la morte» (Ct 8,6). L’intero impianto di questa singolarissima composizione poetica ha come protagonista l’amore in qualche modo «personificato» (L. Alonso Schökel). Esso viene presentato come un bisogno di senso e di appartenenza, come appassionata memoria e inappagabile desiderio dell’altro, riprendendo il motivo genesiaco della creazione della coppia (cf Gen2,23-24). L’amore implica un «alzarsi nella notte» e «mettersi a cercare» (Ct 3,1-2), affrontando ogni rischio per realizzare il progetto di felicità che nasce dall’ascolto del proprio cuore. La celebrazione della “bellezza”, descritta dai due giovani con le suggestive immagini della natura, culmina in un incontro finale nel quale i protagonisti sentono di essere «l’uno per l’altro» e di realizzare la loro vocazione sponsale, in un’alleanza eterna: «Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me» (Ct 6,3). L’esperienza della vocazione si coglie nell’attrazione, nella ricerca e nella fedeltà condivisa tra i due sposi. In questa tensione dialettica si può cogliere la ricchezza simbolica e teologica della ricerca vocazionale.

Nondimeno è soprattutto nel Salterio che la “poesia” di Israele si fa “preghiera”. L’opera costituisce un vero “macrocosmo letterario e teologico” in cui si incrociano motivi e situazioni dell’esistenza umana che fanno emergere, con gradazioni diverse, una profonda dialettica vocazionale. Il dialogo tra l’orante e Dio si svolge in un atteggiamento di ascolto del cuore: Dio «conosce» fino in fondo il cuore umano (Sal 139,1.14), «scruta» i suoi pensieri (Sal 94,11) e porge l’orecchio alla voce del suo grido (Sal 5,2; 17,1; 22,25; 39,13; 40,2; 116,1). La domanda sull’uomo e il senso della sua vita riecheggia particolarmente nei salmi sapienziali: «Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?» (Sal 8,5; 144,3) e ancora: «Dio sa di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere» (Sal 103,14). Allo stesso modo la consapevolezza della chiamata rivolta al credente si evidenzia soprattutto nel dono della «sapienza del cuore» (Sal 90,12), desiderata ed invocata dall’orante (Sal 51,8). Tuttavia, la tematica vocazionale viene espressa soprattutto attraverso la nota immagine della «via diritta» indicata da Dio a ciascun credente (Sal 18,37; 67,3). Si tratta di una metafora che ricorre in molti contesti biblici, soprattutto per definire la volontà di Jhwh nei riguardi dei suoi eletti (Abramo: cf Gen 18,19; Mosè: cf Es 33,13; Davide: cf 2Sam 22,33) e, più in generale, del popolo dell’alleanza (cf Dt 5,33; 10,12), che riecheggia con una chiara valenza vocazionale nella preghiera salmica: «Mostrami, Signore, la tua via, perché nella tua verità io cammini; donami un cuore semplice che tema il tuo nome» (Sal 86,11; cf Sal 25,4.9). In questo modo l’invocazione salmica si traduce in un’insistente domanda dell’uomo di fronte al proprio destino. Seguire le vie indicate dall’Onnipotente (Sal 32,8) corrisponde alla realizzazione della chiamata alla giustizia e alla santità che Dio rivolge a ciascun credente (cf Sal 119,3.5.15.26). Così, nelle diverse situazioni dell’esistenza, l’orante innalza a Dio la sua supplica e contestualmente pone la questione del senso dell’esistenza: nella malattia (Sal 41,3-5), nelle persecuzioni (Sal 7,2; 143,3), nelle tragedie nazionali e familiari (Sal 41,12; 64,2; 107,2), nelle inimicizie (Sal 55,13), di fronte alla morte imminente (Sal 18,5; 22,16; 30,10; 56,14). La preghiera d’Israele «nasce dalla polvere» della storia umana (P. Beauchamp) e diventa implorazione vocazionale rivolta a Jhwh, origine di ogni vocazione. In tal modo la comunità eletta può celebrare la propria “vocazione di alleanza” mediante la liturgia levitica e la preghiera salmica, riconoscendosi attraverso il tempo in quel «popolo chiamato e convocato da Jhwh», in attesa che «giunga il giorno grande e terribile del Signore» (Ml 3,23).

 

  1. Personaggi e storie vocazionali nel Nuovo Testamento

2.1 I vangeli

Nel Nuovo Testamento l’evento vocazionale è contrassegnato dall’impiego del verbo kalein in quasi tutti gli scritti neotestamentari (148 ricorrenze), con diverse varianti di significato. Le ricorrenze sono prevalenti in Matteo e Luca, in Atti degli Apostoli e nell’epistolario paolino, mentre sono più rare negli altri scritti neotestamentari[22]. Appare rilevante l’uso teologico che il verbo assume anzitutto nei racconti evangelici, quando il soggetto della chiamata è Dio o Gesù Cristo.

In primo luogo sono i “racconti di vocazione” nei vangeli ad evidenziare la dimensione teologica ed esistenziale della chiamata al discepolato. Si può affermare che la predicazione pubblica di Gesù inizia con i racconti di vocazione. Si legge in Mc 1,14-20:

«Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo”. Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: “Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini”. E subito, lasciate le reti, lo seguirono. Andando un poco oltre, vide sulla barca anche Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello, mentre riassettavano le reti. Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedèo sulla barca con i garzoni, lo seguirono».

Gesù vede e chiama i primi discepoli a seguirlo (Mc 1,20: kai euthus ekalesen autous), li invita a liberarsi dai legami che frenano la risposta vocazionale e a passare decisamente alla sua sequela, condividendo l’avventura dell’evangelizzazione (cf Lc9,57-62; Mt 8,19-22)[23]. È significativo come la pericope della vocazione di Levi, che culmina nel successivo banchetto «sponsale» (Mc 2,19: nymphios) di Gesù con i pubblicani e i peccatori (Mc 2,13-17 par.), si concluda con il logion relativo alla «chiamata» universale alla conversione: «Non sono venuto per chiamare (kalesai) i giusti, ma i peccatori» (Mc 2,17). L’appello di Gesù diventa costitutivo dello status apostolico nell’episodio di Mc 3,13-19, dove Gesù «chiama a sé» alcuni uomini scelti tra coloro che lo seguivano (Mc 3,13: proskaleitai ous ēthelen autos) e ne costituisce dodici, che vengono menzionati nomi-nalmente (vv. 17-19). Saranno loro i primi a seguire l’esempio del Cristo-servo, in uno stile “nuovo” di vita comune e di predicazione evangelica, evitando di «farsi chiamare» benefattori dalla gente (Lc 22,25-27: euergetai kalountai hymeis de ouch outōs).

All’interno del processo vocazionale si colloca, in modo più am-pio, la chiamata alla conversione e all’ingresso nel Regno (cf Mt 5,19: klētesethai en tē basileia tōn ouranōn). Gesù entra come “invita-to” nelle case della gente (Lc 7,36; Gv 2,2: eklēthē) e il suo entrare per condividere diventa “appello di salvezza” (cf Lc 19,9: sēmeron sōtēria tō oikō toutō egeneto). In senso più ampio l’intera missione di Gesù, «profeta potente in opere e in parole» (Lc 24,19), rappresenta un «invito» alla conversione esistenziale e all’accoglienza del miste-ro del Regno (Lc 5,32: kalesai… eis metanoian).

È di particolare forza espressiva il racconto del “giovane ricco” (Mt 19,16-22; Mc 10,17-22; Lc 18,18-23)[24], che rappresenta un’icona vocazionale senza precedenti. Raccolta nella triplice tradizione sinottica, la scena del dialogo struggente tra il giovane anonimo e il Signore che lo «guarda dentro» e lo ama, resta scolpita nell’im-maginario del lettore del vangelo, come una “occasione perduta” di felicità e di compimento. La «perfezione» chiede di superare i limiti della Legge mosaica e di mettersi alla sequela del Signore in modo pienamente libero. Quello che non è accaduto nella vita del giovane ricco, accade nella storia di Bartimeo (Mc 10,46-52) e di Zaccheo (Lc 19,1-10), il cui incontro con il Signore trasforma la vita.

Una singolare utilizzazione teologica del verbo “chiamare” si ravvisa nei racconti parabolici. Nella versione lucana della parabola del banchetto viene presentata la dinamica della chiamata in due sensi: i poveri, storpi, ciechi e zoppi sono «invitati ad entrare», mentre i primi invitati non hanno accolto la «chiamata» (Lc 14,15-20; cf Mt 22,2-5) e così rimangono esclusi dal Regno. Ampliando il racconto con la seconda parabola dell’abito nuziale (Mt 22,11-13), il primo evangelista vuole indicare ai suoi interlocutori, che si ritenevano invitati e chiamati da Dio nella comunità cristiana, la necessità della disposizione morale a vivere secondo le esigenze del Regno. Anche per questi vale il monito: «Molti sono i chiamati (klētoi), ma pochi gli eletti (eklektoi)» (Mt 22,14; 24,22.31)[25]. Allo stesso modo, nella parabola del padrone che invia i lavoratori nella sua vigna (Mt 20,1-16), l’accentuazione dell’evangelista è posta sull’attività insistente del «chiamare a lavorare» (vv. 4.5.7), anche se il verbo è impiegato solo al v. 8 per indicare al fattore il dovere della paga al termine della giornata (kaleson tous ergatas). Nella parabola delle dieci vergini la chiamata ad entrare alle nozze diventa un “grido escatologico” (Mt 25,6: kraugē gegonen), mentre un valore vocazionale aggiunto si può individuare nell’atto della chiamata alle responsabilità dei beni, rivolta ai tre servi della parabola dei talenti (cf Mt 25,14 par.: ekalesen tous idious doulous).

Nella parabola del Padre misericordioso di Lc 15,13-32, il verbo kalein indica il percorso interiore dell’identità ferita del protagonista, la presa di coscienza del suo peccato, che lo spinge a riprendere la strada verso la casa del padre, «non essendo più degno di essere chiamato figlio» (vv. 19.21: ouketi eimi axios klēthēnai hyios sou). È l’appartenenza originaria alla sua condizione di figlio che permette al giovane di entrare in se stesso e sentire il bisogno di «chiamarsi fuori» dal baratro in cui era caduto. Si comprende bene che l’idea della chiamata, evocata dall’uso teologico del verbo kalein, collega l’azione del chiamante all’identità del chiamato in un rapporto decisivo.

Attingendo alle tradizioni veterotestamentarie, nei vangeli si evidenzia il senso antropologico-vocazionale dell’”essere chiamati per nome” (cf Marta: Lc 10,41; Maria di Magdala: Gv 20,16; Simone il fariseo: Lc 7,40; Zaccheo: Lc 19,5; Lazzaro: Gv 11,43; Filippo: Gv 14,9; Simon Pietro: Mc 14,37; Lc 22,31; Gv 21,15-17), dell’atto di conferire il nome ad un nascituro (cf Lc 1,13.31; Mt 1,21; Gn 16,11; 17,19; Is 7,14), di cambiarlo ad un discepolo (Gv 1,42), di invocare il «nome» del Padre (Mt6,9). Da parte sua il credente deve fare attenzione a non vanificare l’invocazione del Signore, rendendo vuota la sua preghiera: «Perché mi chiamate Signore, Signore e poi non fate ciò che vi dico?» (Lc 6,46; cf Mt 6,7). È nel nome del Signore che i discepoli compiranno i segni (Mt 7,22), per il suo nome saranno perseguitati (Mt 10,22 par.), come costruttori di pace «saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9) e, perseverando nella fedeltà al «suo nome» (Gv 1,12), otterranno la vita (Gv 20,30-31)[26].

Un posto di rilevo deve essere riservato all’esperienza vocazionale di Maria di Nazaret, nel racconto di Lc 1,26-38. L’ampio studio del testo mette in luce la dinamica vocazionale della chiamata di Dio, mediante l’annuncio dell’angelo e della risposta libera di Maria, che conferma il suo «sì» incondizionato alla Parola che s’incarna nel suo ventre (cf Lc 1,38).

 

2.2 Atti degli Apostoli e altri scritti

Con la medesima gradualità di significati, il verbo kalein, insieme con i suoi derivati, è attestato negli altri scritti neotestamentari. Nel libro degli Atti i verbi indicanti il chiamare/nominare sono usati quasi sempre con il significato storico-relazionale, mai in senso teologico. Sul piano narrativo la chiamata di Saulo sulla via di Damasco assume una “funzione esemplare” nello sviluppo dell’evangelizzazione e della testimonianza della prima comunità cristiana (At 9,1-21; cf 22,3-16; 26,9-18).

La narrazione presenta le caratteristiche di un’esperienza “pasquale”, che l’Apostolo vive in prima persona e a cui farà costante riferimento lungo la sua esistenza:

«Saulo frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della via di Cristo, che avesse trovati. E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Rispose: «Chi sei, o Signore?». E la voce: «Io sono Gesù, che tu perseguiti! Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare». Gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la voce ma non vedendo nessuno. Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Così, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco, dove rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda» (At 9,1-9).

Come i vangeli iniziano raccontando la vocazione dei primi discepoli, così la figura di Paolo viene introdotta con lo straordinario evento di Damasco. La vocazione dell’Apostolo assume una funzione centrale per presentare la sua missione[27]. Il racconto, nella sua semplicità, implica diversi messaggi: l’autorevolezza di Saulo, persecutore della Chiesa, viene depotenziata da una caduta che fa crollare le sue certezze. Quelle catene che dovevano fermare i cristiani di Damasco saranno un giorno portate da Saulo, colui che è stato afferrato da Gesù Cristo. In modo particolare l’Apostolo passa da una esperienza teorica di Dio ad un incontro personale ed irripetibile: il Dio di Israele è il padre del Signore Gesù Cristo, che Paolo sta perseguitando e a cui ora è chiamato ad obbedire. L’alzarsi da terra implica il “risorgere” ad una nuova vita, il “rinascere come bambino”, accecato dalla luce e guidato per mano dai compagni verso Damasco, dove rimane tre giorni senza vedere né prendere cibo. La vocazione di Paolo diventa segno della «nascita pasquale» del credente raggiunto dall’annuncio del vangelo: da questo momento in poi l’Apostolo vivrà solo per Gesù Cristo e lo annuncerà con la sua vita (cf At 22; 26; Gal 1,15-16)[28].

La consapevolezza ecclesiale della chiamata di Dio in Cristo si fonda sull’evento della Pentecoste (At 2,1-13) e si esprime mediante figure e nei molteplici discorsi che si intrecciano nell’architettura narrativa dell’opera lucana. Si stabilisce un interessante intreccio narrativo e teologico tra l’annuncio della Parola e la risposta dei credenti che entrano a far parte della comunità cristiana. Essi non vengono più designati come «discepoli», ma come «chiamati», in quanto raggiunti dalla predicazione del vangelo (cf At 13,2; 16,10). In questa nuova prospettiva cristologica, ritroviamo l’uso teologico di kalein, attestato in modo rilevante nella Lettera agli Ebrei e negli altri scritti neotestamentari[29].

Ma è soprattutto nell’epistolario paolino che la categoria di «chiamata» (klēsis) assume una straordinaria rilevanza teologica.

 

2.3 Kalein e klēsis nell’epistolario paolino

Il significato di kalein fa registrare un “salto di significato” nell’elaborazione teologica di Paolo, il quale, oltre all’impiego verbale, conia klēsis come “termine tecnico” per indicare la nuova condizione dei credenti, rinnovati alla luce del mistero cristiano. A partire dall’esperienza personale del suo incontro con Cristo, Paolo riflette sulla sua vocazione e la rielabora sottolineando il valore teologico del misterioso “chiamare” di Dio. Infatti è Dio il soggetto-protagonista che chiama gli uomini, come Gesù ha chiamato i primi discepoli e li ha resi apostoli del Regno[30].

In primo luogo è Paolo stesso a definire la sua missione apostolica nella luce della chiamata di Dio: egli è stato «chiamato apostolo per il vangelo» (Rm 1,1; 1Cor 1,1: kletos apostolos) ed è stato inviato a coloro che sono «chiamati santi» (Rm 1,7; 1Cor 1,2), secondo il suo progetto salvifico (Rm 8,28), senza fare differenze tra Giudei e Greci (cf 1Cor 1,24). In Rm 8,28-30 l’Apostolo accentua con uno straordinario “ottimismo soteriologico” la chiamata degli eletti alla salvezza[31]. Egli è profondamente convinto che l’origine della salvezza e le sue conseguenze nella storia dipendono unicamente dalla libera iniziativa del Dio “appellante” (1Ts 5,24): egli ha chiamato in Isacco la discendenza di Abramo (cf Rm 9,7; Eb 11,18; Gen21,12), continua a chiamare sia tra i Giudei che i gentili (Rm 9,24), chiama i credenti alla comunione del Figlio suo Gesù Cristo (1Cor 1,9), per vivere nella pace (Col 3,15; 1Cor 7,15). Scrivendo alle comunità galate in un momento di crisi, l’Apostolo ricorda loro che sono state chiamate da Dio «nella grazia di Cristo» (Gal 1,6) e tale vocazione deve significare una «chiamata alla libertà» (Gal 5,13).

Secondo una possibile interpretazione, in Ef 1,11 Paolo sottolinea la condizione dei cristiani «chiamati» in Cristo secondo il progetto di Dio ed introduce in Ef 4,4 il tema della klēsis, ricordando a tutti i battezzati la dignità della vocazione a cui sono stati chiamati. Nell’inno cristologico di Colossesi, l’Apostolo innalza un ringraziamento al Padre perché «ha chiamato» i credenti alla sorte dei santi nella luce (Col 1,12).

Nelle lettere ai Tessalonicesi ritorna l’idea teologica della chiamata di Dio nei riguardi della comunità in cammino: Dio chiama al suo regno e alla sua gloria (1Ts 2,12) e la risposta dei credenti consiste nel cammino di santificazione (1Ts 4,3) evitando ogni impurità (1Ts 4,7). Dopo aver scelto i credenti come «primizia» per la salvezza, Dio li chiama mediante la predicazione del vangelo «al possesso della gloria del Signore Gesù Cristo» (2Ts 2,13-14). Traccia di tale riflessione teologico-vocazionale è presente nei frammenti innici delle Lettere Pastorali.

Nel dialogo con Timoteo, l’Apostolo ricorda al caro collaboratore la responsabilità ecclesiale che egli deve saper esercitare, combattendo la «buona battaglia» della fede per raggiungere la vita eterna alla quale «è stato chiamato» e per la quale ha reso pubblica testimonianza (1Tm 6,12). In 2Tm 1,9-10 l’Apostolo invita Timoteo a non vergognarsi della testimonianza cristiana né della sua prigionia, ricordando che solo Dio salva e che, per sua grazia, chiama gli uomini mediante una «vocazione santa».

Oltre all’impiego del verbo chiamare, la singolarità paolina sta nell’uso del termine “chiamata” (klēsis). Infatti klēsis(tranne Eb 3,1 e 2Pt 1,10) è esclusivo dell’epistolario paolino[32]. Il termine compare da solo in 2Ts 1,11 e Eb 3,1, mentre nelle rimanenti referenze figura in tre costrutti: klēsis tou theou (vocazione/chiamata di Dio), eklēthē(eklēthēte) klesei (“essere chiamati ad una vocazione”) e klēsis hymōn (“la nostra vocazione/chiamata”).

Nella prima espressione il genitivo soggettivo (tou theou) conferisce al termine il senso attivo del “chiamare” da parte di Dio (cf Rm 11,29; Fil 3,14; Ef 1,18; 2Tm 1,9).

L’uso del passivo nel secondo costrutto indica non solo l’azione divina del chiamare, ma anche le conseguenze esistenziali avvenute nella persona chiamata e la sua nuova situazione, non tanto sul piano socioculturale, quanto su quello etico-teologico.

Il terzo costrutto fa riferimento allo status ecclesiale di coloro che sono chiamati, con varianti interpretative a partire dal contesto letterario specifico. Abbiamo due testi molto significativi per cogliere il senso profondo della vocazione nella concezione di Paolo: 1Cor 1,26; 7,20. Scrivendo ai Corinzi, l’Apostolo introduce l’espressione klēsis hymōn (1Cor 1,26) nel contesto polemico del dibattito sulla sapienza e stoltezza (cf 1Cor 1,18-31), per richiamare i credenti alla verità dello loro fede, fondata sulla «parola della croce» (1 Cor 1,18), affinché nessuno possa gloriarsi davanti a Dio:

«Considerate infatti la vostra chiamata [klēsis hymōn], fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio» (1Cor 1,26-29).

Per cogliere la valenza di klēsis occorre inquadrare l’espressione nell’unità letteraria di 1Cor 1,26-31, la cui argomentazione si muove su un piano teologico[33]. L’Apostolo esorta fraternamente (v. 26) i Corinzi a «scrutare» la loro klēsis, facendo allusione allo status esistenziale della comunità: l’iniziativa divina della chiamata si definisce per la “qualità” dei credenti e non per la loro condizione di privilegio sociale o economico. Da una parte l’attenzione è all’iniziativa di Dio che chiama e dall’altra alla risposta delle persone venute alla fede: tra costoro non ci sono «molti sapienti secondo la carne», non molti «potenti» né molti «nobili». Nei vv. 27-29 il tema della klēsis è ampliato e collegato con quello della «elezione» divina (eklogē), con l’implicita allusione alla storia d’Israele (cf Rm 9,1-18). Dio «ha scelto» diversamente dalla logica della potenza, secondo una logica dell’impotenza sub signo crucis, per ridurre a nulla le cose che sono (v. 28).

La klēsis non è quindi solo l’atto della chiamata, bensì il processo dinamico che implica la trasformazione della realtà storica, incominciando dalla comunità stessa a cui l’Apostolo si rivolge. La forza espressiva delle antitesi (sapienti/stolti; forti/deboli; nobili/ plebei) travalica il livello puramente sociologico dell’argomentazione, per esprimere la valenza teologica dell’atto vocativo di Dio nella storia, dalla elezione del popolo alla vocazione della comunità: il contenuto di klēsis si collega strettamente con quello di eklogēe sembra indicare un preciso status del credente inserito in una comunità.

L’intenzione di Paolo nella lettera è quella di presentare la vocazione cristiana come “differenza qualitativa”, originata dallo sviluppo teologico del concetto di “elezione”, non più secondo la prospettiva dell’alleanza sinaitica, bensì secondo la nuova prospettiva cristologico-soteriologica compiutasi in Cristo, «diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione» (1Cor 1,30). La seconda attestazione di klēsis si registra in 1Cor 7,20. L’Apostolo sta rispondendo alle questioni etiche circa la prassi matrimoniale e, più in generale, allo stato di vita dei Corinzi (1Cor 7,1ss.)[34]. Egli fornisce alcune soluzioni morali ai casi sollevati, lasciando intendere come le relazioni matrimoniali e i legami interpersonali vadano comunque interpretati in chiave spirituale e secondo una prospettiva escatologica (cf 1Cor 7,29-31).

La centralità dell’idea di klēsis viene strutturalmente evidenziata nei vv. 17-24, per la straordinaria concentrazione del verbo kaleō[35]:

«Fuori di questi casi, ciascuno continui a vivere secondo la condizione che gli ha assegnato il Signore, così come Dio lo ha chiamato [keklēken]; così dispongo in tutte le chiese. Qualcuno è stato chiamato [keklētei] quando era circonciso? Non lo nasconda! È stato chiamato quando non era ancora circonciso? Non si faccia circoncidere! La circoncisione non conta nulla, e la non circoncisione non conta nulla; conta invece l’osservanza dei comandamenti di Dio. Ciascuno rimanga nella chiamata in cui era quando fu chiamato [en tē klēsei ē eklēthē]. Sei stato chiamato [eklētēs] da schiavo? Non ti preoccupare; ma anche se puoi diventare libero, profitta piuttosto della tua condizione! Perché lo schiavo che è stato chiamato [klētheis] nel Signore, è un liberto affrancato del Signore! Similmente chi è stato chiamato [klētheis] da libero, è schiavo di Cristo. Siete stati comprati a caro prezzo: non fatevi schiavi degli uomini! Ciascuno, fratelli, rimanga davanti a Dio in quella condizione in cui era quando è stato chiamato [en ōeklēthē]» (1Cor 7,17-24).

Circa il significato di klēsis, le proposte degli autori si possono riassumere in tre opzioni possibili: a) secondo alcuni il v. 20 invita i credenti ad essere fedeli alla volontà di Dio che, giorno per giorno, deve orientare la condizione della loro vita e la klēsisstarebbe ad indicare la chiamata di Dio; b) altri vedono in quest’espressione semplicemente la “condizione umana e sociale” (professionale) dei cristiani nel momento in cui furono raggiunti dall’evangelizzazione; in tal caso l’Apostolo nel v. 20 vuole affermare che la chiamata alla fede non implica trasformazioni esteriori né cambiamenti di condizioni sociali e professionali; c) una terza interpretazione ritiene che il v. 20 alluda all’esistenza dei credenti determinata dalla novità della vocazione cristiana, che illumina la loro condizione storica e sociale non più secondo la logica del mondo (circoncisione, schiavitù), bensì secondo il progetto salvifico di Dio. In quest’ultima prospettiva, che appare più completa delle precedenti, si può cogliere l’intento teologico di Paolo: la ragione ultima della presenza dei cristiani nella storia non sta nella ricerca di una “situazione ideale” di vita, bensì nella risposta alla radicale «vocazione» (klēsis) iscritta nel cuore dei credenti ed assunta nella responsabilità personale come “compito da realizzare” per ciascun uomo di fronte al progetto di Dio.

 

Conclusione

Abbiamo cercato di riassumere, nell’economia di poche pagine, la trasbordante ricchezza dei racconti di vocazione e dei personaggi biblici che furono protagonisti di un incontro trasformante. Nel fare questo abbiamo potuto constatare quanto sia rilevante ed attuale la dialettica vocazionale nel rapporto con il progetto di vita che ciascun uomo porta in sé. Nei diversi contesti biblici dell’Antico e del Nuovo Testamento la vocazione diventa un paradigma interpretativo dell’incontro Dio-uomo e una chiave di lettura per comprendere il messaggio contenuto nella “storia di salvezza”. Le categorie «salvezza» e «vocazione» appaiono così collegate tra loro, da affermare che la storia della salvezza si realizza attraverso la “storia della vocazione”. Una trattazione a parte meriterebbe il tema della “vocazione di Gesù Cristo”, paradigma di ogni vocazione.

Dall’analisi svolta sembra emergere un’idea che unisce i personaggi e le storie vocazionali rintracciabili nella Sacra Scrittura e li interpreta in modo unitario come una “categoria comprensiva della teologia biblica”. Sia sul versante della ricerca che su quello della divulgazione pastorale, riteniamo che la categoria vocazionale possa dischiudere interessanti prospettive teologiche con importanti conseguenze pastorali. Questa idea è avvalorata soprattutto dalla sintesi paolina, che ha colto nel concetto di “chiamata” (klēsis) il fondamento teologico più solido della categoria vocazionale. Coniando il termine klēsis, Paolo definisce lo status teologico del credente inserito in Cristo, capace di leggere tutte le situazioni di vita nell’ottica vocazionale, come dono e compito, appello e risposta, attesa di compimento futuro ed impegno responsabile per il presente.

 

Note

[1] La vocazione, nella sua accezione teologica, si presenta come «la conoscenza posseduta dal singolo circa una determinata forma di vita, che per lui corrisponde al volere divino e costituisce l’attuazione del compito della sua esistenza, ove operare per la propria eterna salvezza» (K. RAHNER – H. VORGRIMLER, Dizionario di Teologia, Edizioni TEA, Roma 1968, p. 899).

[2] Il tema biblico è sviluppato in G. DE VIRGILIO, «vocazione-chiamata», in Dizionario biblico della vocazione, a cura di G. DE VIRGILIO, Rogate, Roma 2007, pp. 987-1005. Circa le prospettive biblico-teologiche della categoria vocazionale, cf J. GUILLET, «vocazione», in Dizionario di teologia biblica, a cura di X. LÉON-DUFOUR, Marietti, Torino 1976, pp. 1399-1402; A. SICARI, Chiamati per nome. La vocazione nella Scrittura, Jaca Book, Milano 1979; M. CONTI, La vocazione e le vocazioni nella Bibbia, Antonianum, Roma 1985; T. CITRINI, «teologia della vocazione», in Dizionario di Pastorale Vocazionale, a cura del Centro Internazionale Vocazionale, Rogate, Roma 2002, pp. 1283-1295.

[3] Il tema è particolarmente sviluppato nel contesto della “pastorale delle vocazioni”, in quanto trova una sua specifica applicazione in vista del discernimento e della formazione delle persone consacrate e nei candidati al ministero ordinato. Tra i principali documenti che fanno riferimento al tema della vocazione nel contesto della formazione dei candidati al presbiterato, segnaliamo l’Esortazione apostolica post-sinodale di Giovanni Paolo II Pastores dabo vobis (25. III.1992); Congregazione per il Clero, Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri (31.III.1994); la Lettera circolare Il presbitero, maestro della parola, ministro dei sacramenti e guida della comunità, in vista del terzo millennio (19.III.1999); l’Istruzione Il presbitero pastore e guida della comunità parrocchiale (4.VIII.2002); la Nota della Commissione Episcopale per il clero della Conferenza Episcopale Italiana,Linee comuni per la vita dei nostri seminari (25.IV.1999); CEI, La formazione dei presbiteri nella chiesa italiana. Orientamenti e norme per i seminari, Roma 2006.

[4] Cf J. GUILLET, «elezione», in X. LÉON-DUFOUR (ed.) Dizionario di Teologia Biblica, cit., pp. 324-332; F. DREYFUS – P. GRELOT, «eredità», in X. LÉON-DUFOUR (ed.), ivi, pp. 338-342; L. DE LORENZI, «elezione», in P. ROSSANO – G. RAVASI – A. GIRLANDA (edd.), Nuovo dizionario di teologia biblica, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1988, pp. 444-458. Circa la rilettura vocazionale dei personaggi biblici, raccomandiamo la lettura di C.M. MARTINI – A. VANHOYE, Bibbia e vocazione, Morcelliana, Brescia 1982.

[5] Cf J. ECKERT, «kaleō», DENT, I, 1883-1893; K.L. SCHMIDT, «kaleō», GLNT, IV, Brescia 1968, pp. 1453-1477.

[6] Cf G. DE VIRGILIO, «L’uso teologico di kalein-klēsis in Paolo», in S. GRASSO – E. MANICARDI (a cura di), «Generati da una parola di verità» (Gc 1,18). Scritti in onore di Rinaldo Fabris nel suo 70° compleanno, (SRB 47), EDB, Bologna 2006, pp. 237-249.

[7] Per una panoramica teologica, cf J.D.G. DUNN, La teologia dell’apostolo Paolo (Introduzione allo studio della Bibbia. Supplementi 5), Paideia, Brescia 1999, pp. 398-410; F. MONTAGNINI, «Videte vocationem vestram (1Cor 1,26)», in RivB 2 (1991), pp. 217-221; M. EVERTS, «conversione e chiamata di Paolo», in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, a cura di G.F. HAWTHORNE R.P. MARTIN – D.G. REID, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1999, pp. 285-298; C.G. KRUSE, «chiamata, vocazione», ivi, pp. 210-212.

[8] Cf G. DI PALMA, «Abramo», in Dizionario biblico della vocazione, cit., pp. 3-7. Per un appro-fondimento del tema, cf J.L. SKA, Abramo e i suoi ospiti. Il patriarca e i credenti nel Dio unico, EDB, Bologna 2002; S. VIRGULIN, «Abramo», in P. ROSSANO – G. RAVASI – A. GIRLANDA (edd.), Nuovo dizionario di teologia biblica, cit., pp. 3-10.

[9] Cf G. DE VIRGILIO, «Le resistenze a scegliere in tre esempi veterotestamentari: Mosè, Geremia, Giona», in Vocazioni 4 (2004), pp. 5-18.

[10] Cf R. FABRIS, Il Dio che chiama (Le Schede di Se Vuoi), Castelgandolfo 1980, pp. 15-24; C.M. MARTINI, Vita di Mosè, Edizioni Borla, Roma 19924 , pp. 29-43.

[11] Cf C.M. MARTINI, Vita di Mosè, cit.; L. ALONSO SCHÖKEL – G. GUTIERREZ, La missione di Mosè. Meditazioni bibliche, Apostolato della Preghiera, Roma 1991; A. SPREAFICO, Il libro dell’Esodo, Città Nuova, Roma 1992, pp. 35-43; A. MELLO, «L’intercessione di Mosè (Es 32)», in PSV 3 (1981), pp. 25-34.

[12] Per l’approfondimento del tema in chiave vocazionale, cf P. DE BENEDETTI, La chiamata di Samuele e altre letture bibliche, Morcelliana, Brescia 2008; L. VARI, «Samuele», in Dizionario biblico della vocazione, cit., pp. 844-851.

[13] Cf B. MARIANI, «profeta», in Dizionario biblico della vocazione, cit., pp. 743-754.

[14] Per un’analisi più approfondita, cf H. SIMIAN-YOFRE, Amos (I libri biblici. Primo Testamento), Paoline Editoriale Libri, Milano 2002, pp. 150-174.

[15] Cf G. RAVASI, «Osea», in Nuovo Dizionario di teologia biblica, a cura di P. ROSSANO – G. RAVASI – A. GIRLANDA, cit., pp. 1051-1055.

[16] Cf l’analisi in chiave vocazionale in G. DE VIRGILIO, «Le resistenze a scegliere in tre esempi veterotestamentari: Mosè, Geremia, Giona», in Vocazioni 4 (2004), pp. 9-13; V. LOPASSO, «Geremia», in Dizionario biblico della vocazione, pp. 347-351; IDEM, Mi hai sedotto, Signore! La vocazione in Geremia, Rogate, Roma 2005; A. RIDOUARD, Geremia, la prova della fede, Rogate, Roma 1983; BOVATI, «Conoscenza e giustizia nel profeta Geremia», in PSV 2 (1988), pp. 21-34; «Dio protagonista del ritorno in Geremia», in PSV 2 (1990), pp. 17-34; A. STADELMANN, «Geremia: l’alleanza tradita», in PSV 1 (1989), pp. 57-82.

[17] Cf A. NEPI, «Giona», in Dizionario biblico della vocazione, cit., pp. 385-390; S. VIRGULIN, «La missione ai gentili nel libro di Giona», in PSV 2 (1987), pp. 65-79; P. ROTA SCALABRINI – G. FACCHINETTI, «Ninive, la grande città. Giona», in PSV 2 (1992), pp. 67-86. Per una lettura dell’opera in chiave psico-analitica, cf E. DREWERMANN, E il pesce vomitò Giona all’asciutto, Queriniana, Brescia 2003.

[18] Cf lo sviluppo di quest’aspetto in G. DE VIRGILIO, «vocazione-chiamata», in Dizionario biblico della vocazione, cit., pp. 993-996.

[19] La dimensione vocazionale è da rintracciare nell’autoritratto dell’uomo di ogni tempo, che è incarnato dalla figura di Giobbe. Egli è anzitutto segnato dalla fragilità e dall’inquietudine dell’essere creatura debole (Gb 14,1), simboleggiata da alcune significative metafore (l’argilla: Gb 4,19; 10,9; il fiore: 14,2; il verme: 25,6; 17,14; 21,26). In secondo luogo, in quanto l’origine dell’uomo sulla terra è corrotta e mortale, la dimensione antropologica sarà sempre lambita dalla sofferenza e dal dolore finché non giungerà alla pienezza di Dio. Dalla constatazione della sofferenza del giusto emerge l’interrogativo sull’identità di Dio e sul senso della sua “chiamata alla vita”. Così il problema esistenziale di Giobbe interpella la sfera religiosa: «È possibile, per l’uomo travagliato e messo a dura prova, incontrare un Dio amico?». Cf S. PARISI, «Giobbe», in Dizionario biblico della vocazione, cit., pp. 371-379.

[20] Cf E. DELLA CORTE, «Qoelet», in Dizionario biblico della vocazione, cit., pp. 773-778.

[21] Cf E. BORGHI, «Cantico dei Cantici», ivi, pp. 96-101; G.C. BOTTINI, «Salterio», ivi, pp. 833-843.

[22] Nell’uso corrente, a partire dalle sue origini extra-bibliche, il verbo indica l’atto di chiamare qualcuno a sé, di invitare o di nominare qualcuno; nell’uso passivo il verbo esprime l’essere chiamati per nome, l’essere designati o invitati da qualcuno. Appartengono allo stesso campo semantico epikaleomai e proskaleomai, composti di kalein, mentre si associa in modo significativo il verbo eklegomai, soprattutto per l’uso teologico dell’aggettivo eklektos. Cf L. COENEN, «chiamata, vocazione», in Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, a cura di L. COENEN – E. BEYREUTHER – H. BIETENHARD, EDB, Bologna 1976, pp. 250-256.

[23] Riferendosi al primo racconto di vocazione in Mc 1,16-20, A. Guida rileva: «Notiamo che lo schema letterario soggiacente è quello del racconto di vocazione secondo il modello veterotestamentario e la tradizione profetica, di solito costituito dalle seguenti tappe:

– c’è l’indicazione della situazione del chiamato: colui che è chiamato viene incontrato nell’esercizio della sua professione;

– segue la vocazione, effettuata mediante una vera chiamata oppure attraverso un’azione simbolica;

– viene riportata, talvolta, l’obiezione del chiamato (per impreparazione, senso di inadeguatezza, ecc.) alla quale risponde una rassicurazione del chiamante;

– infine, inizia la sequela vera e propria, con conseguente abbandono della situazione precedente, dei genitori, ecc. Il racconto evangelico delle prime chiamate dei discepoli, nella versione sinottica, rispetta fedelmente lo schema, con l’omissione dell’obiezione dei chiamati. L’ambientazione, qui, è il mare/lago di Galilea: lo schema ripreso in entrambe le scene vede, in primo luogo, la centralità dell’azione di Gesù e l’assoluta priorità della sua iniziativa» [A. GUIDA, «I racconti di vocazione e di sequela in Matteo», in Parole di Vita 3 (2008), pp. 18-24].

[24] Per una visione complessiva, raccomandiamo V. FUSCO, Povertà e sequela. La pericope sinottica della chiamata del ricco (Mc 10,17-31 parr.), Paideia, Brescia 1991, pp. 18-37; C. BROCCARDO, «Gesù e il giovane ricco (Mt 19,16-22)», in Parole di Vita 4(2008), pp. 36-44.

[25] V. FUSCO, «parabola/e», in P. ROSSANO – G. RAVASI – A. GIRLANDA (edd.), Nuovo dizionario di teologia biblica, cit., pp. 1094-1095. Per un’analisi delle parabole, cf G. DE VIRGILIO – A. GIONTI, Le parabole di Gesù. Itinerari: esegetico-esistenziale; pedagogico-didattico, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2007.

[26] Cf C. BROCCARDO, «È sufficiente per il discepolo essere come il suo maestro (Mt 10)», in Parole di vita 3 (2008), pp. 25-32.

[27] Cf R. PENNA, «Paolo», in Dizionario biblico della vocazione, cit., pp. 657-661.

[28] Cf M. EVERTS, «conversione e chiamata di Paolo», in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, a cura di G.F. HAWTHORNE – R.P. MARTIN – D.G. REID, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1999, pp. 285-298.

[29] Cf Eb 2,11; 3,13;5,4; 9,15; 11,8.18. Nelle lettere di Pietro il verbo kalein viene impiegato in funzione parenetica: l’accoglienza del vangelo e il passaggio dal paganesimo alla nuova vita in Cristo implica per i battezzati una «chiamata alla santità» mediante un coinvolgimento di tutta la condotta morale (1Pt 1,15: kata ton kalesata hymas agion). Nel seguire l’esempio del Cristo sofferente, «pastore e guardiano delle anime» (1Pt 2,21: eis touto gar eklēthēte oti kai Christos), l’intera comunità deve sempre più diventare “stirpe eletta” (2,9: genos eklekton), chiamata ad ottenere in eredità la benedizione (1Pt 3,9), in vista della gloria eterna a cui il «Dio di ogni grazia» chiama (1Pt 5,10: o kalesas hymas eis tēn aiōnion autou doxan en Cristō Iēsou), con gloria e potenza (2Pt 1,3). Nell’unica menzione di 1Gv 3,1, l’autore della lettera mette in relazione l’amore del Padre con la chiamata alla figliolanza (ina tekna theou klēthēmen), tema cruciale anche nel contesto dell’ambiente giovanneo. Infine nel libro dell’Apocalisse il verbo kaleinfunge da mezzo linguistico per indicare, nel quadro del simbolismo apocalittico, i nomi misteriosi delle figure che appaiono all’interno delle visioni (cf Ap 11,8; 12,9; 16,16; 19,11.13).

[30] Ad eccezione di Rm 9,7.25.29 e 1Cor 10,27 (dove kalei ha il senso di “invitare a pranzo”), Paolo impiega kalein sempre nel senso vocazionale della sovrana chiamata di Dio, intendendo con esso quel «processo attraverso il quale Dio chiama fuori dai loro legami con questo mondo coloro che prima aveva eletto e predestinato, per giustificarli e santificarli (Rm 8,29ss.) e prenderli a suo servizio».

[31] La pericope è interessante per la posizione strutturale del verbo kalein. Infatti viene proposta l’interpretazione della storia passata (Rm 8,1-17) e futura (Rm 8,18-30) dell’uomo e del cosmo alla luce dell’azione dello Spirito, che ha come paradigma interpretativo l’esperienza della “chiamata” di Dio ad essere conformi all’immagine del Figlio suo (8,29: symmorphous tēs eikonos tou hyiou autou). Al v. 27 Paolo afferma che Dio solo scruta i cuori e conosce i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i suoi disegni. Ai vv. 28-30 l’Apostolo descrive il processo di trasformazione dei credenti in Cristo, evidenziando la dimensione “vocazionale” dell’uomo chiamato fin dall’inizio e proteso verso la glorificazione finale. L’Apostolo collega la pre-conoscenza di Dio (cf il verbo proōrizō) e del progetto (prothesis) del suo amore con la realizzazione della salvezza nella storia, in vista della gloria futura, collocando il Figlio-primogenito nella posizione centrale, come icona e primizia di ciò che sarà il destino dell’essere. Il testo paolino evidenzia la simmetria del verbo kalein in relazione al Figlio, icona di Dio Padre e primogenito tra i fratelli (v. 29). L’esperienza personalissima del mistero di Dio «che chiama», radicata nella concezione del monoteismo giudaico e veterotestamentario, segna la riflessione teologico-spirituale dell’Apostolo.

[32] Cf Rm 11,29; 1Cor 1,26; 7,20; Ef 1,18; 4,1.4; Fil 3,14; 2Ts 1,11; 2Tm 1,9.

[33] Circa il valore da dare all’espressione klēsis hymōn si possono riassumere le opzioni degli autori secondo tre interpretazioni: a) Paolo alluderebbe alla “vocazione-chiamata” in senso attivo, come originario appello di Dio, invitando i Corinzi a relativizzare le posizioni sociali e culturali dei singoli membri della ekklēsia in funzione dell’eccellenza dell’evento cristologico; b) secondo altri il termine klēsis indicherebbe (nel senso passivo) la “condizione di vita” storica e sociale nella quale erano i credenti quando furono chiamati al vangelo; c) un’ultima interpretazione tende ad identificare klēsis con gli stessi chiamati, applicando il termine in astratto per esprimere una concretezza corporativa storico-sociale dello stesso gruppo ecclesiale. Per l’analisi del testo, cf G. BARBAGLIO, La prima lettera ai Corinzi (SOC 16), EDB, Bologna 1995, pp. 143 152; F. MONTAGNINI, «Videte vocationem vestram (1Cor 1,26)», in RivB 2 (1991), pp. 217-221.

[34] Per l’analisi del testo, cf G. BARBAGLIO, La prima lettera ai Corinzi, cit., pp. 344-351; M. TÁBET, «La situazione ordinaria di vita come “chiamata” in 1Cor 7,17-24», in RivB 3 (2005), pp. 277-311.

[35] Per poter cogliere il senso di klēsis è decisivo focalizzare l’articolazione di 1Cor 7, soprattutto l’unità dei vv. 17-24 nella quale predomina il tema del chiamare. La sezione si compone di tre unità: a) nei vv. 1-16 si affrontano i temi relativi alla vita matrimoniale (vv. 1-7), allo stato dei celibi e delle vedove (vv. 8-9) e al comportamento da tenere nei riguardi del marito non credente (vv. 10-16); b) i vv. 17-24 riflettono il principio generale secondo cui «ogni credente deve vivere secondo la vocazione a cui Dio lo ha chiamato»; c) nei vv. 25-38 si affronta la situazione delle persone non sposate e il comportamento che i cristiani devono avere nel mondo, compresa la situazione della vedovanza (vv. 39-40) (cf R. FABRIS, Prima lettera ai Corinzi [I libri biblici. Il Nuovo Testamento 7], Paoline Editoriale Libri, Milano 1999, pp. 102-108).