N.01
Gennaio/Febbraio 2009

Una Parola che chiama

La dimensione appellante della Parola di Dio

Introduzione

Mai come sul motivo della “parola”, Dio e uomo si incontrano, perché la parola – non semplicemente la voce, il suono – è comunicazione, è intrinseco appello ad un “tu”, che posso essere io a me stesso o, ancora di più, è un altro diverso da me, per cui nasce un’interazione, che è insieme un dirsi ed un farsi, una informazione ed una formazione. Ci vengono in mente tante esperienze umane (tra genitori e figli, maestro ed alunno, amico ed amico) ed insieme umane-divine, che la fede, nell’attestazione della Bibbia, ci porta alla memoria, da quando «Dio disse: sia la luce e la luce fu» (Gen 1,3), a quando una giovane donna disse, rispondendo allo stesso Dio che l’aveva interpellata: «Avvenga in me la tua parola. E il Verbo si fece carne» (Lc 1,38; Gv 1,14); a quando finalmente, ispirato da Dio stesso, un popolo, per bocca del profeta, grida a lui: «Vieni» e lui risponde: «Sì, verrò presto» (Ap 22,17-20) aprendo uno spazio della Parola che va oltre il tempo ed entra nell’eterno.

Vogliamo esplorare il mistero di questa “Parola”, mai neutra, che una volta detta tocca chi l’ascolta e torna indietro – e non a mani vuote – verso chi la pronuncia, come un appello mandato e restituito (cf Is 55,11). Il nostro discorso non sarà ancora un discorso esplicito sulla vocazione, ma ci permetterà di vedere che la vocazione, nelle sue radici intime, è sostanzialmente una Parola di Dio che arriva all’uomo e a cui l’uomo risponde, creando così un intrigante legame bidirezionale: se Dio parlando produce la vocazione all’uomo, egli è anche Colui che, dalla risposta dell’uomo, si sente a sua volta vincolato da una propria vocazione, quella di seguire l’uomo che lui stesso ha così interpellato, inquadrando la vita dentro il suo divino progetto perché l’uomo lo accolga come il progetto della sua vocazione.

Restando nell’ambito del tema proposto dal titolo, per questo indisgiungibile rapporto tra Dio e uomo, facciamo il nostro percorso, prima evocando brevemente la struttura appellante della parola umana (aspetto antropologico), poi – alla luce delle testimonianze dell’uomo biblico – riflettendo sulla dimensione appellante della Parola di Dio (aspetto teologico), considerando la prima come segno sacramentale della seconda.

 

  1. Una Parola che chiama: il punto di vista dell’uomo

Sappiamo a quale immensa miniera di ricerche ha dato origine questo termine di “Parola”. Noi ci limiteremo a certi aspetti congrui all’argomento che ci riguarda: la riflessione sul linguaggio, che dà alle parole la forma di collana, è più di una branchia del sapere, è dimensione dell’essere, “casa dell’essere”, dice Heidegger. Considerarlo significa mettere l’esistenza allo specchio.

Alla scuola dei filosofi moderni del linguaggio (Heidegger, Gadamer e soprattutto Ricoeur) in un’analisi fenomenologica di esso, vengono alla luce diversi aspetti della parola (termine, frase, discorso), in forma orale e scritta, come suono, come segno, come gesto:

– la valenza di “umanità umanizzante” della parola: con la parola (che può essere anche il silenzio, il parlare chiaro od oscuro…) dimostro l’umanità, la mia e dell’altro cui mi rivolgo, in quanto la parola genera relazione di contatto, scambio, trasformazione, in bene o in male. La parola è necessaria per esserci e per far essere. Senza parola si è amorfi come la pietra, mentre con la parola anche la pietra può diventare parlante, segno di qualcosa!

– In secondo luogo, la parola è portatrice di metafora, indica qualcosa che va oltre la parola stessa nel suo contenuto materiale: insomma, è capace di trascendenza, ha valenza simbolica, sacramentale. E ciò non vale solo per le parole mirate a tale scopo, come la poesia. Una parola seria di uomini verso altri uomini ha l’intento di dare un senso, è una interpretazione della realtà: è la mia, la tua, la nostra interpretazione della realtà.

– In terzo luogo, la parola, passando dal non essere detta all’essere detta, produce qualcosa: produce se stessa come parola ed insieme la relazione umanizzante (al positivo o negativo) verso chi è rivolta, è performativa, provoca qualcosa, interpella, ossia produce uno scambio di appelli, tra colui che dice la parola e colui che, ricevendo l’appello, è potenzialmente obbligato alla risposta, che può essere anche il non rispondere. La parola tocca l’area della coscienza e della libertà e può generare una reazione a catena: tra me e te, tra me e te e l’altro, uno, due, tre, cento… tutti coloro che ascoltano la parola.

– Chiaramente, ogni parola ha un potenziale diverso: da pronunciamenti banali a comunicazioni alte, come le rivelazioni; da forme di esortazione o di comando a parole terribili, orribili, liberanti, oppure decisive come una condanna o un’assoluzione da una sentenza di morte. In una battuta ruvida, ma sincera, così R.W. Emerson ha descritto la forza della parola: «La parola è potere: parla per persuadere, per convertire o per costringere». Aggiungiamo: per benedire o maledire, per condannare o per salvare.

La parola è un evento: un evento di parola che porta in sé la possibilità di un evento di vita. Quanto più le parole – e il discorso che le connette e la scrittura che le conserva – sono “filosofiche”, amano la sapienza e mirano all’uomo per una comunicazione di sapienza, tanto più esse determinano spazi di vita, da appellanti si fanno chiamanti, indicano possibilità di progettualità. Chi le accoglie non sbaglia dicendo che vi è dentro una provocazione, il cui primo e permanente esito sarà una invocazione, da cui parte, poi, il flusso progredente di una vocazione.

Con questa descrizione della “parola dell’uomo” non si vuole dedurre a priori il significato da dare alla testimonianza biblica sulla “Parola di Dio”, ma piuttosto indicare la possibilità di un orizzonte comune pur su piani diversi, per cui è plausibile e legittimo che l’uomo s’interroghi sul parlare di Dio come di qualcosa che lo interessa e lo coinvolge, già prima di sentire le parole specifiche che Dio gli dirà. La parola è una “cosa che pesa” per Dio e per l’uomo, giacché in essa ritrovano entrambi la loro autenticità e il ponte della loro relazione.

 

  1. Una Parola che chiama: dal punto di vista di Dio

Si apre davanti a noi il vasto mondo delle Scritture. In questo numero della rivista altri articoli preciseranno più direttamente il rapporto tra Parola di Dio e vocazione, studiando in particolare «personaggi e storie vocazionali della Bibbia». In questa sede ne esamineremo invece il fondamento e il significato, che sta appunto nell’evento della Parola con cui Dio, rivolgendosi all’uomo, entra nella trama dialogica che già sussiste “nativamente” fra entrambi. Si tratta sostanzialmente di identificarne i connotati, ricordando che la Parola di Dio ci perviene sempre tramite la parola di uomini, risente del timbro umano, culturale, limitato, ma con ciò stesso vero, non illusorio, incarnato, mentre la stessa parola di uomini che rispondono a Dio è chiamata Parola di Dio. Dovremo procedere in maniera sintetica, focalizzando i nuclei maggiori della rivelazione biblica.

 

2.1 Uno sguardo globale

a) La primissima constatazione che viene dalla Bibbia è di essere testimonianza di un mondo di parlanti e di parole (essa ne è il “grande codice”), anzitutto di un Dio che comunica con l’uomo, e viceversa. Basta a provarlo l’analisi filologica: per l’AT fanno da riferimento il termine ‘amar (dire) e dabar (parlare/fare), messi in bocca a Dio per oltre centinaia di volte, con la differenza che «la radice dbr indica un preciso parlare di Dio, nel senso di un comando o di una promessa» (H.H. Schmid), e dunque nella tensione di diventare fatto, opera; nel NT prevalgono i termini legein (dire) e lalein (parlare) che hanno per soggetto divino Cristo, Dio, la Scrittura, in circa un migliaio di passi. Gli stessi vocaboli sono usati dall’uomo verso altre persone e verso Dio. Dio e uomo, pur di valore diverso, non sono stranieri tra loro, giacché sono co-inquilini della parola, vivono entro un flusso di comunicazione permanente. Dio vuole così. L’uomo si sa esposto ad essere interloquito e sa che può e deve rispondere.

 

b) Ma questi indicatori fanno da scenario globale. Ora ci serve conoscere in dettaglio questa relazione dialogica di Dio con l’uomo e come si esprime la sua funzione parlante. I punti di approccio sono molteplici:

– sull’asse del tempo, la Parola di Dio che chiama abbraccia ieri, oggi e domani, tocca l’archè od origine, il futuro escatologico e il presente che si estende fra i due;

– sull’asse dello spazio, la Parola avviene nel deserto come nella terra promessa, nel tempio, nella casa, in riva al mare, sugli alti monti;

– le parole sanno essere forti, dure e lievi come sussurro; sono annuncio, svelamento, promessa, giudizio, condanna, liberazione. Incantano, suscitano timore, sono attese, temute, cantate…

– la Parola di Dio chiama grandi e piccoli, uomini e donne. Soprattutto si intrattiene con le persone che hanno autorità: re, sacerdoti, profeti; per questi ultimi ha un rapporto “linguistico” speciale, come chi deve condividere la sua Parola e parlare a nome suo. La Parola giunge alle grandi masse come al Sinai, a Sichem, a Gerusalemme, nella valle di Giosafat, ma cura ancora di più le singole persone: da Adamo ad Abramo, a Mosè, ad Elia, a Maria, a Paolo; sono proprio le persone i suoi interlocutori, ma la Parola arriva anche agli astri, al cosmo, ad ogni essere vivente di questo mondo…

 

c) La Parola di Dio è dinamica, come è di ogni parola sensata e adeguata alla situazione; non si propone mai come una formula magica atemporale da ripetere («Non chi dice: Signore, Signore…»), anzi si ridice (e possiamo renderci conto come diverse pagine sono riletture di parole/fatti precedenti) nei tornanti della storia, sempre in funzione di questa relazione Dio-uomo, così come si svolge nel tempo.

 

d) A questo punto è importante notare un quadruplice dato:

– la Parola non è mai neutra, dis-tratta o as-tratta, meramente constatativa, ma impegna (proviamo a chiederlo a Geremia o a Maria o a Paolo!). Essa possiede un’espressione peculiare: la dinamica del dono e del compito, dell’invito e della risposta;

– veniamo a conoscere la ragione per cui Dio parla: è un progetto che riguarda la salvezza dell’uomo nella storia (storia della salvezza). Si rende plasticamente manifesta in quelli che possiamo chiamare “nuclei generatori” primari della Parola che chiama: la creazione dell’uomo e del cosmo, la costituzione e animazione del popolo di Dio, l’attesa messianica, la vita e predicazione di Gesù, l’annuncio degli apostoli (Paolo);

– in terzo luogo, apprendiamo delle modulazioni – è una rassegna esemplare, non esaustiva – secondo cui la Parola si comunica e che più da vicino permettono di coglierne la dimensione appellante: Parola che chiama creando l’uomo nel cosmo, costituendo un popolo, convertendo il cuore, impegnando le persone;

– in quarto luogo, come concentrazione massima delle modulazioni precedenti, sta Gesù Cristo, la stessa Parola di Dio fatta uomo, nella cui umanità vediamo irradiarsi sommamente le qualità della Parola che chiama.

 

2.2 Le modulazioni della Parola di Dio

a) Una Parola che chiama creando l’uomo nel cosmo

Viene spontaneo accennarlo per primo. Nella sua essenza dice la proprietà prioritaria della Parola di Dio, il suo primo annuncio. Non ha primariamente valore cronologico, ma costitutivo: sta alla radice di ogni altra Parola che Dio dice per il suo progetto di salvezza, dunque alla radice anche della Parola che chiama, la Parola della vocazione. E come la radice non è staccabile dalla pianta, così dovremo dire che ogni Parola di Dio sa di creazione, cioè fa essere ciò di cui si parla.

Ci sono noti i testi celebri riguardanti la creazione primordiale (Gen 1-3; Salmi vari), la seconda creazione con il ritorno dall’esilio di Babilonia (Is 40-55), la nuova creazione che ha inizio con la risurrezione di Cristo ed il suo compimento con “i cieli nuovi e terra nuova” (Rm 8,19-23; Ap 21-22; altri testi escatologici e apocalittici).

Emergono, poi, essenziali caratteristiche della Parola di Dio: basta da sola («Dio disse e così fu»); costituisce la realtà come cosmo liberandola dal caos che è il male; ama la vita e quindi la produce in tutte le forme; soprattutto, fa esistere l’uomo a sua immagine e somiglianza, intrinsecamente configurato dalla Parola e dunque suo uditore originario: lo rende, infatti, coabitatore del suo giardino, ma non lo lascia come un re pensionato, stabilisce con lui un’alleanza con dei compiti corrispettivi al dono: la cura del creato, il riconoscimento di Dio come solo Dio («Non mangiare dell’albero della vita»). Una Parola abbraccia per sempre l’uomo e il suo mondo: la benedizione di Dio (Gen 1,22.28; 9,1), l’intrinseca positività della creazione.

Vi è tutta un’eco potente a questa Parola fondativa, soprattutto nei Salmi, di consenso ammirato: «Quanto è grande il tuo nome su tutta la terra» (Sal 8,2.10), ma anche di rifiuto: «“Adamo, dove sei?”. “Ho avuto paura, mi sono nascosto”» (Gen 3,9-10). Questa qualità creativa della Parola ci dice che anche la parola di vocazione sarà sempre attestazione di una parola di creazione, esprimendo le possibilità di Dio sulla debolezza, anzi sulla nullità dell’uomo, con i tratti radicali del dono e del compito, in vista del rinnovamento del mondo.

 

b) Una Parola che chiama costituendo un popolo

«Nel lungo corso di quegli anni, il re d’Egitto morì. Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti e se ne prese pensiero» (Es 2,23-25).

«Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. Ma più li chiamavo, più si allontanavano da me; immolavano vittime ai Baal, agli idoli bruciavano incensi» (Os 11,1-2).

«Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Dall’Egitto ho chiamato il mio figlio» (Mt2,14-15).

Sono tre testi che collegano i due Testamenti sul versante della storia, della profezia, del vangelo. L’intento è quanto mai efficace: la Parola di Dio è liberazione e costituzione di un popolo attraverso un processo di chiamata paterna, fallimentare nelle parole del profeta, ma finalmente realizzata nel figlio Gesù, germe di un popolo rinnovato.

Si susseguono altri testi sul tema: “chiamata e popolo di Dio”. Ricordiamo tre nuclei dinamici che occupano le grandi tradizioni della Bibbia:

– le tradizioni patriarcali con la vocazione di Abramo ad esser padre del popolo (Gen 12) e di Mosè ad essere guida del popolo (Es 3);

– le tradizioni storico-profetiche del Deuteronomio e del corpo deuteronomistico, ove vi è come una rilettura critica della vocazione di un intero popolo così riccamente donato eppure così esposto all’infedeltà;

– le tradizioni profetiche, ove al servizio del popolo compaiono chiamate o vocazioni in senso specifico: Amos, Osea, Isaia, Geremia…

Questa concezione di vocazione di popolo è come la spina dorsale del discorso vocazionale nella Bibbia con notevoli ripercussioni: ha nella liberazione dall’Egitto il grande evento storico, nell’alleanza del Sinai l’atto formale che ne delinea doni e compiti (l’osservanza della Legge ne è il criterio di validità); a monte, nella chiamata di Abramo e nella sua risposta di fede, trova la sorgente profonda di vita e, lungo la storia, l’affacciarsi dei singoli profeti rappresenta la coscienza alta di un popolo stimolato (richiamato, corretto, confortato) a ritrovare la vocazione vacillante o perduta.

Alla fine del I secolo, una volta compiutasi l’opera di Gesù, Pietro propone la bella sintesi della vocazione del popolo di Dio, con un arco gigantesco che salda il Calvario con il monte Sinai (Es 19,5-6). Scrive Pietro:

«Ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce; voi, che un tempo eravate non-popolo, ora invece siete il popolo di Dio; voi, un tempo esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia» (1Pt 2,9-10).

 

c) Una Parola che chiama convertendo il cuore

Chiamata-risposta è il binomio così facile a dirsi nei discorsi di vocazione, tanto appare logico, ma in realtà occorre fare i conti con un ostacolo reale e ricorrente: il peccato che blocca la chiamata di Dio alla comunione con lui e ne impedisce il progetto di salvezza. Risuona allora una voce forte che invita alla conversione e alla penitenza. La Parola di Dio che chiama ha, nella predicazione profetica ed apostolica, questa connotazione penitenziale: il ritorno al Signore con tutto il cuore, il cercare e il decidersi per lui. La chiamata di Dio, infatti, richiede una chiara e pronta decisione dell’uomo.

Il motivo penitenziale ora descritto ha la sua casa lungo tutta la storia del popolo di Dio, quando l’infedeltà rompeva il patto di alleanza. Testimonianze privilegiate vengono dalla tradizione profetica già all’opera nella riflessione deuteronomistica. Anche nel momento in cui la chiamata di Dio si fa costituzione del popolo con la prospettiva così prossima dell’occupazione della terra – momento drammatico, mai capitato in antecedenza – così Giosuè parla alla sua gente nella piana di Sichem: partendo dalla chiamata di Abramo, passando attraverso i grandi atti dell’esodo, Giosuè non dimentica le infedeltà del popolo, sicché alla fine fa della vocazione l’invito ad una scelta radicale e consapevole:

«Temete dunque il Signore e servitelo con integrità e fedeltà; eliminate gli dei che i vostri padri servirono oltre il fiume e in Egitto e servite il Signore. Se vi dispiace di servire il Signore, scegliete oggi chi volete servire: se gli dei che i vostri padri servirono oltre il fiume oppure gli dei degli Amorrei, nel paese dei quali abitate. Allora il popolo rispose e disse: “Lungi da noi l’abbandonare il Signore per servire altri dei! Poiché il Signore nostro Dio ha fatto uscire noi e i padri nostri dal paese d’Egitto, dalla condizione servile, ha compiuto quei grandi miracoli dinanzi agli occhi nostri e ci ha protetti per tutto il viaggio che abbiamo fatto e in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati. Il Signore ha scacciato dinanzi a noi tutti questi popoli e gli Amorrei che abitavano il paese. Perciò anche noi vogliamo servire il Signore, perché Egli è il nostro Dio» (Gs 24,14-18).

Ma è nella tradizione profetica che la Parola di Dio appella anzitutto alla conversione. Vale nella vita degli stessi profeti. La loro vocazione è destabilizzazione talora violenta per una dedizione totale a Dio, una vera e propria conversione. Ne sa qualcosa il mite Geremia che, chiamato fin dalla nascita (cf Ger 1,5), si sente spinto da un fuoco incoercibile a fare il profeta-contro, quando lui non vorrebbe assolutamente (cf Ger 20,9):

«Ha risposto allora il Signore: “Se tu ritornerai a me, io ti riprenderò e starai alla mia presenza; se saprai distinguere ciò che è prezioso da ciò che è vile, sarai come la mia bocca. Essi torneranno a te, mentre tu non dovrai tornare a loro”» (Ger15,19).

 

Viene rinnovata la vocazione.

Ancora più eclatante è l’esperienza di Paolo, il cui triplice racconto di vocazione resta pur sempre racconto di conversione (cf At 9; 22; 26). Ma è soprattutto rivolti al popolo di Dio (re, sacerdoti, fedeli) che i profeti collegano il dono della vocazione con la condizione della conversione. E di questa vi è bisogno certo: Amos, Osea, Isaia, Geremia, Michea ne sono imprescindibili testimoni. Ma ancora più radicale è l’annuncio che la conversione del popolo può realizzarsi perché Dio si converte al popolo con la sua misericordia. Riportiamo due testi, uno per il primo e l’altro per il secondo dato:

«Torna dunque, Israele, al Signore tuo Dio, poiché hai inciampato nella tua iniquità. Preparate le parole da dire e tornate al Signore» (Os 14,2-3). «Oracolo del Signore. Perciò, ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. Le renderò le sue vigne e trasformerò la valle di Acòr in porta di speranza. Là canterà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d’Egitto» (Os 2,16-17).

Il richiamo dell’Egitto ben si collega con la vocazione originaria del popolo di Dio (cf Os 11,1), che finalmente si realizza nella conversione suscitata e voluta da Dio per il suo popolo. Non possiamo, poi, dimenticare quella caratteristica risposta alla chiamata alla conversione che sono le grandi liturgie e preghiere penitenziali che troviamo nel Salterio (cf i salmi di lamento, Sal 51 fra tutti) e nei profeti (cf Bar 1,15-3,8; Dan 9,3-19).

 

d) Gesù Cristo, la forma incarnata delle diverse tonalità della Parola di Dio

Dopo le tante parole, finalmente la Parola stessa di Dio fatta persona (cf Eb 1,1-2): Gesù è il luogo geometrico della Parola di Dio, il centro gravitazionale in cui ogni chiamata di Dio all’uomo e dell’uomo a Dio si incontrano. In lui vi sono parole di vocazione in senso stretto, come la chiamata dei discepoli (Mc 1,16-20) e dei dodici apostoli (Mc 3,13-14) o come la chiamata di Levi (Mc 2,13-14) e del giovane ricco (Mt 19,16-22).

La componente penitenziale è quanto mai esplicita. Già il Battista, suo precursore, ne tratta in termini forti (cf Mt 3,1-12); dopo Gesù, Paolo ne fa la garanzia per essere veramente discepoli del Maestro: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20). Gesù stesso lega l’annuncio del regno ad una vera conversione (cf Mc 1,14-15) e, mandando i suoi in missione, comanda loro di «predicare a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati» (cf Lc 24,47). È quanto fa lui stesso con l’invito forte alla conversione: «Altrimenti, perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13,3.5). Bastano parole come queste: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,24; Mc 8,34; Lc 9,23).

È presente con ragione di fine quell’appello costitutivo, anzi creativo di popolo che abbiamo visto sopra essere il significato primario della vocazione biblica: lui stesso riveste la figura cosiddetta di “personalità corporativa”: è germe del nuovo popolo messianico, proponendosi come il tronco solido della vite rispetto a noi suoi tralci (cf Gv 15,5); avverte come fatto a sé quello che è fatto agli altri (cf Mt 25,31-46) e chiama i discepoli ad una fraternità che porta in sé lo stesso nome di vocazione: Chiesa (cf Mt 18,17).

Si sa come l’esperienza così umana di Gesù nel rapporto con le persone abbia vibrato con esse nei termini della chiarezza, anzi della denuncia, ma soprattutto della promessa e della consolazione. Con lui le parole di amore si fanno miracolo, realizzano ciò che dicono, sfamando, guarendo, liberando dai demoni e dall’angoscia, perdonando, donando finalmente la partecipazione al suo regno (cf Lc 23).

 

Concludendo

Chi entra nell’ambito della vocazione specifica di presbitero, di consacrato o di laico cristiano, sappia che non potrà racchiudere il proprio profilo vocazionale isolandolo nella sua intima esperienza, ma dovrà collocare la propria vocazione nella grande sinfonia del Signore che chiama nell’ampio orizzonte dei due Testamenti. Ogni Parola di Dio è un frammento luminoso della propria vocazione: allora la propria vocazione, come dice il Sinodo sui religiosi, avrà come nutrimento sostanziale l’ascolto della Parola di Dio.