N.02
Marzo/Aprile

«Amorevoli come una madre… incoraggiandovi come un padre» (1Ts 2,7.11-12).

Come educare i giovani alla “fiducia” nelle scelte vocazionali

Vi sono alcuni termini strategici nel titolo della nostra relazione e nell’occhiello che la solerte segreteria del CNV invia al rela­tore per spiegare il piano generale di chi ha ideato il tema di questo Convegno: tenerezza, paure, resistenze, fiducia, scelte vo­cazionali. Parole che altri relatori prima di me hanno già, alme­no implicitamente, affrontato, secondo angolature diverse, tra loro complementari. In questa sede cercheremo di considerarle da un preciso punto di vista: quello pedagogico.

 

  1. Fiducia

Partiamo da quello che sembra essere l’elemento centrale e stra­tegico: la fiducia nella scelta vocazionale, con l’intento, come sem­pre, di fornire alcune indicazioni utili, soprattutto per i nostri ani­matori vocazionali, che spesso la fiducia la perdono.

Nella cultura di oggi la fiducia sembra un valore in via d’estin­zione e la sua assenza determina crisi a vari livelli: da quella dei mercati finanziari a quella dei governi politici, che la rivendicano, a volte senza meritarla; da quella dei giovani nei confronti degli adulti a quella degli adulti nei confronti dei giovani; da quella dei preti in crisi di fiducia nel loro ministero a quella classica dell’ani­matore vocazionale, che la fiducia spesso se la deve guadagnare, o perché non ne ha granché in se stesso, o perché non ce l’ha per il suo lavoro, o perché respira sfiducia nell’ambiente in cui vive ed opera, o perché gli viene data dai Superiori in modo condizionato – una fiducia condizionata, come la libertà di certi imputati… –, cioè a partire dai risultati o in proporzione al numero di vocazioni che riesce a conquistare. E allora, che fiducia è? Figuriamoci come un animatore in queste condizioni potrà dare fiducia ad un giovane affinché faccia un’autentica scelta vocazionale. Ma un Convegno vocazionale è, per sua natura, una risposta alla crisi di fiducia: chi vi partecipa evidentemente ha fiducia. Chi lo organizza ancor di più.

Dal momento che trasmettere fiducia non è un atto automatico, è necessario riflettere su di essa e sulla sua dinamica, sulle sue radici e la sua evoluzione.

 

1.1 Componenti e peculiarità

Fiducia, in un senso ancora molto generale, vuol dire un com­plesso atteggiamento interiore, un modo di guardare a sé e al mon­do, agli altri e a Dio, con una percezione-intuizione di una sostanziale positività dentro e attorno a sé, legata all’io e al tu, a qualcosa di vero-bello-buono che mi attira e che avverto di poter raggiungere o che comunque sento amico e accogliente.

 

Lo specifico della fiducia è espresso ancor meglio dal verbo che la esprime: mi fido. Esso sta a significare, fondamentalmente, quattro modalità o sensazioni:

– anzitutto la combinazione di queste percezioni positive: verso l’io e il tu, verso la realtà esterna e la realtà stessa che mi sta dinan­zi o che, in qualche modo, mi attrae (ad es. una scelta di vita). L’importante è che queste sensazioni siano avvertite assieme: ovvero l’autentica fiducia è un atteggiamento globale, universale (se uno non si fidasse almeno un po’, implicitamente o esplicitamente, di sé e delle sue capacità, degli altri e del loro senso di rispetto, della terra e della sua fecondità, di Dio che nutre e feconda la terra, non pianterebbe mai un albero; allo stesso modo, se due genitori non si fidassero l’uno dell’altro, ma anche della vita attorno a sé e di Dio, datore della vita, non sceglierebbero mai di avere figli).

– Nel gesto del fidarsi c’è anche la percezione di qualcosa che sfug­ge al controllo del soggetto (come quando uno si trova dinanzi a scelte che toccano il suo futuro, che evidentemente non conosce, oppure quando la scelta coinvolge un’altra persona), o qualcosa che non è del tutto motivato razionalmente, o qualcosa di difficile per le proprie capacità, quasi di irrealizzabile in prospettiva futura (ad es. Maria di fronte all’angelo che le rivela il piano “impossibile” di Dio su di lei).

– Nel primo caso la fiducia è un dar credito all’altro (di cui mi fido), il fidarmi del quale equivale ad un consegnarmi nelle sue mani, ad affidarmi a lui, ad abbandonarmi (ad es. il matrimonio o l’amicizia, ma soprattutto l’innamoramento, comportano fiducia alla radice e al massimo grado, così pure l’atto di fede è “fatto” di fiducia e il bambino che si fida della madre ne è l’esempio più chiaro); nel se­condo caso il fidarsi assomiglia ad una scommessa, come un colpo di testa cui è legato un rischio (ad es. Pietro che getta le reti dall’altra parte della barca fidandosi della – o scommettendo sulla – Parola del Maestro; ma anche la scelta vocazionale sa di scommessa, non tanto su di sé, quanto su Dio).

– Di conseguenza, da un lato la fiducia è un gesto libero, proprio perché in essa non c’è alcuna costrizione, anzi, chi si fida va anche oltre il razionale (e a volte il ragionevole) e sembra sfidare l’impos­sibile, proprio in forza della sua fiducia; dall’altro, però, è naturale per l’uomo fidarsi, lo deve fare… per forza: in ogni scelta c’è sempre un margine non controllato dal calcolo e gestito proprio dalla fidu­cia. L’essere umano “deve” consegnarsi a qualcosa o a qualcuno, è fatto per abbandonarsi all’altro, a chi o a che cosa lo deciderà lui, ma non può farne a meno[1]. E se per caso si metterà in testa di non volersi consegnare a nessuno (“io basto a me stesso!”) diventerà prima o poi dipendente da qualcosa che lui stesso ignora.

Già da questa riflessione iniziale possiamo dedurre che l’atto del fidarsi è tipicamente e profondamente umano, e pure fondamentale per l’atto di fede (molti credono, pochi si fidano), così come è un atto assieme personalissimo e del tutto relazionale, ma è anche libero e assieme necessario.

 

1.2 Somiglianze e dissomiglianze

Sorella quasi gemella della fiducia è la speranza, ma con una differenza significativa: entrambe dicono la positività dell’atteggia­mento profondo della persona, quel certo ottimismo che viene in particolar modo dalla fede; entrambe esprimono inoltre l’atteggia­mento aperto al futuro. Ma, mentre la speranza fondamentalmen­te attende dall’altro, forse con una certa passività, l’attuazione del desiderio (o del sogno), la fiducia implica pure la disposizione inte­riore e attiva del soggetto che si abbandona, che si consegna all’al­tro, alla vita, a Dio. C’è comunque molta contiguità tra questi due atteggiamenti virtuosi.

Al contrario, alla fiducia si oppone tutta una serie di atteggia­menti che vanno dal sospetto più o meno generalizzato all’agire calcolato; dalla diffidenza verso l’altro al rifiuto di fare qualsiasi cosa che sia percepita al di sopra delle proprie capacità; dall’esagerata ti­midezza ad un malinteso senso dei propri limiti; dalla paura dell’al­tro al timore di fare brutta figura; dalla prudenza, che è falsa quan­do inibisce le scelte, all’incapacità di sognare e desiderare in grande; dallo sguardo amaramente scettico su tutto e su tutti alla pretesa di fidarsi solo di sé e delle proprie cose, della propria gente e della pro­pria razza… Insomma, uno scenario niente male e per niente lon­tano dalla realtà che stiamo vivendo! E che va inevitabilmente ad influenzare la capacità decisionale dell’essere umano: senza fiducia è molto difficile la scelta, particolarmente quella vocazionale.

 

  1. La scelta

La scelta è un momento strategico della vita umana: è il momen­to in cui l’evidenza del mistero nella vita umana si dà in maniera particolare. Quando l’uomo sceglie è inevitabilmente posto dinanzi al mistero, anche se non lo sa: al mistero di sé, dell’altro, della vita, di Dio se è credente, ma anche se non lo è. E, scegliendo, manifesta quel che ha in cuore, soprattutto se la scelta è ponderata e rappre­senta una decisione rilevante per la vita.

Vorremmo cercare di cogliere una pedagogia della scelta, par­tendo dalla situazione culturale in cui ci troviamo oggi, per vedere poi gli elementi costitutivi della scelta e ciò che distingue la scelta cristiana dalla scelta puramente umana, e, infine, dare alcune indi­cazioni pedagogiche.

 

2.1 Cultura dell’indecisione (o paura di scegliere)

Oggi viviamo, potremmo dire, addirittura in una cultura dell’in­decisione e i giovani d’oggi, figli di genitori (o con educatori, in­segnanti, preti…) indecisi, appartengono esattamente ad una ge­nerazione di indecisi. La crisi vocazionale non è forse il segnale preoccupante proprio di questa situazione? Laddove ciò che preoc­cupa non è tanto il vuoto più o meno desolante di seminari e novi­ziati, quanto la mancanza di quell’atteggiamento fondamentale di scelta che ogni giovane dovrebbe avere dinanzi alla vita in genere e al suo futuro in particolare, qualsiasi esso sia. Tale atteggiamento assume forme variegate e interessanti, ma tutte, senza distinzione di sorta, prive della dimensione del mistero e caratterizzate da una crescente paura, la paura di scegliere.

Vediamo alcune di queste forme, partendo dal livello più povero ed inconsistente.

 

a) La non scelta

È il livello zero, tipico di chi vorrebbe non scegliere mai, se po­tesse, e quando proprio deve fare una scelta (da quella dell’indirizzo scolastico a quella delle vacanze) la rimanda all’ultimo momento, o tentenna all’infinito, assalito da dubbi e conflitti o semplicemente tranquillo e adattato allo status dell’homo indecisus.

Di fatto, queste persone scelgono pochissimo nella vita e rischia­no soprattutto di non prendere mai posizione dinanzi ai grandi problemi dell’esistenza, restando sempre in una posizione amorfa e neutra, senza mai il coraggio e l’intelligenza di mente e di cuore di porsi dinanzi al mistero. Per giungere magari al termine della vita senza aver ancora deciso di vivere. Si nasce, infatti, per una scelta altrui, ma la qualità della vita e, normalmente, anche della morte, è legata ad una decisione propria!

 

b) Scelta delegata e del “così fan tutti”

In realtà è impossibile non scegliere nella vita: chi pretende di vi­vere così si ritrova a dover subire, magari senza accorgersene, scelte fatte da altri al suo posto, come avesse dato la vita (e il cervello) in appalto a qualcun altro. È il caso di giovani, anzitutto, che sembrano subire i propri istinti e sentimenti, divenendone succubi, anche sen­za saperlo, come dei primitivi adoratori di entità sconosciute o enig­matiche; o che non fanno un’opzione di valori né hanno il coraggio di dare un senso originale alla loro storia, ma assorbono la cultura circostante, bevendo tutto e mai scoprendo il gusto della ricerca personale; o ragazzi che sono psicologicamente “costretti” a seguire la logica del branco, costretti a fare i bulli e poi, alla fine, farsi schi­fo, miseramente schifo; o giovani che non scelgono assolutamente il proprio futuro, perché già programmato da più o meno occulte agenzie di collocamento (i genitori, il mercato, la convenienza eco­nomica, l’opinione dominante…). C’è tanto “pappagallismo” in giro oggi, o “neo-pecoronismo”, come un rischio che incombe su tutta la società, dalla comunicazione imperiosa e imperante, condizionante ogni scelta ed escludente – è ovvio – ogni idea di mistero.

 

c) Scelta contraddittoria e… infedele

È la decisione di chi, in ogni scelta, si lascia sempre aperta la pos­sibilità di fare marcia indietro, lasciandosi una porta aperta o smen­tendo quel che ha deciso, la parola detta o l’impegno preso (ad es. se ci sposiamo lasciamo sempre aperta la possibilità di lasciarci, anzi, conviviamo semplicemente, così è più semplice; oppure se t’ingra­vido e non ti garba, basta una pillola e addio bebé; o anche, se in­traprendo una strada, che poi non mi piace più, ne inizio un’altra… e tutto diventa fragile e inconsistente, leggero e “liquido”, proprio come la modernità odierna). È una scelta che teme il “per sempre”, finendo però per contraddire il mistero della libertà umana e ren­dendo banale l’esistere, inaffidabile la parola e incerto il rapporto. Ma anche pretendendo di cancellare il dramma della vita umana: l’uomo può decidere di abbandonare la sua vita a un ideale, a un af­fetto, a un progetto…; può consegnarsi a tutto ciò e, in definitiva, ad un Altro, o a qualcosa che lo supera e di cui si fida. Anzi, non solo può, ma lo “deve” fare, come abbiamo visto prima, naturalmente decidendo lui e solo lui a chi o che cosa consegnarsi, ma rimanen­dovi poi fedele anche quando c’è un prezzo da pagare.

Ogni scelta autentica esprime, implicitamente o esplicitamente, questo dramma, che dice assieme la dignità umana e la piena acco­glienza della sua dimensione misteriosa.

 

d) Scelta ripetitiva e sterile

C’è chi teme la novità della scelta e le possibilità che certe scelte aprono davanti al soggetto, e allora decide di non correre alcun rischio. Sceglie, ma è come se non scegliesse: sceglie, infatti, di fare solo ciò che è sicurissimo di saper fare, sta ben attento a non fare il passo più lungo della gamba, è estremamente prudente e pretende tutte le garanzie; preferisce battere la strada vecchia, più sicura e senza sorprese e non si accorge che si sta ripetendo o che il suo fu­turo è troppo simile al passato, quasi in un processo di clonazione a ripetere, mentre la vita diventa sempre più noiosa e incolore. In prospettiva vocazionale questo sarebbe il caso di chi decide il suo futuro semplicemente in base a quel che è, alle sue doti, a ciò in cui riesce, a quanto ha già scoperto di sé, e non è disposto ad acco­gliere alcuna provocazione che lo spinga ad andare oltre se stesso, a rischiare l’inedito, a buttarsi in avventure un po’ ardite, ove non ha garanzie precise. D’altronde è solo così che uno scopre la propria identità e, soprattutto, scopre che essa è sempre al di là di quel che uno pensa di sé, del suo io attuale o dei suoi test attitudinali.

 

e) Scelta egoista e cieca

Infine, esiste anche la decisione di chi vede solo se stesso e i pro­pri interessi e decide in base ad essi, senza accorgersi degli altri, del bisogno o del dolore altrui. Scegliere vuol dire aprirsi, accogliere la provocazione che viene dai volti incrociati, tenere vigilanti i propri sensi, lasciarsi intercettare da appelli e domande. L’egoista non sa scegliere, poiché vede solo se stesso; e chi non sceglie il “tu” ha già scelto la propria morte.

 

f) Scelta imbecille e odiosa

Infine, c’è la scelta di chi non sa più cosa fare per occupare il tempo, ovvero per sentirsi vivo, reattivo, capace di godere della vita, o che forse ha esaurito varie possibilità in tal senso, andando a cercare felicità nei santuari moderni e ricevendo in cambio solo illusioni di gioia. Costui si ritrova che non sa più cosa fare davvero per “ammazzare il tempo”. Un po’ come quei giovani assolutamen­te normali che, negli anni passati non trovavano niente di meglio che “divertirsi” gettando sassi dai cavalcavia, giovani “vuoti”, come li giudicò Andreoli[2]; o come quegli altri di Rimini, giovani di buona famiglia, che qualche mese fa decisero di dar fuoco ad un pove­ro barbone che stava tentando di difendersi dal pungente freddo notturno: hanno deciso che la loro voglia di provare un’emozione diversa fosse più importante della dignità e della vita di quest’uo­mo, per poi giustificarsi dicendo che non volevano fargli del male, ma solo spaventarlo, così, “per gioco”; e i genitori a difendere “te­neramente” i loro pargoli ventenni perché… “mica l’han fatto per cattiveria”. Forse, il vuoto mentale è ereditario… In quale vuoto, in quale educazione al nulla sono cresciuti questi ragazzi “normali”? Che cosa sia un uomo e chi ci sia dietro al volto d’ognuno, è mistero per qualcuno perduto, memoria colmata dal nulla…

 

2.2 Elementi costitutivi della decisione

Ogni decisione personale – ci ricorda la rigorosa analisi psicolo­gica – implica quattro componenti: la preferenza (o il desiderio), la rinuncia, il legame col passato, l’orientamento verso il futuro[3]. Ma ne aggiungo un’altra, in linea con la prospettiva del mistero che avvolge la vita umana e che proprio nel momento della decisione si rende paradossalmente evidente: è la componente, dunque, della zona scoperta e in qualche modo a rischio.

 

a) Desiderio (elemento preferenziale)

Si sceglie una possibilità non perché è la sola possibile, ma perché preferita ad altre pur accessibili. O perché c’è un desiderio intenso che attira in quella direzione; desiderare, infatti, significa concentrare tutte le proprie energie nella tensione verso qualcosa che la persona sente come centrale per la sua vita. Se la concentrazione energetica è come la pressione delle acque sulle pareti di una diga, la decisione è il punto di rottura della diga che fa fuoriuscire l’acqua. In termini spirituali potremmo dire che, se il desiderio rappresenta la compo­nente mistica, la decisione ne è l’attuazione ascetica.

C’è dunque un’attrazione positiva all’origine di una scelta, che diventa improbabile o che sarà debole se tale attrazione è povera o assente. Ed è sempre tale attrazione a motivare la rinuncia, perché non diventi mortificazione costrittiva. Nella decisione autentica, i valori o le alternative cui si è rinunciato non vengono in alcun modo disprezzati: non è la malizia di ciò che si esclude, ma la deside­rabilità di ciò che si sceglie a provocare l’esperienza dell’addio. Que­sto ha già un’implicazione pedagogica di assoluto rilievo per quanto ci riguarda: se non vi sono decisioni vocazionali occorre lavorare sul suo primo elemento costitutivo, il desiderio. Altrimenti detto: la decisione vocazionale non può essere provocata artificialmente, ma solo favorendo la capacità di desiderare e di desiderare ciò che è degno di essere desiderato e, al tempo stesso, alla capacità dell’ani­matore di dire la bellezza dell’ideale, capacità che è presente solo se egli ne è innamorato.

 

b) Rinuncia (elemento mortificante)

Per realizzare ciò che desidero devo rinunciare. Volere una cosa significa automaticamente rinunciare ad un’altra incompatibile con la precedente. C’è una rinuncia comunque, anche quando si decide di non decidere, anche se il soggetto non se ne avvede.

La rinuncia di cui parliamo è una rinuncia non solo e non tanto a cose esterne (abilità, occasioni…), quanto a una parte dell’io stes­so, ad alcune sue esigenze e bisogni, o al loro esercizio. Se voglio dare un senso alla mia giornata, devo rinunciare ai desideri opposti: dormire, semplicemente evitare guai, fantasticare…

Ogni decisione – va dunque detto molto realisticamente – è una limitazione delle potenzialità personali, una mortificazione, anche se il termine appare desueto e poco invitante. Ma riguarda la natura della decisione in quanto tale, di una decisione qualsiasi. Quindi il concetto di rinuncia non è necessariamente cristiano: esso appartie­ne ad una sana psicologia. In prospettiva pedagogica, ciò significherà che nessun educatore potrà chiedere una rinuncia se al tempo stesso non lascia intravedere lo spazio di libertà che quella rinuncia spalan­ca al soggetto. In prospettiva vocazionale, ciò sta a dire quanto sia importante che l’animatore sia capace di presentare la bellezza della prospettiva vocazionale, la libertà che essa dona, la pienezza di vita che essa regala: è chiaro, infatti, che la rinuncia fa paura nella misu­ra in cui la prospettiva positiva non è abbastanza evidente. D’altro canto, i giovani hanno il diritto che vengano loro trasmessi, da parte degli adulti, ideali e non soltanto scetticismo e cinismo. La forza d’at­trazione posseduta dall’ideale diventa forza per la rinuncia.

 

c) Legame col passato (elemento temporale)

Ogni decisione, anche quella che sembra banale e comunque poco significativa, ha la sua storia e dice qualcosa di noi, è inevi­tabilmente connessa con scelte precedenti o con uno stile di vita già collaudato. La scelta del presente in qualche modo svela questo passato, o ne svela conseguenze e implicanze, abitudini indotte e a volte profondamente radicate, al punto da risultare difficilmente modificabili. Non esiste, in tal senso, scelta innocua o che non lasci traccia alcuna; al contrario, ogni scelta tende a ripetersi o crea co­munque tendenza nella medesima direzione. Per questo la prospet­tiva psicologica dà molta importanza alle singole decisioni di una persona, che non vanno mai sottovalutate. Nella logica di quanto dicevamo potremmo dire che non esiste scelta troppo piccola da non poter condizionare quelle successive: è chiaro, allora, che an­che la grande scelta vocazionale è preceduta da una quantità di microscelte, che la preparano aprendo una strada che va in quella direzione. Oppure il contrario: piccole scelte di segno opposto (anti­vocazionali) allontaneranno sempre più il soggetto dalla possibilità di fare un’autentica opzione vocazionale.

Il legame tra scelte passate e scelta presente non va comunque in alcun modo assolutizzato o enfatizzato, fino ad eliminare tout court libertà e responsabilità, come vorrebbe oggi certa cultura derespon­sabilizzante e dilettante (nel senso che sembra proprio giocare con certa psicologia mal divulgata e, peggio ancora, assimilata, quasi da rotocalco). La verità è che noi possiamo non essere responsabili, o non esserlo del tutto, delle tendenze ereditate dal passato, ma in ogni caso siamo ora responsabili del rapporto che stabiliamo verso di esse, di quanto facciamo per esserne consapevoli, per coglierne le radici e per tenerle sotto controllo[4]. Qui si decide la maturità della scelta.

 

d) Orientamento verso il futuro (elemento prospettico)

La scelta fatta, specie se si tratta di una scelta esistenziale, di uno stato di vita o di qualcosa che per sua natura coinvolge l’intera esistenza, diventa il fondamento per tutte le scelte future che devo­no ancora essere pensate. Decidersi è come disegnare una cornice: delimita dei confini e distingue lo spazio interno da ciò che rimane fuori; questo spazio dovrà essere riempito dalle decisioni future, le quali saranno qualificate come riuscite e vere solo se saranno nella stessa linea di questo primo inizio liberamente scelto. «La condizio­ne dell’impegno è che la persona si renda incapace di rovesciare la sua decisione… Deve mantenere un atteggiamento inequivocabile verso l’alternativa scelta e rinunciare all’altra; tale rinuncia darà un contenuto di gioia all’alternativa scelta»[5].

L’insieme di questi quattro elementi permette già di intendere la decisione come un orientamento che pone le sue radici nel passato e che è liberamente imposto all’intera nostra esistenza. Libertà e auto-imposizione si richiamano a vicenda: l’auto-imposizione è la conseguenza della libertà, così come l’imperativo è la conseguenza dell’indicativo.

Una volta deciso, la persona si vede “costretta” ad interpretare tutta la vita seguente alla luce dell’orientamento scelto. La deci­sione presa diventa una chiave di interpretazione per il futuro: la vita sarà genuina solo se fedele a questo inizio. Ci si decide e poi ci si vede prenotati per il futuro. Questa auto-imposizione non signifi­ca freddo volontarismo o castrazione di sé, ma esprime l’elemento preferenziale implicato in ogni scelta libera. Tale imposizione, fatta non per forza, ma per scelta, darà un contenuto di gioia al resto della vita.

 

e) Zona scoperta e a rischio (elemento misterioso)

Ma permane in ogni caso, in ogni decisione, e specie in questo tipo di decisioni importanti per la vita, una zona buia, in cui scarseg­giano le evidenze e gli appoggi e non bastano i calcoli e le previsioni, ma anche questa è elemento costitutivo della scelta umana. Forse è il punto in cui la scelta mostra il suo legame col mistero. Proprio per questo sosteniamo che alla radice della decisione non c’è un’eviden­za matematica, ma un atto libero che si basa solo su una certezza mo­rale: rimane sempre un residuo di insicurezza intellettuale, che può essere superato solo osando e rischiando. Non è possibile prevedere i singoli eventi futuri; decidendosi, l’uomo fa un passo nel futuro sconosciuto, sorretto tuttavia dalla conoscenza delle proprie forze morali e quindi dalla conoscenza del suo modo probabile di agire di fronte a futuri avvenimenti. Ma il futuro rimane libero, tutto da fare; è un processo di avveramento continuo che mette alla prova la capacità di integrazione di chi decide. Tuttavia questo futuro, anche se rischioso, non è mai arbitrario, perché guidato dall’orientamento liberamente scelto, ovvero da una fiducia di fondo, verso se stessi anzitutto, ma poi verso l’altro, con colui con cui, in qualche modo, ci si sta legando e consegnando, come vedremo.

E qui esplode il mistero dell’essere umano e la sua dignità: che un uomo possa consegnare il proprio futuro, che non conosce, nel­le mani di un altro, di un Altro, o che possa dire ad una donna: «Ti prometto di starti accanto, ovvero la mia fedeltà, nella buona e nella cattiva sorte» è mistero grande; non è solo commovente, ma è qualcosa che evoca la grandezza dell’essere umano e che si può spiegare solo con l’intensità dell’amore. Perché solo ciò che è inten­so ha bisogno di estensione e può abbracciare tutta la vita.

Non si capisce davvero perché oggi si voglia impoverire la vita di queste esperienze e privare il soggetto di queste sensazioni, nelle quali è racchiusa tutta la bellezza dell’esistenza umana. Il “per sem­pre” può far paura, paura sana come la paura del mistero, che fa ve­nire le vertigini, ma nel vero senso della parola, vertigini che attrag­gono e risucchiano la persona: in quel lasciarsi attrarre-risucchiare dal mistero consiste la decisione. Se la paura, invece, non viene dal mistero, ma dal timore di perdere le possibilità o le alternative cui uno deve rinunciare, allora non c’è alcuna decisione, ma solo l’im­plosione su di sé, egoista e sterile.

 

2.3 Prezzo e differenza della decisione cristiana[6]

Ammesso anche che “decidersi” sia bello, importante e… indi­spensabile, non lo si fa; specialmente i giovani d’oggi mostrano una singolare allergia decisionale. La decisione fa problema, quella cri­stiana ancor di più e – se possibile – più ancora la scelta vocaziona­le. La scelta cristiana è di un tipo tutto particolare che con le altre decisioni ha in comune solo il nome: se ad essa applichiamo criteri che non le appartengono appare assurda e rimane necessariamente inevasa[7].

La perfetta decisione “umana”, infatti, deve essere:

a) Sicura: gli elementi di rischio devono essere ridotti al minimo; fra tutte, è migliore quella decisione che più sa assicurarsi contro l’errore e il rischio di sbagliarsi. Di qui la ricerca di quanto possa, in qualche modo, non solo progettare, ma prevedere, se possibile, il futuro, a partire da ciò che la persona è ed è sicura di saper fare.

Qualsiasi scelta che preveda prestazioni percepite oltre le proprie capacità sono accuratamente evitate; il rischio sarà quello di non scegliere il massimo di quel che si può dare e di ripetere quel che si è già, in una sorta di autoclonazione psicologica.

b) A minimo costo: è preferibile quella decisione che raggiunga l’obiettivo con il massimo di efficienza e il minimo di perdita. Sem­bra un criterio molto logico; in realtà nasconde la paura di compli­carsi la vita e finisce non di rado per orientare la decisione verso obiettivi non troppo impegnativi, o per ridurre, impercettibilmente, livello e qualità delle proprie aspirazioni.

c) Precisa e chiara prima ancora della sua attuazione e in tutti i suoi dettagli: gli obiettivi, finali e intermedi, devono essere esau­rientemente analizzati fin dall’inizio, in modo da ridurre al massi­mo l’intromissione, nella fase di attuazione della scelta, di variabili future impreviste. Anche questa pretesa sembra molto razionale e prudente; ma lascia aperto un interrogativo altrettanto realista: è mai possibile fare una scelta così, che riesca davvero a prevedere tutto, quando si tratta di scegliere per la vita? È davvero “umano” questo tipo di decisione, visto che esiste una zona scoperta che il calcolo non può del tutto prevedere e controllare?

d) Rivedibile (o reversibile): come abbiamo già visto, la decisione umana, calcolatrice e il più possibile preveggente, spesso e volen­tieri si lascia una uscita di sicurezza, nel caso l’opzione non dovesse funzionare per i più svariati motivi. In realtà è una scelta paurosa, paurosa della definitività, incapace di abbandono, timorosa o scetti­ca nei confronti di colui che si sceglie e cui ci si dovrebbe in qualche modo “consegnare”… La paura del “per sempre” rende leggera e inaffidabile ogni scelta e svela una sottile disperazione in chi compie la scelta (apparente).

 

La decisione “cristiana” è invece:

a) A rischio: rimane sempre un residuo di insicurezza intellet­tuale, e non solo mentale, che, come abbiamo visto, può essere su­perata solo osando e rischiando, o con quel supporto psicologico e spirituale offerto e garantito dalla fiducia, o dalla fede che porta a fidarsi e a fidarsi di Dio. Nel discernimento cristiano, il credente cor­re il rischio massimo per un’umana creatura: scoprire la volontà di Dio. Rischio reso ancor più rischioso dalla solitudine sostanziale in cui egli viene a trovarsi, poiché la decisione è personale. Come dice, infatti, magistralmente Moioli sulla scia di Sant’Ignazio, egli sa che nessun comandamento oggettivo, nessuna regola esterna, nessun parere o consiglio di altre persone, persino della guida spirituale, potrà mai dargli la certezza che quanto deciderà di fare è quello che Dio vuole che egli faccia. «La decisione, e quindi il discernimento personale, in concreto, devono essere della persona, del soggetto che si fa “dirigere”: in funzione di ciò, il discernimento esercitato dal direttore spirituale si concepisce come ordinato non a sostituire o ad imporsi autoritariamente, bensì a “condurre”, a sostenere il di­scernimento del soggetto»[8]. Tutto ciò dice la necessità e delicatezza di un ministero spirituale che orienti e sostenga, aiuti a purificare le motivazioni e a liberare il cuore da attaccamenti di vario genere, consci e inconsci; al di fuori, però, di ogni tentativo (autoritario, volontaristico, fideistico) di rendere meno autonoma e personale la decisione per l’obbedienza della fede.

b) A massimo costo: nella decisione cristiana è preferibile quell’azio­ne che fra tutte esprime il massimo di quel che posso dare, anche se mi chiederà un notevole prezzo da pagare, e la maggiore inten­sità di amore, anche se avrà un risultato minimo. La scelta fatta in nome del radicalmente Altro, che misteriosamente attrae il cuore umano, viaggia su valori ideali massimi, per consentire di vivere in una realtà spesso attraversata da limiti di vario tipo, che si faranno assoluti nel momento della morte. La decisione è cristiana quando esprime il dono di sé e quando mette la persona in condizione di mantenere l’offerta di sé anche quando questo comporta rinuncia e chiede un prezzo alto: soprattutto allora ci vuole corrispondenza tra i due livelli, quello del costo-rinuncia e quello dell’amore-desiderio. Più il costo è alto più grande deve essere l’amore, fino ad integrare il massimo della rinuncia di sé col massimo del dono di sé. Per questo ogni decisione è, in qualche modo, simbolo della morte, perché la fine dei propri giorni sarà il momento in cui il limite o la rinuncia toccheranno il punto massimo, il vertice estremo; sarà allora neces­sario “vivere” quell’istante (e la preparazione ad esso) caricandolo

c) Ancora, la decisione cristiana deve essere precisa, ma mai potrà essere chiara in tutti i dettagli, al punto da risultare prevedibile e da porre al riparo da ogni sorpresa: i valori accettati all’inizio devo­no essere oggettivi e realisti, ma non saranno mai esaurientemente chiari; ogni passo della loro attuazione indica una conquista e un compito nuovo; la scelta si scopre man mano che la si attua, in un processo che proprio per questo è di formazione permanente. Discernere e decidere, ancora una volta, non vogliono dire dispor­re del futuro, quasi sapendolo con certezza in anticipo. Significano piuttosto saper leggere una direzione nel presente, che pure va oltre il presente; significa leggere una coerenza tra ciò che si legge e la verità dell’essere cristiano, tra ciò che si comincia a intuire e una possibi­lità di attuare quella verità in un progetto di vita, dove “io” (cioè il mio essere cristiano qui ed ora) non solo non vengo escluso, «ma vengo assunto come luogo, anzi come realtà di una sintesi che deve essere trovata. Mi sembra cristiano che io faccia così; mi sembra chiaro che io posso fare così; è prudente che io lo faccia; dunque Dio vuole che io lo faccia e che, facendolo, io non trovi nel sapere anticipato la sicurezza; la trovi, invece, fidandomi ed affidandomi a lui»[9]. E siamo di nuovo all’elemento fondante, all’architettura di base del processo decisionale credente: la fede che diventa fiducia. La scelta aumenta la fiducia: scegliere è voce del verbo fidarsi.

d) La decisione cristiana è tutta giocata sulla fiducia. Fiducia in un Altro, in Dio e nel suo essere mistero, come abbiamo ricordato all’inizio. Mistero buono – abbiamo detto – perché si svela; mistero amico, perché mi viene incontro; mistero vocazionale, perché pri­ma della mia scelta di lui, c’è la sua scelta di me. È un po’ il paradosso vocazionale: noi stiamo riflettendo sulla decisione da prendere e su come educare i giovani a scegliere la propria vocazione, ma in realtà si tratta di lasciarsi scegliere, di educare alla libertà di fidarsi nella vita, che è il massimo della libertà umana. E che è legata natural­mente anche all’esperienza umana del soggetto, come vedremo poi, ma soprattutto all’esperienza spirituale di Colui-che-chiama, e che chiama perché ama, o che chi-ama, e che di fatto mi ha chiamato da tutta l’eternità, ovvero mi ha amato da sempre preferendomi alla non esistenza. Mistero grande! Come non fidarmi di questa volon­tà buona, che mi ha già scelto e chiamato alla vita, quando io non potevo minimamente meritare tutto ciò? Ad essa sono già affidato, da sempre: vivo solo perché sono nelle sue mani. Dunque, è del tutto naturale continuare a fidarmi, a lasciarmi scegliere da essa, perché vuole il mio bene e la mia felicità, anche quando mi chiede qualcosa di difficile e costoso, o che va – o sembra andare – al di là delle mie capacità, oppure oltre una certa logica che sembra così logica, o di certi calcoli che paiono così evidenti… Anzi, a questo punto capisco cos’è la fiducia: la fiducia è e diventa lo spazio della decisione rimasto scoperto dal calcolo o che il calcolo non può o non riuscirà mai a occupare, che il calcolo deve per forza lasciar libero. Solo la fiducia può occupare quello spazio: una scelta vocazionale senza fiducia sa­rebbe un non senso, per una vocazione votata al fallimento. Tanto più la vocazione cristiana, che invece, proprio perché è espressione di fiducia, apre all’esperienza del Dio affidabile[10]. Se non è la fiducia ad occupare quello spazio, sarà la presunzione dell’individuo a oc­cuparlo o comunque la sua lettura soggettiva, con le paure, i dubbi, le resistenze, le interpretazioni riduttive, le aspettative irrealistiche, le difese che ben conosciamo. Se invece la fiducia occupa quello spazio, scalzando via il calcolo, allora la scelta è totale e radicale; è irreversibile, come tutte le scelte fatte per amore, perché ci si sente amati.

 

  1. Pedagogia della decisione

Abbiamo già detto diverse cose rilevanti sul piano pedagogico. Cerchiamo ora semplicemente di metterle in ordine, senza alcuna pretesa di fornire un vademecum o un prontuario del perfetto ani­matore vocazionale e ben ricordando quanto dicevamo all’inizio: l’animazione vocazionale è espressione della propria fedeltà voca­zionale, dice la qualità della propria vita spirituale, è la cifra della propria formazione permanente. Per questo, tra l’altro, investire, a livello di diocesi o di istituti religiosi, nell’animazione vocazionale correttamente intesa è saggio e pure economico, poiché significa una provocazione su più campi, ma che poi converge al centro, va all’essenziale.

 

3.1 Ulisse e Orfeo

Partiamo da un’immagine mitologica, anzi da due immagini a confronto. Si tratta oggi di passare, nel difficilissimo cammino dell’educazione (dell’emergenza educativa), dalla figura del mitico Ulisse a quella del più modesto Orfeo.

Ulisse, come ricorderete, per ascoltare il canto ammaliante del­le sirene e resistere al loro potere seduttivo si fa legare all’albero della nave, ma tappa con la cera gli orecchi ai suoi marinai, perché non sentano minimamente e non cadano in tentazione. E così, con questo stratagemma, supera l’ostacolo, pur avvertendo dentro di sé tutta la potenza dell’attrazione dei sensi. Lo supera, ma senza per questo crescere interiormente; anzi, probabilmente avrà avuto la sensazione d’aver perso un’occasione unica, una gratificazione ir­ripetibile e altrove introvabile. Egli non ha affrontato l’ostacolo, né ha consentito ai suoi d’affrontarlo: ne ha avuto paura. Senz’altro è stato prudente – e, si potrebbe anche dire, anche consapevole dei propri limiti – facendosi legare, ma certo non è maturato dentro né ha fatto maturare i suoi: imponendo loro di mettersi della cera negli orecchi ha mostrato sfiducia verso di loro, oltreché verso se stes­so. C’è come una violenza psicologica in tutto il suo agire, poiché l’elemento mortificante (= la rinuncia) appare privo dell’elemento preferenziale (= il desiderio).

Orfeo, invece, agisce in modo essenzialmente diverso: egli af­fronta l’ostacolo a viso aperto. Orfeo aveva ricevuto in dono dal padre un meraviglioso strumento musicale, la lira, e aveva impara­to addirittura dalle muse a usarla, in un modo che non poteva che esser divino. Anch’egli un giorno si trova in prossimità dell’isola delle sirene, le sfida col suo strumento e con la bellezza che riesce a tirar fuori da esso. E la spunta. Vince con il suono della sua cetra la dolcezza del loro canto, aiutando i suoi compagni a non cedere alle loro lusinghe. Semplicemente perché il canto della lira di Orfeo è più bello del canto delle sirene e non può non essere preferito (= l’elemento preferenziale è forte e dà forza alla rinuncia). Orfeo ha fiducia nei suoi compagni e, ancor prima, ha fiducia in sé e soprat­tutto nella capacità d’attrazione di ciò che è bello e più desiderabile delle sirene e dei loro inganni.

Abbiamo qui la sostanza del percorso decisionale: ve la lascio come sfondo della nostra riflessione, quasi una metafora dell’ani­mazione vocazionale oggi. Essa può nascere soltanto sulla logica dell’attrazione, della libertà interiore, della preferenza per ciò che è più bello, vero e buono, non sulla logica della costrizione, dell’impo­sizione, della sfiducia di fondo. L’animatore vocazionale deve essere un moderno Orfeo, suonatore di lira, ma forse senza pretendere di arrivarvi subito, né improvvisandosi grandi suonatori di lira, senza la prudenza e anche quel po’ di furbizia presente in Ulisse.

 

3.2 Principio generale: favorire la circolarità dei processi (spirituale e psicologico)

Vediamo di indicare alcuni punti utili per il nostro discorso, che è – chiariamo subito – di duplice natura: teologico e psicologico, o religioso e umano. Si tratterà, allora, di favorire la circolarità e comple­mentarietà dei due processi, perché l’uno sfoci nell’altro, in una sequenza sempre più unica e costante. È la bellezza e la sfida del nostro lavoro, che è portato avanti come su due fronti. Vediamo come attuare questa circolarità processuale tra il religioso e l’umano.

1) Donare fiducia (dal problema religioso al problema psicologico): anzitutto è indispensabile prestare molta attenzione all’umanità dei nostri giovani. Abbiamo parlato di fiducia come elemento costitu­tivo e dunque indispensabile della decisione cristiana in particola­re. Ora, la fiducia non è qualcosa che uno si sente nascere dentro spontaneamente, ma è frutto di educazione, particolarmente della prima o primissima educazione, dalla quale – secondo quanto ci dice la psicologia evolutiva – il bambino dovrebbe uscire con un senso di basic trust, di fondamentale fiducia. Detto diversamente, i genitori dovrebbero manifestare nei suoi confronti una accoglienza incondizionata dalla quale nasce, poi, la stima di sé, di cui la fiducia è parte sostanziale: fiducia in sé, negli altri, nella realtà, nella vita, in Dio… come un substrato umano indispensabile.

Oggi, purtroppo, ci troviamo con tanti giovani che non vengono da questa positiva esperienza familiare. E non occorre spendere tan­te parole per provarlo, in un contesto quale quello attuale di fami­glie spezzate, di relazioni ferite, di figli mal amati, di orfanaggi vari, reali o psicologici, verticali ma pure orizzontali; di solitudini deso­lanti all’interno del nucleo familiare, di educazione che non inse­gna a vivere e a scegliere, di non educazione o di mala educazione, banale e vuota, indifferente e senza valori; di legami morbosi che obbligano a restare bambini o, al massimo, a divenire adultescenti; di contraddizioni aberranti nella distribuzione dei ruoli genitoriali.

È essenziale, allora, capire la situazione, non colpevolizzare né pretendere che l’età biologica corrisponda sempre con quella psi­cologica, ma, al contrario, capire che ciò che manca o è venuta a mancare è esattamente questa accoglienza incondizionata e, dun­que, l’affetto per la persona così come è. L’animatore vocazionale non è uno psicoterapeuta né un counsellor, ma, se ha sperimentato la tenerezza del mistero eterno che si svela e fa conoscere, è un cre­dente che può capire la debolezza umana e manifestare, con la sua, la tenerezza del Dio che ama ogni suo figlio.

E il primo segno di questa tenerezza divina manifestata dalla te­nerezza umana è proprio la disponibilità della persona, del fratello maggiore che si pone accanto per aiutare nel cammino di discer­nimento. Il principio in fondo è questo: se una persona non ha avuto un’esperienza positiva di accoglienza incondizionata nel suo passato, l’aiuto migliore per lui è fare un’esperienza di accoglienza incondizionata.

Questa è la tenerezza di cui ha bisogno. Che vorrà dire, in con­creto, da parte dell’animatore, affetto sincero, dedizione di tempo, pazienza soprattutto nel rispetto dei suoi ritmi e nell’attesa del suo progresso. Ma, al tempo stesso, senza dimenticare che la propria accoglienza, con tutta la sua tenerezza, è solo uno strumento, una mediazione che dovrebbe far scoprire la tenerezza divina. Questo, dunque, l’obiettivo educativo: condurre la persona a riconoscere, all’in­terno della sua storia, pur nei limiti della sua esperienza passata, i segni dell’amore di Dio che in ogni caso hanno accompagnato i suoi giorni. Ov­vero, occorre che la verità di fede – l’amore di Dio – venga “verifi­cata” (= resa e scoperta come vera) nella propria storia, incarnata in essa. Il problema teorico diventa allora storico, o il problema teologico diventa psicologico. Ed è la prima fase di quel processo circolare di cui parlavamo all’inizio: l’amore umano, in qualche modo e da qualsia­si persona ricevuto, financo il minimo segno d’attenzione a livello umano, viene caricato di valenza teologica, diventa segno della te­nerezza dell’Eterno e percepito come sua manifestazione. Ma oc­corre che ciò avvenga, ai fini della maturazione reale e non illusoria dell’individuo, attirandone l’attenzione sul proprio passato non per lamentarsene, ma per imparare a cogliervi l’amore assolutamente personale dell’Eterno.

La persona acquisisce la fiducia di fare una scelta solo se scopre l’amore ricevuto, tanto più sorprendente se scoperto dentro le pie­ghe d’una realtà debole e precaria; tanto più convincente se tale amore è capace di giungere all’uomo anche attraverso mediazioni improbabili, se non contraddittorie. Anzi, proprio per questo rivela­tore del mistero, del mistero dell’amore perfetto di Dio che sopporta anche la mediazione imperfetta. Di solito è un cammino duro e lungo, ma preliminare ad ogni possibilità di scelta autentica; occor­re dunque camminare su questa strada e non rinunciare a questo obiettivo, se si vuole costruire la capacità decisionale sulla roccia della certezza di essere già stati amati, amati da Dio lungo la propria storia e attraverso i deboli amori umani.

2) Leggere il mistero: diventa molto importante, a questo punto, partire dai fondamentali: insegnare a leggere e scrivere. Ma, an­zitutto, a porsi dinanzi al mistero, perché il giovane impari ad af­frontare la realtà, scoprendone il senso profondo e non fermandosi all’aspetto puramente esteriore e superficiale. Noi non possiamo nemmeno immaginare come potrebbe cambiare la vita di un giova­ne se imparasse quest’arte e divenisse familiare alla prospettiva del mistero. Parliamo qui di mistero come di categoria interpretativa, come modo di percepire e interpretare la realtà, come di attitudine e abitudine, in tutte le cose, a chiedersene il senso profondo, a co­glierne il lato nascosto, a intuirne la ricchezza e la ricaduta su di sé e sulla propria vita. E possibilmente partendo dalle realtà più abituali e quotidiane, più vicine a lui, nella logica del principio di Von Bal­thasar: “il tutto nel frammento”[11].

Pensate, ad esempio, a quanto potrebbe esser importante per un giovane riflettere sui suoi desideri, sulla sua stessa ricerca di fe­licità, sulla sua personale storia di tale ricerca, sulla sua speranza di ottenerla in certo modo, in certe situazioni, in certi ambienti, da certe persone, da certe relazioni, sull’esito di questa ricerca e magari sulla sua delusione susseguente… O la riflessione sulla sofferenza, o sul volto umano, o sul senso del rapporto con Dio e di come la stessa ricerca di gioia o il problema della sofferenza possano trovare risposta o illuminazione in tale rapporto… Se è vero che l’uomo non è mai identificabile con quel che fa o quel che dice, con quel che teme o con i suoi desideri (o quel che dice di desiderare), né con quel che pensa di sé o gli altri dicono di lui… e che c’è sempre nell’uomo qualcosa che supera regolarmente il livello dell’imme­diatamente inteso o percepito, allora dobbiamo insegnare il gusto del saper riconoscere il mistero in ogni situazione e circostanza, in ogni sentimento e sensazione, in ogni paura e in ogni desiderio, anche quelli della vocazione. Il rapporto con la vita, senza rappor­to con il mistero, perde gusto ed intelligenza, diventa meschino e rende tale l’essere vivente, specie chi – come il giovane – avrebbe bisogno di riferimenti alti.

Abbiamo bisogno di tornare a riflettere e di insegnare a riflettere in grande. Sullo sfondo del mistero.

3) Convertire paure e resistenze (dal problema psicologico al pro­blema religioso): tutti conosciamo perfettamente le paure di cui è piena la vita d’un giovane d’oggi. D’altro canto non è poi così stra­no, oggi, aver paura. Sui giornali o alla TV c’è un’istigazione vera e propria ad avere paura: del musulmano, del “poverocristo” che approda sulle nostre coste, del diverso, del rom…, del futuro, della crisi. I giovani hanno l’angoscia di fronte ad un mondo troppo com­plicato e atroce, tremano, si fanno prendere da “attacchi di panico” al solo pensiero del futuro. Così come è evidente l’atteggiamento di resistenza da parte del giovane non solo dinanzi alla possibilità di grandi scelte nella vita, ma pure dinanzi alla costatazione dell’amo­re ricevuto lungo la sua vita, magari per non doversene sentire poi responsabile. Come gestire pedagogicamente tale situazione?

Anzitutto, è importante avere il coraggio delle proprie paure: occorre invitare il giovane a riconoscere i propri timori, dar loro un nome, capirne, se possibile, le radici, vederne le conseguenze nei vari ambiti della vita; cercare di prendere confidenza con essa, perché così è più “maneggevole”. Ciò che ignoriamo di noi stessi, evidentemente, ha molto più potere su di noi.

Ma il passo decisivo è un altro: si tratterebbe di trasformare len­tamente la paura psicologica in timore biblico, o la resistenza psicologica in resa spirituale. E sarebbe la seconda fase del processo circolare, com­plementare alla prima: quella più deduttiva, questa più induttiva. Suona forse un po’ strana e ardimentosa l’operazione, ma sarebbe una conseguenza della lettura del mistero: più precisamente, se la paura ha sempre radici psicologiche (da ricercare eventualmente nel proprio passato o, comunque, nella propria personalità), ogni paura inevitabilmente nasconde anche una paura di Dio (così come ogni desiderio è, alla radice, desiderio di Dio). Così è per ogni paura umana: se un giovane, ad esempio, ha paura di scoprire dentro di sé chissà quale nequizia e perversità, probabilmente ha paura di un giudizio di qualcuno autorevole, del giudizio di Dio in fondo; se ha paura del futuro, teme che colui che gli ha dato la vita, anche se paradossalmente non ci crede, non gli abbia fatto un dono autenti­co; se teme l’altro (con la “a” minuscola), teme soprattutto l’Altro (con la “A” maiuscola), non c’è scampo. Ma sarebbe enormemente vantaggioso fare questa scoperta, perché allora la paura, per strano che possa sembrare, diverrebbe più gestibile, meno “paurosa”, più chiara nel suo significato di fondo, meno difficile o meno complessa da risolvere, perché, in fondo, ha ancora ragione Davide: «È meglio cadere nelle mani di Dio che non nelle mani dell’uomo» (cf 2Sam24,14). E l’esperienza psicologica diverrebbe di fatto esperienza re­ligiosa, o la lotta psicologica, senza senso e senza sbocchi, tutta gio­cata dentro di sé (come una lotta intestina) e contro di sé (o contro una parte dell’io) diventerebbe lotta religiosa, lotta sana, lotta bi­blica, lotta – in realtà – con l’amore di Dio… Lotta che prima o poi uno deve perdere, esattamente quando si arrende di fronte a questo amore. E ci si abbandona. Ovvero, si passa dalla pretesa di resistere alla decisione della resa.

Allora la paura diventa fiducia, la resistenza abbandono e la resa l’altro volto della fiducia di chi s’abbandona, ciò che rende l’indivi­duo più libero per fare una scelta.

Certo, anche questo è un cammino lungo e faticoso, che richiede alla guida una certa esperienza, una certa forza nel sostenere questo combattimento col divino, ben conosciuto da tutti i veri amici di Dio, tutti “lottatori” col divino, come ci raccontano le Scritture sante.

Ed è fine arte pedagogica accompagnare in questo cammino e in questa trasformazione, senza commettere l’ingenuità di voler evitare lo scontro con Dio. La vocazione è frutto anche di questo scontro.

 

3.3 Annuncio doppiamente “personale”

Inoltre, credo che faccia parte dell’autentica pedagogia vocazio­nale il sottolineare, senza darlo mai per scontato, che ciò che alla fine noi siamo chiamati ad annunciare è una persona precisa, Gesù Cristo, a un’altra persona precisa, che è da accogliere nella sua unicità-singolarità-irripetibilità.

1) Annuncio di una Persona: è quel che ha ribadito il Papa: «All’ini­zio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva»[12]. L’accompagnamento vocazionale ha senso solo se è parte di questo avvenimento-incontro di quella Persona che è Gesù Cristo. Che va dunque proposta e indicata esplicitamente, con forza e passione. Dice l’Arcivescovo di Rossano, Mons. Marcianò, citando l’esempio di Paolo: «L’evento di Damasco svela a Saulo che, anche se egli non lo sapeva, in realtà stava perseguitando colui che sarebbe diventato il “tu” della sua vita. Potremmo dire che, anche da persecutore e proprio da persecutore, egli aveva già impostato una relazione con una persona. Era questo che Paolo non sapeva: ma quando questa verità illuminò i suoi occhi, l’amore vinse per sempre»[13]. Questo significa che Cristo, la sua persona, va comunque proposto, perché in ogni caso ha il potere di provocare la persona, di confrontarla, di metterla salutarmente in crisi. Verrebbe da dire: che il giovane lotti pure con Cristo, lo contesti, lo perseguiti persino, l’importante è che stabilisca un rapporto con lui, in qualsiasi modo! A questo rapporto deve continuamente rimandarlo la guida, suonando al meglio la sua lira, come Orfeo coi suoi compagni di nave, come un artista ap­passionato e creativo, non come un mestierante che ripete sempre le stesse cose. Essere cristiano significa essere “di Cristo”.

2) Annuncio a una persona: l’annuncio-proposta va fatto a una persona, anche al gruppo in quanto tale, ma sempre in quanto com­posto di individualità distinte, per quanto convergenti tra loro. Poi­ché per sua natura la parola di salvezza interpella individualmente, va in cerca di ognuno, raggiunge la pecorella smarrita, si fonda sulla pietra scartata, è “il più piccolo di tutti i semi della terra”. Il Cristo riconduce ciascuno alla sua insostituibile e preziosa singolarità, luo­go naturale di discernimento vocazionale.

Stiamo dunque attenti a non lasciarci prendere dalla mania del collettivo, dall’apostolato unicamente dei gruppi, dalla formazione in serie. L’antica tradizione della Chiesa, in questo in linea perfetta con le scienze moderne, ci ricorda che non può avvenire alcuna crescita reale nella fede se non attraverso l’intervento sul singolo. È lì che problemi personali, paure e resistenze possono essere detti e confidati, confrontati e rielaborati; è lì che la storia di ciascuno può riconoscere la presenza misteriosa del Dio amante, fino a far nascere quella fede che diventa fiducia, e pian piano anche scelta vocazionale. Più forte d’ogni paura e resistenza.

 

3.4 Più parresia

Non vorrei infine scadere nel moralismo e fare raccomandazioni un po’ scontate e paternalistiche, ma credo, in sincerità, che oggi la pastorale vocazionale abbia bisogno di animatori più coraggiosi ed espliciti e tali perché più fiduciosi, profeti di fiducia. Se non altro per­ché li richiede la situazione in cui versano i giovani oggi, come ben sappiamo e come abbiamo anche accennato in precedenza: se oggi i nostri ragazzi “dalle braghe basse e l’ombelico in mostra” vivono in un contesto di cacofonia assoluta e disorientante, quanto bisogno avranno di una parola chiara e coraggiosa, semplice e comprensi­bile, vera e confermata dalla vita di chi l’annuncia? Proprio perché oggi viviamo nel Pantheon delle false divinità, occorre che la pro­clamazione del Dio vivo e vero risuoni alta e convincente da parte di chi se ne sente teneramente amato e lo ha messo al centro della sua vita. Proprio perché questi nostri giovani sono figli della società dell’indecisione è indispensabile che abbiano davanti a sé l’esempio inequivocabile di persone che hanno scelto il massimo e sono feli­ci, che hanno rischiato d’abbandonare tutto e si sono ritrovate col centuplo. Proprio perché i nostri adolescenti si sentono spesso tra­diti dagli adulti, anche quelli a loro più vicini, non possono essere ancora illusi e ingannati da chi dice d’aver trovato la via, la verità e la vita, e poi è pauroso e titubante, pigro e disanimato, ripetitivo e preoccupato di sé e della sua salute più che dell’annuncio di salvez­za da dare a tutti. Proprio perché sono pochi gli eletti, e oggi sempre più pochi, sarebbe terribile che fossero pochi anche i chiamanti, o che costoro chiamassero con flebile voce, quasi avessero paura di chiamare, d’insistere nella chiamata, o che poi non sapessero ac­compagnare verso la decisione. Proprio perché il nostro mondo sta perdendo il senso della bellezza e stiamo tutti per essere soffocati dall’immondizia della bruttezza e dallo scadimento del gusto, quan­ta necessità c’è di esistenze belle e di umanità ricche, di giovani che possano dire ad altri giovani che esiste una bellezza incancellabile nel più profondo d’ogni essere umano, che nulla potrà mai offusca­re, misteriosa e pure luminosa. Proprio perché ci sono tante sirene, è indispensabile che l’animatore vocazionale non abbia alcun dub­bio sulla migliore qualità del suo canto!

Non vi pare che oggi l’animazione vocazionale abbia bisogno di un nuovo slancio vitale ed evangelico, di rinnovata creatività, di più voce e più dinamismo, di maggiore attenzione alla qualità del­la sua presenza nella Chiesa…? O forse, in una parola, di una più grande fiducia in se stessa, nella Chiesa, nei giovani, in Dio, mistero buono?

Essa sa, o dovrebbe sapere, a chi ha dato la sua fiducia.

 

 

Note

[1] Lo dice molto chiaramente Rahner su un piano non semplicemente psicologico: “L’uomo si affida necessariamente ad altri ed è necessariamente portato a farlo” (K. Rahner, Che significa amare Gesù?, Edizioni San Paolo, Roma 1983, p. 13).

[2] Così li diagnosticò il famoso psichiatra veronese: “Questi giovani non sono malati; non sono neppure cattivi. Purtroppo sono vuoti e quindi incapaci di distinguere il bene dal male”.

[3] Prendiamo lo spunto, per questo paragrafo, dalle penetranti analisi di a. Manenti, Vivere gli ideali. Fra paura e desiderio, EDB, Bologna 1988, pp. 208-213. Ma cf anche M.e. KaPlan – S. Schwartz (eds.), Human judgment and decision processes, New York 1975; i. JaniS – l. Mann, Decision making. A psychological analysis of conflict choice and commitment, New York 1977.

[4] A. Cencini – A. Manenti, Psicologia e Formazione. Strutture e dinamismi, EDB, Bologna 1998, pp. 198-200.

[5] Il riferimento di fondo di queste pagine è una teoria sulle decisioni umane che è piuttosto datata, ma che mi sembra ampiamente confermata non solo da studi più recenti, ma soprat­tutto dalla realtà esperienziale della vita: cf h.B. Gerard, Basic features of commitment, in R.P. Abelson, Theories of cognitive consistency: a sourcebook, Chicago 1968, p. 457.

[6] ­Sfrutto in parte e con aggiunte sostanziali una mia riflessione di qualche tempo fa pubblicata in A. Cencini, Chiamò a sé quelli che volle. Dal credente al chiamato, dal chiamato al credente, Edizioni Paoline, Milano 2003, pp. 41-45.

[7]  Cf c.J. Pinto de oliveira, Lieux et enjeux de l’experience morale aujourd’hui, in «Le supple­ment» 129 (1979), pp. 175-176; 179.

[8] G. Moioli, Discernimento spirituale e direzione spirituale, in l. Serenthà – G. Moioli – r. corti, La direzione spirituale oggi, Edizioni Ancora, Milano 1982, pp. 66-67.al massimo grado di senso, andando cioè liberamente incontro alla morte, come epilogo d’una vita diventata progressivamente dono, come momento supremo della propria scelta vocazionale.

[9]Ibidem, p. 64

[10] è il titolo della poderosa opera di P. Sequeri, Un Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 1996.

[11] Il principio baltharassiano 11 è  ben reso da Carillon con questa espressione: “Non poter essere racchiuso dal massimamente grande, ed essere tuttavia contenuto dal massimamente piccolo è proprio di Dio” (F. Varillon, L’umiltà di Dio, Qiqajon, Magnano 1999, p. 60)

[12]  Benedetto Xvi, Deus Caritas est, 1.

[13] S. Marcianò, “Non avere paura… e non tacere”. Paolo, il coraggio dell’evangelizzazione, Lettera Pastorale nell’anno di San Paolo, Rossano 2008, p. 21.