N.02
Marzo/Aprile

«So a chi ho dato la mia fiducia»: la vocazione tra desiderio e paura del cuore[1]

Un saluto affettuoso a ciascuno di voi, con la consapevolezza che questa prima relazione porta con sé tante attese; perciò rivolgo un grazie sincero a tutti voi che siete qui numerosi. Non mi aspettavo persone così qualificate e questo crea un po’ di trepidazione anche nel mio cuore di vescovo.

Il Signore oggi ci fa la grazia, anche alla luce del video che abbia­mo appena visto (cf il dvd Storie e luoghi vocazionali, a cura del CNV, Roma 2009), di rileggere quella domanda che era stata posta ai ra­gazzi, come se la facessi a me stesso o come se la ponessi a ciascuno di voi: ma tu, in chi hai posto la tua fiducia? Perché questo è il pun­to: in chi ho posto io la mia fiducia? La domanda non è scontata, perché dentro di essa c’è un mistero ed è il mistero della vita.

Cerco allora di entrare nel cuore di Paolo, rileggendolo come io stesso l’ho vissuto. Gran parte della mia vocazione è stata opera della sua presenza nella mia vita.

Parto da un’immagine di San Giovanni Crisostomo che ho pro­posto quest’anno nel mio messaggio annuale per le scuole. Criso­stomo era innamorato di San Paolo. È sua la famosissima frase: «Il cuore di Paolo è il cuore di Cristo». Questa definizione mi ha ispirato un paragone con la natura. Voi sapete che il carbonio, a seconda di un insieme di circostanze, di molecole, di calore, può produrre due oggetti completamente diversi: può diventare carbone oppure diamante. Crisostomo chiama Paolo il “diamante di Dio”, che è una metafora davvero sublime. Ma prima di essere diamante, Paolo è stato carbone: Dio ha trasformato questa molecola di carbonio in diamante. Questa è la vocazione.

In fondo, ogni ragazzo ha dentro di sé elementi che possono di­ventare carbone o diamante. Questa è la bellezza dell’educare; que­sta è anche la bellezza, il fascino della nostra vocazione, della fatica e dello splendore di essa, perché sentiamo che questa affascinante trasformazione da carbone a diamante non è mai finita.

Sono molto interessanti le interviste proposte nel video: avete scorto negli occhi di quei ragazzi momenti di carbone, ma anche momenti di diamante. Alcuni occhi lucidi di commozione di fronte a certe domande… ma tu in chi poni la tua fiducia? Perché la rispo­sta è lì, nella vita. Possiamo allora provare a leggere l’esperienza della fiducia in questo modo: da che cosa dipende l’esperienza di passare da carbone a diamante? Dipende da un nome: Gesù Cristo.

Oggi è la festa del nome di Gesù. Mi piacerebbe sentire un canto che mi ha affascinato durante la giovinezza e che amo immensa­mente, nella sua forma dolce e mirabile del gregoriano: «Iesu dulcis memoria quam Iesus, Dei Filius, nil canitur suavius, nil auditur iucun­dius…». Quel nome ha trasformato Paolo da carbone a diamante. È il nome di Gesù: quante volte lo cita, quante volte lo nomina, in che modo appassionato ne parla! Si passa dalla paura al desiderio, se si riesce ad incontrare questo volto, questo calore, questo Nome.

Io sono entrato in seminario da ragazzo (e di questo benedico il Signore), sebbene, prima di diventare prete, mi sia formato anche lavorando nelle fabbriche: il seminario minore da solo non mi era sufficiente a intuire il mondo di oggi. Un giorno il nostro educatore ci diede delle immaginette. Dietro aveva scritto alcune frasi di San Paolo in latino. Io non ricordo l’immaginetta, ma ricordo la frase perché mi colpì e mi segnò in maniera determinante. La frase di­ceva: «Dilexit me et tradidit semetipsum pro me», Cristo mi ha amato e ha consegnato se stesso per me. La novità non fu tanto il “dilexit” quanto il “pro me”, perché compresi per la prima volta nella mia vita di giovane, dentro la bellezza di questa scelta, ma anche nella fatica, nelle fragilità, nelle paure dell’adolescenza, che non ero più generico, ma ero amato come persona. Dilexit me: il gioco di parole in italiano è particolare: amato… chiamato, chiamato… amato, riem­pito della sua presenza; sceso profondamente il cuore di Dio nel mio cuore… allora non si è più vaghi, non si è più generici, non si è più uno tra i tanti, ma amati personalmente. Dilexit me, questo è il nodo principale: Paolo mi ha insegnato ad amare in modo personalizzato, a sentirmi amato in modo personalizzato. Questa è la prima certez­za per sfuggire le paure: sentirsi amati, sentirsi chiamati in maniera diretta.

In questi giorni abbiamo cantato insieme il canto natalizio Ade­ste, fideles. Anche i pastori sono stati chiamati («Vocati pastores…»). Cos’è la vocazione? E la vocazione dei pastori? La voce dell’angelo giunge a loro e subito si mettono in viaggio, vanno verso… «An­diamo a vedere, andiamo…» e poi tornano a raccontare. Questo è il nostro compito: essere capaci di andare insieme, ciascuno di aiuto all’altro, e sentirsi poi capaci di raccontare. Pensiamo alle sette an­tifone “O”: “O Sapientia”, “O Rex”, “O Clavis”… oppure al Gesù dolce memoria: quanto è grande e soave il nome di Gesù attraverso queste immagini. E noi abbiamo il dovere di raccontarlo! Quanto è raro utilizzare l’aggettivo dolce per definire Gesù, eppure è una parola così profonda ed efficace: se non fosse dolce non lo potrei scegliere, non lo potrei amare, non ce la farei a lasciare il mondo di oggi che ci affascina in mille modi diversi.

Ci chiedeva una volta un monaco orientale: qual è il nemico del bello? Fu una domanda molto imbarazzante… Verrebbe spontaneo rispondere “il brutto”, invece il nemico del bello è “il più bello”: una risposta straordinaria! Una persona non lascia il bello per il brutto, ma il bello per “il più bello”, cioè per qualche cosa di più grande, di dulcis, di particolarmente intenso. Tra le espressioni di Paolo che mi hanno dato la forza di scegliere Gesù Cristo come pienezza e perla nella vita, ce n’è una che mi ha particolarmente segnato: Paolo, ad Atene, sfida gli intellettuali (cf At 17,27), dicendo loro di essere ve­nuto a raccontare quel Dio ignoto che cercano e che in fondo han­no messo sull’altare, perché il Dio nostro non è lontano da ciascuno di noi, ma va cercato… “come a tentoni”. Immaginiamo di entrare in una stanza buia, sappiamo che c’è l’interruttore però non sappia­mo dove; lo dobbiamo cercare adagio, con pazienza, non è lonta­no… lo dobbiamo toccare. È il cercare silenzioso, umile, rispettoso di Dio, che non si impone, ma si propone sempre; ma devi essere tu a toccarlo tu, con la tua mano: questa è la fiducia. È toccare quel Dio, che ti ha amato, con le tue mani, come dice Giovanni nella sua bellissima lettera.

Pensate al dramma del Papa lo scorso anno all’Università “La Sapienza”. È il dramma del rapporto straordinario tra libertà e ve­rità. La fiducia nasce da qui. Sono le assi portanti del cammino for­mativo di ogni uomo, di ogni giovane: aiutare a comporre libertà e verità è il dono più grande che possiamo fare.

Noi siamo l’immagine – antichissima – della nave. Poco fa abbia­mo cantato “soffia nelle vele”: ciò che soffia nelle vele è la libertà, che fa andare avanti e conquistare le cose. Però la nave ha bisogno del timone. Ebbene, libertà e verità sono coniugate insieme da una parola: “fiducia”. La fiducia è la capacità di mettere insieme libertà e verità. Può essere una chiave di risposta di fronte alle domande più imbarazzanti, a volte inevitabili o scontate. A scuola, ad esempio, mi chiedono spesso cosa penso dei gay: come rispondere? Se ci si appella alla legge si è già subito giudicati, se invece si parte dalla libertà e dalla verità, allora si lascia parlare ciò che c’è nel cuore di ciascuno, si dà fiducia alla vita, a Dio, scoprendo la libertà e la verità insieme. La fiducia è l’unione armoniosa di libertà e verità. Anche i limiti della storia, anche i peccati, anche le situazioni più difficili, più drammatiche nel cammino educativo sono dentro questa fidu­cia, tra libertà e verità.

Questo processo straordinario è descritto da Paolo con questa immagine: tocca Dio con le tue mani e sentirai che ti è accanto.

Una terza frase mi ha aiutato davvero tanto di fronte alla scelta finale del cammino. Un giorno di grandissimo buio, di grandissima fatica, mi si è aperto il cuore leggendo un passaggio nella Lettera ai Filippesi: «Non che io abbia già conquistato il premio o sia arrivato alla perfezione, solo mi sforzo di correre per conquistarlo perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù» (Fil 3,12). Nel mo­mento critico della mia vita, questa frase mi ha salvato: «Perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù». Ho capito che pri­ma ancora che io dicessi sì a Dio, lui l’aveva detto a me; prima an­cora che io lo cercassi lui mi aveva conquistato e mi aveva cercato, scelto, atteso e soprattutto… afferrato!

Un grande educatore salesiano ci spiegava così questa immagine così profonda: la vita – è il tema di questo interessante Convegno – è come un trapezista che si lancia nel vuoto, mentre dall’altra parte c’è un altro trapezista pronto a raccoglierlo; deve esserci perfetta sintonia tra chi si lancia da una parte e chi si lancia dall’altra, perché basta un secondo in meno o in più perché le due mani non s’in­crocino. Ecco che cos’è la vocazione: è un lanciarsi fiducioso nelle mani dell’Altro, sapendo che sarai raccolto da lui. La vita non ha la rete come ce l’hanno i trapezisti! Tu non puoi non lanciarti, ma non è un lanciarti nel buio: «Scio cui credidi», so in chi ho posto la mia fiducia (2Tm 1,12). So che mi lancio e lui mi afferra, perché “anch’io sono stato afferrato da Cristo Gesù”. È bellissimo tradurlo così: sono stato afferrato da Cristo Gesù. E ora ci accorgiamo che veramente in queste mani che ci afferrano – queste mani che afferrano i ragazzi, che hanno paura come tutti, fanno fatica come tutti, ma hanno bi­sogno, soprattutto oggi, di punti di riferimento –, in questo incontro la parola fiducia è la parola che sta al centro del cammino di fede.

Ma da dove sgorga la fiducia di Paolo? Perché Paolo si è fidato di Gesù? La fiducia di Paolo non è stata spontaneistica e non è stata nemmeno volontaristica. Ogni riferimento al momento formativo dei seminaristi è chiaro: non è né spontaneistica, né volontaristi­ca, sono due realtà opposte. La fiducia di Paolo non è ovvia, non è scontata, non è facile, non è naturale… perché qualche volta si pensa che tutto nella fede sia così: bello, dorato, profumato, tutto incenso; ma non è nemmeno volontaristica: quando vuoi essere il migliore della classe, oppure vuoi essere la suora più brava della co­munità o il prete migliore della diocesi, o il vescovo più… In fondo il volontarismo ce lo portiamo dentro tutti, tutti siamo stati educati a questo.

Da cosa nasce, allora, la fiducia di Paolo? È una fiducia matu­rata nella sofferenza e nel fallimento delle sue presunte sicurezze. Paolo ci insegna a vivere “tra paure e desiderio”: il passaggio da una sicurezza presuntuosa ad una fiducia “generosa e intelligente”. Noi dobbiamo, infatti, passare da una sicurezza presuntuosa – io sono il migliore, me la cavo, non ho bisogno di nessuno – ad una fiducia generosa e intelligente. La parola fiducia rappresenta il superamen­to di questa sicurezza presuntuosa che noi ci poniamo.

Guardiamo Paolo: Paolo poteva essere sicuro e il c. 3 della Lettera ai Filippesi lo dice chiaro. Pensate infatti come Dio aveva prepara­to quest’uomo: conosceva l’ebraico, che aveva imparato a casa; il greco, imparato a scuola e nella strada; il latino, appreso attraverso le istituzioni: «Civis romanus sum…». All’interno della dimensione delle tre culture ci poteva stare la sua ricchezza, la sua genialità in fondo. Però Paolo non riesce ad armonizzare le tre culture perché, alla fin fine è un fondamentalista; in fondo dice: io non riesco ad accettare che tu, Stefano, rinunci alla tradizione dei padri; io ti devo eliminare, ti devo distruggere. Paolo vive in pieno questo dramma, ha dentro di sé culture e lingue diverse, ma non riesce ad armoniz­zarle. Quando incontra Cristo tutto quello che era il suo vanto e la sua sicurezza crolla. Ricordiamo brevemente i sette motivi del suo vanto: circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo figlio di ebrei, fariseo osservante della legge perciò preciso e perfetto, quanto allo zelo persecutore, irreprensibi­le quanto alla giustizia. Sono parole sue: il vanto, la sicurezza erano garantite, ma lui non pone più la sua sicurezza dentro queste cose. Trasforma la sicurezza in fiducia perché crolla tutto quello che s’era costruito, e crolla attraverso cinque fattori: il perdono di Stefano, che è decisivo; la polvere di Damasco; il buio del carcere; la fede, nella Lettera ai Romani; la traversata verso Roma (cf At 27,13-44).

 

1.1 Il perdono di Stefano

Paolo, chi l’ha convertito? Damasco? Anche, ma prima di Da­masco a convertirlo è stato quel volto del suo coetaneo – immagino che Stefano avesse più o meno la sua stessa età – che parlava con sapienza ispirata, ma che, soprattutto, aveva il volto levato al cie­lo. È bellissima l’immagine di Stefano con gli occhi luminosi rivolti verso l’alto: non da se stesso e dalle sue forze, ma dal cielo Stefano trae la fiducia ed è per quel cielo, in cui vede Gesù Cristo alla destra del Padre, che può dire con un gesto immenso, che ha veramente cambiato la storia di Paolo: «O Padre, non imputare loro questo peccato» (At 7,60), simile alle parole di Gesù sulla croce: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).

Proprio quel volto avrà suscitato in Paolo la prima grande do­manda, perché si sarà chiesto: ma perché non chiede vendetta, per­ché, ucciso con i sassi, non invoca giustizia da Dio, ma invoca il perdono? Proviamo ad immaginare cosa passava nel cuore di que­sto giovane: la mia religione, la mia tradizione… non è possibile – avrà detto Paolo – io non ce la faccio a perdonare… Capita spesso nella nostra vita di preti, di pastori, di vescovi, di sentire questa frase anche nelle nostre comunità: io non ce la faccio a perdonare, con quella sorella, con quel prete, con quel vescovo! Questa è la dimensione da cui dobbiamo partire: la fiducia nasce sempre dalla riconciliazione! Non puoi aver fiducia se non sei capace di sentirti perdonato e se non sei capace di perdonare.

Riconciliarsi con il proprio passato, con la propria vita è decisivo. Anche se vi sembrerà strano, vi indico uno strumento che mi aiuta moltissimo nella mia vita: il diario. L’ho scritto da ragazzo e lo scrivo anche ora che sono vescovo, perché mi aiuta a leggere la vita, non come la vorrei io, ma come di fatto, ogni giorno, si presenta. La fiducia nasce dall’accettazione riconciliata della propria storia, non descritta in una maniera virtuosistica, come un letterato, ma dando un nome alle cose; bisogna dare un nome alle cose, un nome alle persone, e il diario mi aiuta a farlo, specialmente quando ho una spina dentro che ho bisogno di tirar fuori, perché altrimenti quella spina interiore incancrenisce. È difficile, per un vescovo, trovare qualcuno con cui parlare: io parlo con il Signore Gesù attraverso il diario. E scrivendo sento che riesco a tirar fuori le spine, i sentimen­ti. I sentimenti bisogna saperli gestire, così anche le emozioni. Mi rivolgo specialmente ai giovani: gestite le vostre emozioni, non la­sciatele dentro di voi; descrivetele, raccontatele, tiratele fuori, fatele venir fuori, perché i sentimenti, le emozioni possono essere una zavorra oppure diventare una vela per volare sulle strade della vita. Se non si ha la capacità di gestirli, i sentimenti diventano un peso, ti tirano giù. Pensate a quante volte non si ha fiducia nell’altro, per­ché si vive spesso di sentimenti non riconciliati. La fiducia nasce per forza dalla capacità gestionale dei sentimenti e Paolo ce lo insegna attraverso il volto che l’ha cambiato: il volto di Stefano.

 

1.2 La polvere di Damasco

Come è decisiva! Pensate a questo giovane sicuro di sé; porta con sé i permessi di carcerazione per tanti. Già vede Damasco e lì, all’improvviso, nel mezzogiorno, abbagliato da una luce intensissi­ma, viene buttato giù “da cavallo” – vero o no il cavallo, io penso che ci fosse, come lo hanno rappresentato tutti i grandi pittori della storia – crolla e cade per terra. Quella polvere acre di Damasco gli fa sentire la fragilità e il crollo di tutte le sue sicurezze. Non può esserci Paolo se non dal volto luminoso di Stefano e dalla polvere di Dama­sco. Lì si rende consapevole che non può costruire da solo, che ha bisogno di essere aiutato, sollevato, alzato in piedi, accompagnato: ecco il senso dei limiti.

Benedetto sia il Signore quando ci fa sentire di aver bisogno di una bella confessione, della consapevolezza del nostro peccato, delle fragilità: è questa anche la parola straordinaria del Convegno di Verona. Sulla strada di Paolo arriva Anania, e sapete quanto è prezioso il suo intervento nell’esperienza di Paolo. Anania gli dice: «Saulo, apri i tuoi occhi» e dagli occhi di Saulo scendono le scaglie, può vedere con gli occhi liberi dalle scaglie della paura, dell’indiffe­renza, della estraneità, dell’alterità mal gestita: ecco cos’è la fiducia! Qui risiede la preziosità dell’avere fiducia in un padre spirituale.

Mi raccontava un giovane seminarista, entrato nel primo anno di Teologia: «In questo primo trimestre ho scoperto la preziosità del padre spirituale». «Oh – gli dico – non è una scoperta secondaria, anzi! Perché hai scoperto che non ti dice quello che devi fare, ma ti ripulisce gli occhi perché tu stesso possa scoprire, con la luce di Dio, quello che devi fare: ecco chi è il padre spirituale». È come Anania: ti ripulisce gli occhi, ti ridà limpidezza, ti fa sentire le cose con la bellezza straordinaria della verginità con cui Dio le ha fatte.

 

1.3 Il carcere

Chissà quanto tempo Paolo ha passato in carcere, a Cesarea, a Filippi, ad Efeso! Tantissimi anni, in cui il diamante si è purificato veramente. In particolare a Filippi, da dove giunge attraverso lo Spirito che lo guida, lo blocca nella strada verso il nord e verso l’est. Lo guida a Troade, con l’apparizione del macedone, che gli dice: «Vieni verso di noi!» (At 16,9). Trova poi la risposta positiva di Li­dia, libera questa schiava, ma dopo finisce in carcere.

È interessante vedere come Paolo vive il carcere, perché esso rappresenta le delusioni della vita quando ti ingannano, quando la vita non è come l’hai sognata tu, la comunità non è come l’hai pensata: il seminario, la Chiesa, tutti i limiti che abbiamo, la pesan­tezza delle nostre istituzioni… In questa prova cocente di delusione, quando si vede messo in prigione, picchiato, malmenato, gettato nel punto più profondo del carcere con i ceppi ai piedi, Paolo, in­sieme a Sila, compie cinque gesti dettati dalla sua grande fiducia: canta, prega, le porte si spalancano, i ceppi si spezzano e lui dice al carceriere: «Non ti fare del male, siamo tutti qui» (cf At 16,16-40) con voce forte, paterna e rassicurante. Rappresenta in fondo chi, anche nei momenti “storti” della vita, non si lascia condizionare da queste situazioni.

Guai se la fiducia fosse relazionata all’altrui fiducia; guai se io sono sereno se l’altro è sereno, guai se io sono bravo; guai… so­prattutto all’interno di una comunità! Io devo essere trasparente, limpido anche in un mondo sporco; devo essere coraggioso anche in mezzo a gente tiepida, devo essere capace di volere del bene an­che a chi non me lo fa. Lo dico perché talvolta in Italia, nelle nostre comunità, si assiste ad un certo calo di entusiasmo, dovuto all’età, alle situazioni, ai problemi. Guai a lasciarsi condizionare!

Paolo è in carcere, ma non si mette a gridare: «Oh, mio Dio, che cosa mi è successo!». A mezzanotte, mentre cantano e lodano Dio, ecco che il Signore apre le porte, spezza i ceppi e lui, con voce rassi­curante, canta. È, in fondo, quello che dice la Lettera ai Filippesi: tra­sformare lo svantaggio in vantaggio, questa è la fiducia! La fiducia è qualcosa che conquista: è come il profumo, ti conquista il cuore, non è più tuo. La fiducia cambia una comunità, cambia una classe, una parrocchia, se il cuore del prete ha fiducia della sua gente. La fiducia è contagiosa, ti dà uno slancio diverso, ti dà un cuore nuovo, da uno svantaggio genera un vantaggio!

Vorrei raccontarvi come ho vissuto lo spostamento chiestomi im­provvisamente dal Vaticano: parti, lascia Locri e vai a Campobasso. Prendo la cartina geografica… dove si trova Campobasso? In questa situazione ho sofferto come generalmente si soffre di fronte ad un trasferimento. Ho telefonato a mio fratello, un contadino della Val di Non, per raccontargli l’accaduto. Dopo un attimo di silenzio, lui mi ha risposto perplesso: «Non ti preoccupare, obbedisci, hai sempre obbedito, ti è sempre giovato, ti farà bene cambiare e poi sarà come una potatura». Lo ha detto da contadino. Un giorno gli ho chiesto: «Piero, come si fa a potare?». E lui: «Non c’è una regola ben precisa, bisogna guardare l’albero… bisogna avere occhio! Così, devi capire se questo ramo… Certo, bisogna stare attenti». Diceva questo indi­candomi una vite: «Vedi, questa ha fatto l’uva quest’anno, è il ramo più grosso, ma non va più bene; questo fa ombra; questo è fuori squadra, resta… ma è il più piccolino! Adesso, in primavera, è così, ma tu torna in autunno e vedrai che non sarà più il più piccolino».

Anche Dio ci pota – lo dice Gesù – e la potatura non è mai per una stroncatura, ma sempre per una rifioritura. Tutti viviamo que­sto sentimento: quando le cose vanno storte ci chiediamo se dob­biamo ancora avere fiducia negli altri, nei superiori, nel Vaticano. Se guardiamo da un punto di vista puramente umano, è chiaro che lentamente le cose si inceppano; se invece guardiamo al di là del ramo fragile, che vediamo in questo momento sotto la neve, e lì intravediamo con gli occhi della fiducia la forza e il frutto del futuro – perché questo è il segreto della fiducia: intravedere ciò che non vediamo, lanciare gli occhi oltre il presente –, allora ogni cosa, anche la più difficile come il carcere, come le catene, può essere trasformata da svantaggio in vantaggio.

 

1.4 La Lettera ai Romani

Non è possibile commentare interamente la Lettera ai Romani, però possiamo prendere in considerazione una frase che ne costi­tuisce il vertice. Paolo scrive questa lettera nel 58, dopo vent’anni di esperienza, bloccato a Corinto. Nei primi capitoli (1, 2, 3) Paolo descrive il peccato del mondo, le sabbie mobili del mondo, da cui l’uomo non riesce ad uscire. Quelle sabbie mobili nelle quali Dio – usa un verbo terribile – ha abbandonato l’uomo. Nel primo capitolo è scritto: «Dio ha abbandonato l’uomo all’impurità, alle passioni infami, in balia dei peccati della sua presunzione». Dio ha abbando­nato l’uomo: è l’opposto della fiducia. È qualcosa di più del sempli­ce “permettere”: Dio abbandona! Ecco perché la nuova traduzione del Padre nostro non sarà più “non c’indurre in tentazione”, ma “non ci abbandonare alla tentazione”. “Alla” non “nella”, perché nella versione in greco c’è l’accusativo. Un vescovo lo spiegava così: è come se Dio ci tenesse stretti, allora tu hai fiducia in lui perché ti tiene stretto e gli dici: «Papà, non mi mollare, non mi abbandona­re». È un’immagine stupenda. Il Padre nostro ti tiene dentro questa grande richiesta: non mi abbandonare alla tentazione, cioè non mi lasciare andar via, non mi lasciare solo, non mi dimenticare. Paolo dice: l’umanità è stata abbandonata da Dio al suo peccato non per­ché resti nelle sabbie mobili o nella polvere, ma perché Dio, avendo l’umanità provato quanto sia vaga la sua presunzione, possa tor­nare a riprenderla. Esclama allora: «Chi ci separerà dall’amore di Dio?» (cf Rm 8,35).

“Abbandonare” e “chi ci separerà” sono i temi su cui è incentrata la Lettera ai Romani. È Dio che dice: se tu confidi solo in te stesso, fi­nirai nelle sabbie mobili; se invece hai fiducia in Dio griderai: chi mi abbandonerà? Chi mi separerà dall’amore di Cristo? La tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada, il carcere, le tentazioni, le tribolazioni? No, niente di tutto questo.

 

1.5 Atti 27,13-44

Questa pagina degli Atti degli Apostoli viene letta poco, purtrop­po, ma è straordinaria. Rappresenta infatti un paradigma della vita: Paolo, caricato sulla nave, si ritrova tra mille peripezie presso l’isola di Malta. Paolo parte da Cesarea e arriva a Sidone; Giulio, il centu­rione che lo ha in custodia, avendo grande stima di quest’uomo, gli permette di scendere con un giorno di permesso. Paolo va a trovare la comunità cristiana di Sidone e ne riceve le cure: è un segno dol­cissimo. Poi risale e la navigazione arriva fino a Creta, dove bisogna decidere dove passare l’inverno, se all’inizio dell’isola di Creta – era un porto piccolo e inadeguato – o al termine dell’isola, dove sem­brava più opportuno. Paolo prende posizione e avverte: «Attenti bene, la navigazione è troppo rischiosa, pensateci su, siamo già in autunno inoltrato». Però il centurione non ascolta Paolo, né gli dà retta, ma ascolta il capo della nave e il capo dei marinai: «No, ci spostiamo dall’altra parte, il viaggio non è lungo, il tempo sembra buono, partiamo». Ed ecco che, ad un certo punto, la situazione si complica.

Analizziamo in questo passo come Paolo abbia vissuto un caso di non fiducia sul piano oggettivo, come cioè si sia trovato a gesti­re una situazione difficile. «Appena cominciò a soffiare un leggero scirocco, convinti di potere ormai realizzare il progetto, levarono le ancore e costeggiarono da vicino Creta, ma dopo non molto tem­po si scatenò contro l’isola un vento di uragano che si chiamava Euroaquilone… La nave fu travolta nel turbine e, non potendo più resistere al vento, abbandonati in sua balia andavamo alla deriva» (cf vv. 13-15). Si capisce bene come questo passaggio rappresen­ti un paradigma della vita. «Mentre passavamo sotto un isolotto chiamato Caudas, a fatica riuscimmo a padroneggiare la scialuppa; la tirarono a bordo, adoperarono gli attrezzi per fasciare di gómene la nave. Quindi per timore di finire incagliati nelle Sirti, (che era la parte africana del mare), calarono il galleggiante e si andava così alla deriva. Sbattuti violentemente dalla tempesta, il giorno seguen­te cominciarono a gettare a mare il carico; il terzo giorno con le proprie mani buttarono via l’attrezzatura della nave. Da vari giorni non comparivano più né sole, né stelle (situazione estrema di non-fiducia), e la violenta tempesta continuava ad infuriare, per cui ogni speranza di salvarci sembrava ormai perduta» (cf vv. 16-20).

Ho voluto chiudere con questa pagina straordinaria, perché pos­siamo imparare da Paolo come vivere i momenti in cui sembra che non ci sia più niente da fare, non ci sia più fiducia. Che fa Paolo? Possiamo individuare cinque passaggi: prima di tutto ammonisce, ma non lo ascoltano. Allora comincia a pregare: «Signore, è vero, non hanno ascoltato me, ma devono ascoltare te. Devi essere tu a salvarci». È l’intercessione silenziosa, frutto della fiducia. Pensate a chi guida una comunità, a un vescovo, a un prete. Spesso le parole non bastano. Allora la preghiera: affido a te la mia comunità, affido a te questo fratello, questa sorella. L’intercessione silenziosa ti per­mette di sentire… Questo dice Paolo: «Il Dio al quale appartengo e che servo mi ha detto: “Non temere, Paolo, tu devi comparire davanti a Cesare, ed ecco Dio ti ha fatto grazia di tutti i tuoi com­pagni di navigazione”. Perciò, non perdetevi di coraggio uomini, ho fiducia…» (cf vv. 23-25). Ho fiducia! Non lo dice perché tutto va bene ma in un momento tragico, quando nessuno sa più come fare ad uscire fuori da questa situazione di disastro della nave, lui si alza in piedi ed esorta – ecco il terzo elemento – la comunità a non perdersi d’animo.

È quello che dobbiamo fare in questo periodo di crisi, non per un motivo di interesse, né governativo, ma per un motivo di fede. Dobbiamo dire come ha detto il Papa a riguardo: forse il Signo­re vuole che cambiamo e recuperiamo il voto di povertà, castità e obbedienza, lo slancio, lo zelo dei nostri preti, l’entusiasmo delle suore, la passione con cui Paolo guarda la realtà. Ho fiducia, ma non perché le cose vanno bene: «Ho fiducia in Dio che avverrà come mi è stato annunziato» (cf v. 25). Ecco, però, «come giunse la quattordicesima notte – quattordici notti di disperazione – quan­do andavamo alla deriva nell’Adriatico, verso mezzanotte i marinai ebbero l’impressione che una qualche terra si avvicinava. Gettato lo scandaglio trovarono venti braccia – quaranta metri –; dopo un bre­ve intervallo, di nuovo quindici braccia. Nel timore di finire contro gli scogli gettarono da poppa quattro ancore, aspettando con ansia che spuntasse il giorno. Ma poiché i marinai cercavano di fuggire dalla nave…» (cf vv. 27-30a). C’è sempre chi nella crisi cerca le soluzioni di fuga individualistiche e la fuga è l’opposto della fidu­cia. Guai alle soluzioni individualistiche. Guai a pensare alla propria salvezza senza badare a quella della comunità: «Io esco da questa comunità, la lascio!»… quante volte ho sentito questa frase. Paolo interviene e dice al centurione: «Se costoro se ne vanno, voi non potrete mettervi in salvo». Decidono allora di recidere le gómene e di lasciar cadere in mare la scialuppa. Tagliano le vie di fuga. Paolo non si dimostra solo intelligente, ma anche coraggioso. È anche uno stratega, non solo un buonista. È necessario vigilare attentamente sulla comunità: bisogna avere occhio, non solo cuore; avere la ca­pacità di guardare l’insieme dei problemi.

Il racconto di Paolo continua: «Finché non spuntò il giorno, egli esorta tutti a prendere cibo: “Oggi è il quattordicesimo giorno che passate digiuni nell’attesa, senza prendere nulla. Per questo vi esorto a prendere cibo; è necessario per la vostra salvezza – è un’immagine eucaristica –, nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto”» (cf vv. 33-34). È la stessa frase di Gesù. «Prese il pane, rese grazie a Dio davanti a tutti» (cf v. 35): in un momento di crisi, di difficoltà, di disperazione, lo spezza e comincia a mangiare per primo, e dietro di lui tutti si sentono rianimati e prendono cibo. «C’erano su quella nave duecentosettantasei persone» (cf v. 37). Il resto del brano lo conoscete, è cronaca; e arrivano a destinazione.

Dai cinque passaggi fin qui descritti, possiamo trarre altrettanti preziosi insegnamenti:

1- il consiglio rispettoso: dite sempre il vostro parere, in un mo­mento difficile della comunità, in un momento di non fiducia;

2- quando non siete ascoltati, sappiate intercedere silenziosamen­te nel vostro cuore con la preghiera. Dove non arrivi tu, arriva la mano di Dio;

3- sappiate sempre esortare in piedi, con fiducia nei confronti di un Dio che nella difficoltà ci viene a salvare;

4- sappiate però vigilare attentamente, perché nulla vada perduto, perché non ci siano le fughe individualistiche;

5- sappiate celebrare in maniera liberante nell’esperienza stessa di Dio.

 

In questo periodo la neve è caduta abbondante in Molise e mi ha fatto riflettere sull’agire di Dio. La neve infatti è silenziosa, quando arriva non te ne accorgi, però trasforma tutto; è piena di fascino e riesce a rendere anche più belle le cose; infine, quando si scioglie, un po’ alla volta, feconda anche il terreno più arido. Così è anche la vocazione, perché così è l’agire di Dio: Dio è silenzioso, è rispettoso, non fa rumore, non fa chiasso, però, quando entra nella storia di una persona, la cambia radicalmente, da carbone la fa diventare diamante. Chi ha incontrato Dio è capace di fecondare ogni terra.

 

Domande

Suor Carmela da BresciaA volte la fiducia manca perché non sap­piamo riconoscere questa “discesa abbondante” dell’opera di Dio – questa neve che scende copiosa, che cambia, che feconda – nella vita nostra e di colo­ro che accompagniamo. Oltre allo strumento molto importante della direzio­ne spirituale, quali altri strumenti ci possono aiutare a purificare lo sguardo, per riconoscere l’opera di Dio che continua a scendere abbondante?

L’immagine della neve è molto efficace, mi ha aiutato spesso in questo periodo: silenziosa, ma ben visibile e fecondante. Credo che la direzione spirituale sia decisiva: benedetto chi ha un buon padre spirituale! Tutti i santi hanno avuto un padre spirituale esigente, ma anche intelligente, come lo chiedeva Santa Teresa d’Avila, e il suo compito non è sostituirsi all’altro. Attenti a non citarlo troppo, per­ché spesso è comodo; non si deve andare ad esempio dalla madre superiora a dire: «Il mio padre spirituale mi ha detto di fare così…», perché può diventare veramente uno strumento che non aiuta a crescere e spesso crea ostacoli alla comunità. Il padre spirituale, in­fatti, non mi dice quello che devo fare, ma mi aiuta a leggere i fatti nella mia vita con gli occhi di Dio, a purificare i miei occhi, come ha fatto Anania con Paolo. Se il padre spirituale ti aiuta a purificare lo sguardo e tu, nella tua coscienza maturata, cogli questo cammino, allora ti accorgi che veramente è prezioso, indispensabile.

Credo ci siano altri tre strumenti: prima di tutto gli occhi dei po­veri. Ricordate che Paolo, quando scrive e descrive la sua vita agli anziani di Efeso, afferma che al suo mantenimento hanno contri­buito le sue mani e cita una frase stupenda di Gesù: «C’è più gioia nel dare che nel ricevere». È un momento decisivo: un ragazzo che entra in questa logica, che capisce che la vita è più bella nel dare che nel ricevere ha già intuito che la vita è fiducia: non dai perché ricevi, ma dai perché sei pieno dell’agire di Dio dentro di te. Quindi i poveri sono un altro degli strumenti che aiutano a purificare gli occhi.

Poi i colori della vita, lucidi o tristi: la vita è tutta un inno all’espe­rienza di Dio. Lasciatevi incantare dall’agire di Dio, che “opera in parole ed eventi intimamente connessi”, come dice la Dei Verbum al numero 2.

Il terzo elemento è lo stupore: pensate alla bellezza di un sor­riso, quanto è accattivante l’ottimismo, quanto è prezioso sentire un prete che, nonostante le difficoltà di salute, non punta mai al negativo, ma entra nel gioco positivo della vita.

Tre cose: i poveri (c’è più gioia nel dare che nel ricevere), i colori della vita, che sono tutti armoniosi come i colori dell’arcobaleno e lo stupore di fronte a tutte le situazioni. La fiducia è stupore, la fidu­cia crea lo stupore. Non per nulla Giovanni Paolo II, quando scrisse l’enciclica sull’Eucaristia – che è una delle fonti decisive della nostra vita – disse: «Ho scritto questa enciclica per ridestare lo stupore». Quanto sarebbe bello poter anche noi ridestare lo stupore nei nostri occhi per ridestarlo poi nei ragazzi, nelle mamme, nei giovani!

 

Don Ezio di LivornoChiedo un parere. Mio nipote è un semina­rista, ogni tanto viene a trovarmi e mi racconta le sue esperienze. Un suo compagno di scuola gli ha chiesto: «Che lavoro fai?». «Sono in seminario». «Che lavoro è il seminario?». Penso che ci vogliano altre due cose per avere fiducia. La prima è la conoscenza: devo conoscere la bellezza! La seconda è la costanza: la fiducia ha bisogno di costanza. Perché il CNV non fa qualche cosa che colpisca? Perché non cerchiamo di utilizzare anche il mezzo del cinema da diffondere nelle parrocchie? Come si fa a rispondere ad una vo­cazione se non si conosce la bellezza di questa chiamata?

“Ho fiducia in te, perciò anch’io ho fiducia” e potremmo aggiun­gere un’altra frase: “Io ho fiducia nell’altro, in chi mi sta accanto”, perché la fiducia nell’altro è proporzionata alla fiducia che io ho ricevuto da Dio e di cui, consapevolmente, sono rivestito anche nei momenti difficili e anche di fronte alla constatazione della secola­rizzazione del nostro mondo.

Credo che oggi, per tanti aspetti, le persone non sappiano mol­to di alcuni argomenti, però sanno apprezzare: sono convinto che nel dialogo suo nipote avrà ottenuto la stima dell’amico quando quest’ultimo avrà capito la sua grandezza d’animo nello scegliere questa strada. È vero che è un mondo difficile e strano, ma pensate per esempio a tutte le iniziative di questo periodo, a quanti luoghi di lavoro, un tempo inaccessibili, oggi hanno aperto le porte ai preti e ai vescovi (Torino, Prato…); a quante situazioni, un tempo ostili alla fede, o comunque difficilissime, oggi si aprono ad essa perché si avverte che la parola del vescovo o del sacerdote è portatrice di qualcosa che nessun altro ha più. Mai come oggi, in questa crisi, noi possiamo pronunciare delle parole vere, se, ovviamente, le ac­compagniamo con un tono convincente ed entusiasta e con una vita coerente e dignitosa. Non dobbiamo metterci tra i corifei dei vittimisti, dei pessimisti: io sono molto fiducioso, perché proprio in un momento come questo l’uomo si accorge che ha bisogno di qualcosa di più, di orizzonti più grandi, di risposte più vere. Non preoccupiamoci, poi, se le accolgono o meno: non tocca a noi! Noi abbiamo oggi la possibilità di stare vicino soprattutto a chi soffre di più, a chi fa più fatica a sperare.

 

Alessandro di Novara, seminaristaCredo ci sia una crisi anche nella Chiesa: crisi vocazionale, chiese vuote. Credo si dia eccessiva colpa alla società, al mondo che è cattivo, ai giovani che non sono più quelli di una volta. Perché non pensiamo invece che Dio ci sta dicendo qualcosa, che vuole purificarci dalle nostre sicurezze presuntuose? Lei cosa ne pensa?

È vero, il mondo è molto cambiato. Dio ci sta purificando per passare dalla sicurezza presuntuosa ad una fiducia filiale nelle sue mani, cioè da quello che noi credevamo di fare cambiando il mon­do – e abbiamo visto che tante volte abbiamo gettato la rete, ma non abbiamo preso nulla e ora la notte è diventata carica di pau­re – al rilancio della rete, non per le nostre forze, ma per la mano di Dio. Questo richiede più tempo per il Signore, più tempo per la preghiera, forse meno attivismo, più speranza, più fiducia nella gente, più ascolto dei problemi umili, quotidiani; più sorriso, meno voglia di riuscire, meno giudizi. Suggerisco ai sacerdoti tre verbi: in questo momento, mai imporre, ma sempre proporre, non tacere. Non vincere, ma convincere: il convincere è la fiducia, il vincere è la prepotenza; non giudicare, ma analizzare, cioè capire i problemi. Allora veramente tutto quello che stiamo vivendo può aiutarci a recuperare l’immagine di una Chiesa più conciliare, più leggera, più povera, più vicina alla gente, più semplice, meno angosciata, fatta meno di paramenti e più dei segni che Dio ci manda.

 

Don Luca di SiracusaRicordo una sua omelia fatta nell’anno 1984-85 al Santuario della Madonna delle lacrime a Siracusa. Lei chiese perdono alla Madonna. Mi colpì tanto perché chiese perdono per aver guar­dato con scetticismo quel pianto della Madonna nei suoi anni di teologia. Era tornato perché nel cuore sentiva il dovere di chiedere perdono. Mi pare proprio questo il passaggio dalla sicurezza alla fiducia. Mi chiedo, dunque, se sia possibile che ci fermiamo sulle paure, che cerchiamo cioè di scoprire nelle paure il germe della fiducia… È possibile che noi educatori, sacerdoti, suore, sostiamo all’interno delle paure per cercare in queste il tesoro della fiducia?

Il riferimento è ad un episodio del ’68 che ho vissuto con molta intensità e drammaticità. Eravamo in vacanze lavorative a Catania per costruire una chiesa e come seminaristi eravamo scesi da Vero­na e Trento. Un giorno andammo a Siracusa e il gruppo si divise in due: chi voleva andare all’anfiteatro e all’orecchio di Dioniso, e chi invece scelse la Madonna delle lacrime. Io mi unii al gruppo diretto all’anfiteatro e vi dico che nel rifletterci, poi, mi resi conto che die­tro c’era proprio quella presunzione tipicamente sessantottina, con tutti i pregi – il coraggio, ad esempio – e i difetti di quell’esperienza. Ritornando a Siracusa, su invito gentilissimo del Vescovo, Mons. Costanzo, raccontai questo episodio che certamente fece un po’ di impressione, perché fu molto sincero e perché capii che le lacrime – ecco il senso della domanda – sono probabilmente lo strumento più grande che Dio ci manda per manifestare, sì, le nostre paure, ma anche per aiutarci a non restare dentro la logica delle paure.

A proposito di lacrime, desidero raccontarvi un aneddoto su Santa Teresa di Calcutta. Un fotografo voleva fotografare gli occhi di Madre Teresa. Erano occhi azzurri bellissimi e luminosi, il volto invece era emaciato e carico di rughe. Il fotografo voleva realizzare un primo piano, ma avvicinandosi fece rumore; le consorelle della Madre lo rimproverarono per il disturbo che stava arrecando. Lui, arrossendo, si scusò e chiese di poter fotografare gli occhi della don­na. Madre Teresa ascoltò, lo chiamò e gli disse: «Lei vuole sapere perché i miei occhi sono così belli? Perché le mie mani asciugano tantissime lacrime dagli occhi degli altri».

Questa è la risposta. Se le paure ti chiudono o ti rinchiudono, ne resti vittima; se invece aiuti l’altro a ripulire i suoi occhi, ad asciu­gare le lacrime che nascono spontanee, allora le lacrime e le paure non impediscono di vedere Dio, anzi, possono liberarci verso un’im­magine più limpida e più tersa del cuore di Dio. Ma devono essere occhi purificati da un gesto d’amore nei confronti dell’altro, non nei confronti di noi stessi. Guai se un seminarista o una novizia si preoccupano soltanto di se stessi, perché allora affondano. Ecco per­ché è importante incontrare i poveri, i piccoli, come ci ha insegnato Madre Teresa: perché quando asciughiamo gli occhi degli altri – è la frase di Paolo – c’è più gioia nel dare che nel ricevere (At 20,35).

 

Don Dino di AlbaSpendiamo una parola per aiutare gli operatori della pastorale vocazionale. La pastorale vocazionale la si deve anzitutto esplicare nella pastorale ordinaria, non nelle cose eclatanti e straordinarie. Come fare ad essere maggiormente d’aiuto soprattutto ai sacerdoti scorag­giati e sfiduciati, affinché si rendano conto che non si tratta di aggiungere qualcosa di più nella pastorale che già c’è, ma di avere quest’attenzione e questa sensibilità in tutta la pastorale ordinaria?

Questo intervento ci dà la lettura più corretta del nostro stile, che è chiaramente lucida ai nostri occhi. Il problema è come fare. Io credo che occorrano tre cose.

Primo elemento: non puntare mai sulla dimensione quantitativa delle cose ma sulla dimensione qualitativa, perché non sono i nu­meri che fanno il regno di Dio.

Secondo: essere contenti dei piccoli passi che si fanno. Non dite mai “tutto qui”, ma “da qui, in piccolo, io parto per il grande”, come ci ha insegnato Gesù bambino. Non è il grande che fa il piccolo, ma il piccolo che cambia il grande. Dobbiamo dunque valorizzare i pic­coli passi quotidiani, sottolineandone la bellezza, la gioia, la grazia di una presenza.

Terzo elemento: avere sempre davanti il fascino dei santi. Per­ché il diamante ha affascinato San Giovanni Crisostomo? Perché a sua volta lui stesso – lo dice chiaramente – guardava i santi come modelli. Non guardate mai le cose così come sono ora, ma sappiate intravedere ciò che saranno. Avere davanti Paolo, avere davanti i santi. Giorno per giorno l’Ufficio delle Letture ci consegna perle preziose, ad esempio una frase di Gregorio nel periodo in cui lui e Basilio si trovavano all’Università di Atene nel 350: «Pur essendo consapevoli che la Sapienza è eccitatrice di invidia, tra noi due nes­suna invidia, ma invece la emulazione». Cos’è l’emulazione? Non la gara per essere il primo, ma per permettere all’altro di esserlo. In questo risiede lo spirito della vita comunitaria. Ogni giorno c’è una perla. Bisogna sempre tenere grandi ideali davanti a sé, ma è neces­sario fare anche piccoli passi, gioiosamente vissuti.

Un’ultima cosa: quando visito le classi, vado alla lavagna e la divido in due con il gesso Da una parte scrivo una parola che piace tanto ai ragazzi: “sogno”. Per instaurare un dialogo con i ragazzi ba­sta chiedere loro: qual è il tuo sogno?… Dall’altra scrivo una parola quasi uguale, cambiando solo una vocale: segno. Sogno-segno. La vita è fatta di sogni alti e luminosi e di segni coerenti e progressivi: è come comporre un puzzle. Allora dico ai ragazzi: abbiate sempre un sogno alto, come i seminaristi, ma abbiate dei segni coerenti e chiari con i quali costruirlo.

Bisogna avere sempre davanti l’ideale, mantenerlo sempre alto, ma poi realizzare segni coerenti, progressivi, adagio adagio, che dia­no colore e calore a ciò che si fa. E la pastorale ordinaria, a piccoli passi, costruisce il grande sogno di Dio.

 

Don Giuseppe da IglesiasMi permetto di fare una precisazione che deriva dai miei studi, essendo laureato in geologia. Vorrei riprendere la metafora del carbone e del diamante: è vero che sono entrambi costituiti di carbonio, però il carbone è una roccia e il diamante è un minerale e sono due cose completamente diverse, nel senso che non può avvenire la trasformazione dall’uno all’altro. Non dico questo soltanto per una oziosa precisazione scientifica, ma perché il diamante e il carbone diventano tali per un solo motivo: per il fatto che hanno storie diverse. Entrambi, proprio per il fatto che sono due realtà diverse, devono essere apprezzati per quello che sono e il diamante non è meglio del carbone!

Penso che dovremmo essere capaci di vedere la fiducia non soltanto nell’accettare pazientemente la nostra storia passata, ma anche nell’acco­gliere con pazienza la nostra storia futura, quello che viene dalle mani di Dio. A noi piacerebbe una vita secondo parametri nostri: senza crisi, pro­blemi, malattie… però sappiamo che questo non fa parte della vita. Nella vita ci sono anche queste cose e nella misura in cui sappiamo pazientemente accoglierle, diventano motivo di grazia, ci trasformano in quello che il Si­gnore vuole; se vuole che diventiamo diamante, in diamante, se vuole che diventiamo carbone, in carbone.

È vero che il carbone non può diventare un diamante, l’esempio, quasi poetico, voleva rappresentare metaforicamente la chiamata di Paolo. Però è davvero interessante e profonda questa attualizzazio­ne del tema e completa quello che fin qui è stato detto. L’esempio dell’uso del diario rientra in questa logica: ci aiuta infatti a cogliere la realtà, giorno per giorno, con le sue fatiche, così com’è e non come la vorremmo. È altresì vero che sia il diamante che il carbone sono preziosi: non bisogna mitizzare una perfezione assoluta, quasi artificiosa, ma bisogna saper scorgere la perfezione che ognuno dà in quello che è. Farò grande tesoro di questa precisazione, perché completa l’immagine che ho scelto: anche ai giovani delle scuole ora saprò dire qualcosa di più scientificamente provato…!

 

Simona, SardegnaLei parlava del fallimento come di una strada verso la maturazione. Come far accettare questo, quando la nostra società è portata a nascondere il fallimento o a negarlo oppure ad utilizzare la logica del tappeto: si mette tutto sotto per non farlo vedere. I nostri ragazzi sono influenzati da questa logica. Come valorizzare, quindi, il fallimento come strada verso la maturazione?

È una domanda molto acuta, credo che molti di voi se la siano sentita porre dai giovani mille volte. I Padri Stimmatini, alla cui Congregazione appartengo, hanno come carisma il vangelo dell’in­contro di Tommaso apostolo con Gesù. Quel Tommaso escluso il giorno in cui Gesù apparve la sera di Pasqua. Tommaso non c’era: vi immaginate la rabbia che avrà provato? Ma possibile che non mi abbia aspettato, possibile…? Lancia una sfida: io voglio mettere le mani dentro le ferite, le fragilità, i fallimenti della vita, perché – dice – solo se vedo io credo. E Gesù accetta e gli dice otto giorni dopo: vieni! Lancia questi tre verbi: guarda le mie mani, stendi la tua mano, mettila nel mio costato. Guarda, stendi e metti. Sant’Agosti­no vedeva in questo episodio un itinerario di fede: guarda, la con­templazione; stendi, il gesto dell’abbraccio; metti, entra dentro le ferite. E Tommaso fa questo gesto: guarda Gesù, stende la mano e la mette dentro il suo costato. In quel momento le ferite di Gesù si aprono, attraverso la forza dello Spirito Santo, che viene donato nella sera di Pasqua, e lo Spirito apre le ferite e le rende – questa è una frase della Dominum et vivificantem – non più ferite, ma “feritoie” di grazia.

Questa è la fede: passare dalle ferite alle feritoie. Gesù non nega le ferite, le custodisce, le mantiene, restano nelle sue mani, nei suoi piedi, nel suo costato, le tiene sempre, ma non sono più ferite san­guinanti, sono lette attraverso la forza dello Spirito Santo, la forza

 

Note

[1] Testo non rivisto dall’Autore