N.04
Luglio/Agosto 2009

«Non padroni ma collaboratori della vostra gioia» (2Cor 1,24)

La crescita umana e spirituale del giovane nella relazione di accompagnamento

Le parole di Paolo ci ricordano che accompagnare non significa essere padroni, ma collaborare all’interno di un mistero, quello della vita della persona accompagnata, una vita che si muove dentro un senso, a cui il cristiano dà il nome vocazione. Questo sen­so, dunque, non si esprime attraverso la risposta ad un imperativo morale o ad un significato soggettivamente scelto perché ritenuto importante, valido, dall’individuo stesso. Esso viene scoperto, rice­vuto, all’interno di una relazione personale, nasce dall’incontro con un Volto riconosciuto nella sua importanza, con una Parola capace di dare significato alla nostra vita. Pensiamo all’esperienza di Paolo sulla via di Damasco, folgorato dalla luminosità del Volto del Risor­to, interpellato dalla sua Voce a porsi la domanda che avrebbe dato una svolta radicale alla sua vita.

L’incontro con questo Volto, e l’ascolto di questa Parola sono favoriti dal rapporto con un accompagnatore, con un Anania o un Barnaba che, affiancandosi alla persona, ne sollecita la crescita in due dimensioni fondamentali dell’esistenza, evocate dall’immagine del Volto e della Parola. Crescita nella recettività, come capacità di accogliere nella propria vita la Presenza di un Altro, che si rivela e si fa spazio in noi, pur senza imporsi ed esigere nulla; sviluppo anche nella dimensione complementare, nell’attività, che impegna, spinge a decidere, ad agire, a dare un orientamento al nostro cammino.

La presenza dell’accompagnatore, quindi, è in funzione di que­sto itinerario interiore di maturazione, necessario per un’accoglien­za sempre più piena, un’adesione sempre più totale alla Presenza di Colui che, solo, può dare significato al nostro vivere.

Questa crescita, soprattutto nel passato, si configurava nell’im­maginario comune come una scalata, una sorta di “alpinismo spiri­tuale”, con cui, attraverso un encomiabile impegno della volontà, ci si illudeva di raggiungere la cima, vale a dire la perfezione, sovente pensata in termini etici, morali. Ora preferiamo considerare tale per­corso in termini diversi, come il frutto di una sinergia espressione cara alla New-Age, ma anche ai Padri della Chiesa – tra dimensione spirituale e dimensione psicologica, presenti in noi. Senza togliere nulla all’importanza dell’impegno e della volontà, questo cammino di maturazione è forse meglio descritto attraverso l’immagine del­la collaborazione tra forze appartenenti ad ambiti diversi, che come frutto di un impegno mirato al raggiungimento di un bene. Di con­seguenza, accanto al termine lotta, malauguratamente non più di moda, la cui importanza non deve essere sottovalutata nel cammino psicologico-spirituale dell’individuo, dovremo accostare l’idea del fare spa­zio, del lasciare agire, del permettere alle forze positive presenti in noi di collaborare con lo Spirito Santo, che ci abita e orienta il no­stro cammino verso Dio.

Le parabole del seme del Vangelo di Marco predispongono l’ac­compagnatore ad operare in questa duplice direzione: quella del lavoro serio e impegnativo, ma non immediatamente finalizzato al raggiungimento di una meta, bensì diretto a preparare un terreno capace di accogliere una forza che, seminata nella terra adatta, pro­durrà in modo del tutto inatteso. Una forza che non viene da noi, ma che siamo in grado di accogliere, custodire e far germogliare. Nel medesimo tempo queste stesse parabole invitano ad una fiducia abitata dalla consapevolezza del mistero.

È il mistero del cuore di chi accoglie, ma anche della forza segre­ta e sempre vitale del seme, capace di germogliare sia che si dorma sia che si vegli, e di crescere ben al di là di ogni nostra possibile aspettativa: «Nell’anima umana aperta a Dio – scrive Matta El Me-skin – i principi di forza, di leggerezza dell’essere, di libertà e d’amor puro sono illimitati, suscettibili di crescere, di svilupparsi e di perfe­zionarsi all’infinito, continuando ad attingere da Dio questi attributi e queste qualità»[1].

Se parliamo di crescita, dunque, parliamo di un processo in evo­luzione, in cui riconosciamo una finalità, una meta e dei dinami­smi. Sarà dunque importante che l’accompagnatore sia attento a riconoscere la presenza di queste forze nel giovane, per incremen­tarle, renderle dinamiche, attive, vitali e, di conseguenza, orientate al raggiungimento della meta.

La nostra riflessione odierna si soffermerà quindi proprio su questo tema, per offrire criteri di discernimento e presentare alcuni settori dello sviluppo umano-spirituale, che dovrebbero essere og­getto di particolare attenzione.

 

La capacità di trascendenza

Un primo ambito da “dinamizzare”, da rendere quindi vivace, attivo, libero, per orientare la vita verso il Signore, è la capacità di trascendenza. Utilizzo questo termine in senso tecnico, psicologico, intendendo riferirmi alla spinta che orienta l’essere umano al di fuori di sé, alla tendenza che lo induce al superamento, all’andare al di là di se stesso. Essa è all’opera negli ambiti più diversi della cre­scita umana, come principio che permette all’interiorità di dilatarsi per tendere verso gli altri, di innalzarsi per andare a Dio. È presente anche all’interno della dinamica evolutiva dell’Io: per vivere la vita come un’esistenza che ha in sé un significato, è infatti necessaria la percezione di una distanza tra l’Io Reale, ciò che io sono in questo momento, e l’Io Ideale, l’immagine di me verso cui tendo e che mi supera, mi trascende.

Ogni cammino vocazionale, inteso in senso ampio, deve di con­seguenza conoscere la lotta interiore che nasce dallo sperimentare il divario tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere, un divario fat­to di slanci e frustrazioni, di desideri, ambizioni, ma anche di umile accettazione o di delusioni cocenti. Paolo è maestro nell’educarci a questo equilibrio tra consapevolezza della propria “grandezza” e umile riconoscimento della propria fragilità (cf 1Cor 15,8-10). Ciò implica una conoscenza adeguata del proprio Io, con le sue qualità e debolezze, e la presenza di un ideale realistico, le cui aspirazionisiano veramente tali, trascendano cioè il livello in cui la persona si trova e siano contemporaneamente proporzionate alle sue reali capacità. La giovane convinta che la sua vocazione sia il matrimo­nio, perché Dio le ha affidato il compito di “salvare” il suo ragazzo caduto nella rete della droga, presto si scoprirà incapace di rimanere all’altezza delle attese nutrite nei confronti di se stessa. Le sue aspi­razioni si trasformeranno in delusione, fatica, talvolta anche aggres­sività. Lo stesso vale per il giovane che vuole entrare in monastero senza aver fatto l’esperienza della rinuncia e dell’ascesi: abituato a farsi servire, ad avere “tutto”, a gratificare ogni bisogno, troverà eccessivamente frustranti le richieste implicite in una vita sobria e austera. Ancora una volta l’aspirazione irrealistica, sproporzionata, lascerà spazio alla frustrazione, che si esprimerà come rabbia, ribel­lione o fatica, delusione, fuga.

 

Un cammino di purificazione

La trascendenza non implica solo la presenza di una distanza rea­listica e adeguata tra l’Io Reale e l’Io Ideale; essa comporta anche la costruzione e lo sviluppo di una relazione in cui l’Altro non rappre­senti la semplice proiezione di bisogni psicologici, spesso primitivi, ma sia vissuto veramente come Altro-da-Sé. Una vera vocazione ha quindi come premessa la capacità di trascendenza, intesa come pos­sibilità di percorrere un cammino di purificazione rispetto alle aspet­tative, a quanto ci attendiamo da Colui con cui siamo entrati in re­lazione, a ciò che ci impedisce di scoprire il suo vero Volto, di essere veramente suoi discepoli. Il Vangelo di Marco ci presenta in modo evidente l’itinerario che ognuno di noi, come Pietro e gli apostoli, è chiamato a percorrere nella comprensione della sequela e, prima di tutto, nella percezione di chi davvero sia questo Messia, dietro al quale anche noi vogliamo camminare. Esso ci indica come ogni vo­cazione richieda una purificazione dell’immagine di noi stessi dalle aspirazioni grandiose e dagli atteggiamenti autoprotettivi, che im­pediscono di cogliere il vero Volto di Colui che è venuto a salvarci: Volto di un Dio fatto uomo e morto per amore e, dunque, Volto di Colui che ha rifiutato di percorrere la strada della gloria, del succes­so, del potere, a cui spontaneamente il nostro Io vorrebbe aderire.

Si colloca a questo livello un importante intervento dell’accom­pagnatore, atto a smascherare le false immagini di Dio, nascoste tra le pieghe dell’esperienza spirituale dell’accompagnato: distorsioni non sempre visibili in modo immediato, ma a cui bisogna prestare particolare attenzione, perché quando quel Volto tanto cercato e desiderato si manifesta semplicemente come la proiezione di un de­siderio o il riflesso di una paura, l’esperienza spirituale si rivela del tutto inconsistente.

 

La dinamica del decentramento

Un altro dinamismo fondamentale nella crescita spirituale e umana porta il nome di decentramento, esperienza che Paolo ha ri­conosciuto presente, in una misura che mai nessun uomo potrà raggiungere, nel Mistero dell’Incarnazione e Passione di Cristo, nel­la sua kénosi. La vocazione, infatti, come ogni cammino evolutivo, mentre spinge la persona al di fuori di sé, per l’incontro e l’acco­glienza dell’Altro/altro, chiede anche all’Io di imparare a mettersi da parte. La costruzione della propria identità, lo sviluppo di un Io solido, capace di affrontare e accogliere la vita, non si realizza at­traverso il passaggio da godimento a godimento, da gratificazione a gratificazione, come gli psicologi dell’autorealizzazione suggeri­scono. La soddisfazione dei bisogni, in particolare di quelli primari a livello sia fisiologico sia psicologico, benché fondamentale, non è tuttavia sufficiente per garantire la solidità dell’Io e, di conseguenza, la sua capacità di tendere verso mete significative. In ogni ambito dello sviluppo umano, a livello psicologico, quindi, come in ambito spirituale, la persona deve imparare a mettersi da parte, a decen­trarsi. Ce lo insegna lo sviluppo intellettuale, fin dai suoi albori: il bambino, per cercare l’oggetto nascosto, deve andare al di là della sua esperienza personale di ciò che vede o tocca, deve imparare a cercare ciò che non sperimenta con i sensi.

In questo passaggio dal soggettivismo al prospettivismo, secondo le teorie di Jean Piaget, in questo processo di decentramento dell’Io, troviamo uno dei requisiti essenziali per lo strutturarsi di un’identi­tà solida, capace di tendere verso un ideale, di mettersi alla sequela del Signore.

Scopriamo così che lo sviluppo umano mette in moto dinamismi psicologici che possono entrare in sinergia con l’azione dello Spirito Santo, operante dentro di noi. Tali dinamismi agiscono in funzione del superamento del narcisismo iniziale e aiutano a scoprire che crescere significa anche cedere, riconoscere il limite, ammettere di non essere onnipotenti. Crescere è accettare se stessi così come si è, la spina nella carne (2Cor 12,7) costituita dalla nostra fragilità, con il desiderio di migliorare, certo, ma anche con la consapevolezza di non poter diventare ciò che si vorrebbe. È rendersi conto di non esercitare un potere totale su noi stessi, né sull’aspetto fisico né sul carattere. Questo percorso mette in risalto la sinergia, la possibile collaborazione tra il livello psichico della nostra persona e la voce dello Spirito, che chiama ognuno di noi e orienta il cammino uma­no. È come la preparazione di quel terreno, cui accennavamo in precedenza, dove il Padre spargerà un seme chiamato a fruttificare il trenta, il sessanta, il cento per uno, se lo si libererà dagli ostacoli che ne impediscono la maturazione.

 

Vivere la relazione

La presenza di una dinamica del decentramento è inoltre indispen­sabile per vivere quell’esperienza umano-spirituale fondamentale, che è la relazione. Essa rivela un’esigenza intrinseca allo sviluppo umano: il mettersi da parte. Si cresce facendo spazio in sé al volto di un altro, accettando che non sia come lo vogliamo noi, adeguan­dosi alla sua volontà, imitando le sue qualità; si matura superando l’autonomia che ci vorrebbe completamente indipendenti, facendo posto in noi ad un numero sempre maggiore di persone, legando la nostra felicità a qualcuno, accettandolo così come è, anche con quanto può esserci di peso, spaventarci, o con ciò che si oppone ai nostri desideri e alla volontà personale.

Nel processo di crescita dell’identità è dunque inscritta quella legge che il Battista ha scoperto nel proprio cuore quando, invece di percepire Gesù come un rivale, un nemico, uno che veniva a “portargli via il posto”, si è lasciato interrogare dalla sua persona: egli ha allora riconosciuto la propria identità come quella di un Io la cui vita ha senso in riferimento a, come la voce che rende percepibile la Parola, come colui che è chiamato a diminuireperché l’altro possa crescere (Gv 3,30).

Questo processo di decentramento implica indubbiamente un cammino lento e progressivo. Gesù stesso è stato un Maestro sa­piente per la capacità di proporre gradualmente il proprio messag­gio, nell’equilibrare in modo armonico il fascino di una vita spe­sa per Lui e la fatica della sequela, nel ricordare che il perdersi e il dimenticarsi non costituiscono il fine ultimo del seguirlo, ma il mezzo per raggiungere una pienezza di vita, una vita abbondante (cf Gv 10,10). Si tratta però di un mezzo, di una capacità indispen­sabile, di una premessa fondamentale per poter accogliere il dono della vocazione, di ogni vocazione. Non riscontriamo diversità fra chiamata al matrimonio, al sacerdozio, alla vita consacrata: ogni cammino richiede un Io capace di decentrarsi, di mettersi da parte per incontrare l’Altro/altro. L’invito da parte di Gesù a perdere la propria vita per ritrovarla (cf Afe 8,35) vale anche come legge fondamentale dello sviluppo umano. L’alternativa è l’aggrapparsi alla vita, nel tentativo, in partenza fallito, di trattenerla per sé; soluzione rovinosa, come testimonia l’infelicità che accompagna ogni forma di narcisismo. Scrive p. Rupnik che noi pensiamo che «per salvare, occorre custodire, trattenere nelle mani. Se tu vuoi conservare una cosa preziosa, la chiudi nello scrigno più nascosto della camera. È la parabola dei talenti. Dato che il padrone raccomanda di non per­derli, il servo li sotterra, li mette nel posto più sicuro, e così finisce per perderli. L’uomo ha sempre l’idea che per salvare sia necessario trattenere»[2].

Il trattenere è l’atteggiamento opposto rispetto ai due dinami­smi appena descritti. Implica, infatti, il porsi al centro della vita, creandosi degli idoli, delle realtà a cui affidare il compito di salvare la propria esistenza, sui quali si proiettano bisogni e attese, invece di mettersi in relazione con il Dio che ci trascende. Così nel matri­monio il partner diventa un idolo, quando non ci si accosta al suo volto reale, ma alle immagini che noi interiormente e inconsape­volmente abbiamo costruito e su cui abbiamo proiettato tutte le no­stre aspettative irrealistiche. La stessa dinamica è presente in molti cammini vocazionali in cui la pastorale, il monastero, la fraternità sono inconsapevolmente percepiti come fini a se stessi, come mezzi da cui ottenere la “salvezza”, una salvezza intesa in senso egocen­trico: la salvezza dal perdere, dall’insignificanza, dal “morire” a se stessi, requisito invece indispensabile per ritrovarsi in Dio, come ci ricorda Paolo al capitolo terzo della Lettera ai Filippesi[3].

Questa aspirazione così comune, questa ricerca di una salvezza “a basso costo”, non deve essere interpretata necessariamente come segno di mancata vocazione matrimoniale o presbiterale/religiosa; essa è piuttosto da leggersi come una presenza che s’insinua nel­la chiamata a orientare la vita in una precisa direzione, verso una meta definita, è un elemento da prendere in considerazione per un cammino di liberazione interiore funzionale a una vera scelta, una scelta portatrice di vita abbondante. Penso a Madre Teresa che, nella sua aridità spirituale durata fino alla morte, scriveva a Gesù: «Non badare ai miei sentimenti… la tua felicità è tutto ciò che vo­glio… per favore, non prenderti la briga di tornare presto. Sono pronta ad aspettarli per tutta l’eternità»[4]. Queste parole possono rappresentare il culmine di un cammino di decentramento che in­terpella ognuno di noi, come premessa per vivere ogni vocazione in una dimensione veramente interpersonale, da parte di un Io che risponde alla Voce di un Altro.

 

Il dinamismo dell’interiorizzazione

La vocazione, intesa nel senso ora descritto, richiede anche lo sviluppo di un’ulteriore capacità, che possiamo definire con l’espres­sione interiorizzazione. Mentre la trascendenza indirizza la persona al di fuori di sé e il decentramento le insegna a mettersi da parte, il dina­mismo di interiorizzazione, come dice il termine stesso, rappresenta quella forza centripeta che orienta l’individuo sempre più dentro e gli permette di non vivere in superficie, ma di creare uno spazio interno. Esso si costruisce definendo in modo stabile, ma contem­poraneamente flessibile, dei confini, la cui funzione è di delimitare la persona, fisicamente e psicologicamente, differenziandola dagli altri, per poi creare un’area interiore dove custodire ciò che è si­gnificativo, prezioso, carico di valore e senso. Come non pensare a Maria? Ella approfondiva sempre più la sua identità e la sua voca­zione di Madre di Gesù e di moglie di Giuseppe, accogliendo in sé e attribuendo significati sempre più profondi, cogliendo nessi ricchi di senso tra le vicende della sua vita personale, di quella del figlio e del marito, la storia degli uomini e la Parola che meditava e a cui faceva costante riferimento. Ma anche, come non ricordare il tem­po trascorso da Paolo in Arabia? Tempo utile per ripensare alla sua esperienza e alla sua fede e riformularla secondo categorie nuove, capaci di integrare il suo passato di fedele seguace della Torah con la travolgente novità della Risurrezione di Cristo.

 

Lo spazio interno per accogliere la propria vocazione

Lo spazio interno, come elemento essenziale di un’identità ma­tura, si rivela anche componente fondamentale per accogliere una vocazione. Lo si può considerare una sorta di fucina interiore, in cui si svolgono attività fondamentali per vivere una piena adesione ad una chiamata.

È dentro, infatti, che ognuno di noi costruisce la propria imma­gine, la percezione di quell’Io chiamato ad entrare in relazione con gli altri e con Dio. Ciò avviene attraverso un lungo percorso che, se all’inizio induce a cercare all’esterno, nei volti familiari, l’esempio cui conformarsi, poco per volta stimola a guardare all’interno. Nel confronto con un ideale oggettivo, fatto proprio, assimilato e dun­que interiorizzato, si scoprirà il modello cui ispirarsi per plasmare i lineamenti del proprio volto interiore: non l’immagine, l’apparen­za, ma il vero volto, quello in cui ci rispecchiamo e dove dovremmo individuare i tratti della nostra personalità più vera. Lo spazio interno è dunque un luogo solido, in cui si radica il senso del proprio va­lore e dell’esistenza personale, capace di respingere gli attacchi che provengono dall’esterno: la tentazione della scelta di ciò che è più facile, più superficiale, perché gratifica e non comporta fatica e fru­strazione, i dubbi sulla propria amabilità e sul valore personale, ma anche sull’amore di Dio per noi.

È ancora dentro che si custodisce l’oggetto amato, attraverso un lungo e spesso anche drammatico percorso, fatto di assenza e presenza, di distruzioni prima, di sparizioni momentanee poi, per giungere alla certezza costante di una presenza che ci abita ed è in noi, al riparo da ogni pericolo. Non sarà dunque difficile cogliere il nesso tra questa dimensione dell’identità personale e la vocazione, come risposta a un amore che chiama, invita a una sequela in cui si alternano momenti di gioia, entusiasmo e slancio a periodi di fatica e solitudine, a percezioni di distanza e di abbandono. Ancora una volta mi permetto di citare Madre Teresa come esempio sublime di vocazione, per la stabilità e la dedizione, per la costanza di un amore tenero e fedele, custodito nel cuore con perseveranza, pur in assenza di segni attraverso i quali potersi sentire accolta e ricam­biata.

Sempre nello spazio interno si costruisce la capacità di servizio all’altro, di dedizione e perdono, tutti requisiti indispensabili per vivere in pienezza il matrimonio, la vita fraterna, la missione. Den­tro di noi troviamo, infatti, il luogo e il tempo dove confrontare le nostre aspettative nei confronti degli altri, spesso basate su bisogni psicologici che ci inducono ad attendere – e spesso anche a preten­dere – stima e amore, con i valori per noi importanti: la dedizione, l’amore fraterno, il dono della vita.

Infine, è ancora dentro di noi che il mondo delle emozioni pe­netra e colora l’interiorità di tinte sempre più variegate, nel pas­saggio dalle sensazioni infantili, epidermiche, superficiali, collegate ai piaceri immediati del corpo, a quelle adulte, più durature, meno labili e maggiormente profonde. La vera gioia, dono dello Spirito e sostegno interiore per ogni vocazione vissuta serenamente – non la gioia frizzante, fluttuante e passeggera legata al piacere del momen­to – può essere vissuta solo se trova uno spazio di accoglienza, un mondo interno reso capace di ricevere, perché la persona elabora il proprio vissuto, su di esso riflette e si confronta, invece di vivere nella continua e spasmodica ricerca di esperienze tanto elettrizzanti quanto fugaci.

 

La capacità di trasparenza

Un ulteriore dinamismo presente in noi, che è importante os­servare e far crescere, è la capacità di trasparenza. Trasparenza è un termine attualmente molto di moda, che rischia però di essere am­biguo: in nome della trasparenza si dice all’altro ciò che si pensa di lui, senza preoccuparsi dell’eventuale effetto doloroso delle proprie parole. Sempre in nome della trasparenza si “spiattellano” in pub­blico fatti privati, mettendo da parte ogni sano senso del pudore. La trasparenza di cui parliamo, invece, è una dimensione fondamenta­le della maturità umana e vocazionale, è l’equivalente della purezza di cuore, che si esprime nel nostro modo di guardare noi stessi, gli altri, il mondo e le cose. Maturare, infatti, significa diventare traspa­renti, anche se in modo differente rispetto al bambino, che non ha ancora definito di confini capaci di distinguerlo dall’adulto e ritiene che questi possa leggergli nel pensiero e capire ciò che lo abita. La trasparenza della persona matura è completamente diversa rispetto a quella infantile, anche se ne richiama la semplicità, la limpidezza. Essa è innanzitutto liberazione dalle difese, quei meccanismi che, avendo la funzione di proteggere il nostro Io, spesso ci rendono in­capaci di cogliere la verità di noi stessi e degli altri. Difese che posso­no essere simili a corazze, atte a salvaguardare la nostra interiorità e ad impedire agli altri di sapere che cosa viviamo; esse mantengono un’immagine irrealistica e grandiosa di noi stessi, negando ogni li­mite e attribuendo agli altri tutte le debolezze personali o la causa delle nostre difficoltà. Pensiamo allo scandalizzarsi degli apostoli di fronte alla domanda della madre dei figli di Zebedeo, atteggiamento che, dietro all’apparenza, nascondeva anche in loro un desiderio forte come quello di Giacomo e Giovanni, di ottenere un ruolo si­gnificativo, un potere sopra gli altri.

Quando queste “corazze” diventano dure e impenetrabili, le dif­ficoltà all’interno della forma di vita scelta rischiano di essere in­superabili: marito e moglie passano il tempo a litigare sugli stessi problemi, senza giungere mai a una soluzione, mentre all’interno della comunità religiosa i conflitti con il superiore si perpetuano, prescindendo dalla persona che riveste tale ruolo. Se il ragazzo o la ragazza che seguiamo sono abituati a trovare “fuori di sé” la causa di ogni loro problema, sarà bene vigilare sul loro cammino e non il­ludersi troppo: la proiezione, infatti, si accompagna spesso con l’in­capacità di accogliere l’altro, con l’orgoglio e con l’ira e, se talvolta non è possibile eliminarla, è però essenziale che l’accompagnato, superati i momenti particolarmente conflittuali, sappia poi ricono­scerne la presenza.

Altre volte queste stesse difese possono essere paragonabili a trucchi raffinati, atti ad abbellire il nostro volto interiore, giustifi­cando una debolezza, idealizzando un tratto del carattere, nascon­dendo ciò che di noi stessi non ci piace. Esse creano dinamiche ripe­titive, che ostacolano l’incontro e l’accoglienza dell’Altro/altro.

La trasparenza è, invece, un’esigenza di un sano cammino di crescita umana e spirituale. L’accogliere in pienezza la propria voca­zione richiede alla persona di vivere la sua interiorità come spazio dove fare verità, in cui potersi guardare allo specchio, riconoscere il volto interiore senza aver bisogno di mascherarne i difetti, camuf­fare ciò che di fatto è ed accettare il divario esistente tra la realtà e l’ideale. Solo quando si è lasciato trapassare dallo sguardo veritiero, penetrante e nello stesso tempo misericordioso di Gesù, Pietro è diventato vero discepolo, capace di lasciarsi guidare da un altro, invece di percorrere il proprio cammino autonomo verso una glo­ria a cui, fin dall’inizio della sequela, egli aveva aspirato. Gesù, nel chiamarlo alla sua sequela, aveva forse colto nel rozzo e spontaneo pescatore di Galilea questa trasparenza non ancora sviluppata, e tuttavia presente e capace di crescere nello snodarsi delle vicende della vita. Non è, infatti, la perfezione ciò che è richiesto per la ma­turazione di una vocazione, ma quel tanto di accoglienza da parte del “terreno”, che permetta una produttività, la messa in moto dei dinamismi di crescita, la possibilità che il percorso sia davvero tale e il cammino non si arresti invece ai primi passi.

 

La crescita dell’identità

Rimane un ultimo ambito cui prestare attenzione. Esso riguarda la crescita di una dimensione dell’identità che, soprattutto all’in­terno della cultura attuale, mi pare particolarmente importante: mi riferisco allo strutturarsi dell’identità di genere, vale a dire della capacità di accettare la propria identità maschile e femminile. Esi­stono due dimensioni di quest’identità: quella sessuale, intesa come riconoscimento della propria identità di maschio e di femmina, e quella di genere, che consiste primariamente nel sentirsi bene nella propria corporeità sessuata, ma anche nel riuscire ad apprezzare i valori collegati al sesso cui si appartiene e credere di poter piacere come uomo o donna. Questa dimensione dell’identità ha degli ag­ganci importanti nelle scelte vocazionali: il sentirsi bene nella propria corporeità sessuata è, infatti, un requisito importante per le decisioni riguardanti la propria vita. Essere moglie e madre, marito e padre sono intimamente legati a quest’aspetto dell’immagine di sé.

Anche nella scelta di una consacrazione e soprattutto nel suo sviluppo autentico e maturo, questo elemento gioca un ruolo im­portante, come ci insegna Paolo, che ha smussato i tratti di una virilità troppo focosa, integrandoli con una dolcezza femminile, ma­terna. Dobbiamo forse prenderlo a modello, per salvaguardarci e proteggere le persone che ci sono affidate dai rischi di una cultura, in cui si favoriscono ideali per cui le diversità sessuali sono sempre più indifferenziate.

Secondo Tony Anatrella, sacerdote e psicanalista esperto in psico­logia sociale, le rappresentazioni sociali degli individui sono attual­mente governate da tre immagini: «Quella del bambino-adolescente vissuto come uguale all’adulto, quella del femminile autosufficiente, quella dell’omosessuale che nega la differenza dei sessi»[5]. Tre immagini ideali, quindi, che operano nel nostro mondo conscio e inconscio e si discostano notevolmente dai modelli di un tempo, costituiti da personalità più differenziate, maggiormente caratteriz­zate da tratti specifici, spesso con un forte riferimento a valori qua­li quelli della giustizia e delle rivendicazioni sociali; pensiamo, ad esempio, a Che Guevara e a tutti gli altri “eroi” che hanno popolato i sogni e le aspirazioni di chi era giovane nel sessantotto.

Il personaggio del nostro tempo, il modello di identificazione, sembra essere invece l’indifferenziato: il bambino o l’adolescen­te trattato come un adulto, la donna rampante dai tratti maschili, l’omosessuale senza identità specifica. Questi fenomeni sociali ci pongono interrogativi in merito alle possibili interferenze di questi ideali sociali sulla scelta vocazionale. Essi, infatti, favoriscono una percezione distorta dei valori della consacrazione e del presbiterato, una lettura parziale di ciò che implica una scelta vocazionale.

Se nel post-sessantotto abbiamo spesso constatato un’interferen­za tra le immagini sociali dell’epoca e l’adesione ai valori, che spesso si sono manifestate come ribellione verso l’autorità e l’obbedienza, impoverimento del significato della povertà, talvolta scambiata con la trasandatezza e il pauperismo esibizionista, mancata cura della vita spirituale in favore del servizio ai poveri, ora assistiamo ad altri possibili pericoli. Per l’adolescente incapace di diventare adulto, per la donna dai tratti maschili che non ambisce – o non è in grado di ambire – alla carriera, per il ragazzo dalle forti tendenze omosessuali nascoste, la via della consacrazione può apparire un rifugio protet­tivo, una sorta di difesa rispetto ai rischi della vita.

Notiamo quindi, sia nel femminile sia nel maschile, una sorta di impoverimento dei valori tipici della femminilità e della masco­linità.

Se il femminile, infatti, si caratterizza per i tratti dell’accoglienza, della recettività, dell’interiorità, tutte dimensioni che favoriscono la dedizione nel servizio, la ricerca dell’intimità con il Signore, la ma­ternità spirituale, dovremmo forse interrogarci di fronte alla novizia super-intraprendente e super-organizzata, dai tratti fortemente ma­schili e dal parlare sboccato, che recalcitra di fronte alla possibilità di non indossare i pantaloni e, tratto apparentemente paradossale, crea relazioni troppo strette, di attaccamento, con qualche sorella o con le giovani in mezzo alle quali opera.

Se la mascolinità si sintetizza invece nelle tre parole: seme, come capacità di dono, sangue, come capacità di proteggere e custodire, sudore, come tensione al lavoro e alla conquista, questi tre elementi potranno diventare un buon criterio di valutazione anche per il di­scernimento vocazionale. Essi, infatti, sollecitano domande sulla ca­pacità di dono generoso, servizio serio, assunzione di responsabilità, aspetti spesso assenti nel seminarista o nel novizio eterno adolescen­te, dai tratti infantili o effeminati, che tende a non esporsi, a dare il minimo di sé, a passare il tempo in sacrestia o a spettegolare.

 

Servi e serve dello Spirito

Queste riflessioni ci invitano allora a prendere in considerazione il principio enunciato in precedenza, per farne una linea-guida del nostro percorso come accompagnatori. La crescita umana e spiri­tuale è un dinamismo, una sinergia tra processi psicologico-spirituali e l’azione dello Spirito. Aiutare gli altri a conoscere e seguire la propria vocazione significa, quindi, non aspettarsi di compiere miracoli, ma farsi servi e serve dello Spirito, collaborando con Lui per eliminare o diminuire quegli ostacoli, che possono ostruire il Suo passaggio nella vita delle persone a noi affidate.

 

 

Note

[1] El Meskin, L’esperienza di Dio nella preghiera, Qiqajon, Magnano 1999, p. 153.

[2] M.I. Rupnik, Adamo e Usuo costato, Lipa, Roma 1996, p. 27.

[3] «Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore…» (Fil 3,8).

[4] Madre Teresa, Sii la mia luce, a cura di Kolodiejchuk, Rizzoli, Milano 2008, p. 202.

[5] T. Anatrella, La différence interdite, Flammarion, Paris 1998, p. 318, traduzione nostra.