N.05
Settembre /Ottobre 2009

Il Vangelo della vocazione e le dinamiche della chiamata e della risposta

Abitualmente, quando parliamo di vocazione nei Vangeli, in­tendiamo quella degli apostoli e dei discepoli di Gesù. Non sempre pensiamo a come questa vocazione sia il secondo anello di una catena che ha inizio con Gesù stesso.

 

La vocazione come incontro con Dio

Prima di chiamare i suoi, Gesù ricevette, a sua volta, una chia­mata, accolse la sua di “vocazione”. Essa si rivelava attraverso il Battesimo di Giovanni e le tentazioni nel deserto. «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto» (Mt 3,17): così dice la voce che esce dal cielo quando Gesù è battezzato. Era una “vo­cazione” – in senso lato -, era un destino, una missione: quella di abbracciare il suo essere Figlio di Dio. Per accoglierla, Gesù dovet­te dare una risposta forte, decisa, coraggiosa. Dovette affrontare il Tentatore: «Se sei Figlio di Dio, di’ che questi sassi diventino pane» lo insidiava la voce del sospetto e del dubbio. «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt4,3-4), rispondeva Gesù con l’intelligenza della sua vocazione, cioè la decisione di essere fedele a quella sua altra, diversa, identità: egli non è più soltanto Gesù il Nazareno, ma è anche il Figlio di Dio. Tanto è vero che sa, che sceglie, che vuole vivere non solo di pane, ma di Parola di Dio. Cioè di libertà e di relazione. E questa Parola diventerà pane nella sua stessa bocca, la sua vocazione si tradurrà in una precisa missione: «Mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio, ad annunciare la libertà ai prigionieri e ai ciechi la vista (…). Per proclamare un anno di grazia del Signore» (Lc 4,18). La vocazione diventa opera di Amore e di riscatto, un abbraccio al mondo.

Ma la stessa “vocazione” del Figlio di Dio possiede un retroter­ra. I Vangeli dell’infanzia affondano addirittura nella preistoria di Gesù. Succede, infatti, che nemmeno quello di Gesù sia il primo anello della catena, ma prima ci siano la “vocazione” di Maria e anche quella di Giuseppe, suo padre adottivo. Essi furono chiamati a seguire il disegno di Dio, che li voleva genitori – ciascuno con un proprio carisma ed “ufficio” – del Figlio di Dio. Ciò mostra plastica­mente che non esiste da nessuna parte una vocazione come realtà isolata, prodigiosa, magica. Che la vocazione è un tessuto di me­moria, di legami, di voci che anelano, denunciano, si alleano. Che nasce ad un crocevia, ad una confluenza di percorsi e di desideri, che è frutto di un incontro, di una esperienza di vita aperta, esposta, condivisa.

Come ogni storia di amore, la vocazione non è una cattedrale nel deserto, ma il farsi carne di un esserci, là dove c’è chi chiama e chi cerca. Un eccomi, un “sono qui”, un voglio mettermi in gioco anch’io nel grido del mondo. Penetrando nella memoria della voca­zione arriviamo, così, al suo anello primordiale e misterioso: quello dove si trova la vocazione stessa di Dio. La sua chiamata ad ascol­tare il grido dell’uomo nel dolore, nella schiavitù, nell’ingiustizia. È l’uomo, infatti, a chiamare Dio, a gridare per primo verso il cielo. Quando nessuno sulla terra lo ascolta. Allora ci fu un Dio che aprì il suo orecchio, che ascoltò la voce e scelse di coinvolgersi, disse di sì e si abbassò e scese e sposò la causa di Israele. Tanto rispose a quella vocazione, che per potervi assolvere del tutto si fece, infine, carne, corpo, tatuando su di sé le tracce di fragilità, la debolezza, l’impo­tenza dei figli della terra.

 

La vocazione come incontro con l’uomo: «Erano pescatori»

«Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano, infatti, pescatori. Gesù dis­se loro: “Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini”. E subito, lasciate le reti, lo seguirono» (Mc 1,16-18).

Il quadro con cui Marco presenta la chiamata dei primi quat­tro discepoli è fonte di spunti interessanti di riflessione. Al di là di un’apparente e superficiale visione romantica, colpisce innan­zitutto l’ambiente profano in cui essa avviene e il suo “ambiente ideale” (E. Schweizer). Gesù si spinge nei luoghi del lavoro e della più ordinaria umanità. Trasposto nel contesto della nostra società, possiamo pensare ad un porto commerciale dove le imbarcazioni da pesca sostano fino ad ora tarda, finché non giunga il tempo di spingersi al largo, a gettare le reti, nel cuore della notte o alle prime veglie del mattino.

Un ambiente non privo di fascino, certo, con le sue luci tremo­lanti sugli specchi gorgoglianti dell’acqua, ma neppure di rischi, di bestemmie e di cattivi odori. Nella cui area circolano, senza dubbio, anche prostitute, ladri, trafficoni e trafficanti di ogni merce e di ogni sorta. Del resto è cosi, in tutti i porti del mondo. Solitamente queste sono anche le zone più malfamate di una città. Nella lingua italiana si usa un proverbio per descrivere una realtà corrotta e caotica che dice: «È un porto di mare!». Può rendere l’idea… Il cantautore Fa­brizio De André ne dà una descrizione efficace e poetica nella sua canzone, La città vecchia, che a Genova è proprio quella della zona del Porto (Vecchio): «Nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi (…). Se ti inoltrerai lungo le cascate dei vecchi moli, in quell’area strana, gonfia di odori, lì ci troverai il ladro, l’assassino e il tipo strano, quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano!».

Se Simone e suo fratello stavano, dunque, “gettando le reti”, vuol dire che la notte era inoltrata. E questa è un’altra stranezza, che fa pensare che Gesù dovesse esserci andato apposta a quell’ora e in quel luogo, vegliando sulla notte sino ad ore antelucane. La chiamata dei suoi discepoli, la loro vocazione, è un autentico “lavo­ro” per Gesù… E se è vero che egli è il Figlio di Dio, allora questo Dio è Qualcuno che si scomoda, che esce dai suoi ambienti sacri e dorati e si porta in quelli maleodoranti e impuri dei porti di mare.

Non era certo usuale che la gente passasse per caso a quelle ore della notte là dove i pescatori armeggiavano con le loro reti. Gesù ci era andato con uno scopo preciso. Questa uscita del Figlio di Dio nei luoghi della “umanità profonda” è un fatto imbarazzante ed im­portante, che deve essere compreso e interpretato. Nella storia della Bibbia esso appare come un cammino a ritroso, come un Esodo rovesciato! È come se Dio uscisse questa volta dalla Terra promessa (terra sacra del suo Tempio e della sua Città) per entrare in Egitto, nel paese della contaminazione e della schiavitù! E – fatto ancora più intrigante e anomalo – è come se il Figlio stesso di Dio andasse a cercare – simbolicamente – proprio nella terra dell’idolatria, del culto del dio Sole e del dio della ricchezza, dell’opulenza e dell’au­tonomia umana, i suoi più stretti collaboratori. Vuol dire che Gesù sa che per essere suoi discepoli ed apostoli della sua parola, nessuno è più indicato di chi incarna davvero il “grido” del secolo, la realtà dell’oggi. Di chi parla e fa parte di “questa generazione”. Quella del Vangelo, allora, si presenta come una Parola che esce dal seminato, una rivelazione nuova, una incarnazione senza tutela né protezio­ne di Sacra Tradizione… a cominciare da qui.

Del resto, un po’ tutto il NT rappresenta un cammino sull’acqua, una navigazione, un attraversamento, un itinerario di partenze, di approdi, di uscite, di incontri. Luca, il terzo evangelista, lo indica in maniera letterale quando, in apertura del suo Vangelo, ancora nei versetti del Prologo, dice: «Poiché molti han posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin da principio e divenne­ro “rematori della parola” (uperetai tou logou)» (Lc 1,1-2). La Parola del Vangelo viene “remata”, cioè condotta sulle rotte contaminate di quel mare che è il mondo. Questa Parola è per il mondo, per una realtà aperta, plurale, meticcia, complessa e anche corrotta. La stessa regione di Galilea e il Mare di Tiberiade, dove Gesù chiama i suoi primi quattro discepoli, non sono certo la chiusa e santa Giu­dea, piuttosto la regione dei lontani, confinanti con i popoli pagani, popolata di peccatori e indemoniati.

Se pensiamo, poi, a Paolo e alla sua straordinaria missione di evangelizzazione, ci troviamo ancora nelle città portuali. Un caso esemplare: Corinto, città dei due porti. Quasi superfluo è ricordare l’effervescenza delle Chiese di Corinto, la loro ricchezza spirituale, i radicamenti che trovò la Parola della Sapienza della Croce nell’hu­mus della città delle corinzie, delle donne senza velo, e di un clima di assoluta libertà in cui si diceva: «Tutto mi è lecito» (cf 1Cor 6,12). Un ambiente così carico dello spirito e della cultura del suo tempo!

 Proprio in questo clima, in apparenza pericoloso e ostile al mes­saggio del Vangelo, Paolo trovò i suoi più amati e fidati collaborato­ri: Aquila e Prisca, coppia nella cui casa Paolo abitava; Febe, la dia­cona del porto di Cencre (uno dei due porti di Corinto: «Ha protetto molti ed anche me stesso», cf Rm 16,1-2); Stefanas e la sua famiglia («Hanno dedicato se stessi al servizio dei santi», cf 1Cor 16,15-18); per quelle Chiese Paolo scrisse le sue lettere sulla Chiesa.

 

La vocazione come rivelazione: i racconti biblici della chia­mata e della risposta

«Andando un poco oltre Gesù vide sulla barca anche Giacomo di Zebe­deo e Giovanni suo fratello, mentre riassettavano le reti. Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedeo sulla barca con i garzoni, lo seguirono» (Mc 1,19-20).

Che cos’è la vocazione e come avviene la “chiamata”? I racconti dei Vangeli si accomunano a quelli dell’intera Bibbia nella dinamica e negli elementi che guidano una chiamata. Essa è composta sem­pre da due tempi: il primo è quello dell’inizio, dell’impatto, dell’in­contro. Qualcuno si presenta, irrompe nella vita di una persona. Si tratta di Dio o di Gesù, come nel caso dei figli di Zebedeo. Questi si mostra come persona concreta – Gesù, ad esempio – oppure come una visione di Dio (cf Is 6,1); o come un angelo del Signore in una fiamma di fuoco (a Mosè in Es 3,2); semplicemente come voce di Dio (ad Abramo in Gen 12,1 ss.) o come parola (a Geremia in Ger 4 ss.); e, ancora, come una luce accecante che fa cadere Paolo da cavallo (cf At 9).

Si tratta di momenti speciali e di fatti il più delle volte irruenti e schiaccianti, che non lasciano troppo spazio alla titubanza nella risposta e nell’adesione. In tutti i casi citati – che non sono gli unici, ma ce ne sono molti altri – a questo primo momento della chiamata di Dio o di Gesù seguono, infatti, non soltanto una risposta positiva, ma anche un autentico, netto cambiamento nella vita di chi resta coinvolto.

Ma tutti i racconti fanno altresì capire chiaramente che la chia­mata non è davvero così lapidaria e chiara e neppure la risposta lo è: e qui giunge il secondo tempo della vocazione, quello che accom­pagna tutta la vita dei chiamati, dei profeti e degli apostoli. Nessuno di loro considera e vive la sua vocazione come un possesso certo, come una cosa ormai scontata, compresa fino in fondo e “gestibile” senza più problemi o sorprese. Nessuno la fa sua!

Prendiamo Mosè: per ben cinque volte egli cerca di resistere alla chiamata di Adonai, opponendovi problemi e inadeguatezze di ogni sorta. Citiamo alcune delle sue obiezioni: «Chi sono io per andare dal faraone e per far uscire dall’Egitto gli Israeliti?» (Es 3,11); «Non mi crederanno, non ascolteranno la mia voce, ma diranno: non ti è apparso il Signore» (Es 4,1); «Mio Signore, io non sono un buon parlatore, ma sono impacciato di bocca e di lingua» (Es 4,10). E questo non è che l’inizio! Nel bel mezzo del cammino dell’Esodo, alle pendici del Sinai, Mosè tornerà a mettere in crisi la sua chiama­ta, tentato di tirarsi fuori da essa: «Cancella anche me dal libro che hai scritto» (Es 32,32).

La vocazione appare nella storia di Mosè come una dinamica sempre precaria; ogni giorno la chiamata assume nuove esigenze e nuovi aspetti, per cui la risposta deve essere rinnovata ad ogni occasione. Nessuna delle due è statica e ripetitiva. Questo perché la vocazione è un patto d’amore, un’alleanza di fedeltà, che esige un coinvolgimento affettivo, esistenziale, morale e perfino fisico. Un legame tanto compromettente quanto libero e incondizionato. Una esperienza che solo gli adulti possono reggere e che non si può cuci­re sui minorenni e su chi deve ancora acquisire una maturità uma­na. Cioè la capacità di sostenere la libertà dell’Altro, la solitudine dall’Altro, il silenzio dell’Altro. La vocazione non è una protezione, al contrario è una via senza portici a coprirla dalla pioggia e senza indicazioni a garantirne l’esito.

La chiamata pone dinanzi ad una scelta che è addirittura quel­la di una identità. Si può capire quanta maturità sia necessaria. Mosè aveva la possibilità di restare alla corte dell’Egitto, di restare egiziano. Questa era una sua personale e privata identità, peraltro facile e vantaggiosa, dato che era stato adottato dalla figlia del Fa­raone. Ma scelse quella di essere ebreo, identità molto più scomoda e gravosa, in quel preciso contesto, da sembrare assurda dal punto di vista umano. Ciò perché Dio lo chiama a rispondere con lui del “grido del suo popolo in Egitto”, a farsi partecipe della sua stessa vocazione.

«Il Signore disse: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferen­ze (…). Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, dove scorre latte e miele (…). Ho visto l’oppressione con cui gli Egiziani li tormentano. Ora va’! Io ti mando dal Faraone; fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti”» (Es 3,7 ss.).

Ogni vocazione nasce come scelta di diventare – o riconoscer­si! – identità condivisa con quella di Dio. Essa porta con sé la scelta di essere parte del mondo dei poveri, degli schiavi e dei sofferen­ti. Nessuna vocazione biblica e cristiana può prescindere da questa decisione. La vocazione è semplicemente una risposta al grido del mondo sommerso che è impastato del grido stesso di Dio. Quello stesso gri­do che Gesù leverà sulla Croce dopo aver detto: «Ho sete»; e dopo aver denunciato l’angoscia dell’abbandono: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?».

In virtù di tutto ciò, la vocazione si trasforma poi, pian piano, in annuncio di libertà per tutti gli uomini, a qualsiasi latitudine si tro­vino, vicino o lontano da noi: è grido che diventa euanghellion: «Mi ha mandato ad annunciare il lieto messaggio ai poveri…». Ogni vocazione si fa bocca che annuncia “un paese bello e spazioso”, voce di speranza e di futuro per chi vive nello squallore dei sob­borghi delle metropoli del mondo. Negli appartamenti di 25 metri quadrati, o negli slums dove non si vede mai la luce del sole. Ogni vocazione grida per un riscatto degli ultimi, delle vittime innocenti, delle infanzie negate. Una mitezza forte, che affronta la violenza e la paura.

Farsi parte, pane, diritto, giustizia, pace e parole di chi non ha parte, pane, diritto, giustizia, pace e parole: questa è la scelta di ri­spondere “sì” alla chiamata. Tutto ciò è il cammino dell’intera vita, il tempo di una difficile, ma stupenda, metanoia. L’esodo da una identità chiusa e individualistica, verso una identità aperta, graffia­ta, sensibile, dove non è importante sapere se sono io che vivo o il Cristo che vive in me…

Anche Giacomo e Giovanni – come Mosè – potevano restare im­prenditori ittici, non mancavano di una identità. Ma la chiamata di Gesù li pone dinanzi ad una scelta: vuoi abbracciare un’altra identi­tà? O meglio: vuoi investire il plusvalore ottenuto con la tua identità di nascita per superarne il limite, facendola aprire ad un’altra in cui nessuna, singola, particolare, identità neghi quella dell’altro? «Vi farò pescatori di uomini» propone Gesù ai pescatori di pesce. Come a dire: una sola identità vi farebbe restare chiusi alle acque di questo piccolo mare di Galilea, mentre l’abbraccio a tutte le identità degli uomini vi permetterà di diventare una barca universale, una rete di salvezza sconfinata. Il vostro terreno identitario non sarà più il chiuso lago di Tiberiade, ma il vasto Mar Mediterraneo, mare aper­to al bacio di rive, note ed ignote, di lingue familiari e straniere e orientato ai confini del mondo. Questa chiamata esige una risposta che sia il progresso verso una terra di mezzo, una identità di comu­nione: niente altro che la Parola del Vangelo.

La risposta, poi, non è certo teorica o ideale, ma qualcosa di mol­to concreto e fattivo. La scelta porta con sé l’azione quotidiana, la presa di posizione chiara e coraggiosa. Spesso diventa un signum contraddictionis e allora occorre trovare molta forza e soprattutto ri­vangare le ragioni della risposta alla chiamata. La Bibbia non manca di raccontare esperienze del genere. Prendiamo ad esempio Gere­mia. Egli soffre la persecuzione a causa della lealtà e della autentici­tà della sua vocazione. Gli abitanti di Gerusalemme, ma anche i suoi parenti di Anatot, non possono soffrire la sua parola. Eppure l’ha ricevuta da Dio stesso, è stato lui a mettergliela in bocca: «Quando le tue parole mi vennero incontro le divorai con avidità, la tua pa­rola fu la gioia e la letizia del mio cuore» (Ger 15,16).

Ma accade che quella parola che il Signore gli ha consegnato, alla cui profezia Dio stesso l’ha chiamato, non sia gradita a coloro per i quali è stata data. Per la cui salvezza è stata data. Geremia su­birà la persecuzione e perfino la condanna a morte da parte del po­polo e dei re di Giuda proprio a causa della sua vocazione. La stessa sorte è segnata per i discepoli di Gesù, cui egli stesso annuncia una strana beatitudine: «Beati voi quando vi insulteranno, vi persegui­teranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate (…). Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi» (Mt 5,11-12). È il prezzo da pagare per essere sale e lievito della terra.

E la reazione a queste enormi prove non è certo di compiaci­mento o di vanagloria da parte dei chiamati. Al contrario, essi ma­turano una fragilità crescente, un’umiltà concreta, una debolezza ed una inermità che li conducono persino a piangere sul proprio destino: «Me infelice, madre mia! Mi hai partorito uomo di litigio e di contesa per tutto il paese» (Ger 15,10); ad implorare l’aiuto di Dio, a chiedergli di farsi vivo, di non lasciare solo colui che ha chia­mato: «Tu, Signore, mi conosci e mi vedi, tu provi che il mio cuore è con te» (12,3) si trova a gridare disperato Geremia.

Ma non sempre Dio si fa sentire, non sempre si presenta in soc­corso del suo profeta e allora non mancano neppure le parole di ac­cusa contro di lui: «Perché il mio dolore è senza fine e la mia piaga incurabile non vuol guarire? Tu sei diventato per me un torrente infido, dalle acque incostanti»(Ger 15,18).

La vocazione non ha come effetto la presunzione di essere ga­rantiti da Dio, né l’arroganza di pensare di essere da lui approvati, protetti, legittimati, preferiti, custoditi. Non è così. Rispondere alla chiamata di Dio vuol dire esporsi ad ogni rischio, non escluso quello dell’essere dei “servi inutili”. Nessuno mai si vanterà della propria vocazione; ne sarà piuttosto umile servo, seduto agli ultimi posti della mensa dello Sposo.

Paolo, il grande Apostolo del Vangelo del Cristo, ne sarà una icona perfetta: «Ultimo tra tutti apparve anche a me, come ad un aborto. Io infatti sono l’infimo degli apostoli e non sono degno nep­pure di essere chiamato apostolo» (1Cor 15,8-9). E ancora Paolo interpreta l’autenticità della vocazione secondo una logica rovescia­ta, rispetto non solo a quella del mondo, ma anche a quella dei ministri di Cristo: «Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte» (2Cor 11,23).

 

Una decisione speciale

La vocazione non è, dunque, una condizione speciale né privi­legiata di vita, quanto un’esperienza del tutto speciale. Chiede una de­cisione ed una sensibilità, una cura, un’intelligenza ed una volontà molto speciali.

La vocazione al Vangelo esige un grande impegno di vita, in­tesa come capacità di riflessione, di comprensione, di intuizione, di conoscenza. Chiede una profondità, un tempo di silenzio, una deontologia nei rapporti con le cose e le persone. Coinvolgersi con la Parola del Vangelo vuol dire iniziare e condurre per sempre un percorso dentro e fuori se stessi. Camminare lentamente verso se stessi, incontrare il proprio cuore. Vincere ogni giorno la paura, at­traversandola. Vincere la pigrizia, la banalità del rimandare a do­mani. Esplorare quella parte che non si vede e che resta avvolta sempre nel mistero. Osare di vedere ciò che non si vede. Guardare al buio. Confessare la Presenza di Qualcuno che sfugge; una Tra­scendenza che non potrà mai essere ridotta a superficie. Un Verbo che si fa carne e continua ad essere Verbo mentre si fa carne. Mai si cristallizza in forme statiche, definite, dogmatizzate.

Un Corpo duttile che forma con il Corpo dell’altro un unico Spi­rito. Un Corpo di Spirito, cioè un concerto di molte membra, di molte voci, di molti carismi. Sono solo le sillabe del segreto, della parte intima di ogni vocazione. Quella più importante, come le ra­dici dell’albero, nascoste sotto terra. Quell’itinerario personale ed unico in cui ciascuno deve perdersi e perderci tempo, che portava Geremia a sentire parole così invasive, inedite, enigmatiche: «Pri­ma di formarti nel grembo materno, io ti ho conosciuto, prima che uscissi alla luce ti ho consacrato» (Ger 1,5). La percezione di non essere mai stati soli. Di una compagnia presente come attraverso un velo. Quello del tempo e dell’eternità, della libertà e dell’amore. Una storia di seduzione, dunque, pudica e forte, delicata e irresisti­bile allo stesso tempo, che fa cedere, dopo lungo assedio, il profeta: «Tu mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre, mi hai fatto violenza e hai prevalso» (Ger 20,7).

 

La vocazione come missione

«Ne costituì Dodici perché stessero con lui ed anche per mandarli a pre­dicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni» (Mc 3,14-15).

Arriviamo, così, alla missione della vocazione cristiana, secondo le parole di Gesù. Essa ci stupisce e ci fa perfino tenerezza! Gesù chiama i Dodici perché stiano con lui. Al di là e prima del fatto che ciò indichi, simbolicamente, la loro consacrazione al Signore, c’è l’aspetto umano di Gesù,il bisogno di amici, di compagni, di affetti. Di una famiglia! Un bisogno che riaffiorerà con prepotenza e ama­rezza la notte del monte degli Ulivi, quando nessuno di loro resterà sveglio accanto al suo dolore… nessuno saprà prestar fede alla sua vocazione!

Il fine primo di una vocazione cristiana è dunque quello di es­sere compagni, di restare accanto all’altro, per sempre. È un patto con l’umanità. Ciò vuol dire restare accanto a Gesù stesso: «Ogni volta che avrete dato un bicchiere d’acqua fresca ad uno di questi piccoli l’avrete fatto a me». La missione di tutta la Chiesa è que­sta: stare accanto all’umanità, sempre e dovunque essa si mostri, si nasconda o si perda. È la stessa vocazione di Dio. Là troveremo e porteremo il suo volto, là troveremo e metteremo all’opera le sue braccia con le nostre. Là vedremo guarite le malattie dell’anima e del corpo e arriveranno la consolazione, il sollievo, la luce. Là ci sarà un medico, un Vangelo di Speranza, di riscatto, di libertà. Questa condivisione, questa incarnazione è la via di conoscenza di Dio che i Vangeli indicano. La Chiesa non è chiamata, infatti, a condannare il mondo, ma ad annunciargli, come una carezza, la Salvezza. Dai frutti si riconosce l’albero.

 

Riflessioni sull’attualità

L’humus della Chiesa cristiana si trova, dunque, fuori dal fanum (il luogo sacro, il tempio), nel pro-fanum. Quale riflessione conduce, per la nostra attualità vocazionale europea, questo spaccato neote­stamentario? Credo una seria e importante riflessione. Il milieu in cui viviamo oggi in Europa è, in più aspetti, simile a quello del NT. Come quello, anche il nostro è un mondo aperto, dove si incrociano diverse culture, religioni e modi di pensare. Occorre allora conside­rare che una vocazione alla Parola contempli una chiamata al farsi canale di umiltà e di testimonianza per poter comunicare con l’al­tro; di una Parola che sia nutrita dal desiderio di dialogo, in dialogo, in ricerca e anche in divenire. Una Parola che esca dalle secche del dogmatismo, del moralismo e del legalismo, canoni – ahimé – or­mai del tutto impotenti, se non addirittura pletorici e indifferenti, e si sciolga nella duttilità dell’acqua della Sapienza evangelica, del confronto e del rispetto altrui, della “gara nella stima vicendevole”, dove ci sia posto per il consenso, senza la censura del dissenso e ambedue questi poli possano essere superati nella libertà di quella «fede che opera attraverso l’agape», come dice Paolo (Gal 5,6).

La cultura europea contemporanea è, tuttavia, in un aspetto fondamentale, diversa da quella dei tempi di Marco, di Luca o di Paolo: essa ha postulato la “morte di Dio” e pratica l’ateismo. L’uo­mo contemporaneo, avendo “ucciso” Dio, ha anche rinunciato ad una concezione di se stesso che nel passato era proprio relativa e condizionata dall’idea e dalla figura di quel suo Dio. Quanto, con un’espressione sintetica, oggi verrebbe chiamata la rivoluzione an­tropologica. Siamo dinanzi non solo ad un altro mondo, ad un altro assetto socio/economico rispetto a quello tradizionale, a nuovi co­dici di etica (o non-etica!) e ad una crisi inevitabile della morale, ma anche ad un “altro” uomo. Basti solo pensare ai mutamenti portati dalla psicologia, dalla sociologia, dalla tecnologia, dalla me­dicina, dalla chirurgia, dalla genetica e dalla biologia al corpo uma­no e quindi ai ritmi delle età della vita, alle modalità dei rapporti di coppia, dei padri e delle madri con i figli e viceversa.

Se non vogliamo giungere a sottoscrivere – con i grandi filosofi/teorici del Novecento – la morte di Dio, dobbiamo, insomma, con­statare che sia ormai seppellita una certa concezione, una certa im­magine di Dio. E con essa è morta anche una concezione dell’uomo. Un primo grande esempio sul piano della psicologia è questo: supera­ta l’idea di Dio come Padre e rigettata la sua autorità, l’Occidente ha rifiutato anche l’autorità coniugale sulla moglie e quella paterna sui figli, nella famiglia. La rivoluzione femminista ha condotto a scon­volgimenti, nel rapporto di genere, di estrema importanza e valore irreversibile, per cui i due sessi e i relativi ruoli appaiono – o vor­rebbero apparire – su un identico grado di dignità e autorevolezza.

Riguardo, invece, ai figli, a causa della famosa “morte del Padre”, ora l’uomo contemporaneo ha perduto la sua coscienza filiale, non si riconosce più come figlio, come creatura, in una dipendenza mo­rale dalla sua origine che, nella cultura del passato, era significata proprio dal genitore paterno. Mentre la madre, infatti, è la matrice della vita del corpo, il padre rappresenta – o meglio, rappresentava – un passaggio mediato, cioè qualcuno che rende figli i suoi figli tra­smettendo loro parole e “valori”.

Dalla perdita della percezione di essere “figli”, in questo senso, a quella di essere anche fratelli, il passo è breve; difatti è proprio dal riconoscere la figliolanza che si definisce il fratello, cioè il figlio dello stesso padre.

Ma ci sono altri fattori che hanno condotto alla nuova “antropo­logia”. Uno dei più importanti è quello socio-economico e politico. La grande emancipazione economica che l’Europa ha ottenuto nel Novecento – con punte massime nella seconda metà, dopo le due guerre – ha stabilito decisivi mutamenti di prospettiva, per cui l’uo­mo ha finalmente espugnato il dominio della fame e della miseria e non si sente più soggiogato dalla morsa del bisogno. Avendo tro­vato anche le chiavi per ottenere una sempre maggiore e più facile ricchezza, l’uomo occidentale in questo ambito si sente ben padro­ne del suo destino. Contestualmente le “rivoluzioni” politiche, che hanno portato all’avvento delle democrazie in tutti i paesi, non solo hanno garantito diritti e doveri, ma hanno anche promosso una innegabile condizione di dignità e di libertà a tutti i cittadini.

Da ultimo, lo sviluppo maestoso della scienza e della tecnologia, dell’informatica, della medicina e dell’ingegneria genetica e, più recentemente, delle affascinanti neuro-scienze, hanno introdotto la nuova umanità in un orizzonte inedito, dove le cose, ieri im­pensabili, diventano plausibili; dove si può sperare di guarire dalle malattie per mezzo di sofisticate soluzioni chirurgiche e perfino rad­doppiare l’età media degli esseri umani. Con questi mezzi e queste prospettive si può sfidare l’antica nemica dell’uomo, la vecchiaia, e si può persino pensare di sfidare la morte.

Ora, questa nuova realtà antropologica non può evitare di mi­surarsi con una nuova “realtà divina”. Come parlare ancora di Dio “padre” e di “uomini-figli” e “fratelli” a chi non ha più una chiara percezione di questa identità? Come parlare del Dio-creatore dopo Darwin?

Come parlare, ancora, del Dio dell’Esodo, che risponde alla mi­seria e alla povertà, se ci riteniamo ormai emancipati dalla povertà economica?

Come presentare l’esclusiva di un Dio che “è in cielo, in terra e in ogni luogo” quando internet e le navicelle spaziali permettono all’uomo di fare altrettanto?

Come parlare del Dio che libera Israele dal Faraone (il domina­tore politico) a paesi che di libertà credono di averne abbastanza?

Come parlare di un Dio che promette una migliore vita ultrater­rena, se sembra possibile ottenerne una davvero migliore e lunghis­sima su questa terra?

Quale Dio può rispondere alla nuova condizione della civiltà europea?

È ovvio che non siamo noi, ora, a poter dare risposta a questa domanda; quanto possiamo fare, in conclusione della nostra rifles­sione, è soltanto fissare brevi appunti, semplici suggestioni, sulla ricaduta che questa situazione ha sulla realtà delle vocazioni nella nostra Europa.

 

I mutamenti e le loro ricadute sulle vocazioni in Europa

Questi radicali e generali mutamenti hanno, infatti, condotto a quella crisi delle vocazioni di cui il nostro continente è afflitto. Credo si debba più precisamente parlare di “crisi delle forme delle vocazio­ni tradizionali”, cioè caduta delle vecchie tipologie. Su questo punto doloroso e decisivo molto ci può, però, ancora aiutare/dire la Parola della Scrittura.

Innanzitutto si può considerare come – mutatis mutandis – le co­munità cristiane delle origini si trovassero, a loro volta, dinanzi alla fine di un mondo e all’inizio di un altro, che assisteva al fallimento delle vocazioni tradizionali – che per loro erano quelle del Giudaismo dell’epoca – e non solo, ma come addirittura Gesù e gli Apostoli promuovessero questo fallimento e auspicassero un superamento di esse.

Si pensi al sacerdozio del Tempio che il cristianesimo abbandona del tutto. Con Gesù la “vocazione” degli antichi profeti di Israele trova il suo compimento e quindi la sua fine, il suo riposo; si pensi a Simeone ed Anna in Lc 2,25.36: «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace (…) perché i miei occhi han visto la tua salvez­za» (Lc 2,29-30); mentre Gesù stesso critica aspramente ed azzera l’autorità di altri tipi di “vocazione”, quali quelle dei custodi della Legge e dei suoi maestri (Scribi, Farisei e Zeloti). Quelle “chiamate” erano diventate delle vere e proprie caste di potere, che Gesù defini­sce “ipocrite”, incapaci di trasmettere la Parola di Dio, abusive della Legge e impotenti a condurre la Salvezza («Non crediate di poter dire fra voi: abbiamo per padre Abramo. Vi dico che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre» dirà il Battista in Mt 3,9).

Col cristianesimo siamo di fronte ad un palinsesto del tutto nuo­vo, circa le vocazioni, quasi ad un day-after. Gesù recluta i suoi apo­stoli presso il mare o, in ogni caso, fuori dai luoghi sacri; egli stesso non è né sacerdote, né Scriba; similmente Paolo affida il suo Vange­lo a donne (!) come Lidia, che incontra a prescindere dalla sinagoga e fuori dalle mura della città, presso il fiume e, addirittura, nella sua “casa” – la casa di una commerciante di porpora! – sorgerà la prima chiesa d’Occidente, la prima Chiesa d’Europa (cf At 16,11-15).

Questi esempi sono molto importanti per noi. Ci aiutano a riflet­tere sulla grande occasione che stiamo vivendo e di cui forse non ci accorgiamo in pieno, intenti come siamo, troppo spesso, a pian­gere su quanto si è perduto… Dovremmo, invece, sentire il gusto di vivere come nei primi anni del Vangelo, anni kerygmatici, in cui ad un mondo radicalmente nuovo corrispondeva un annuncio al­trettanto inedito, vergine e tutto da inventare… Allora ci si affidava a tre suggerimenti, si beveva a tre sorgenti: quella della memoria di Israele, quella della cultura del tempo e quella dello Spirito di Pentecoste.

Così gli Apostoli si trovavano ad imparare da Abramo la Pro­messa, dagli uomini lingue, scienze e parole nuove e si trovavano ad avere dal fuoco dello Spirito Santo la capacità e il dono di farsi comprendere da ciascuno nella sua propria lingua, superando ogni possibile confine. Il cristianesimo stabiliva, peraltro, in questo modo la sua stessa vocazione: quella di voler parlare e coinvolgere realtà universali, rinunciando ad aree chiuse, elitarie, destinate ai pochi e difese dentro steccati religiosi od etici esclusivi.

È un miracolo che oggi assume un valore moltiplicato, data la maggiore ed enorme vastità del mondo in cui la Chiesa vive e con cui si confronta, e anche grazie alle enormi risorse che la più pro­fonda conoscenza attuale della Bibbia e la ricchezza delle scienze esegetiche, unite alla nuova competenza che la Chiesa ha sulle scienze umane, le forniscono e di cui la potenziano. Le auguriamo di prendere il coraggio a quattro mani e di “uscire sul mondo” e di andare al largo a “remare” la Parola, ad imparare le lingue della storia; di osare le incarnazioni necessarie e ragionevoli, senza paura di inoltrarsi verso di esse, anche quando la notte è ormai alta… proprio come fece Gesù quella sera quando l’ora lambiva, ormai, le luci dell’alba, sulle orme d’acqua delle reti, ai piedi di Simone e di Andrea.

Su quelle orme incatturabili, mutanti per loro stessa natura, si gettino altre reti per nuove anime di vocazione, nuovi abiti, nuove forme. Nuovi interlocutori della storia e del grido dell’umanità. Che il Dio vestito delle tradizioni strette, e purtroppo svuotate, del pas­sato, passi il testimone al Dio vivo del Presente, frutto di quella Tra­dizione che è letteralmente “Consegna” di una Memoria e di una Sapienza che è sempre acqua rigenerante, le cui Parole rinascono in tessuti fluidi, come Spirito e Anime di Voce, prima di farsi altro.

 

Come tradurre in esempi pratici la fedeltà alla chiamata nell’og­gi della Chiesa d’Europa?

Questa vocazione all’essere accanto, vicino, in una posizione orizzontale degli uni con gli altri, chiede la testimonianza di una au­tentica prassi di comunione all’interno della Chiesa stessa. Un’eredità trasmessa e custodita fin dall’inizio nell’insegnamento della nostra Chiesa.

Purtroppo molto resta ancora di una geometria piramidale o di contiguità, in cui tutti si sentono un po’ soli sul proprio piano del­la torre e il proprio spazio, che impedisce la chiara visione della presenza e del volto dell’altro. Così da non poterne trarre senso, consolazione e profezia. Ciascuno al proprio piano vede davanti a sé soltanto il vuoto. Un difetto che veicola, purtroppo, proprio “la mentalità di questo secolo” e rafforza una coscienza individualisti­ca, separata, da compartimenti stagno. Un peccato mortale, poiché porta con sé la forzatura di essere tutti degli eroi e di dovercela fare da soli. In questo modo la fede diventa un semplice ed astratto co­mandamento morale, un’anima pseudo-pelagiana che si priva della dolcezza della Grazia e della Comunione. E che spesso condanna a morte i semplici. Ciò che, infatti, talvolta si verifica è uno stile di vita triste e sconsolato, ma anche schizofrenico, sdoppiato, per cui si parla di fraternità e invece ognuno ha la sua “stanza”, il suo “carisma”, la sua propria “vocazione” separata, dentro la quale egli stesso si sente soffocare.

È tempo che, invece di pensare a costruire una torre sempre più alta e lontana dal mondo, pensiamo a scendere e ad abitare le case e le città, a formare nuove famiglie e chiese di fraternità, dove tutte le vocazioni trovino posto, dignità e parola, le une accanto alle altre, quelle antiche accanto a quelle nuove: gli uomini e le donne, i sa­cerdoti, le religiose, i religiosi, le nubili, le vedove, i celibi, gli sposa­ti, i vecchi, i giovani e i bambini, i manager e i poeti, che trovino uno sguardo di incontro, si pongano in un cerchio ideale che permetta loro di riconoscersi gli uni negli altri, dinanzi al Volto di Dio, “nel timore del Signore”. La Chiesa guardi ai fiori delle sue vocazioni come ad un giardino di carismi.

La Chiesa senta se stessa e si faccia sentire al mondo dove vive come una realtà di amicizia, di rispetto vicendevole, di cammino condiviso, di fatica comune, di Segno e anticipazione della Bellezza del Signore risorto. Un concerto di voci che non tema fragilità e debolezza, errori e conflitti, non abbia paura né vergogna della sua carne umana e dia musica e ossigeno a tante diverse intelligenze, esperienze, coscienze. Il concerto originale e stupendo del suo Cor­po di Agape.

Oggi siamo chiamati ad un nuovo discernimento dei doni dello Spirito. Poiché le vocazioni cambiano e trovano nuove incarnazio­ni al ritmo della storia. Il Verbo vuole farsi carne. Non possiamo cancellare la forza creativa di quel Verbo, di quella incatturabile Parola di Spirito. Perché non pensare a quanti carismi potrebbero essere davvero riconosciuti e valorizzati? Perché fermarci soltan­to alle forme tradizionali, nelle quali, peraltro, troppo ha contato l’aspetto della deontologia della sessualità? Perché finire per diven­tare patetici e financo idolatri nell’ansia di trovare a tutti i costi il modo di non chiudere strutture e case religiose e servirsi pertanto di “vocazioni cerotto” che offendono la dignità di tutti, del Signore in primis? Tutte cose del resto estranee alle esigenze di quel “Vangelo spirituale” di cui parla Paolo.

E se oggi siamo di fronte ad una nuova antropologia, come evi­tare di ripensare le vocazioni al Vangelo rispetto a questi mutamenti e, soprattutto, per quali sensate ragioni doverlo fare?

Fiorire – è il fine…

Colmare il bocciolo – combattere il verme –

ottenere quanta rugiada gli spetta –

regolare il calore – eludere il vento –

sfuggire all’ape ladruncola –

non deludere la natura grande

che l’attende proprio quel giorno –

essere un fiore, è profonda responsabilità.

(Emily Dickinson)