N.05
Settembre /Ottobre 2009

«Il Vangelo della vocazione per il giovane nella cultura europea» (NVNE 31)

Introduzione

Alla base di questa relazione vi sono due punti di riferimento: il “nostro” documento Nuove vocazioni per una nuova Europa, dal quale è tratta l’espressione “il Vangelo della vocazione”, pre­cisamente al n. 31, che esprime una certa cultura ecclesiale voca­zionale, e la cultura europea. In qualche modo dovremmo mettere in dialogo questi due interlocutori culturali, che già forse interagi­scono dentro di noi, dato che apparteniamo ad entrambe le culture. Per cercare di fare una proposta di tipo pedagogico-pastorale in re­lazione proprio al Vangelo della vocazione.

Mi sembra importante, allora, partire da un’analisi della cultura europea in relazione con la fede, dato che anche nella fede l’Europa non è certo una, essa ha una storia diversa nelle distinte aree geo­grafiche europee e si presenta dunque anche ben diversificata.

Per poi vedere come entrare in dialogo – in dialogo vocazionale – con questa cultura. E lo faremo a partire da quello che dovrebbe essere il punto di riferimento di questo dialogo, quale denominato­re comune della svolta che l’annuncio dovrebbe assumere in ogni parte d’Europa: la svolta missionaria. E successivamente vedere più da vicino le due mediazioni (o strumenti) centrali di questo annun­cio: il sacerdote (soggetto dell’annuncio) e il Vangelo della vocazio­ne (come suo contenuto).

 

La geografia europea della fede

Per comprendere le sfide poste all’animazione vocazionale euro­pea e le conversioni che probabilmente le vengono richieste, è di sicuro utile collocarle nel suo contesto naturale, quello – appunto – europeo.

Che cosa sta accadendo alla fede cristiana e alla catechesi in Europa?[1] Robert Schuman, uno dei fondatori della Comunità Eu­ropea, il 19 marzo del 1958, di fronte al primo Parlamento europeo sostenne con forza che l’Europa è interamente permeata di civiltà cristiana e che essa «è l’anima dell’Europa che occorre ridarle». Ma queste radici oggi sono sempre più invisibili o addirittura contesta­te[2]. Possiamo intravedere quattro aree geografiche, che delineano una mappa diversificata rispetto alla fede e quindi richiedono atten­zioni diverse per l’evangelizzazione.

 

Extraculturazione: dalla rottura alla necessità di argomentare/far sperimentare (Francia, Belgio, Paesi Bassi)

La prima area è quella interessata a una vera e propria “extra­culturazione della fede” (exculturation de la foi, che forse potrebbe essere tradotto con “espulsione culturale della fede”), secondo la nota espressione della sociologa francese Danielle Hervieu-Léger. Questa area interessa più visibilmente la Francia, il Belgio e i Paesi Bassi (forse anche quelli Scandinavi), paesi nei quali il cattolicesimo sembra non fare più parte dell’universo culturale.

La sociologa francese così si esprime: «Nel momento attuale la Chiesa ha smesso di costituire, in Francia, il riferimento implici­to e la matrice del nostro paesaggio globale. (…) Nel tempo della postmodernità la società, “uscita dalla religione”, elimina perfino le tracce che questa ha lasciato nella cultura»[3]. Si tratta, per questa parte di Europa, di una vera e propria rottura della trasmissione del­la fede: una rottura, che si consuma tra amnesia e resistenza, come descriveva con acume Christian Duquoc già nel 1999.

Come reagire a questa situazione? Possiamo intuire che, dentro un contesto culturale di exculturation e di “rottura”, l’annuncio del Vangelo debba coniugarsi su due registri principali: quello esperien­ziale/iniziatico (far fare esperienza della fede cristiana, essendosene perse le tracce culturali) e quello “apologetico”, come capacità di ridire la fede in modo culturalmente abitabile, perché là dove la fede è stata espulsa, occorre essere in grado di mostrare che essa è umana e umanizzante.

 

Permanenza della tradizione cristiana: dalla continuità socio­logica all’esigenza di transitare da una fede tradizionale ad una scelta personale (Italia, Polonia, Spagna, Portogallo)

C’è però una seconda area, da non sottovalutare: essa riguar­da una situazione culturale che conserva ancora larghe tracce di tradizione cristiana, anche se già segnate da un processo di se­colarizzazione importante. L’Italia rappresenta in qualche modo questa area europea, che tocca soprattutto il Sud dell’Europa e, in particolare, oltre all’Italia, paesi come la Spagna e il Portogallo, alcuni paesi dell’Est vicini all’Italia. La Polonia presenta una con­figurazione simile.

Questa area è caratterizzata da un processo di secolarizzazione delle mentalità, ma non tale da soppiantare le tracce dei riferimenti cristiani. Questa permanenza della memoria cristiana e delle sue manifestazioni sembra resistere a ogni tentativo di riduzione. Essa costituisce certamente una risorsa per l’annuncio del Vangelo, ma pone diversi problemi all’evangelizzazione.

In tale contesto, per recuperare un autentico atteggiamento credente si dovrebbe aiutare a “transitare” da una fede tradiziona­le a una fede liberamente ed esistenzialmente assunta e a modifi­care le molte rappresentazioni religiose ancorate nelle mentalità, che sono di ostacolo alla fede e che distorcono il volto del Dio di Gesù Cristo.

 

Clandestinità della fede: dalla continuità individuale e rituale all’esigenza di creare un tessuto comunitario della fede e una riappro­priazione in termini personali ed esistenziali (paesi dell’Est dopo la dominazione dell’ex Unione Sovietica)

Possiamo individuare una terza area rispetto alla fede. Riguar­da i paesi dell’Est che hanno subito la dominazione della vecchia Unione Sovietica. Luiza Ciupa, parlando dell’Ucraina, afferma: «L’Ucraina ha vissuto tra la seconda guerra mondiale e la caduta dell’URSS (1946-1989) una fase storica del tutto particolare. Que­sto tempo “lungo” è segnato dall’accanimento delle persecuzioni, dalla spietata distruzione dei valori morali cristiani, dallo spettro dello sdoppiamento della personalità, dalla affermata e vissuta ne­gazione dell’esistenza di Dio. Tutto ciò era programmato sin nei mi­nimi dettagli… Il difensore eroico della fede cristiana in Ucraina è stata la generazione più anziana: le nonne e i nonni, le mamme e i papà, i quali, nelle situazioni più difficili degli anni delle persecuzio­ni, trasmettevano la viva fede a figli e nipoti, educavano all’amore per la loro Chiesa e il loro popolo»[4].

La fede cristiana è stata custodita, in questi paesi di dominazione sovietica, in un clima di clandestinità. La caduta del muro di Berli­no e della Repubblica Sovietica (1989) segnano il ritorno pubblico della fede cristiana nei paesi dell’Est. Ma il lungo tempo di clande­stinità porta a continuare a vivere una fede piuttosto privata, fon­damentalmente cultuale, con scarsa incidenza nella vita pubblica.

Ebbene, in questi paesi, ove la fede è stata vissuta in stato di clandestinità e si è ritrovata improvvisamente libera, occorre ac­compagnare un percorso di riappropriazione serena, che non abbia bisogno di un nemico per stare in piedi e che permei la vita perso­nale e la propria esposizione pubblica.

 

L’areligiosità pacifica: dall’assenza “positiva” di qualunque fede al tentativo di far scoprire la fede come novità sorprendente (Germania orientale)

Va infine segnalata come eccezione significativa tra i paesi dell’Est (a parte la Polonia che ha una tradizione che l’avvicina di più alla tipologia del Sud Europa) la condizione della Germania orientale. Essa presenta una specificità unica in Europa per quanto riguarda il rapporto con la fede. Ufficialmente in questo paese c’è il 4% di cattolici e il 21% di protestanti. Il resto della popolazione (il 75% circa) è semplicemente e serenamente areligioso. Si tratta di una areligiosità sentita come normale e che non sorprende nessuno: una areligiosità pacifica. Guido Erbrich (nella sua relazione tenuta a Lisbona, al Congresso EEC di giugno 2008) afferma: «Se qualcuno in Germania dell’Est pone la domanda: “Lei crede in Dio?”, si senti­rà rispondere: “No, sono completamente normale”»[5].

Il filosofo e prete Heberhard Tiefensee, di Erfurt, parla di con­testo areligioso stabile[6], eccezionalmente resistente a ogni sforzo di missione, e invita a guardarsi bene dall’insinuare che l’homo areligiosus della Germania orientale sia per questo meno attento e sensibile ai valori umani dell’homo religiosus della Baviera o della Polonia o del resto dell’Europa: su questo aspetto, la situazione in Germania orientale è uguale, e per certi versi migliore, di quella della Germania occidentale, ancora fortemente strutturata dal cri­stianesimo[7]. «Sia nel campo dei valori che nelle questioni relative al senso della vita, la Germania Orientale si è rivelata sorprenden­temente costante e resistente alle crisi e al contempo ferma nella sua areligiosità»[8].

Siamo di fronte ad una “terza confessione di individui senza confessione religiosa”. Ritroviamo una situazione analoga anche in Svezia e nella Repubblica Ceca.

In queste situazioni in cui si è serenamente e pacificamente areligiosi, l’annuncio dovrebbe presentarsi soprattutto come capa­cità di sorprendere, di fare del Vangelo una bella sorpresa, un di più gratis che cambia il sapore della vita.

Perché abbiamo fatto questo tentativo di differenziazione della situazione credente in Europa? Non solo per avere un quadro rela­tivamente ampio del problema e della crisi, ma soprattutto perché è utile a tutti mettere in relazione reciproca sia le geografie differenti sia le sfide di annuncio, perché ogni situazione avverte l’altra di una possibilità già presente. In altre parole, le caratteristiche d’un paese circa la fede molto probabilmente non sono solo di quel paese, ma tendono a espandersi altrove. Così, ad esempio, per quanto concerne l’Italia, della quale posso dire qualcosa di più direttamente constatato, la permanenza delle tracce e del vissuto cristiano non deve impedirci di vedere la situazione di ateismo pacifico già presente in molte per­sone. È una realtà che può rappresentare l’esito ultimo per tutti, ma anche, come vedremo, la prospettiva più interessante per ricondur­re la fede al suo statuto originario e la comunità cristiana alla sua identità missionaria. Altrettanto presente in Italia è una situazione di “rottura” con la Chiesa, in accelerazione visibile in questi ultimi tempi. La Germania dell’Est e la Francia sono già largamente pre­senti in Italia; sono anche uno “spazio” presente in molti credenti, due aree latenti, forse, in molti di noi. Un motivo in più, questo, per lavorare insieme con un comune interesse e forse anche comuni strategie.

 

Denominatore comune: la svolta missionaria della pasto­rale vocazionale (prospettiva pastorale)

Forse qualcuno si sarebbe aspettato che partissi dalla situazione della pastorale vocazionale (PV) europea, invece abbiamo preso le mosse da un’analisi della fede: perché? Perché la PV è collegata per sua natura con l’annuncio della fede e oggi si trova ad esserlo ancor più. Con un annuncio della fede che – a sua volta – oggi deve essere sempre più di natura missionaria, da primo annuncio. Missionario secondo modalità diverse, perché diverse sono le situazioni, ma mis­sionario in ogni caso, nel senso elementare del termine, come an­nuncio della fede in un contesto che sta perdendo e, in alcuni casi, ha già perso – o non l’ha mai avuto – il contatto autentico con la fede.

 

Pastorale vocazionale come primo annuncio

Di conseguenza, il Vangelo della vocazione prima trovava un terreno già lavorato-dissodato e reso disponibile all’ascolto, non do­veva partire dagli inizi, dai preambula fidei, che erano già stati tra­smessi generando poi un atteggiamento credente cui la PV poteva chiedere un’ulteriore espressione credente: l’opzione vocazionale. Ora non è più così: la proposta vocazionale parte da zero. Ma scopre anche un’altra cosa e questo è il punto importante e nuovo: scopre che quell’annuncio missionario le compete a tutti gli effetti, ne è anch’essa interprete e testimone che lo proclama. Quindi, se per un verso non può dare per scontata la fede dell’interlocutore, per un altro verso può e deve farsi carico del primo annuncio con tutto ciò che esso significa, non può stare ad aspettare l’intervento del catechista o del missionario qua talis che prima semini il buon seme della fede. Anche perché… non occorre, in quanto essa stessa, la PV o la pro­posta vocazionale, è parte essenziale di questo annuncio della fede, ne svela aspetti centrali come centrale è, appunto, la vocazione in tale annuncio, lo contiene e ne è contenuta, in certo senso, perché non può pensarsi una fede nel Dio, Padre e Creatore, l’Eterno chia­mante, senza ad esempio sentirsi ogni giorno, ogni istante “chiamati” a realizzarsi secondo il piano che il Creatore ha stabilito per la creatura; non si può credere in Gesù Cristo salvatore, che ci ha salvati con una grazia “a caro prezzo” (Bonhoeffer) senza sentirsi responsabil­mente coinvolti in questo drammatico processo salvifico, senten­dosi, cioè, responsabili della salvezza altrui; non si può credere nello Spirito Santo, senza avvertire la propria persona segnata da quella unicità-singolarità-irripetibilità che è frutto della sua presenza e che si esplicita nei suoi doni o carismi, da mettere liberamente al servizio degli altri. La fede non esiste senza vocazione; non è fede vera quella di chi, assieme, non scopre la sua personale strada di realizzazione della propria umanità; è come dire: «Non esiste la fede senza le opere, o senza una personalizzazione dell’atto credente che porta il soggetto a individuare il suo modo originale e responsabile di vivere la fede e di viverla perché altri credano». La vocazione, in fondo, è la forma assunta nel credente dalla sua adesione di fede, secondo la fantasia scapigliatissima e ordinata dello Spirito di Dio.

 

Dalla fede alla vocazione, dalla vocazione alla fede

Insomma, vogliamo dire che la PV non viene necessariamente dopo l’annuncio della fede. Se così fosse davvero, dovremmo tirarci indietro o aspettare chissà quanto dinanzi allo sconcertante pano­rama europeo prima tracciato, specie in certi posti; invece affermia­mo con forza che la PV è un modo di annunciare la fede, forse il modo più autentico e genuino nell’Europa d’oggi, o comunque è parte del kerygma dei giorni nostri.

Questo è forse il cammino in parte nuovo, dicevamo, non pro­prio tradizionale, eppure forse particolarmente atteso e opportuno oggi. Nel contesto attuale di progressivo distanziamento psicologico dei giovani dalla Chiesa o di rottura o di ignoranza o di atteggia­mento sufficiente nei confronti della proposta credente, che crea crescente disagio, da parte degli operatori, nel proporre a ragazzi, adolescenti e giovani la prospettiva credente, il tema del proprio futuro, cui ognuno è inevitabilmente interessato (anche se lo nega), potrebbe costituire l’occasione buona per riaprire un certo discorso o divenire lo stimolo che restituisca interesse alla proposta credente.

Insomma, la sollecitazione vocazionale intelligentemente propo­sta (al di fuori, cioè, di interpretazioni mercantili e non rispettose del cammino del singolo) potrebbe essere la strada lungo la qua­le risvegliare una fede sopita o far nascere una fede nuova o dare nuovo slancio a una fede solo tradizionale, e la pastorale vocazio­nale divenire la pastorale strategica e addirittura vincente in questi tempi post-moderni. Anche per questo il Documento del Congresso europeo afferma che la pastorale vocazionale è la prospettiva origi­naria, ma anche quella unitario-sintetica della pastorale in genere, anzi, «la pastorale vocazionale è la vocazione della pastorale oggi»[9], quella su cui si dovrebbe investire di più per ritrovare e riproporre autentici percorsi credenti (prima ancora che per riempire seminari e noviziati).

 

Conversione missionaria della pastorale vocazionale

La crisi europea, infatti, circa la fede, secondo le quattro diverse situazioni indicate, è anche conseguenza di un annuncio della fede non abbastanza segnato dalla dimensione vocazionale, o che l’ha interpretata in maniera parziale e riduttiva, non abbastanza aperta a tutti, come parte essenziale del messaggio cristiano. Dunque un annuncio poco responsabilizzante, piuttosto centrato sull’economia della propria privata salvezza che non su quel legame naturale con l’altro che la fede propone al credente; e, a questo punto, annuncio di una fede poco cristiana. Nulla da meravigliarsi che quella fede sia andata in crisi, in modi e tempi e ambienti diversi.

Occorre ripensare in senso missionario la PV europea, restituendole la sua naturale vocazione missionaria, quella di ricordare che cristia­nesimo vuol dire accoglienza di un dono che crea responsabilità, che invia agli altri, che manda in missione. Sarebbe necessario, allora, io credo, che la PV esca da una situazione di sudditanza teologico-pastorale in cui una certa concezione riduttiva di essa l’ha relegata (come fosse deputata solamente a riempire i seminari) e si proponga come parte essenziale di una autentica proposta della fede oggi.

E credo sarebbe molto importante che anche attraverso incontri come questo trovassimo un accordo su questo denominatore co­mune, che interessa l’Europa intera. Così come sarebbe interessan­te che, a partire dalle quattro configurazioni della fede in Europa che abbiamo proposto, divisi in gruppi, a seconda dell’appartenen­za geografica, cercassimo di definire cosa potrebbe voler dire fare un’animazione vocazionale missionaria, come annuncio della fede. Si tratta di realizzare una sorta di conversione missionaria della PV e della pastorale in generale.

 

Il sacerdote, animatore vocazionale nell’Anno Sacerdotale

Tutto quanto abbiamo ora visto ha e deve avere un significato particolare in questo “Anno Sacerdotale” (AS) appena iniziato. C’è chi ha detto che quella vocazionale è non solo una delle finalità di tale anno, ma la vera finalità. Certo, potrebbe essere proprio così, a condizione di intendere bene il senso dell’espressione e il modo concreto, pastorale, di tradurla in pratica.

È chiaro che il prete rappresenta un po’ quel punto centrale at­torno al quale si sviluppa il discorso, o che dovrebbe promuovere un’autentica cultura vocazionale come parte essenziale o compo­nente normale del primo annuncio. A quali condizioni?

 

Animazione vocazionale e formazione permanente: legame singolare

Una delle attenzioni del Papa nell’indizione di questo AS è, mi sembra, far vedere il collegamento tra rinnovamento dell’azione pastorale e approfondimento della vita spirituale, senza alcuna di­cotomia. Significativo, in tal senso, il modello consegnato dal Papa ai presbiteri: il Santo Curato d’Ars. Così, nelle parole di Benedetto XVI tale iniziativa dovrebbe «favorire la tensione dei sacerdoti verso la perfezione spirituale dalla quale soprattutto dipende l’efficacia del loro ministero». Sembra dunque di capire che Benedetto XVI pensi ad un evento non spettacolare, ma che dovrebbe contribuire a promuovere l’impegno di interiore rinnovamento di tutti i Sacerdo­ti per una loro più incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi, «nella riscoperta gioiosa della propria identità, della fraterni­tà del proprio presbiterio, del rapporto sacramentale con il proprio vescovo»[10].

Ribadire questo collegamento tra vita interiore e pastorale è come scoprirne un altro: quello tra animazione vocazionale (AV) e for­mazione permanente (FP), poiché, in fondo, ha le stesse radici. Se la FP significa l’azione del Padre che vuole plasmare in noi i lineamen­ti del Figlio, tutta la vita, in ogni circostanza ed età, diventa azione formativa che chiede una disponibilità intelligente nel presbitero credente, fatta di vigilanza e libertà interiore. Ma che gli offre poi una capacità di testimonianza vocazionale sempre nuova e fresca. Per questo, solo chi prende sul serio la propria formazione perma­nente può fare AV (poiché scoprirebbe e darebbe ogni giorno motivi nuovi alla sua consacrazione), mentre solo chi assume con impegno il compito dell’animazione vocazionale è provocato a portare avanti anche la sua formazione permanente, poiché avverte proprio in ciò che propone agli altri stimoli sempre nuovi per vivere bene la pro­pria vocazione.

La FP è come una metafora dell’essere prete o un modo di defi­nirlo come un lento processo di formazione dei sentimenti del Fi­glio, qualcosa che dà una nota fondamentale di definitività, stabili­tà, profondità, fedeltà… all’agire del presbitero; e, dunque, anche al suo impegno di AV, che sgorgherebbe del tutto naturale da questa concezione del proprio cammino formativo.

Con queste conseguenze positive. L’AV in tal modo sarebbe pensata come qualcosa che tocca la natura intrinseca dell’essere prete, o qualcosa che nasce dalle profondità della sua vita inte­riore; riguarda ogni prete, si esprime in un atteggiamento costante di vita e si manifesta in ogni espressione pastorale (come diremo poi); mira, di conseguenza, alla creazione di una cultura vocazionale, ovvero di una mentalità generale vocazionale in tutti i credenti, ognuno chiamato a rispondere all’appello a lui rivolto dal Creato­re, come via migliore per la proposta di una vocazione di speciale consacrazione.

Di fatto, investire nell’animazione vocazionale e, assieme, nella formazione permanente è una scelta strategica e intelligente per una diocesi. È un vero e proprio investimento che mira al cuore del problema e ai suoi due elementi decisivi e pure precari: la forma­zione continua dei presbiteri (il presente) e l’annuncio missionario dell’Evangelo (il futuro).

 

Vocazione permanente (o la reperibilità di fronte a Dio)

In modo rigoroso, non si dovrebbe parlare solo di formazione permanente, ma di vocazione permanente e comunque non si dà la prima senza la seconda. In altre parole, c’è FP solo laddove un credente impara a lasciarsi chiamare e a cogliere la chiamata ogni giorno della sua vita, ogni mattino (“ogni vocazione è mattutina”). È certa una cosa, che in quel prete in cui la coscienza della vocazio­ne è permanente assieme all’ascolto del Signore che chiama, diver­rà permanente anche l’impegno vocazionale, o l’AV.

D’altro canto questo significa una notevole vita spirituale, fatta di capacità d’ascolto, di abitudine quotidiana (mattutina) a cogliere nella Parola di Dio (del giorno, preferenzialmente) lo spunto per una rivelazione sempre nuova, su Dio e su di sé. Ma in modo par­ticolare significa anche la libertà di percepire quella parte di sé che non si lascia chiamare, quelle componenti della propria personalità ancora da evangelizzare, quelle zone del proprio mondo interiore ancora sorde o insensibili o in letargo permanente o sclerotiche… e che tendono pericolosamente ad estendersi ad altre zone, contami­nandole. Il prete dovrebbe mantenersi in uno stato di costante repe­ribilità da parte del suo Signore. Ovvero, detto diversamente e dal suo punto di vista, dovrebbe imparare a chiedersi in ogni momento della sua vita: «Dove sei Signore? Dove mi stai conducendo? Cosa mi stai chiedendo? Cosa vuoi che io faccia in questo momento?…». E forse ancor prima: «Sono o non sono costantemente reperibile da parte di Dio?…».

 

Seconda chiamata

Espressione inevitabile di questa reperibilità quotidiana è la co­siddetta “seconda chiamata”, che consiste, in sostanza, in una per­cezione nuova della chiamata, come di un appello nuovo alla san­tità della vita, che normalmente – secondo quanto dicono i maestri di spiritualità – coincide anche con un momento particolare della vita: quando uno sperimenta che Gesù aveva ragione quando dice­va ai discepoli che una certa vocazione o sequela «è impossibile agli uomini, ma non a Dio» (Mc 10,27). All’inizio ci si crede, certo, ma fino ad un certo punto; poi la vita si incarica di farti comprendere che è proprio così.

Mi pare che tale situazione sia descritta con una certa efficacia da Carlo Carretto nel suo long seller, Lettere dal deserto, dal deserto di quell’interiorità che ci fa scoprire l’abisso della nostra falsità: «Cre­devamo sotto la spinta del sentimento di essere generosi; e ci sco­priamo egoisti. Pensiamo, sotto la spinta dell’estetismo religioso, di saper pregare; e ci accorgiamo che non sappiamo più dire “Padre”. Ci eravamo convinti di essere umili, servizievoli, ubbidienti; e con­statiamo che l’orgoglio ha invaso tutto il nostro essere, fino alle radici più profonde. Preghiera, rapporti umani, attività, apostolato: tutto è inquinato. È l’ora della resa dei conti; e questi sono molto magri (…). Normalmente ciò capita sui quarant’anni: grande data liturgica della vita, data biblica, data del demonio meridiano, data della seconda giovinezza, data seria dell’uomo (…). È la data in cui Dio ha deciso di mettere con le spalle al muro l’uomo che gli è sfuggito fino ad ora dietro la cortina fumogena del “mezzo sì e mezzo no”.

Coi rovesci, la noia, il buio; e più sovente ancora, e più profon­damente ancora, con la visione o l’esperienza del peccato. L’uomo scopre ciò che è: una povera cosa, un essere fragile, debole, un insie­me d’orgoglio e di meschinità, un incostante, un pigro, un illogico. Non c’è limite a questa miseria dell’uomo; e Dio gliela lascia ingoia­re tutta fino alla feccia (…). Ma non basta. Nel profondo è riposta la colpa più decisiva, più vasta anche se nascosta, appena o forse mai erompente in singole opere concrete (…); colpa che consiste più in atteggiamenti generali che in singole azioni, ma che per lo più de­termina la vera qualità del cuore umano; colpa che è nascosta, anzi camuffata, perché noi a malapena e spesso solo dopo lungo tempo possiamo coglierla con lo sguardo, ma tuttavia abbastanza viva nel­la coscienza da poterci contaminare e che pesa assai più di tutte le cose che noi abitualmente confessiamo. Io intendo gli atteggiamenti che avvolgono la nostra vita intera come un’atmosfera, e che sono presenti, per così dire, in ogni nostra azione e omissione; peccati di cui non possiamo sbarazzarci, cose nascoste e generali: pigrizia e viltà, falsità e vanità, delle quali neppure la nostra preghiera può essere interamente libera; che gravano profondamente su tutta la nostra esistenza e la danneggiano»[11].

In una parola, la constatazione dell’impossibilità umana, dell’im­potenza radicale di fronte alla chiamata che viene da Dio, impo­tenza riconoscibile a prescindere dalle proprie infedeltà esplicite o trasgressioni evidenti.

La riflessione di Carretto è esemplare. Su una sola cosa, forse, è lecito dissentire, sull’indicazione dell’età dei quarant’anni come momento di questa esperienza. Non credo che la cosa vada presa in maniera assoluta; penso invece che, semmai, a partire da un’età matura – potrebbe essere anche prima dei quarant’anni – ogni sta­gione della vita sia buona per fare questa esperienza che potrebbe cambiare radicalmente il modo d’intendere e poi vivere il proprio impegno di santità come realtà impossibile all’uomo. Per qualcuno questo momento può arrivare più tardi nella vita; l’importante è che arrivi quale momento di verità! In fondo è anche l’esperienza di Paolo, il quale si converte davvero non solo lungo la via di Da­masco, ma quando, di fronte alla constatazione della propria impo­tenza (o impossibilità), chiede a Dio di togliergli quella spina nella carne che tanto lo umilia, e ne ha – per tutta risposta – un fermo e misterioso diniego: «Ti basta la mia grazia. La mia potenza, infatti, si manifesta pienamente nella tua debolezza» (2Cor12,9). Qui Paolo si converte da certe pretese un po’ narcisistiche; è la sua seconda chiamata, cui risponde con un “sì” che è il suo magnificat: «Mi van­terò ben volentieri delle mie debolezze» (v. 10).

Ebbene, quello è per tutti il momento della “seconda chiamata”, forse il momento più vero della vocazione e del suo mistero, quello in cui uno ha la possibilità preziosa di convertirsi da un certo narci­sismo spirituale, o di assumere anche la conversione quale evento permanente. Finalmente, a questo punto, e solo a questo punto, abbiamo il vero e proprio animatore vocazionale. Il quale, per definizio­ne, può essere solo uno che ha percorso un itinerario vocazionale completo, che cioè va dalla prima alla seconda chiamata. Insomma, vogliamo dire, fare animazione vocazionale non è semplicemente saper essere interessanti e attraenti nella proposta, quanto aver ma­turato una esperienza a suo modo completa del mistero della chia­mata che viene da Dio. In cui la chiamata si identifica sempre più con la chiamata alla santità o con il coraggio di assumere anche la conversione come evento permanente. In fondo credo sia questo il vero senso dell’AS. E fa una certa impressione il fatto che Benedetto XVI attraverso il Santo Curato d’Ars ci presenti proprio un grande esempio di prete molto familiare con la logica penitenziale della vita, ministro della riconciliazione, testimone della misericordia dell’Eterno, raccomandando ai sacerdoti di «non rassegnarsi mai a vedere deserti i loro confessionali né a limitarsi a constatare la disaffezione dei fedeli nei riguardi di questo sacramento». Se que­sto sacramento è in crisi oggi nei fedeli, forse lo è ancor prima tra i sacerdoti in quanto penitenti. Come dire: è ancora povera l’espe­rienza della seconda chiamata.

 

Il coraggio di una proposta (o la reperibilità di fronte alla gente)

In un punto della sua lettera per l’indizione dell’Anno Sacer­dotale, Benedetto XVI chiede che i sacerdoti siano «identificabili e riconoscibili sia per il giudizio di fede, sia per le virtù personali sia anche per l’abito, negli ambiti della cultura e della carità, da sempre al cuore della missione della Chiesa». Molte persone ricorderanno di queste parole solo quanto dice dell’abito, io credo invece che ci richiami soprattutto a quel coraggio di rendersi riconoscibili da parte della gente. Se prima parlavamo della reperibilità del sacerdote da parte di Dio, così ora parliamo della stessa reperibilità, ma da parte della gente. Un’espressione di questo coraggio è il coraggio della proposta, della proposta esplicita cristiana, magari di quella sacer­dotale. C’è troppa reticenza al riguardo, oggi, incertezza, timore – sbagliato – di turbare le coscienze.

Per cui uno potrebbe crescere senza sentirsi mai rivolgere un invito vocazionale, una proposta esplicita, una pro-vocazione chia­ra. Credo che ciò possa essere uno dei frutti più saporiti di questo AS: non tanto l’aumento delle vocazioni (anche se tutti ce l’augu­riamo), quanto un maggior coraggio vocazionale da parte di tutti i preti!

 

Il Vangelo della vocazione

Andiamo allora a rileggerci il n. 31 del Documento europeo voca­zionale: «Ogni incontro o dialogo nel Vangelo ha un significato vo­cazionale: quando Gesù cammina per le strade della Galilea è sem­pre inviato dal Padre per chiamare l’uomo a salvezza e svelargli il progetto del Padre stesso. La buona notizia, l’Evangelo, è proprio questa: il Padre ha chiamato l’uomo attraverso il Figlio nello Spiri­to, l’ha chiamato non solo alla vita, ma alla redenzione, e non solo a una redenzione da altri meritata, ma a una redenzione che lo coinvolge in prima persona, rendendolo responsabile della salvezza di altri. In questa salvezza, attiva e passiva, ricevuta e condivisa, è racchiuso il senso d’ogni vocazione; è racchiuso il senso stesso della Chiesa, come comunità di credenti, santi e peccatori, tutti “chiama­ti” a partecipare dello stesso dono e responsabilità. È il Vangelo della vocazione»[12]. Proviamo a tradurlo in termini pedagogico-pastorali.

 

«Ogni incontro o dialogo…»

Se questa è l’idea, annunciare la salvezza anche attraverso la PV, allora ogni espressione della pastorale dovrebbe essere vocazionale. In altre parole, se la PV si fa carico del primo annuncio, dell’annun­cio della fede, anche la pastorale in genere, in ogni sua espressione, si fa carico e portavoce della proposta vocazionale.

Principio prezioso, perché significherebbe un modo assoluta­mente nuovo di fare pastorale ed estenderebbe oltremodo ruolo e figura dell’animatore vocazionale. L’enfasi dell’incipit del n. 31 va su quell’ogni.

In parole semplici, ciò vuol dire che non esiste espressione au­tentica della pastorale che non sia vocazionale, che non possono esserci Eucaristia, catechesi, omelia, adorazione eucaristica, devo­zione popolare, amministrazione dei sacramenti (dalle nozze al bat­tesimo, dalla confessione all’olio degli infermi), direzione spirituale, devozioni particolari (dai rosari alle processioni, ai pellegrinaggi), azioni caritative e ministeri vari, ecc., che si pongano fuori da un contesto vocazionale, che non partano da lì e non tornino lì, che non aprano una prospettiva sull’orizzonte vocazionale della perso­na…; se non fa questo non merita il nome di “espressione pastorale cristiana”, è qualcos’altro, ma non appartiene alla pastorale cristia­na, non la esprime. Perché la pastorale cristiana “è fatta” di provo­cazione vocazionale, propone una chiamata.

Ciò vuol dire, visto dal punto di vista della PV, che l’elemento “vocazionale”, come aggettivo che qualifica ciò che facciamo nella Chiesa, non si riferisce solo alle attività esplicitamente vocazionali (come la giornata vocazionale o il campo-scuola vocazionale), ma può e deve applicarsi ad ogni gesto pastorale. Si fa PV attraverso ogni incontro e dialogo.

Com’è bello e significativo, da questo punto di vista, l’episodio della predicazione di Pietro il giorno di Pentecoste, quando la gente – alle sue parole – si sentì “trafiggere il cuore”, rivolgendo a Pietro una domanda tipicamente vocazionale: «Noi che cosa dobbiamo fare?». Ecco, se la singola azione pastorale non trafigge il cuore e non fa nascere dentro una domanda vocazionale, non è pastorale cristiana.

 

«…è sempre inviato dal Padre per chiamare»

Così si dice di Gesù. E così si dovrebbe poter dire di ogni pastore, di ogni presbitero, ma, credo, anche di ogni credente. L’animazio­ne vocazionale è totalizzante, sia perché si estende ad ogni azione pastorale, come abbiamo visto, sia perché riguarda ogni credente, senza alcuna eccezione. Alla maniera del Figlio e alla luce di quelle due indicazioni: sempre, inviato dal Padre per chiamare.

Della prima abbiamo già detto.

L’essere inviato dal Padre è altra caratteristica importante a livel­lo di identità dell’animatore vocazionale. Il quale deve avere sem­pre la coscienza che è il Padre che lo invia, perché è il progetto del Padre che deve annunciare e proporre, non le sue idee o i suoi in­teressi soggettivi, o interessi – vocazionali, naturalmente – di parte. Questo fa sì che chi annuncia non pretenda mai di mettere le mani sulla risposta e non giudichi mai la risposta della persona. Questa dimensione assolutamente gratuita dell’atto della proposta di fede è oggi culturalmente, in Europa, la condizione prima di una possibile accoglienza del Vangelo. Per chi viene da secoli di fede tradizionale e obbligata, la sola possibilità di tornare a credere viene dal fatto che i testimoni della fede siano percepiti essi stessi liberi e gratuiti nell’annuncio.

È fondamentale che l’animatore vocazionale, dunque, abbia questa libertà interiore da cui sgorga la gratuità, altrimenti rischia di dare un senso falso alla sua azione. Ed è proprio la consapevolezza di essere inviato dal Padre che dà forza e certezza e che sostiene nel­le inevitabili difficoltà di questo ministero. Certo, un animatore vo­cazionale esplicitamente incaricato in tal senso è immediatamente inviato dalla Chiesa, dal vescovo, dal superiore religioso, ma ancor prima è inviato dal Padre. Sarà questa certezza a sostenerlo nelle prove e nelle delusioni.

Mentre il mandato ufficiale non è – rigorosamente parlando – in­dispensabile, poiché ogni credente è chiamato e chiamato dal Padre a farsi carico del cammino vocazionale dell’altro, in forza della sua fede[13].

 

«La buona notizia, l’Evangelo, è proprio questa: il Padre ha chiamato l’uomo…»

Fare animazione vocazionale è una cosa bella perché tutto gira attorno a una bella notizia: che il Padre ha chiamato l’uomo. Ma è fondamentale che si rifletta su questa bellezza, o che l’animato­re vocazionale si senta portatore-annunciatore di una bella notizia. Attenzione, dunque, al tono della proposta che di solito nasce dalla premessa che le sta dietro, dal suo punto di partenza motivante: se uno, ad esempio, fa animazione vocazionale a partire dalla paura dell’estinzione, eccessivamente preoccupato per gli effetti della con­trazione numerica del clero è chiaro che avrà e darà alla sua pro­posta un tono corrispondente, quello tipico di chi fa le cose per o con paura. Ma se uno fa la stessa proposta perché consapevole di avere una bellissima notizia da dare a un giovane, notizia che ha già cambiato la sua vita e che ha sperimentato nella sua bellezza, allora il tono della sua proposta sarà completamente diverso e, probabil­mente, risulterà molto più convincente.

Seconda osservazione legata alla bellezza: ciò che è bello e buo­no e vero non va imposto in alcun modo, non va trasmesso attra­verso più o meno sottili processi di costrizione, semplicemente non ne ha bisogno, poiché possiede lo strumento più convincente per l’essere umano, la bellezza, appunto, coniugata con le sue due so­relle: la bontà e la verità.

Dunque, nessuna imposizione o costrizione nell’animazione vo­cazionale, semmai la libertà di chiamare qualcuno per proporgli qual­cosa di immensamente bello per lui e per la sua felicità.

Sono questi i due verbi strategici d’una intelligente animazione vocazionale.

Chiamare

Chiamare vuol dire mostrare interesse per la persona, di solito si chiama pronunciando il nome, ovvero la vocazione è un appello all’identità, strettamente personale. Appello che avviene nella li­bertà, quella del chiamante (libero, abbiamo detto, da interessi di parte o da mire troppo personali-istituzionali) e quella del chiamato (libero, si spera, di rispondere): la vocazione è l’incontro di due li­bertà, tra quella di Dio e quella dell’uomo; ma anche l’animazione vocazionale è l’incontro di due libertà, quella dell’animatore voca­zionale e quella del giovane. Questo è un aspetto molto importante, in un contesto come quello odierno europeo, in cui la libertà è uno dei pochi valori condivisi.

Proporre

Noi siamo passati dal «cristiani non si nasce, si diventa», affer­mato nel secondo secolo da Tertulliano in un contesto pagano, a una situazione esattamente rovesciata: «Si nasce cristiani e non si può non esserlo». In questa situazione di cristianità sociologica europea, durata per circa 1500 anni, essere cristiani era scontato e l’adesione e l’ascolto della Chiesa era dovuto. Siamo ora ad un terzo tornante, che potremmo riassumere con la seguente espres­sione: «Cristiani non si nasce, si può diventarlo, ma questo non è percepito come necessario per vivere umanamente bene la propria vita, tanto meno per appartenere alla propria società».

In una società pluriculturale come la nostra, la fede cristiana torna dunque al suo statuto originario di proposta libera e di ade­sione libera. Non è una conversione da poco. Paradossalmente, in una società di cristianità non c’era bisogno di evangelizzare, perché questo avveniva attraverso una specie di bagno sociologico. Si na­sceva cristiani (catecumenato sociologico). E quindi per 1500 anni noi abbiamo sviluppato non l’evangelizzazione, ma la catechesi, come cura di una fede già in atto, come educazione e animazione della fede[14]. Così pure, applicando al nostro discorso, abbiamo per tantissimo tempo sviluppato non l’animazione vocazionale, perché la società già cristiana generava quasi spontaneamente i suoi preti, anche se non ovunque nel medesimo modo (e a volte con mo­tivazioni non solo religiose). La conseguenza quale è stata? Che abbiamo perso da secoli la capacità di proporre. Proporre nel senso di fare appello alle attese più vere e profonde del soggetto, alla sua attrazione per ciò che è bello, ad esempio. Dunque significa saper motivare, avere ragioni per mostrare la convenienza di una certa cosa e, in ultima analisi, la sua verità-bellezza-bontà; senza usare altri argomenti (neanche quello d’autorità) o essere spinti da altre motivazioni (più o meno oscure).

Abbiamo perso la capacità di proporre il Vangelo, non ci siamo abbastanza preoccupati di trovare in noi le ragioni della nostra spe­ranza e di “proporre” in modo particolare la teologia della voca­zione cristiana, la bellezza della vocazione sacerdotale e religiosa. Paradossalmente, la nuova situazione risveglia la capacità propositiva della comunità cristiana. Chiede che torniamo a dire che Gesù è il nostro Salvatore e che torniamo a proporre il cuore del suo Vangelo e ad indicare a tutti che solo in esso è nascosta la nostra identità. Naturalmente, partendo dalla nostra personale esperienza.

 

«…l’ha chiamato non solo alla vita, ma alla redenzione, e non solo a una redenzione da altri meritata, ma a una redenzione che lo coinvolge in prima persona, rendendolo responsabile della salvezza di altri»

Mi sembra molto bello e illuminante questo passaggio, in cui il documento precisa il senso della vocazione, di ogni vocazione. E lo precisa con un ritmo incalzante, che delinea la vocazione come un cammino in tensione progressiva verso l’essere della creatura resa sempre più simile al Creatore. Il quale, infatti, “chiama” l’uomo non solo alla vita, ma alla redenzione, e non solo ad una redenzione da altri meritata, ma ad una redenzione ricevuta in dono che ora lo abilita a farsi responsabile della redenzione degli altri. «In questa salvezza, attiva e passiva, ricevuta e condivisa, è racchiuso il senso d’ogni vocazione; è racchiuso il senso stesso della Chiesa, come co­munità di credenti, santi e peccatori, tutti “chiamati” a partecipare dello stesso dono e responsabilità. È il Vangelo della vocazione»[15].

Mi pare molto bello e molto chiaro. Soprattutto è rilevante, dal punto di vista pedagogico, questa visione della creazione e dell’amo­re di Dio, ultima e vera motivazione di ogni vocazione. Potremmo metterla in questi termini: Dio ha tanto amato l’uomo da renderlo capace di amare alla maniera sua; in termini vocazionali, Dio ha salvato l’uomo (attraverso la croce del Figlio), lo ha salvato dal pec­cato, fondamentalmente dal peccato dell’egoismo, cioè lo ha salvato al punto da renderlo capace di farsi salvezza per gli altri, di sentirsi responsabile degli altri16. La vocazione è una chiamata a tutto ciò, ad accogliere questa capacità d’amore che il Creatore ha deposto in lui (e lo riempie di gratitudine), e lo abilita – per grazia – a non preoccuparsi esclusivamente di sé e della sua salvezza, ma di quella degli altri (lo apre cioè alla gratuità).

Questo è il senso di ogni vocazione. Poiché segnerebbe il vero compimento del nostro essere stati creati a immagine e somiglianza divina.

Mistero grande! E chiamata anche rivolta a questa nostra vec­chia e nuova Europa.

 

NOTE

[1] Duquoc, Fede cristiana e amnesia culturale, in «Concilium» n. 1/1999, pp. 155-162.

[2] Uno studio abbastanza recente del Pew Reserch center ci dice che, alla domanda se la religione abbia rilevanza nella propria vita, risponde sì soltanto il 33% degli Inglesi, il 27% degli Italiani e, addirittura, l’11% dei Francesi.

[3] «L’Eglise a cessé de constituer, dans la France d’aujourd’hui, la référence implicite et la matrice de notre paysage global. (…) Dans le temps de l’ultramodernité, la société “sortie de la religion“ élimine jusqu’aux empreintes que celle-ci a laissées dans la culture» (D. heRVieu-legeR, Catholicisme, la fin d’un monde, Bayard, Paris 2003, p. 288).

[4] La catechesi in Europa tra passato, presente e futuro, a cura di Ruta, in Catechesi e catechetica per la fedeltà a Dio e all’uomo. Studi in memoria del prof. don Giovanni Cravotta, Elledici, Torino 2008 pp. 267-268.

[5] Tiefensee, Modelli di azione evangelizzatrice nella Germania dell’Est, in «Catechesi» n. 4/2009, p. 15.

[6] Tiefensee, Une troisième confession dans l’Europe occidentale. Les chrétiens et leurs voisins areli­gieux en Allemagne orientale, in «Lumen Vitae» LVI, n. 1/2001, pp. 41-57.

[6] Si veda il paragone significativo stabilito da Tiefensee tra Germania Orientale e il resto d’Europa rispetto a valori come la famiglia, il lavoro, il tempo libero, l’amicizia, la libertà sessuale, il divorzio e l’aborto (Ivi, pp. 48-49).

[7] Ivi, p. 49.

[8] NVNE 26 a), b), g).

[9] Benedetto XVI, Lettera ai presbiteri per l’apertura dell’Anno Sacerdotale, Roma 2009.

[10] Carretto, Lettere dal deserto, La Scuola, Brescia 1993, pp. 101-103.

[11] NVNE

[12] NVNE

[13] Biemmi, Annunciare il Vangelo agli adulti, in «Credere oggi» n. 111/1999, Ed. Messag­gero, Padova.

[14] NVNE

[15] È estremamente interessante che oggi una corrente di pensiero importante come quella che fa capo a Buber, Lévinas, Rosezweig, Heschel… ribadisca con forza il principio della re­sponsabilità come caratteristica radicale dell’essere e dell’agire umano, che lo lega costituti­vamente all’altro.