N.05
Settembre /Ottobre 2009

«Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mc 2,17)

Omelia del 4 luglio 2009

Ci colpisce, nel ben noto episodio del libro della Genesi che ha per protagonista Giacobbe, raccontato nella Prima Lettura, l’evidente slealtà e l’agire menzognero del figlio di Isacco, il quale sottrae con frode la benedizione al fratello, dopo avergli già furbescamente strappato anche la primogenitura.

Ha ragione il biblista Alonso Schoekel nel sottolineare che la sto­ria salvifica non è sempre storia edificante. Eppure la salvezza, il rendersi presente di Dio nella storia, tra gli uomini, passa anche attraverso i limiti, la fragilità, la povera creaturalità umana. La fon­damentale legge cristiana dell’incarnazione fa sì che Dio non tema di essere là dove vi è la miseria degli uomini, il loro peccato: pre­cisamente come Gesù, il quale non rifiutava di stare a mensa con i pubblicani e i peccatori; anzi, desiderava essere in mezzo a loro.

Questo non va dimenticato nel momento in cui parliamo di vo­cazione cristiana: dalla fondamentale vocazione battesimale alle vo­cazioni al ministero ordinato, o alla vita consacrata o ad altri stati di vita cristiani. Vale sempre la parola di Gesù: «Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori». Da Abramo fino a Saulo di Tar­so, il Signore non chiama i perfetti, nemmeno quelli destinati alle funzioni più alte nella Chiesa, nemmeno coloro a cui è chiesta una testimonianza radicale di vita cristiana. Gesù non chiama i perfetti semplicemente perché i perfetti non esistono.

Non possiamo mai rinunciare a questo “realismo” cristiano, il quale ci rende avvertiti, e non ingenuamente ignari, del male che si annida anche nel cuore di coloro che istituzionalmente sono perce­piti come i più vicini a Dio.

È anche vero però che ogni chiamata è sempre, e prima di tut­to, chiamata alla conversione o alla santità; e ogni funzione nella Chiesa e per la Chiesa si colloca dentro la sequela e l’imitazione del Signore, non prima e non senza di essa.

Del resto la stessa vicenda di Giacobbe, quale ci è descritta dalla Genesi, ci appare come un cammino, sia pure tortuoso e difficile, di conversione, un impegnativo percorso di avvicinamento a Dio: pensiamo alla dura e ardua lotta con l’uomo misterioso (con Dio?) presso il torrente Iabbok. Ma prima di morire Giacobbe-Israele po­trà dichiarare ai suoi figli: «Dio è stato il mio pastore» (Gen 48,15).

Tutto questo ci fa dire che, se non può mancare nella Chiesa chi si fa umile mediatore di vocazione (“seminatore del Vangelo della vocazione”, suona il titolo di questo Congresso), deve per ciò stesso esservi anche chi aiuta a realizzare un rigoroso discernimento vo­cazionale, come pure chi offre esigenti proposte formative. La me­diazione della chiamata senza la successiva possibilità, per l’even­tuale chiamato, di utilizzare adeguati “strumenti” per realizzare la risposta (strumenti che si chiamano discernimento, accompagnamento, formazione), rischia di essere non solo inadempienza, ma frode e manipolazione, o di trascinare verso l’infedeltà.

Certo, noi usiamo dire che Dio sa scrivere dritto anche su righe storte. Ciò non toglie che le nostre storture vadano non rassegnata­mente e pigramente accettate, ma tenacemente combattute, in una conformità ogni giorno costruita e ricostruita sul modello unico e irrinunciabile che è Gesù di Nazareth.

Le parole del Vangelo ci aiutano a comprendere in che cosa si incentri, su che cosa faccia perno il processo di risposta e anche il cammino formativo del chiamato; ci rivelano il segreto, la chiave di ogni autentica risposta alla chiamata, di ogni generosa accoglienza dell’invio. Tale chiave, tale segreto è precisamente quella relazione con il Signore Gesù, presentata nel brano evangelico ascoltato come “sponsale”: cioè personale, libera, autentica e profonda.

A me pare che, soprattutto in ambito “ecclesiastico”, qualcuno possa talora – anche solo per superficialità – equivocare sulla vera natura della vocazione, facendone luogo di affermazione di sé (e non di uscita da sé), o in cui si alimentano ambizioni o “estetismi”, e comunque luogo di aspirazioni segnate da una mondanità che contraddice l’Evangelo e che rivela una insufficiente relazione con il Signore o una fede denutrita: una fede che non può reggere nei momenti in cui lo sposo si fa assente, nei vari venerdì o sabati santi della propria storia di credenti e di discepoli di Gesù.

Oggi avvertiamo più che mai che una ferma perseveranza nella riposta alla chiamata e una fedeltà coraggiosa all’invio si danno solo a partire da una radicata passione per Cristo e per il suo Regno, una passione che non può essere supplita da alcun’altra tensione uma­na, per quanto nobile e altruistica.

Ogni vocazione – come ho già ricordato – è un “tesoro in vasi di creta”, è segnata dalla fragilità: la fedeltà ad essa non può che pog­giare sulla fedeltà del Maestro, la fedeltà del Signore che non viene mai meno, una fedeltà da riscoprire, da contemplare e da benedire ogni giorno.