N.06
Novembre/Dicembre 2009

La Chiesa, luogo “necessario” dell’incontro

Cristo sì, Chiesa no. Forse non esiste slogan che abbia reso con più cruda evidenza uno degli atteggiamenti più diffusi nella cultura odierna di fronte al cristianesimo. Questo titolo, che W. Kasper e J. Moltmann hanno dato a un loro breve saggio, coglie la resistenza e il sospetto dell’uomo contemporaneo verso la Chiesa. Tale è il pregiudizio, che la Chiesa è spesso indicata non solo come ostacolo alla libertà dell’uomo, nemica della modernità e delle sue conquiste, ma addirittura come l’impedimento più forte alla stessa esperienza di Dio.

È ormai un luogo comune la distinzione tra un’adesione personale a Cristo a prescindere dalla Chiesa, che nulla avrebbe a che fare con il Vangelo, anzi ne sarebbe una evidente dimostrazione al contrario.

Ma non basta dire che si tratta di un pregiudizio. Non basta rivendicare il diritto della Chiesa ad annunciare la bella notizia che ha ricevuto dal suo Signore. Bisogna mostrare come e perché non sia possibile un incontro con Cristo senza la Chiesa, e come l’esperienza di Cristo sia anche e sempre un’esperienza ecclesiale. Dopo aver analizzato le ragioni di questa deriva anti-ecclesiale, il presente contributo vuole chiarire come la Chiesa sia il luogo “necessario” dell’incontro con Cristo. Per farlo, tra le possibili opzioni, seguirò preferibilmente i documenti del concilio Vaticano II, anche per favorirne una più completa recezione.

 

  1. L’esperienza come categoria interpretativa della realtà

Oggi sembra che non si possa parlare di fede se non in termini di esperienza. Il fatto di affermare la necessità di coniugare fede e vita, di radicare la fede nel vissuto delle persone, rimanda non solo alla possibilità che i due termini siano distanti l’uno dall’altro, ma che di fatto lo siano stati per lungo tempo, dando luogo all’impressione di un cristianesimo solo nominale.

Discorsi del genere sono tipici di una situazione di trapasso, segnata da cambi rilevanti. Quando un sistema entra in crisi, le scelte esigono consapevolezza, e questa non sopporta l’incoerenza tra affermazioni di principio e realtà di fatto. Se questo vale nella società civile, figurarsi nella Chiesa, dove i parametri di riferimento non sono fissati da convenzioni culturali, ma dal Vangelo; dove l’esperienza si accompagna necessariamente alla testimonianza.

D’altronde, il termine “esperienza” appare come la cartina al tornasole di questo cambio epocale. Alle generazioni formate prima del Concilio il termine suonava sospetto, perché rimandava alle idee moderniste, bollate con durezza da Pio X nell’enciclica Pascendi, perché sembravano ridurre la vita cristiana a sentimento, a esperienza soggettiva, in ultima analisi a opinione del singolo. Per questo, chiunque assumesse una qualche funzione nella Chiesa doveva emettere il giuramento antimodernista. Basta questo per misurare lo sconcerto che toccò non pochi padri conciliari, quando si trovarono davanti alla proposizione che «la comprensione tanto delle parole che delle cose rivelate progredisce nella Chiesa ex intima spiritualium rerum experientia»[1]. Benché il tema fosse già evocato prima del Concilio fu dopo il Concilio che il ricorso all’esperienza divenne una specie di passepartout non solo per accostare il mondo della fede, ma anche per parlarne con cognizione di causa.

Le ragioni di questa svolta sono di ordine sia culturale che ecclesiale. Sul piano culturale, il ’68 ha segnato la fine di un mondo. Al di là della reale consistenza del movimento studentesco e dei fatti accaduti, ciò che sconvolse fu l’idea stessa di voler contestare un ordine costituito da secoli. La crisi di quel modello era sotto gli occhi di tutti, ma non era mai accaduto che il sistema fosse così direttamente e violentemente messo in questione. Quella data assurge a simbolo di una rivoluzione sociale che ha segnato la fine di un mondo costruito sul principio di autorità: le giovani generazioni rivendicavano un diritto alla libertà e all’autodeterminazione che si traduceva in rigetto di tutto ciò che avesse titolo e valore d’istituzione. Le idee che avevano attraversato la modernità – dall’umanesimo all’esistenzialismo ateo, passando per il razionalismo, l’empirismo, l’illuminismo, l’idealismo con tutte le sue derive – prendevano corpo in quelle manifestazioni di piazza che sembravano dare inizio a un mondo nuovo, dove l’uomo – e soltanto l’uomo – era misura di sé.

In fondo, è questo il criterio di una cultura che ha posto il soggetto al centro di ogni sua espressione, come misura della realtà. In questo consiste, in ultima analisi, il cambio culturale che va sotto il nome di “svolta antropologica”! Quale sia l’esito di un mondo che ha messo l’uomo al centro di ogni cosa, lo si vede nella deriva individualistica di una società globale, dove ciascuno è indotto a ripetere un modello precostituito da altri, nell’illusione di essere unico e originale. Le sirene della pubblicità continuano a solleticare e alimentare questa disposizione con la promessa che “tutto gira intorno a te”; e ciascuno, trasformato in cliente, esce dal negozio con l’illusione di essere il solo a possedere un articolo seriale confezionato in una borsa bella lucida, dove spicca il criterio ultimo del pensiero debole: «Me, myself and I».

 

  1. Il carattere personale dell’esperienza di fede

La Chiesa non vive fuori dal mondo e i cristiani sono figli del loro tempo. L’esperienza cristiana di oggi appare segnata da una accentuazione del soggetto che sconfina spesso negli eccessi di un individualismo ormai imperante. Nel bene e nel male, tutti gli atteggiamenti che si ritrovano nel vissuto di ogni giorno si possono rinvenire anche nel modo di vivere la fede.

Questo vale soprattutto per il momento iniziale dell’esperienza religiosa. In un tempo in cui “cristiani non si nasce, ma si diventa”, assume un valore fondamentale l’evento che segna il passaggio dal prima al dopo, da una situazione all’altra della vita. Si capisce in questa direzione lo sviluppo esponenziale di esperienze e linguaggi nella Chiesa che adottano la testimonianza come modalità privilegiata per dire la fede. Soprattutto nei movimenti ecclesiali – ma si tratta di un fenomeno diffuso in tutti gli ambienti della Chiesa – il momento più sentito è quello delle “testimonianze”: il termine dice quel genere di interventi, nei quali qualcuno racconta come ha incontrato il Signore, come sia stato sottratto dall’abisso del peccato, come da quel momento la sua esistenza sia radicalmente cambiata. La vita cristiana viene descritta a tinte forti, nell’unica forma possibile della conversione – quasi che la conversione fosse sempre e solo per contrasto tra un prima di tenebre e un dopo di libertà, gioia, pienezza di vita.

Va da sé che il racconto voglia sottolineare la potenza di Dio e della sua azione di salvezza; ma il corollario inevitabile è la valorizzazione di una fede che risulta autentica solo in ragione della drammaticità dell’esperienza che l’ha generata, e, come autenticamente cristiano, solo chi può testimoniare di aver sperimentato in sé la lotta interiore. Si afferma anzi il principio che più è difficile e drammatico il passaggio, più è vera l’esperienza e più è credibile il testimone; con buona pace di chi, non potendo raccontare conversioni eclatanti, è destituito di ogni capacità e diritto di testimonianza.

Sarebbe facile liquidare la caratterizzazione esperienziale della fede come una deriva: al limite, una versione religiosa dello “sballo”, dove determinante non è la verità dell’esperienza, ma l’intensità dell’emozione che suscita. In effetti, questo è l’esito estremo di un’esigenza profonda di autenticità dell’atto di fede, che è tanto più vero e maturo, quanto più coinvolge tutto l’uomo, in tutte le dimensioni del suo essere. Proprio l’appello all’autenticità, che ritorna con tanta frequenza, è la spia di una consapevolezza nuova: che la fede non consiste nella sola conoscenza di verità da credere, ma in una scelta da testimoniare nella vita. Tutti i trattati sulla vita teologale insistono sul passaggio dalla fides quae alla fides qua: non basta sapere, bisogna vivere.

Questa logica si riflette anche nel processo di trasmissione della fede: per comunicare la vita in Cristo non basta insegnare delle nozioni, bisogna testimoniare la verità delle cose che si dicono. Altrimenti la verità stessa è messa in questione, perché è derubricata al livello dell’ideologia: quasi bastasse una ripetizione esatta per far risplendere la verità del cristianesimo. Nessuno meglio di Paolo VI ha espresso questo cambio di prospettiva, quando ebbe a dire che «l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri, lo fa perché sono dei testimoni»[2]. Ma questa testimonianza, prima che al singolo, Paolo VI la attribuisce alla Chiesa, come condizione della credibilità del suo annuncio: «È dunque mediante la sua condotta, mediante la sua vita che la Chiesa evangelizzerà innanzitutto il mondo, vale a dire mediante la sua testimonianza vissuta di fedeltà al Signore Gesù, di povertà e di distacco, di libertà di fronte ai poteri di questo mondo, in una parola, di santità»[3].

 

  1. Dio parla agli uomini come ad amici

A ben vedere, l’insistenza sulla testimonianza dipende da un cambio di prospettiva più a monte, che riguarda la teologia della Rivelazione. Per rendersene conto, basta richiamare il quadro tracciato dalla Dei Verbum: «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito santo, hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della vita divina. Con questa rivelazione infatti Dio invisibile nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé»[4].

La distanza del quadro proposto in Dei Verbum rispetto alla concezione del Vaticano I è evidente: in luogo di un’idea astratta e nozionale della Rivelazione, descritta come il deposito delle verità rivelate da credere, Dei Verbum legge l’evento attraverso le categorie relazionali di incontro, dialogo, amicizia, comunione. In evidenza, quindi, non sta più il Magistero come norma proxima della fede, con il compito di custodire integralmente e trasmettere infallibilmente le verità di fede contenute nella Sacra Scrittura e nella Tradizione, ma l’uomo in quanto destinatario dell’agire salvifico di Dio, affinché «per l’annunzio della salvezza il mondo intero ascoltando creda, credendo speri, sperando ami»[5].

La concezione è in linea con la novità più significativa dell’ecclesiologia conciliare, espressa nel capitolo 2 della Lumen Gentium, vale a dire il primato della condizione battesimale, principio e fondamento della radicale uguaglianza di tutti i membri della Chiesa. Prima e a prescindere dai ruoli e dalle funzioni che si esercitano nel corpo ecclesiale, sta la pari dignità di tutti i battezzati, insigniti del titolo più alto che possa toccare all’uomo: quello di essere figlio di Dio. Qualsiasi funzione ministeriale -anche quella gerarchica -si comprende come forma di servizio al Popolo di Dio, costituito come «stirpe eletta, regale sacerdozio, gente santa, popolo tratto in salvo»[6]. In questa logica anche la funzione del Magistero è ripensata: il primo compito dei pastori non è quello di definire infallibilmente una dottrina, ma di predicare «il Vangelo come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale»[7]. I vescovi sono descritti come «gli araldi della fede che portano a Cristo nuovi discepoli, i dottori autentici, cioè rivestiti dell’autorità di Cristo, che predicano al popolo loro affidato la fede da credere e da applicare nella pratica della vita, che illustrano questa fede nella luce dello Spirito santo, traendo fuori dal tesoro della rivelazione cose nuove e cose antiche (cf Mt 13,52), la fanno fruttificare e vegliano per tenere lontano dal loro gregge gli errori che lo minacciano (cf 2Tm 4,1-4)»[8].

Purtroppo, la concezione della Rivelazione proposta in DV 2, e l’idea corrispondente di fede come risposta dell’uomo che «si abbandona tutto a Dio liberamente»[9], se per un verso recupera la dimensione dialogica, dall’altro è carente proprio della dimensione ecclesiale. In altre parole, l’incontro tra Dio e l’uomo è descritto senza alcun riferimento alla comunità di salvezza. È vero che il capitolo 2 illustrerà ampiamente la funzione della Chiesa nella trasmissione della Rivelazione; ma questo non basta a superare il deficit ecclesiologico della formulazione. A ben vedere, il fatto di presentare il dialogo tra Dio e l’uomo come un evento trinitario -per cui gli uomini hanno accesso al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo -senza nominare la Chiesa, e, correlativamente, il fatto di descrivere la risposta dell’uomo alla Rivelazione come “obbedienza della fede”, senza precisarne la natura costitutivamente ecclesiale, rende in ultima analisi superfluo o comunque ulteriore e quindi non necessario al dialogo con Dio il momento dell’appartenenza ecclesiale.

 

  1. La dimensione ecclesiale della vita cristiana

Non era questa, naturalmente, l’intenzione della Dei Verbum. E tuttavia, il rischio di concepire l’incontro con Dio come un fatto personale e quindi interiore, al limite intimo e privato, affiora spesso in alcuni modi di presentare l’evento della rigenerazione in Cristo. La Dei Verbum stessa, peraltro, si apre con una immagine di Chiesa che è luogo dell’incontro con Dio, dove il venire alla fede si comprende come adesione alla parola che continua a risuonare nella comunità di salvezza, generazione dopo generazione: «In religioso ascolto della Parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia, il sacrosanto concilio aderisce alle parole di San Giovanni, il quale dice: “Annunciamo a voi la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi: vi annunziamo ciò che abbiamo veduto e udito, affinché anche voi abbiate comunione con noi, e la nostra comunione sia con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo”»[10].

Il prologo della Prima lettera di Giovanni (1Gv 1,1-4) rende con evidenza la dimensione ecclesiale della fede. Il brano elenca una serie di azioni, in cui non solo il dinamismo della comunicazione è chiaramente disegnato in tutti i suoi elementi -il soggetto che comunica, il contenuto del messaggio, i destinatari, gli effetti della comunicazione -, ma appare con tutta evidenza come azione della Chiesa stessa.

 

 

  1. Il Vangelo della Chiesa

Il contenuto del prologo è proprio la “bella notizia”: Gesù il Cristo, Verbo della vita che si è reso visibile e ha reso visibile la vita eterna che era presso il Padre. Bene si esprime in proposito la Dei Verbum: «Dio, dopo avere a più riprese e in più modi parlato per mezzo dei profeti, “alla fine, nei nostri giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 1,1-2). Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e ad essi spiegasse i segreti di Dio (cf Gv 1,1-18). Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come “uomo tra gli uomini”, “parla le parole di Dio” (Gv 3,34) e porta a compimento l’opera di salvezza affidata-gli dal Padre (cf Gv 5,36; 17,4)»[11].

Solo una lettura individualistica della salvezza cristiana può disgiungere l’evento-Cristo dalla Chiesa. Per Sacrosanctum Concilium, «l’opera della redenzione umana e della perfetta glorificazione di Dio… è stata compiuta da Cristo Signore, specialmente per mezzo del mistero pasquale della sua beata passione, resurrezione da morte e gloriosa ascensione, mistero col quale “morendo ha distrutto la nostra morte e risorgendo ci ha ridonato la vita. Infatti, dal costato di Cristo dormiente sulla croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa»[12]. Si tratta di una prospettiva misterico-sacramentale, che comprende la Chiesa nella logica della gratia capitis: il Cristo morto e risorto unisce a sé i credenti mediante l’effusione dello Spirito. Né la Chiesa è altro da coloro che gli appartengono, i quali per la rigenerazione in Cristo sono le membra della Chiesa-corpo di Cristo. Bisogna guardarsi dal concepire l’appartenenza ecclesiale come un passo ulteriore e successivo rispetto all’incontro personale con Cristo: il battesimo, nel momento stesso che innesta l’uomo in Cristo, lo associa anche sempre e contemporaneamente alla Chiesa, suo corpo.

Al di là di tutti gli argomenti per dimostrare la fondazione della Chiesa, la sua esistenza risulta dal dinamismo stesso della redenzione, che costituisce in unità coloro che sono lavati nel sangue di Cristo. Dinamismo illustrato da Lumen Gentium in questi termini: «È venuto quindi il Figlio, mandato dal Padre, il quale fin dalla creazione del mondo ci ha eletti e predestinati in Cristo per essere adottati in figli, perché in lui si compiacque di ricapitolare tutte le cose (cf Ef 1,4-5. 10). Perciò Cristo, per adempiere la volontà del Padre, ha inaugurato in terra il regno dei cieli e ce ne ha rivelato il mistero, e con la sua obbedienza ha operato la redenzione. La Chiesa è il regno di Dio già misteriosamente presente; essa cresce visibilmente nel mondo per la potenza di Dio. Questo inizio e questa crescita sono simboleggiati dall’acqua e dal sangue che uscirono dal costato aperto di Gesù crocifisso (cf Gv 19,34), e sono preannunciati dalle parole del Signore a proposito della sua morte in croce: “E io, quando sarò elevato in alto da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32)»[13]. La vita nuova in Cristo è un evento che avviene nell’ascolto obbediente del Vangelo, «potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede» (Rm 1,16). Ma il Vangelo non è altro dalla predicazione dell’apostolo, che è “parola di verità”, «Vangelo della vostra salvezza» (Ef 1,13) per il fatto stesso che si tratta «non di parola di uomini, ma, quale è veramente, di parola di Dio, che opera in voi che credete» (1Ts 2,13). La tendenza a identificare il Vangelo con le Sacre Scritture ha indebolito la percezione di questa necessaria unità di Vangelo e predicazione, riducendo peraltro la forza di ambedue i termini, uno identificato con i quattro Vangeli, la predicazione ridotta a commento delle Scritture e privata della potenza della Parola di Dio, accompagnata da «segni e prodigi e miracoli d’ogni genere e doni dello Spirito santo, distribuiti secondo la sua volontà» (Eb 2,4). Predicazione che è atto ecclesiale per eccellenza: nessuno può annunciare il Vangelo a suo piacimento, nemmeno Paolo, il quale sale a Gerusalemme per confrontare il suo Vangelo e ricevere l’assenso da quelli che erano considerati le colonne della Chiesa (cf Gal 2,1-10). Il che significa che l’annuncio – «Ho una bella notizia: io l’ho incontrato» -chiunque lo faccia, a chiunque lo faccia, o è ecclesiale, o è uno slogan vuoto e pericoloso, perché destituito di qualsiasi verità.

 

  1. La Chiesa, “luogo” dell’incontro con Dio

Di qui a dedurre il profilo ecclesiale di chi annuncia il messaggio, il passo è breve. È vero che l’atto della comunicazione dipende dalla libera iniziativa di chi decide di dire qualcosa a qualcuno, ovviamente libero a sua volta di ascoltare o meno. Ma nella comunicazione della fede questo diritto non dipende da una decisione personale, sganciata da qualsiasi vincolo che non sia l’obbligo di rispondere delle sue parole. Il primo vincolo è la notizia stessa che annuncia: se la “buona notizia” non è quella del Vangelo, il suo annuncio è una menzogna, o comunque un esercizio verbale fine a se stesso. Basterebbe l’applicazione onesta di tale criterio per destituire di ogni diritto una infinità di esperienze religiose, ingrandite dalla grancassa dei media. Il secondo vincolo è quello del destinatario della buona notizia, il quale non è uno spettatore da stupire o un cliente da imbonire: è colui al quale Dio vuole parlare come ad un amico, e che ha diritto non tanto a non essere ingannato, ma a vedere e udire «ciò che noi abbiamo veduto e udito», ossia il Verbo della vita.

Ma esiste anche il vincolo che riguarda il latore stesso del messaggio: messaggio che non è suo, ma è di Cristo stesso, il quale lo ha affidato alla Chiesa: «Andate dunque, e fate mie discepole tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28,20). È ancora Paolo ad esprimere questa consapevolezza. Dice di sé: «Infatti annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla mia ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare del diritto conferitomi dal Vangelo» (1Cor 9,16-18). Dice di ogni evangelizzatore: «“Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato” (Gal 3,5). Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare, senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno, senza essere prima inviati? Come sta scritto: “Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!” (Is 52,7)» (Rm 10,13-15).

Dunque, quella di annunciare il Vangelo è una chiamata di Dio: Dio stesso, «che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti» (Gal 2,16). Per questo Paolo afferma di avere ricevuto da Dio la grazia di «essere per i pagani incaricato del sacro servizio del Vangelo di Dio» (Rm 15,16), considerando un onore di annunciare il Vangelo solo là dove non era stato ancora annunciato il Vangelo di Cristo (15,20). Egli non predica se stesso, ma Cristo Signore (cf 2Cor 4,5): «A me è stata affidata la grazia di annunciare ai pagani l’insondabile ricchezza di Cristo» (Ef 3,8).

Molte applicazioni si potrebbero fare a questo discorso. Vale la pena chiudere con l’immagine di Pietro e Giovanni che, diffidati dal Sinedrio «dal parlare più ad alcuno in nome di lui» (At 4,17), tornano dai fratelli e si mettono in preghiera: «Ora, Signore, volgi lo sguardo alle loro minacce e concedi ai tuoi servi di annunciare con tutta franchezza la tua parola. Stendi la mano perché si compiano guarigioni, miracoli e prodigi nel nome del tuo santo servo Gesù. Quand’ebbero terminato la preghiera, il luogo in cui erano radunati tremò e tutti furono pieni di Spirito Santo e annunciarono la parola di Dio con franchezza» (At 3,29-31). Ogni annunciatore è un inviato, il quale non dice la buona notizia a nome proprio, ma della Chiesa che lo invia e che lo accompagna con la preghiera incessante, invocando dallo Spirito quella parresía perché proclami con libertà e franchezza la sola parola che salva: «Questo Gesù è “la pietra che, scartata da voi costruttori, è divenuta testata d’angolo”. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati» (At 4,11-12).

 

NOTE

[1] Cf F.G. Hellín, Concilii Vaticani II Synopsis: Constitutio dogmatica de divina Revelatione Dei Verbum, Città del Vaticano 1993, 65, colonna 3. Il testo definitivo utilizza una circonlocuzione per evitare il termine esperienza: «Tum ex intima spiritualium rerum quam experiuntur intelligentia».

[2] EN 41.

[3] Ibid.

[4] DV 2.

[5] DV 1, che cita S. AGOSTINO (s.), De catechizandis rudibus, 4,8: PL 40,316.

[6] LG 9, che cita 1Pt 2,9-10.

[7] LG 25.

[8] DV 1.

[9] DV 4.

[10] DV 1.

[11] LG 3.

[12] SC 5, che cita S. AGOSTINO, Enarr. in Ps., 138,2; ma si tratta di un tema comune ai Padri della Chiesa.

[13] LG 3.