N.06
Novembre/Dicembre 2009

Perché la testimonianza sia convincente

Una frase pronunciata da Paolo VI il 2 ottobre 1974, da lui stesso ripresa al n. 41 della Evangelii nuntiandi, è ormai celebre: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni». Quante volte è stata citata nei più diversi contesti, soprattutto per chiedere coerenza, vera autorevolezza, credibilità a chi rischia, anche nella Chiesa e in nome di Dio, di perdersi spesso nelle parole vuote.

Questo modo di impostare la questione “testimonianza”, per quanto sostanzialmente ineccepibile, corre tuttavia il rischio di scatenare una sorta di moralismo, o di diffidenza sistematica verso i maestri, che, in campo spirituale, può dar luogo a forme di elitarismo e perfezionismo assai poco evangeliche. Ci sovviene ancora Papa Montini che, nello stesso documento, disegna il concreto manifestarsi della testimonianza cristiana, per farcene comprendere e gustare il potenziale di evangelizzazione:

«(La Buona Novella) deve essere anzitutto proclamata mediante la testimonianza. Ecco: un cristiano o un gruppo di cristiani, in seno alla comunità d’uomini nella quale vivono, manifestano capacità di comprensione e di accoglimento, comunione di vita e di destino con gli altri, solidarietà negli sforzi di tutti per tutto ciò che è nobile e buono. Ecco: essi irradiano, inoltre, in maniera molto semplice e spontanea, la fede in alcuni valori che sono al di là dei valori correnti, e la speranza in qualche cosa che non si vede, e che non si oserebbe immaginare. Allora con tale testimonianza senza parole, questi cristiani fanno salire nel cuore di coloro che li vedono vivere, domande irresistibili: perché sono così? Perché vivono in tal modo? Che cosa o chi li ispira? Perché sono in mezzo a noi? Ebbene, una tale testimonianza è già una proclamazione silenziosa, ma molto forte ed efficace della buona novella. Vi è qui un gesto iniziale di evangelizzazione. Forse tali domande saranno le prime che si porranno molti non cristiani, siano essi persone a cui il Cristo non era mai stato annunziato, battezzati non praticanti, individui che vivono nella cristianità ma secondo principi per nulla cristiani, oppure persone che cercano, non senza sofferenza, qualche cosa o Qualcuno che essi presagiscono senza poterlo nominare.

Altre domande sorgeranno, più profonde e più impegnative, provocate da questa testimonianza che comporta presenza, partecipazione, solidarietà, e che è un elemento essenziale, generalmente il primo, nella evangelizzazione. A questa testimonianza tutti i cristiani sono chiamati e possono essere, sotto questo aspetto, dei veri evangelizzatori» (EN 21).

Testimonianza: semplice ma effettiva irradiazione di ciò che i cristiani vivono, testimonianza come pro-vocazione di domande che, gradualmente, conducono al cuore, al bisogno di Dio e di Vangelo. Se questo era vero all’indomani del ’68, negli “anni di piombo” e dei referendum sul divorzio e sull’aborto, acquista ulteriore urgenza in questo inizio di millennio, definito post-cristiano, in cui il sacro diviene spesso merce da supermercato e materia di spettacolo, tanto da far dire a Enzo Bianchi che «al cristianesimo servono testimoni non testimonial»[1].

Se ascoltassimo i giovani, ci direbbero quanto sono colpiti da chi parla con la propria vita, da chi è coerente e sa comunicare, da chi -come il sole -scalda e illumina senza bisogno di discorsi, da chi ha capito l’essenziale delle cose, da chi vive in modo desiderabile e suscita la voglia di imitarlo, da chi è veramente felice e vive con fiducia, da chi fa la sua parte nella “squadra” della Chiesa, da chi annuncia una verità che ha visto realizzarsi… testimoni feriali, dello straordinario nell’ordinario, riconoscibili anche solo dallo sguardo[2].

La Chiesa italiana, dal Vaticano II in poi, ha esplicitamente messo a tema questa esigenza di costante riforma, puntando – nei suoi orientamenti decennali – su obiettivi pastorali di cui non è difficile cogliere la continuità: evangelizzare – testimoniare – comunicare – educare. È sempre al centro l’incontro, la relazione, ogni dinamica esistenziale favorevole all’accoglienza del dono di Dio per la vita dell’uomo. Per sviluppare ora alcune riflessioni in chiave pedagogica, recuperiamo la chiarezza con cui il documento preparatorio al Convegno ecclesiale di Verona del 2006, sul tema “Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo”, parlava della testimonianza, indicandone la sorgente, la radice, il racconto, l’esercizio.

 

1. Attingere alla sorgente più limpida

La persona e il mistero di Gesù Cristo, la sua vicenda culminata nella Pasqua, l’evento che non cessa di sprigionare la sua inesauribile grazia salvifica sugli uomini, sulla storia e nel cosmo: questa la sorgente dell’esperienza cristiana e di ogni vocazione nella Chiesa. Per cui, «vedere, incontrare e comunicare il Risorto è il compito del testimone cristiano»[3].

Perché la testimonianza dei chiamati sia eloquente e credibile, la prima esigenza è esser certi che diano testimonianza di lui, realizzando così l’intima vocazione di ogni uomo, creato “a immagine e somiglianza di Dio” in Cristo Gesù. L’itinerario educativo comincia, oltre che con l’annuncio e la catechesi, con la purificazione della mente e del cuore[4], con il discernimento dei pensieri e dei sentimenti, affinché siano liberi da pesanti condizionamenti e liberati all’accoglienza della Verità. Si tratta di non dare per scontata la conversione, non tanto morale, quanto intellettuale e spirituale, perché si incontrino la vera identità di Gesù e il vero volto della Chiesa. Anche in chi testimonia da tempo fedeltà ad una vocazione di speciale consacrazione o è generosamente attivo nel ministero, è decisiva una coscienza grata del proprio incontro e rapporto personale con il Dio di Gesù Cristo[5]. E quanto fa bene riandare sovente a scoprire questa “grazia degli inizi” per poter indicare anche ad altri il sentiero della sorgente!

Ciò si traduce, come è facilmente intuibile, nella priorità dell’ascolto della Parola di Dio, della ricettività quotidiana nei confronti della grazia, in un’attitudine contemplativa e di costante meditazione del cuore, senza la quale nessun annuncio, nessun gesto, risulterebbe pregnante e significativo.

L’esperienza sorgiva e centrale della Pasqua ci converte e coinvolge subito nella missione. Mediante lo Spirito, mette in relazione con ogni uomo, in ogni frammento del tempo e dello spazio. La Parola eterna del Padre, divenuta carne e corpo crocifisso e risorto, pro-voca e con-voca nella sua nuova corporeità ecclesiale, rendendo tutti testimoni del Risorto. Lo sa chi è stato scosso e cambiato nel suo progetto di vita dall’incontro col Cristo presente nei poveri, nei bambini, nei diversi volti della comunità cristiana, nei tanti carismi suscitati dallo Spirito.

Il linguaggio di questa esperienza è “spirituale” e perciò potentemente formativo. Tutto riceve vita dallo Spirito di Dio, tutto può rinnovarsi anche nei più difficili crocevia dell’emergenza educativa, perché lo spirito dell’Amore trinitario suggerisce un’accoglienza gratuita e sostiene una fiducia nutriente. Il caleidoscopio dei santi educatori di ieri e di oggi incoraggia a non temere, nel mettersi umilmente ma tenacemente a fianco di ogni giovane che ha smarrito la sorgente.

Ne deriva il compito di aver cura della propria esigenza ed esperienza di comunicazione, prima del ricevere e poi del rispondere e trasmettere, sia davanti al creato e agli uomini come nel dialogo soprannaturale e rivelato che Dio ha reso possibile nella sua misericordia. Invece, quante forme di chiusura autoreferenziale, per narcisismo o per emarginazione, ammalano fino all’autismo l’anima e la ragione di giovani e adulti del nostro tempo! In attesa che, magari nel cuore della notte, i morsi della fame di vita e della sete di verità muovano ad una più onesta ricerca del senso e dell’amore.

 

2. Radicare fede e vita da adulti

«Il credente cristiano riceve la chiamata ad essere testimone come un dono e una promessa. All’origine del dono c’è il Battesimo accolto nella fede, radicato nel mistero pasquale»[6]. Lo ha chiarito magistralmente Benedetto XVI nell’Omelia allo stadio di Verona, il 19 ottobre 2006: «Testimoni di Gesù risorto. Quel di va capito bene! Vuol dire che il testimone è di Gesù risorto, cioè appartiene a lui, e proprio in quanto tale può rendergli valida testimonianza, può parlare di lui, farlo conoscere, condurre a lui, trasmettere la sua presenza».

La testimonianza cristiana e vocazionale è convincente quando è figlia di una vera e completa iniziazione alla fede e alla vita in Cristo, che mal sopporta automatismi formali e che invece esige i tempi lunghi e la grazia della conformazione a Cristo. Testimoni si diventa attraverso un cammino di crescita e di responsabilità, che non nasconde il carattere “drammatico” della vita cristiana, il cui nome adulto è “lotta spirituale” e il cui frutto più succoso è il martirio. Non è difficile intuire quanto sia propedeutico a questa maturazione di una fede confessante ed impegnata, il tirocinio di esperienze educative chiare ed esigenti, che stimino il ragazzo e il giovane capace di reale impegno psicofisico, intellettuale e morale, spirituale e personale, fino alla rinuncia motivata e allo spirito di sacrificio, che esercita la volontà nel confronto schietto con la vera libertà e i valori cui si orienta.

Se il Padre educa alla vita e il Figlio chiama alla sequela, lo Spirito guida alla testimonianza[7], trasformando i discepoli in testimoni, i chiamati in apostoli, capaci di fedeltà alla verità su Dio e sull’uomo, anche a prezzo di andare controcorrente rispetto alle mentalità dominanti e alle pressioni socioculturali. Chi ha incontrato veramente Gesù dovrebbe lasciarsi «quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita»[8]. E se lo Spirito non viene spento, si infiamma l’anima giovanile, si rende possibile osare il dono di una vita, che irradia inevitabilmente il calore e l’energia che possiede.

Perché questo non resti oggetto di pia esortazione, o un anelito segreto e quasi colpevolizzante, è importante entrare -gradualmente e con sapiente aiuto -nella dinamica psicospirituale con cui ciascuno vive la propria vita di fede. Conoscere la mappa della propria personalità, individuare le aree di maggiore debolezza che invocano salvezza e suggeriscono piste di crescita, abitare il vuoto interiore e farne luogo di invocazione umile e fiduciosa, soprattutto cimentarsi nella cd. “torsione dei desideri”, per scegliere i gusti di Dio e orientare ad essi tutto il mondo delle proprie passioni, che altrimenti finisce col fuggire ogni logica vocazionale o anche progettuale[9]. Sono compiti di formazione iniziale e permanente che non vanno elusi e che, anzi, accreditano come “guaritore ferito”[10] chi sa dialogare con le esperienze umane fondamentali, con le grandi domande della vita, in nome di un Dio incontrato nella propria carne.

Come le radici abbisognano di un terreno in cui diramarsi, così questa maturazione umana e cristiana, vocazionale e missionaria, gode dell’humus ecclesiale che la genera e la attende. Testimoni si è riconosciuti dagli altri, in una trama di relazioni interpersonali, di amicizia e fraternità, e magari anche di faticoso dialogo e conflittualità, che sollecita la Chiesa ad avere cura della fede dei suoi membri, a cominciare da quelli che hanno più responsabilità o sono a vario titolo più esposti. Cura della coscienza[11] e della sua rettitudine evangelica, cura della crescita e dei suoi orizzonti di santità, cura di ogni vocazione e carisma in una stima effettiva e affettiva per la varietà dei doni di Dio. Esorcizzando con coraggio l’ansia per il trend vocazionale della singola diocesi o famiglia religiosa e scegliendo profeticamente le vie della comunione, della pastorale unitaria e integrata. Quando la testimonianza è corale, ci si presenta insieme con serenità (presbiteri diocesani e religiosi, consacrate e istituti secolari, sposi e diaconi permanenti, missionari e contemplativi), comunichiamo la bellezza della Chiesa, lo stesso incontro narrato da mille volti, che attirano a lui e non a sé, generando fiducia e gioia nei giovani interlocutori.

 

3. Raccontare il Vangelo della vocazione

«Il testimone è una sorta di narratore della speranza… Questo è il racconto della speranza: proclamare i mirabilia Dei, le “opere eccellenti di Dio”. La narrazione delle opere di Dio spiega che cosa sia la Chiesa… Il racconto della speranza ha un duplice scopo: narrare l’incontro del testimone con il Risorto e far sorgere il desiderio di Gesù in chi vede e ascolta e a sua volta decide di farsi discepolo»[12].

Grati alla riscoperta di una teologia narrativa, ci chiediamo come farne pedagogia autorevole ed efficace. Il Vangelo non è solo contenuto del racconto ecclesiale, poiché ne segna intimamente il cammino e il metodo, in una traditio continuamente giudicata dalla vitalità della receptio e della redditio, tanto sul piano teologico-spirituale quanto sul piano umano. Del Vangelo della vocazione, insomma, siamo debitori, profeti e narratori.

«La fede va trasmessa, e viene il tempo in cui ogni testimonianza diventa dono attivo: il dono ricevuto diventa dono donato attraverso la personale testimonianza e il personale annuncio»[13]. La natura della Chiesa come tradizione apostolica e comunitaria, pellegrinante nel tempo, si invera in infinite storie personali e interpersonali, in cui ciascuno si riconosce grato per aver ricevuto tutto in dono, e perciò di tutto debitore, a tutti (cf 1Cor 9), in una carità di annuncio e condivisione che cresce e si affina nelle circostanze della vita. Lo attestano la stessa generazione fisica, le diverse forme di paternità e maternità, la passione educativa che torna ad essere invocata come essenziale in tanti contesti. Lo si può dire anche con uno slogan: per educare alla vocazione, ci vogliono innanzitutto vere vocazioni educative!

La buona notizia dell’educazione è proprio la stima personalizzata che Dio ha per ogni suo figlio, per cui il vero nome della vita è appunto “vocazione”, nel tempo e per l’eternità. Se la speranza cristiana ha ragioni escatologiche e storiche, che rendono al contempo cittadini della storia e pellegrini verso il cielo, intuiamo la liberante carica profetica di questa specifica consapevolezza testimoniata dai credenti, che vedono il tutto nel frammento, il futuro aprirsi nella qualità dell’oggi.

Il debito dell’annuncio prende la forma di un racconto vissuto, nella misura in cui la persona si prende il tempo di contemplare, di memorizzare nel cuore, non solo emotivamente, ma con un coinvolgimento globale e maturo delle proprie facoltà, l’evento che l’ha colpita, l’incontro della salvezza, il dono ricevuto. Il fascino di Gesù genera un silenzio impegnativo, non un chiacchiericcio vuoto, come testimonia soprattutto Maria, con la sua santità feriale e diffusa, con la sua maternità antica ed incessante. Da lei impariamo uno stile semplice ma non dimesso, di “ricchissima povertà”, di servizio incondizionato alla miseria umana che invoca misericordia da Dio. In tal senso D. Bonhoeffer sottolinea il legame tra annuncio ed avvenimento, affermando che «i messaggeri devono rendere testimonianza della ricchezza del loro Signore mediante la loro regale povertà… devono girare indossando il “vestito di servizio”, cioè poveramente»[14].

Chiarito questo essenziale nucleo di verità della “povera” e perciò liberante testimonianza cristiana, ben vengano tutti i suggerimenti elaborati dalla catechesi e pastorale narrativa, che così non correranno il rischio di inseguire le leggi del mercato che manipola messaggio e destinatario, pur di farli incontrare comunque. R. Tonelli, riassumendo il contributo di molti autori[15], insegna a «raccontare una storia a tre storie», che cioè intrecci efficacemente la storia narrata (quella di Gesù e degli uomini biblici), la storia del narratore (che si fa testimone di un incontro vivo e trasformante), la storia dell’ascoltatore (interpellata e intercettata nel suo bisogno profondo di senso e di salvezza). Non si tratta tanto di accorgimenti da usare quando si offre una “testimonianza” vocazionale in qualche assemblea, ma di criteri di azione pastorale intorno ai quali rifare il tessuto ordinario della comunicazione religiosa e vitale. Mettendo al centro quelle stupende “profezie di futuro” che non mancano nelle nostre comunità: vita consacrata, monastica, missionaria, di accoglienza e condivisione con gli ultimi, di dedizione educativa e politica, di speranza nella sofferenza e nella malattia, ecc…[16].

 

4. Scrivere ogni giorno la storia del Vivente

L’ultimo passaggio del documento che abbiamo “recuperato” per guidare questa riflessione, mette a tema l’esercizio della testimonianza: «La vita rinnovata del credente, come esplicito annuncio del Vangelo e come gesto nascosto e silenzioso, è sempre testimonianza di Gesù Crocifisso e Risorto»[17]. Le parole d’ordine del cammino esistenziale cristiano sono quindi: incarnazione, assimilazione, santità, che – nelle complesse congiunture umane e culturali che rendono tutti sempre più spaesati – chiamano i cristiani a «continuare il racconto della speranza, a scrivere una per una le opere della fede che formano una sorta di cristologia vivente»[18].

Le più aggiornate diagnosi socio-pastorali si condensano oggi nella cd. sfida educativa[19], nuovo crocevia delle istanze emergenti dai diversi ambiti antropologici che anche la Chiesa italiana sta monitorando e servendo da tempo: vita affettiva, lavoro e festa, fragilità umana, tradizione e comunicazione, cittadinanza. Ma non basta chiedere in questi contesti una rinnovata capacità di discernimento comunitario, se non si testimonia innanzitutto la fecondità di un personale ed incessante discernimento spirituale. Il primo e più grave spaesamento è quello che tanti giovani vivono nei confronti di se stessi, di una incompiuta ricerca di identità, del proprio sistema di corpo-mente-spirito che non viene iniziato ad un’organica esperienza di vita, di cui invece si smarrisce l’alfabeto.

La ricerca di opportune convergenze e collaborazioni intorno all’emergenza educativa non può ignorare che solo nella concezione vocazionale della vita si integrano le diverse componenti e dimensioni, si valorizzano anche la debolezza e il limite, si trova un senso al dolore e alla morte. La carità della verità andrà pertanto declinata non solo sul versante del magistero e della predicazione, quanto in un capillare servizio di dialogo educativo-spirituale e di accompagnamento alla piena maturazione umana e cristiana dei singoli. Solo una pedagogia dell’integrazione[20] darà sostanza effettiva, culturale e vissuta, alle prospettive di pastorale integrata e unitaria che paiono non più dilazionabili. E questo lo sapranno proporre adulti cresciuti realmente e umilmente nella loro autenticità, aperti a riassumere il loro percorso attraverso le età in quell’integrità sapienziale che dà fiducia anche ai giovani, e non indulge a ridicoli e dannosi giovanilismi di facciata.

Un’ultima domanda: e quando la testimonianza si inceppa o, peggio, si smentisce, fino allo scandalo? Ci sono scandali che non hanno nulla a che fare con lo scandalo della croce, e che non hanno da essere coperti o giustificati con alcun velo di ipocrisia, dalle presunte giustificazioni teologiche o di opportunità pastorale. Ma c’è anche il Vangelo della misericordia e il mistero della Pasqua, che tutto possono redimere e trasformare, convertire e purificare, incoraggiando ad una parresìa cristiana non-violenta, e convocando a gesti di riconciliazione e passi di nuovo inizio. Fino alla testimonianza convincente e silenziosa che ci insegna Ignazio di Antiochia, nel testo citato dal card. Tettamanzi a chiusura della sua prolusione al Convegno ecclesiale di Verona: «È meglio tacere ed essere, che dire e non essere. È bello insegnare se chi parla opera. Uno solo è il maestro che ha detto e ha fatto e ciò che tacendo ha fatto è degno del Padre. Chi possiede veramente la parola di Gesù può avvertire anche il suo silenzio per essere perfetto, per compiere le cose di cui parla o di essere conosciuto per le cose che tace. Nulla sfugge al Signore, anche i nostri segreti gli sono vicino. Tutto facciamo considerando che abita in noi, per essere noi templi suoi ed egli il Dio (che è) in noi, come è e apparirà al nostro volto amandolo giustamente»[21].

 

Note

[1] Cf E. BIANCHI, Per un’etica condivisa, Einaudi, Torino 2009, p. 44.

[2] Queste espressioni, raccolte in diversi contesti di dialogo coi giovani, hanno un riscontro anche statistico nella ricerca di F. GARELLI (a cura di), Chiamati a scegliere. I giovani italiani di fronte alla vocazione, San Paolo, Cinisello Balsamo 2006, che ha sorprendentemente mostrato un diffuso interesse giovanile alla questione vocazionale, e il peso di concrete testimonianze positive.

[3] CEI, COMITATO PREPARATORIO DEL IV CONVEGNO ECCLESIALE NAZIONALE, Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo, traccia di riflessione in preparazione al Convegno ecclesiale di Verona 1620 ottobre 2006, 2.

[4] CF T. SPIDLIK, L’arte di purificare il cuore, Lipa, Roma 1999.

[5] Sono particolarmente incisive le proposte offerte in forma di laboratorio formativo interdisciplinare da G. SOVERNIGO, Il cammino spirituale, 1. Incontrare Dio, EDB, Bologna 2007.

[6] Testimoni di Gesù Risorto, cit., p. 7.

[7] Cf PONTIFICIA OPERA PER LE VOCAZIONI ECCLESIASTICHE, Nuove vocazioni per una nuova Europa, documento finale del Congresso sulle Vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata in Europa, 5-10 maggio 1997, p. 18.

[8] Paolo VI, Evangelii nuntiandi, 19.

[9] Alcuni utilissimi aiuti in questo senso possono venire da: G. SOVERNIGO, Il cammino spirituale, 2. Il radicamento personale, EDB, Bologna 2007; ID., Il cammino spirituale, 4. La dinamica dell’atto di fede, EDB, Bologna 2008; A. MANENTI, Vivere gli ideali. Tra paura e desiderio, EDB, Bologna 1988; A. CENCINI, I sentimenti del Figlio, EDB, Bologna 1998.

[10] Cf H.J.M. NOUWEN, Il guaritore ferito. Il ministero nella società contemporanea, Queriniana, Brescia 19986.

[11] «La cura della coscienza cristiana non comporta anzitutto la proposta di un qualche specifico impegno ecclesiale o di una tecnica di spiritualità, ma la formazione e l’aiuto a vivere in famiglia, la professione, il servizio, le relazioni sociali, il tempo libero, la crescita culturale, l’attenzione al disagio come luoghi in cui è possibile fare esperienza dell’incontro con il Risorto e della sua presenza trasformante in mezzo a noi» (Testimoni di Gesù Risorto, cit., p. 9).

[12] Ibidem, p. 10.

[13] Nuove vocazioni per una nuova Europa, cit., p. 27.

[14] D. BONHOEFFER, Sequela, Queriniana, Brescia 1971, pp. 183-184. Non è difficile ritrovarne un’eco in T. BELLO, Stola e grembiule, Messaggero, Padova 2006.

[15] Cf R. TONELLI, La narrazione nella catechesi e nella pastorale giovanile, LDC, Torino-Leumann 2002.

[16] Testimoni di Gesù Risorto, cit., p. 10.

[17] Ibidem, p. 11.

[18] Ibidem, p. 13.

[19] Cf CEI -COMITATO PER IL PROGETTO CULTURALE, La sfida educativa, Laterza, Bari 2009.

[20] Cf il raffronto tra i diversi modelli pedagogici ben esposto da A. CENCINI, L’albero della vita. Verso un modello di formazione iniziale e permanente, San Paolo, Cinisello Balsamo 2005.

[21] IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Agli Efesini, XV,1, in A. QUACQUARELLI (ed.), I padri apostolici, Città Nuova, Roma 19782, p. 105.