N.06
Novembre/Dicembre 2009

Quando la cattiva notizia offusca la buona notizia

I media commerciali privilegiano l’informazione clamorosa e drammatica, scandalistica e trasgressiva: qui ci chiediamo il perché di questo fenomeno e se e come possa essere contrastato. Ci interrogheremo anche sull’incidenza che esso esercita sull’informazione religiosa e come la comunicazione ecclesiale possa tenerne conto e – se possibile – porvi un qualche rimedio.

A descrivere il fenomeno richiamerò un paio di fatti degli anni recenti, uno riguardante la politica italiana e un altro la Chiesa cattolica. Per la politica il riferimento è alle vicende private, familiari e sessuali, degli uomini politici: si dà più spazio a queste informazioni pruriginose, di cui si fa un uso scandalistico, che a questioni politiche di prima grandezza, come potrebbe essere -in quest’ultima stagione – la crisi economica e il modo di farvi fronte. Per la Chiesa richiamo lo scandalo dei preti pedofili, che da una decina di anni tiene banco sui media internazionali, venendo a costituire la prima materia di informazione “religiosa” dopo le attività papali.

Lavoro nei quotidiani da trentacinque anni e mai questa professione mi è parsa – dal punto di vista delle sfide morali – più impegnativa di oggi: nell’arco temporale della mia esperienza professionale, è venuta diminuendo l’autonomia decisionale del singolo giornalista, è calato anche l’utilizzo delle competenze, forse oggi c’è meno rispetto per il lettore. La regola commerciale tende a schiacciare ogni altra. La situazione italiana è simile a quella di tutto il Nord del mondo. Eppure questi giornali e telegiornali concorrenziali e spettacolari sono migliori di quelli sovvenzionati di ieri: sono più attraenti, più tempestivi e meno disponibili a nascondere i fatti. Li deformano, ma – presi nel loro insieme, non singolarmente – non li censurano. E sono dunque il luogo di un possibile servizio all’uomo, alla democrazia e alla mondialità.

Parlando di “media commerciali” non intendo attribuire una qualifica negativa, ma semplicemente indico quelli che traggono la maggior parte del loro incasso dalla vendita degli spazi pubblicitari: le televisioni private, ovviamente, i quotidiani e i settimanali cosiddetti d’opinione, ma anche le reti radiofoniche e televisive gestite da aziende a partecipazione statale, quando sono – ed è la situazione più frequente – solo parzialmente sostenute con risorse pubbliche. La lotta per l’audience tende a sottoporre progressivamente questi media all’unica regola dell’efficacia commerciale: da qui vengono la loro forza e il loro limite. È la ricerca dell’efficacia commerciale che li fa (come accennavo) attraenti, tempestivi e veritieri e ciò è utile alla democrazia. Ma la concorrenza che li impegna a dire i fatti li spinge anche a concentrare l’attenzione su quelli drammatici o trasgressivi e a ingrandirli, fino a deformarli.

 

1. L’informazione non è una merce

Per fare audience i giornalisti (e soprattutto i gestori delle testate) tendono a trattare l’informazione come una merce. Contro questa tentazione, i giornalisti (sia i responsabili delle testate, sia i singoli operatori) dovrebbero far valere il principio che l’informazione, primariamente, non è una merce, ma un diritto. Tale principio è così formulato nella “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” (1948): «Ogni individuo ha diritto di cercare, ricevere e diffondere, senza limitazione di frontiera, le informazioni e le idee con qualunque mezzo di espressione».

“Senza limitazione di frontiere” sarà l’informazione di domani e già ne abbiamo i primi segni. All’avvio del nuovo millennio ci rendiamo conto che la rivoluzione informatica e telematica ha fornito all’umanità i mezzi per realizzare l’utopia affermata a metà del secolo scorso in quella proclamazione dei diritti venuta dopo la tragedia della guerra. Ma ogni conquista ha la sua ambiguità e il trionfo dei media commerciali è lì a ricordarcelo: l’informazione di domani arriverà dovunque liberando l’umanità dalle frontiere, o creando per tutti un’uguale dipendenza da un unico potere economico a dimensione planetaria e da una cultura informativa governata dalla regola del chiasso e della trasgressione? Questa è la sfida. Qui si gioca l’avventura morale dei media e del nuovo giornalismo mondiale.

Al polo positivo, la combinazione virtuosa delle potenzialità della rivoluzione informatica e dei media commerciali prefigura la nascita di un mondo senza frontiere, nel quale sarà possibile conoscere il destino di ogni gruppo umano nel momento stesso in cui esso si compie: un mondo nel quale il diritto all’informazione non potrà essere efficacemente negato a nessuno. Al polo negativo stanno i rischi antiumanistici della rivoluzione informatica e del sistema commerciale dei media: controllo dell’intero mercato dell’informazione da parte di poche centrali mondiali, livellamento sostanziale dei prodotti giornalistici e loro differenziazione spettacolare, vantaggio commerciale per la notizia “cattiva”, marginalizzazione del singolo operatore dell’informazione, tendenziale sua passività destinata ad accentuare la passività dell’utente.

 

2. Stare nel mercato, ma non essere del mercato

Non abbiamo alternative immediatamente praticabili rispetto al sistema commerciale dei media: occorre stare nel mercato senza essere del mercato. È facilmente dimostrabile, del resto, che tale sistema è il migliore – in ordine alla democrazia e valori connessi – tra quanti ne siano apparsi fino a oggi sulla terra. Abbiamo accennato al paragone con la stampa sovvenzionata di ieri, ma l’argomento potrebbe essere sviluppato con un confronto approfondito tra il sistema dei media commerciali e quello statuale e ideologico approntato dai paesi comunisti (e tuttora vigente nella Cina continentale), o variamente sperimentato ieri dal nazismo, dal fascismo, dal franchismo e più recentemente dalle dittature latino-americane. Che il sistema commerciale dei media sia migliore (e non solo commercialmente!) di quello statuale-ideologico non è un fatto che possa giustificare i suoi limiti, ma è una base su cui costruire l’impegno per il superamento di quei limiti. Come a dire: se questo è il sistema migliore, è qui che si deve affermare il meglio dell’uomo.

Indispensabili ormai alla vita associata, i media commerciali sono rilevanti anche in prospettiva religiosa. L’uomo d’oggi riceve una prima immagine del mondo (e anche della Chiesa) dai media: da qui la loro importanza. Non resta dunque – per parafrasare il detto evangelico sullo stare nel mondo senza essere del mondo – che accettare di stare nel mercato dei media senza ridurre le ragioni del proprio operare alle regole del mercato. È una scelta conflittuale che si impone a chi voglia oggi esercitare la professione giornalistica con un minimo di coerenza morale.

La prospettiva del conflitto toccherà soprattutto le decisioni riguardanti la carriera giornalistica e non tanto quelle relative alla singola prestazione professionale. La carriera è il luogo delle opzioni fondamentali del giornalista e le decisioni che la riguardano possono costituire le uniche occasioni in cui si evidenzia la sua eventuale professione cristiana. Può essere che il settore di applicazione di un giornalista sia tale – poniamo lo sport – o tale sia la sua mansione – poniamo di titolista – che non venga mai a porsi un’esplicita questione morale, o un conflitto immediato di coscienza in rapporto alla dimensione commerciale della testata per cui lavora. Ma la questione non potrà non porsi nelle decisioni di carriera e l’eventuale appartenenza ecclesiale non potrà non risultare evidente nell’insieme di una carriera e di una produzione giornalistica.

Il giornalista consapevole di tale situazione conflittuale dovrà tenere attivamente aperta la possibilità di cambiare testata per sottrarsi a situazioni che gli risultassero moralmente intollerabili e di fatto immodificabili. Nelle decisioni di carriera dovrà tener presente che maggior potere e più alte retribuzioni comportano quasi sempre una diminuzione di libertà. Una carriera facile può essere pagata con l’asservimento aziendale o politico.

 

3. Quali valori nel mondo dei media?

La via stretta dei media commerciali può e deve essere percorsa per l’affermazione di grandi valori. Ne indico tre.

Rispetto dell’uomo. I suoi diritti da promuovere: diritto all’informazione innanzitutto; poi tutti gli altri, fino a quello alla privacy. La sua dignità da difendere: il nudo, sia femminile sia maschile, è spesso un attentato alla dignità; almeno ogni volta che non è “informazione”. Il suo mistero da rispettare: la sessualità, la colpa, la morte.

Democrazia. Questione della libertà dei media dal potere, del loro pluralismo, del loro servizio attivo al cittadino: nel controllo dell’operato delle pubbliche autorità, nella difesa delle regole democratiche, nella formazione alla vita democratica.

Mondialità. Sia in negativo, a superamento di ogni frontiera; sia in positivo, come formazione a una consapevole cittadinanza del mondo.

È facile mostrare la contraddizione in cui vengono a trovarsi gli operatori dei media commerciali, ogni volta che si propongono di porre al servizio di questi valori la potenza dei loro media: essi sono potenti in quanto attirano il pubblico e per attirare il pubblico sono tentati – a volte – di contraddire l’uno o l’altro valore che vorrebbero servire. Prendiamo il campo più delicato: quello del rispetto dell’uomo davanti al mistero dell’amore, della colpa e della morte. Rifiutandosi di pubblicare una foto che viola quel rispetto, un giornale rischia di indebolire la sua presa sul pubblico rispetto a un altro, che non si fa questo scrupolo.

La tentazione dei media commerciali si configura – nel concreto del lavoro giornalistico di ogni giorno – come tentazione di cercare il facile clamore con i propri servizi, magari a scapito delle persone coinvolte; di attivare o ingigantire polemiche artificiose, allo scopo di attirare l’attenzione sugli antagonisti; di enfatizzare i temi classici della polemica di parte, in modo da porsi come portavoce di schieramenti; di accentuare gli aspetti erotici o violenti di talune vicende, per reclamizzare il proprio prodotto.

 

4. Oltre la dinamica selvaggia dell’audience

Nel concreto del lavoro di ogni giorno, ma soprattutto nelle decisioni di carriera, i media commerciali sono il luogo di una grande sfida e anche il luogo di una vera prova morale. Ma dove troveranno i giornalisti la forza per combattere la tentazione commerciale cui è esposta la loro professione? Abbozzo una risposta: occorre realizzare un’alleanza feconda tra gli operatori dei media consapevoli di quella tentazione e il pubblico preoccupato delle manipolazioni commerciali dell’informazione. La dinamica selvaggia dell’audience rischia di premiare il giornalismo senza etica, quell’alleanza dovrebbe rendere vincente il giornalismo dotato di responsabilità morale.

Per il giornalista credente la prova è la stessa del collega non credente, con in più – forse – una particolare sofferenza per chi tratta l’informazione religiosa: che ieri sottostava al pregiudizio laicista (interessa solo la Chiesa che fa politica) e oggi a quello commerciale (interessa solo la notizia di alleggerimento). I media deformano la realtà della Chiesa. La deformano sia con il registro alto, o ideologico (che la coglie come una realtà dominata da grandi divisioni e conflitti di potere, decisa a imporsi anche con la politica), sia con il registro basso o spettacolare (coglie gli aspetti marginali, confinanti con il denaro, il sesso, la magia, il folklore).

L’effetto d’insieme (i due registri sono spesso compresenti nei media a larga diffusione) è di una duplice deformazione dell’immagine della Chiesa: se il primo registro tende a costringere sotto specie politica, il secondo tende a relegare a notizia leggera. Il secondo registro va guadagnando terreno ed è destinato a divenire egemone, con il procedere – in ogni area mondiale – dell’americanizzazione dei media, cioè con l’affermazione piena della loro natura commerciale, che li porta a privilegiare la notizia con maggiore capacità di risonanza immediata, concorrenziale o spettacolare.

 

5. Comunità cristiana e rapporto con i media

In questo contesto, la comunità cristiana potrebbe migliorare il proprio rapporto con i media percorrendo quattro strade principali:

-cercando di maturare una considerazione realistica del mondo dei media commerciali: non vanno demonizzati, ma neanche ci si deve fare illusioni su un loro facile uso a fini di evangelizzazione; resteranno sempre come una sfida per l’uomo religioso: una “spina nella carne”, come ebbe a dire una volta il cardinale Martini in visita alla sede del «Corriere della Sera», nel gennaio dell’anno 2000;

-abbandonando ogni tentazione di governare il mondo dei media commerciali, ovvero il proprio rapporto con essi, tramite l’offerta di notizie controllate (i media non si governano, ci si può solo affidare alla loro libera confusione, accettandone la legge di funzionamento, che si basa sulla ridondanza e sulla iterazione: la molteplicità dei messaggi corregge – o almeno limita – l’imprecisione del messaggio);

-facendo delle istituzioni ecclesiali, destinate comunque a restare in prima linea sotto l’occhio dei media, una vera “casa di vetro”, come si espresse una volta Giovanni Paolo II parlando ai giornalisti (pubblicità dei bilanci, tempestività e integrale pubblicazione di documenti anche delicati, apertura alla stampa di attività tradizionalmente riservate);

-trovando il modo di parlare più con i gesti e i fatti che con le parole: il mondo moderno apprezza i testimoni più che i predicatori e i media – vera cifra del moderno – recepiscono un gesto dieci volte meglio di un discorso.

Le news di Dio sono deboli nella città mondiale. Almeno quelle verbali. Ma sono forti -a volte -quelle fattuali, perché lo Spirito di Dio soffia pur sempre, anche nel nostro mondo, e soffia – come sempre -dove vuole. La comunità dei credenti dovrebbe apprendere dalla Scrittura il linguaggio fattuale dei segni, dei gesti e delle parabole per comunicare al meglio con l’umanità dell’informazione globale. Le storie di vita comunicate nella lingua media dell’epoca costituiscono la via privilegiata di approccio al mondo d’oggi.

Nel mercato dell’informazione, la notizia forte (cioè suscettibile di un uso concorrenziale) scaccia quella debole. Analogamente la notizia cattiva offusca quella buona. La notizia religiosa in questo contesto rischia di risultare debolissima e di essere cacciata per prima dai giornali e dai telegiornali ogni volta che si riduce a messaggio verbale, o a segnalazione di avvenimenti interni alla comunità religiosa. Essa invece può essere forte quando veicola un gesto o una storia di vita.

In ogni caso il linguaggio della comunicazione ecclesiale (sia quello dei documenti, sia quello che veicola gesti e storie di vita) dovrà essere curato non soltanto ai fini della sua comprensibilità all’interno della comunità, ma anche per quanto riguarda la divulgazione giornalistica. Tale richiesta non dovrebbe essere vista con sospetto: proporsi di raggiungere una comprensibilità giornalistica significa avere cura che il linguaggio religioso abbia senso comune.

Quanto ai gesti e ai fatti, essi possono essere più eloquenti dei discorsi, ma perché lo siano giornalisticamente (cioè nell’universo della comunicazione mediata dai grandi strumenti di massa) è necessario che siano accompagnati dalle parole indispensabili alla loro interpretazione. Ciò del resto dovrebbe essere spontaneo per una Chiesa che pone al centro della sua vita le azioni sacramentali, che sono fatte di gesto e parola.

 

6. La forza dei fatti va oltre le parole

Un esempio felice di “gesto” cristiano ottimamente veicolato dai media è la visita di Giovanni Paolo II ad Alì Agca nel carcere di Rebibbia, il 27 dicembre del 1983: il Papa che entra nella cella del suo attentatore e parla con lui per 21 minuti ebbe venti volte lo spazio che giornali e televisione avevano dedicato un anno prima all’enciclica Dives in misericordia. Esemplare la discrezione verbale con cui il Papa accompagnò quel gesto, limitandosi a dire le parole necessarie alla sua interpretazione: «Oggi, dopo più di due anni, ho potuto incontrare il mio attentatore e ho potuto anche ripetergli il mio perdono».

Altro esempio di felice comunicazione cristiana per gesti e fatti è l’intera avventura di Madre Teresa: una donna che quasi non sapeva parlare e diceva pochissime parole, ma che è riuscita (lo si vide con la partecipazione davvero mondiale ai suoi funerali, avvenuti a Calcutta il 13 settembre del 1997) a farsi capire da tutti – e a essere ottimamente divulgata dai media – attraverso l’apertura di case per malati di Aids, l’invio di suore negli ospedali sovietici per soccorrere i contaminati di Cernobyll, la realizzazione di una mensa per i barboni in Vaticano e altre innumerevoli invenzioni del suo genio di carità.

A rendere più eloquenti i fatti rispetto alle parole non c’è soltanto la pigrizia dei media nell’era della televisione. A ben vedere, alla radice di questo privilegio ecclesiale dei gesti e delle storie di vita c’è il fatto che in origine il messaggio cristiano è notizia e testimonianza. Dalla preferenza istintiva dei media per i fatti può venire uno stimolo significativo alla stessa comunità ecclesiale: non è senza motivo, insomma, questa attesa del mondo – segnalata dai media – che la Chiesa non dimentichi mai di accompagnare la notizia evangelica con la testimonianza che l’accredita.

Dal mercato -se posso esprimermi così -viene dunque un invito a privilegiare la vita sulle parole e a legare le parole alla vita. Come ai tempi in cui si formavano i testi del Nuovo Testamento, anche oggi la predicazione dovrebbe tendere a riproporre la notizia evangelica e la testimonianza che l’accredita. Nell’ambiente ecclesiale italiano c’è forse, attualmente, un eccesso di elaborazione verbale del messaggio, che qualche volta sembra rispondere più a un’esigenza di scuola e di maniera, che alla necessità di accompagnare la comunicazione testimoniale. Tendo a pensare che il gergo ecclesiale si infittisca con il distacco del messaggio verbale da quello testimoniale.

A mio parere i cattolici d’Italia stanno facendo molto e bene per modernizzare la loro presenza nei media, ma mostrano un’eccessiva fiducia nel messaggio verbale e una sottovalutazione di quello testimoniale. I fatti – cioè le testimonianze cristiane fattuali: un gesto che esprime una conversione, una decisione che ricapitola un cammino di riconciliazione, una preghiera pagata con la vita, una morte vissuta nella speranza della risurrezione – costituiscono, devono costituire, la via privilegiata dell’evangelizzazione (o meglio, della pre-evangelizzazione) attraverso i media.

I fatti, infine, fondano e verificano l’attendibilità delle parole. E questo vale sia per la comunicazione immediata che per quella mass-mediale. I discorsi possono crescere su se stessi e allontanarsi dalla realtà, divenire incomprensibili. Se invece restano legati ai fatti non corrono questi rischi. Possono interpretare i fatti, dare loro risonanza, aiutare a comunicarli. In una parola: renderli parlanti. E i fatti ci sono sempre nella Chiesa: è la loro comprensione e comunicazione che è generalmente inferiore alla loro consistenza.

 

7. Le provocazioni dei testimoni

Quanto a una tipologia dei fatti di Vangelo, segnalo, a mo’ d’esempio, quella dei giusti e dei martiri, quella dei riconciliati e dei riconciliatori, quella dei samaritani e dei lebbrosi guariti.

Dico i giusti e i martiri per invitare a guardare più ampiamente rispetto ai confini visibili della comunità ecclesiale. Paolo Borsellino, credente e praticante, è un martire della giustizia; Giovanni Falcone, non credente e convivente, è un giusto delle nazioni: ambedue sono volti dell’annuncio, avendo dato la vita nello stesso rischio e per la stessa causa di servizio all’uomo.

Innumerevole oggi, come sempre, è la schiera dei giusti e dei martiri. Il nove maggio 2009, “Giornata della memoria” per le vittime del terrorismo i quotidiani pubblicavano i nomi delle “379 vittime del terrorismo” che abbiamo avuto negli anni di piombo: da Agostini Natalia in Gallon a Zizzi Francesco. Dalla prima pagina del «Corriere della Sera» di quel giorno partiva la “Lettera dei figli di Tobagi”, Luca e Benedetta, che aveva queste parole: «Una democrazia libera e matura […] deve essere capace di riaccogliere e reintegrare, a tempo debito e in modo opportuno e misurato, senza eccessi, coloro che hanno percorso una strada sbagliata e ne hanno preso coscienza». A pagina 8 c’era il preannuncio dell’abbraccio che quel giorno si sarebbero date al Quirinale Licia Rognini Pinelli e Gemma Capra Calabresi. A pagina 23 c’era la foto di Dolores Fasolini, la baby sitter che era morta per salvare da un trattore Angelica, la bimba che stava riportando ai genitori: «L’amore della sua tata è stato più forte del destino» diceva il padre di Angelica.

Ma con quest’ultimo episodio siamo passati alla tipologia dei samaritani e dei lebbrosi guariti. Mai in nessuna epoca -io penso – vi sia stata tanta testimonianza in questa direzione. E accanto al volontario che assiste i malati e soccorre i barboni in nome del Vangelo, c’è spesso il “giusto” che lo fa in nome dell’uomo. E sono sempre volti dell’annuncio, perché tutti siamo figli di Dio, sia che lo sappiamo sia che non lo sappiamo. Tra i riconciliati e i riconciliatori metto anche il nostro Presidente della Repubblica, che non è un credente, ma si è adoperato per riconciliare le due vedove e due Italie in loro, e ha pianto al microfono quando ha potuto annunciare quell’evento.

I nostri martiri in terra di missione – da Annalena Tonelli (2003) a don Andrea Santoro (2006), a Leonella Sgorbati (2006) – e le testimonianze di perdono – da Giovanni Bachelet a Bianca Taliercio, a Stella Tobagi, a Caterina Chinnici, a Carlo Castagna, a Margherita Coletta -sono tra i fatti cristiani meglio veicolati dai nostri media nei tempi recenti. Non mi dilungo oltre, ché non finirei più. Non c’è ragione di essere pessimisti sullo Spirito e sui i suoi doni alla nostra epoca. Sta a noi aprire gli occhi e vederne i segni e i volti.