N.01
Gennaio/Febbraio 2010

Essere preti oggi

La figura del prete sta cambiando. Qualche anno fa una simile affermazione sarebbe stata accolta con una serena preoccupa­zione: l’impressione generale infatti era che, bene o male, l’isti­tuzione ecclesiale avesse gli strumenti per fronteggiare il mutamen­to in atto. Oggi la questione si presenta già con dei toni più accesi: la Chiesa italiana comincia a percepire che i contorni e i contenuti del cambiamento saranno più forti di quanto immaginato e anche meno controllabili.

Occorre però affermare che, a fronte di mutamenti anche signi­ficativi, la figura del prete dimostra una capacità di tenuta davve­ro notevole e in parte inaspettata: nella nostra società, pur dipinta come secolarizzata e affrancata dall’influsso della sfera del religioso, il prete continua a mantenere, in quanto rappresentante dell’uni­verso del religioso, un posto di rilievo; la figura del prete si rivela come una figura essenziale ai fini della costituzione e della presenza dentro il tessuto sociale delle trame di quella solidarietà quotidia­na e fondamentale che serve a costituire il tessuto connettivo del nostro vivere sociale e della nostra cultura. Non solo, e più profon­damente ancora, ad un livello ecclesiale e di esperienza cristiana la figura presbiterale continua ad essere vissuta e riconosciuta come una figura di tutto rispetto, una figura capace di consentire, di porre in essere una esperienza di fede vera, genuina e ricca di contenuti umani e cristiani. Sono lontani i tempi in cui si criticava la figura del prete, accusandola di obbligare le persone dentro un ruolo e una esperienza ritenute poco maturanti, da un punto di vista antropolo­gico così come da un punto di vista spirituale.

Stanti queste premesse, risulta davvero interessante tentare una comprensione e una interpretazione del ruolo e della tipologia dei preti di oggi: questo clima di incertezza e di mutamento sul futuro della figura presbiterale ha via via attirato su di sé l’attenzione del mondo ecclesiale, che ha cercato in più modi di venire a capo dei mutamenti percepiti, sviluppando prima alcune inchieste e impe­gnando lo stesso Episcopato italiano in una riflessione sull’identità del prete, sulla sua formazione, sulle sue prospettive di futuro (cf le Assemblee Generali del novembre ’05 e del maggio ’06)[1].

 

  1. Il parroco, figura tipo del prete diocesano

Le inchieste a cui ho partecipato in questi ultimi anni conferma­no in modo chiaro che la figura del parroco rimane la dominante nel costruire la tipologia del prete diocesano italiano attuale. La fi­gura del parroco si conferma come la figura più equilibrata, meno portata al pessimismo e più aperta nel leggere i cambiamenti. È anche quella che segnala maggiore volontà di aggiornamento. I dati permettono di costruire una possibile tipologia di figure del clero diocesano: il 33% è parroco e basta; il 35% è parroco ma non solo; il 22% è viceparroco con anche altri incarichi; il 10% dei preti ha incarichi ministeriali slegati dal territorio. A confermare la centrali­tà della figura del parroco possono essere portati a sostegno questi incroci di dati: il 74% di chi ha un solo incarico è parroco; il 50% di coloro che si dichiarano parroci vive solo quel ministero, senza altri uffici (l’unico incarico con così alta percentuale ad essere affidato da solo: dei viceparroci, solo il 38% fa soltanto il viceparroco; solo l’8% dei cappellani fa solo il cappellano; solo il 9% dei professori di teologia fa solo quello. Questo, però, vuol dire anche che alla metà dei parroci è chiesto di fare o fa anche altro).

Si osservano tracce di due modelli di ingresso in questa figura ministeriale: al Centro e al Sud più del 40% dei sacerdoti è divenuto parroco entro i 35 anni d’età, al Nord meno del 30%. La figura del parroco esercita il suo influsso anche sull’intenzione di conclusione della vita ministeriale: la maggior parte del clero si aspetta di con­cludere la sua vita vedendo magari ridotto il suo impegno pastorale diretto, ma senza abbandonare questo contesto (sono poco segna­late forme di “ritiro”).

La figura del parroco è anche un forte punto di identificazio­ne, funziona come base di appoggio capace di dare un ruolo e una “consistenza” all’identità del singolo prete, anche in assenza di altre relazioni che la sostengano: il prete si sente ancora a casa sua in parrocchia. Ai rischi di solitudine e alle fatiche nella costruzione di reti di relazioni significative (dentro le quali condividere la propria fede), si reagisce sviluppando una identità fortemente ancorata al ruolo che si è chiamati a rivestire. Con tutte le conseguenze del caso.

 

  1. L’identità ministeriale dei preti

I preti mostrano di avere ancora chiari i punti fondamentali della loro identità presbiterale: il loro compito consiste nel mantenere un rapporto con la gente (figura di un cristianesimo popolare), chia­mato a gestire anzitutto la dimensione religiosa di questo popolo loro affidato, anche con strumenti semplici. I preti elaborano una interpretazione del cambiamento in atto dentro la Chiesa secondo una linea della continuità: sono convinti che il modello di Chiesa che li ha generati continui nel tempo senza grossi scossoni.

Tuttavia mostrano anche in questo campo i segni di una tra­sformazione in atto verso una percezione meno istituzionale e più carismatica del ruolo del prete oggi. È possibile infatti registrare l’esistenza di una sorta di duplice tipologia, di una duplice figura del prete “soddisfatto” della propria identità ministeriale: un primo gruppo di preti che si sente soddisfatto dalle azioni classiche e isti­tuzionali, che vedono come destinatario il popolo nel suo insieme e come strumenti le azioni classiche della cura animarum; un secondo gruppo di preti che invece vede come destinatario gruppi particola­ri e come strumento le azioni volte a creare relazioni, comunione, partecipazione, inserzione dentro la rete sociale più ampia.

Nel descrivere e immaginare lo spazio di collaborazione coi laici, emerge un dato ambivalente: riconoscimento del ruolo teorico del­la collaborazione e dell’ascolto (il valore del consiglio pastorale, ad es.), poca valorizzazione nella pratica di forme di collaborazione. Si tendono a condividere coi laici le attività cui si attribuisce minore importanza. A livello di collaborazione, i preti mostrano di vivere il presbiterio secondo canali affettivi: discutono e condividono decisio­ni pastorali con i preti loro amici più che con il presbiterio locale o diocesano.

 

  1. La vita quotidiana dei preti

Sostanzialmente solo un prete su quattro vive la situazione clas­sica (prete con domestica o familiare); è molto accentuato invece il fenomeno dei preti soli (quasi il 40%). Per la gestione della casa e il vitto non si ricorre però a forme di aiuto professionale e remune­rate, si preferisce fare affidamento sul volontariato. Il Centro Italia mostra una organizzazione ecclesiastica sostanzialmente diversa e molto più articolata rispetto al resto del paese. Emerge, anche se come fenomeno minoritario, l’appello a forme di vita comune tra i preti; un seminarista su tre invece vorrebbe vivere da prete in una comunità sacerdotale.

Le condizioni quotidiane di vita decidono molto dello stile del prete: dove mangia e con chi mangia influenzano in concreto an­che altri momenti della vita presbiterale e non possono quindi non avere ricadute sul suo concetto di presbiterio, sulla vicinanza più o meno percepita del vescovo. Non è un caso che i preti dichiarino che nel costruire le reti di relazioni affettive di sostegno e di iden­tificazione, ci sia poco spazio per la famiglia e per il vescovo. Ben il 72% è costituito da parroci che abitano nella parrocchia in cui esercitano il loro ministero: un prete su tre si sente appoggiato e sostenuto dai propri parrocchiani.

La solitudine, l’indipendenza e l’autonomia in cui un prete è lasciato nel momento in cui è chiamato ad impostare (e in seguito a gestire) i ritmi della sua vita personale mostrano poi una seconda conseguenza: divengono il luogo in cui è possibile fotografare l’evo­luzione in atto nel modo di intendere la vita quotidiana di ciascuno, che sembra orientarsi sempre più verso il modello della vita religio­sa. Contano di meno i legami con i parrocchiani (dal 38% si scende al 21%), raddoppiano i legami tra preti amici (dal 19% al 38%). La stessa tendenza è riscontrabile nel modo di immaginare le proprie vacanze: aumentano di molto, quasi raddoppiano, i preti che affer­mano di trascorrere questo momento di riposo con altri amici preti, a scapito di coloro che invece vivono questo periodo con i propri parrocchiani (giovani o adulti). Seminaristi che chiedono la vita co­mune, preti che si sentono sostenuti soltanto da altri preti amici, preti che pensano di fare le vacanze tra preti: stiamo indirizzandoci verso una trasformazione del clero secolare in clero regolare? Come leggere queste trasformazioni in riferimento al rapporto parroco­parrocchiani, costitutivo del suo ruolo?

 

  1. La capacità di futuro dei preti

I preti elaborano una interpretazione del cambiamento in atto dentro la Chiesa secondo una linea della continuità: sono convinti che il modello di Chiesa che li ha generati continui nel tempo senza grossi cambiamenti. Tre su quattro sono convinti che tra trent’anni ci saranno ancora le parrocchie come le conosciamo oggi, anche se diminuite di numero; sono convinti che il loro compito in par­rocchia sia di sostenere e accompagnare tutti indistintamente, non selezionando, non creando gruppi particolari. Dimostrano di avere della parrocchia un’idea territoriale e popolare (due preti su tre), anche se un prete su quattro è convinto che occorra rivedere que­sta convinzione, limitando la definizione di parrocchia al gruppo di coloro che si identificano con la pratica cristiana (i cosiddetti vicini). I preti si mostrano più incerti nel valutare la tenuta del cattolicesi­mo popolare in riferimento alla gente: il 37% dei preti ritiene che tra trent’anni i bambini saranno battezzati per la maggior parte nei primi mesi di vita come oggi, il 38% sostiene di no, che non ci sarà più questa figura di cristianesimo, il 25% si dichiara incerto.

I preti dimostrano una buone dose di autostima: nove su dieci sono convinti che il loro ruolo sia ritenuto utile dalla gente e la loro figura sia anche un buono strumento di richiamo e di comu­nicazione del volto di Dio agli altri. Nonostante le difficoltà, i pre­ti mostrano dunque un morale alto. Sono talmente convinti della loro identità ministeriale, da vederla difficilmente comparabile con altre professioni o ruoli sociali: può al massimo avvicinarsi alla pro­fessione dell’insegnante e al suo compito educativo, ma solo una minoranza sceglie questa similitudine. Per i più il prete non è com­parabile con alcun altro lavoro o professione. I preti sono però pes­simisti quando si tratta di dare una stima sul rispetto che la gente ha nei confronti della loro figura: quasi la metà è convinta che questo rispetto sia diminuito negli ultimi decenni, e non di poco. Il parago­ne, fissato sugli anni ’70, stupisce, visto che nella realtà il ruolo del prete, a partire da quel momento, è visto in crescita e la sua stima aumentare. Il pessimismo sopra accennato comunque cresce di pa­recchio tra le leve più giovani: dal 30% dei sessantenni si passa al 62% dei seminaristi.

I preti si dicono soddisfatti (perfino anche un po’ orgogliosi) del­la scelta vocazionale fatta, anche se hanno conosciuto momenti di crisi (38%). Sono convinti che la vocazione li abbia fatti maturare (80%); non vivono in modo tragico la loro scelta, non vi vedono rinunce o obblighi insostenibili, la vedono impegnativa e difficile come altre scelte di vita.

 

  1. Un ideale sempre più incerto

A conferma di questa trasformazione in atto nell’identità mini­steriale, si può osservare il fenomeno del tramonto di un’idea chiara di prete che stia alla base e faccia da punto di riferimento del cam­mino di formazione dei seminaristi odierni. L’idea di fare il parroco diminuisce come motivo principale che spinge oggi ad entrare in seminario, un dato davvero sorprendente se confrontato con le mo­tivazioni e le pratiche di cinquant’anni fa. Si entra in seminario con un’idea meno determinata di cosa voglia dire fare il prete: tramonta la figura tradizionale del prete (il parroco), non emergono figure nitide alternative, se non in parte quella del leader di un gruppo (colui che educa alla fede); soprattutto aumenta il numero di coloro che non hanno immagini ideali di riferimento. Un prete dunque visto meno come figura istituzionale, un po’ più come figura cari­smatica, ma soprattutto come figura vaga.

Detto con una immagine, il prete così immaginato appare sempre meno parroco e sempre più “professionista”, in grado di decidere li­beramente in ogni momento i tipi di incarichi, i “doveri” legati alla sua professione, le azioni che non può permettersi di non svolgere. Un simile indizio potrebbe essere letto come il segno di una figura di prete che si pensa come leader, soprattutto carismatico-verbale, e meno ruolo di autorità (la figura del parroco – che ha pur tanto influito anche sulle vocazioni in via di maturazione – è destinata a conoscere un ridimensionamento anche forte).

 

  1. Da dove veniamo, dove siamo, dove andiamo

Come penso si sia già intuito, le trasformazioni che stanno in­teressando i preti sono, sì, di tipo funzionale, ma in realtà ne stan­no toccando l’identità profonda. Ciò che è in discussione non sono soltanto i compiti del prete, le sue azioni, ma più intrinsecamente e profondamente l’identità che attraverso questi compiti si vede isti­tuita e confermata. Veniamo da un passato in cui la figura della cura animarum era assunta come principio regolatore del ministero e quindi dell’identità del prete: vi è figura presbiterale laddove una persona riceve l’incarico di garantire e curare quel gregge che le è affidato, sull’esempio e sotto l’autorità di Cristo pastore e dentro la comunione della Chiesa.

Questo passato è ancora fortemente radicato in noi. Il fon­damento cristologico del ministero e dell’identità del prete è un dato tradizionale che non soltanto è molto diffuso tra il clero, ma è in grado di mostrare ancora molti dei suoi benefici: uno stato di vista vissuto come vocazione, senza risparmio e senza calcoli, inteso invece come una forma di spiritualità; l’attaccamento del prete alla sua gente; una dedizione che non viene misurata su rit­mi professionali, ma è legata all’affetto con il quale ci si lega alla causa; l’obbedienza come principale vincolo che ci lega a Cristo e alla Chiesa.

Questa immagine tradizionale del prete, in seguito anche ai cambiamenti che la stanno interessando (a partire dalla questione numerica), mostra però anche le sue fatiche e i suoi limiti: la di­mensione ecclesiale della figura presbiterale rimane eccessivamente in ombra (il prete si interpreta sempre come un “io” e mai come un “noi”, legato a quel corpo che è il presbiterio e dentro la Chiesa locale); il fondamento della propria figura sul solo vincolo dell’ob­bedienza genera figure direttive e poco comunionali, creando ec­cessive dipendenze e attaccamenti; fatica ad emergere l’immagine di una Chiesa che è tutta insieme soggetto della sua azione e del suo futuro; si corre il rischio di una fossilizzazione della pastorale in azioni che hanno il loro senso più nel peso della tradizione che le difende, che non piuttosto nella loro capacità di svolgere nel pre­sente quel compito e raggiungere quell’obiettivo per il quale erano state pensate.

Più in generale, il cambiamento culturale in atto sembra aver minato molto in profondità la figura tradizionale di prete fin dal momento della sua formazione. In questo contesto si corre il rischio che il modello tradizionale rischi di funzionare come una patina che si sovrappone ad uno strato profondo della personalità del sin­golo candidato, senza tuttavia riuscire a trasformarne la struttura e l’identità. A questo proposito si è parlato di “conversione pastorale” da applicare e declinare anche nei confronti della figura del prete.

 

  1. Sequela e cura animarum

Sembra così rilanciato un dibattito che ha caratterizzato e pola­rizzato in modo anche forte il clima post-conciliare in Italia, e non solo: la tensione, nel pensare l’immagine del prete, tra il model­lo della sequela e quello della cura animarum, tra una declinazione profetica della sua identità e una invece più pastorale; in breve, la tensione tra un prete pensato più come profeta e uno pensato più come pastore.

Nel primo modello i temi teologici maggiormente evidenziati sono quelli del radicamento del prete nella Parola di Dio, della sua capacità di sviluppare un discernimento, una lettura del presente a partire dalla prospettiva escatologica del Regno, dell’indispensabile legame che lo unisce alla comunità cristiana, dell’importanza della testimonianza resa nel quotidiano con la propria vita e della neces­sità di un atteggiamento meno apologetico da esibire nei confronti del mondo, col quale si possono invece condividere le ansie socia­li di liberazione, maturazione e progresso espresse da molte fette dell’umanità.

I temi teologici che caratterizzano la seconda figura di prete ri­prendevano invece i temi classici dal pastore guida della comunità: il rapporto asimmetrico nei confronti del popolo a lui affidato, di fronte al quale egli riveste una funzione sacrale e incarna il princi­pio visibile dell’autorità; il primato dell’insegnamento e dell’educa­zione di questo popolo, l’importanza della liturgia e del servizio re­ligioso offerto con esso e per esso, la capacità di ascoltarne i bisogni e di rispondervi (a partire da quelli religiosi); la necessità che ogni singolo prete manifesti in modo chiaro il legame costitutivo alla Tra­dizione e alla Chiesa universale che fonda la sua identità come prete tra quella gente.

Se i motivi che spingono a sostenere lo sbilanciamento della figura presbiterale verso il primo modello appartengono maggior­mente all’ordine della logica (di fronte ai cambiamenti anche forti che stanno interessando la Chiesa e la figura del prete, l’unica ri­sposta logica non può che essere quella di un ripensamento radicale dell’identità presbiterale), i motivi che invece favoriscono il ritorno in auge della seconda sono più di ordine affettivo: la seconda figura, quella pastorale, appare più semplice e chiara e più capace di fondare una identità certa in un’epoca di incertezza, in un mondo che cambia, a fronte delle fatiche emerse da parte del primo modello di motivare in modo stabile la figura presbiterale, rendendola com­prensibile e anche appetibile.

 

  1. Mutamenti di funzione, elementi stabili di identità

I preti stanno cambiando; i preti vedono la loro identità presbite­rale in forte evoluzione. Quali possono essere i punti di riferimento, gli elementi che non potranno mancare in una figura presbiterale, qualsiasi sia il modello che ha deciso più o meno consapevolmente di assumere?

Sperando che siano questi elementi a plasmare il modello di pre­te, la sua identità presbiterale, provo una sintesi desunta dalla rifles­sione in atto: il prete del domani (ma già di oggi) dovrà saper esibire un rapporto maturo e diretto con le fonti della sua fede personale e del suo ministero (la Tradizione, la Parola di Dio, l’Eucaristia); dovrà lavorare per raggiungere una maturità personale umana e spirituale solida, capace non solo di resistere alle fatiche del conte­sto culturale ed ecclesiale, ma anche di non lasciarsi influenzare da esse nella costruzione dei giudizi sulla situazione che è chiamato a dare; proprio per questo motivo dovrà dotarsi di sempre più raffina­ti strumenti interpretativi del reale, tecnici ma anche ispirati dalla fede che vive, e allo stesso tempo dovrà lavorare per raggiungere una disciplina di vita sua personale (ritmi e condizioni di preghiera, di lavoro, di riposo) equilibrata e in grado di sostenerlo nel clima carico di tensioni in cui è chiamato a svolgere il proprio ministero; dovrà ripensare il proprio rapporto costitutivo con quello che è il “popolo di Dio” e che nel reale può assumere diverse figure sociali, luogo di esercizio della sua fede personale oltre che del suo mini­stero; dovrà sviluppare un’idea di Chiesa che esalti la dimensione partecipativa e comunitaria, sia a livello locale (nel luogo in cui esercita il suo ministero), sia a livello più universale (valorizzando la comune appartenenza al presbiterio, ovvero la strutturazione di rapporti orizzontali e partecipativi e non solo verticali e direttivi dentro l’istituzione ecclesiale).

 

Note

[1] F. Garelli (ed.), Sfide per la Chiesa del nuovo secolo. Indagine sul clero in Italia, Il Mulino, Bolo­gna 2003; l. Diotallevi, La parabola del clero. Uno sguardo socio-demografico sui sacerdoti diocesani in Italia, Fondazione Agnelli, Torino 2005. L’ultima inchiesta, diretta da L. Diotallevi, oltre che da me, e svolta nel 2004 e 2005, aveva come compito di studiare la trasformazione del ruolo del prete (la figura e il contenuto della cura animarum, sia da parte dell’istituzione, che della cultura e degli individui) e quindi la modificazione dell’identità presbiterale a partire dalle sue variabili organizzative, dal suo esercizio.