N.01
Gennaio/Febbraio 2010

La carità pastorale genera vocazioni

Generare… La profondità semantica di questa parola, ricor­do, si squadernò agli occhi della mia mente allorquando, nell’ormai lontano 1988, i vescovi italiani riconsegnarono quel testo a tutt’oggi insuperato: Il rinnovamento della catechesi alle comunità ecclesiali d’Italia, accompagnandolo con una lettera; in essa, al n. 14, concludendo, affermavano: «Una Chiesa non la si organizza, ma la si genera con la profondità dei carismi». Fu per me, giovane sacerdote e parroco di fresca nomina, alle prese con sfide di ogni tipo – sociali, culturali e religiose – voglioso di mostrare le proprie abilità, un’autentica sberla: ebbe l’effetto di risvegliarmi da un’ubriacatura di attivismo, dalla quale non erano del tutto esenti da colpa neppure i vertici gerarchici. Ci sentivamo spinti infatti a produrre iniziative pastorali e non restava neanche troppo nascosta la propensione a misurare la qualità della vita ecclesiale dalla quan­tità delle iniziative prodotte.

 

  1. La Chiesa, comunità dei chiamati

Il cristiano è un chiamato, “santo (messo a parte) per vocazio­ne”, ovviamente da parte di Dio (Rm 1,1-7; 1Cor 1,1). La maggior parte delle Lettere paoline si rivolgono ai cristiani con tale appella­tivo; la Chiesa, “comunità dei chiamati”, è essa stessa la Ekklesìa, la “chiamata”: l’Eklektè, “eletta”, in 2Gv. La vocazione perciò, avanti di costituire una collocazione all’interno della Chiesa, è la relazione con Dio che ci costituisce nell’essere creaturale prima e quindi filiale, risultando l’essere creaturale primo nell’ordine ontologico, ma l’essere figli di Dio, primo nell’ordine intenzionale: il motivo, insomma, della nostra chiamata all’esistenza. La vocazione poi, che ci costituisce intimamente nell’essere personale e non riguarda so­lamente il nostro posto nella Chiesa da un punto di vista storico contingente, ma il mistero del nostro “essere in Cristo”, consiste nel nostro promanare da lui come tralci dalla vite e, dunque, il miste­ro della nostra filialità e della nostra fraternità. Queste ci saranno pienamente manifeste quando vedremo Dio, così come egli è nel mistero originante ed ineffabile della sua vita intima, come fonda­mento e senso ultimo di ogni altro mistero cristiano: il suo generare come Padre, il suo procedere come Figlio e il suo riceversi come Spirito d’Amore del Padre e del Figlio.

Come, chiamandole, Dio suscita dal nulla tutte le cose, così, chiamandoci in Cristo Gesù, il Padre suscita in noi il nostro essere di Figli. Questa è più che una creazione e Giovanni nel suo prologo non esita a chiamarla una generazione. Infatti, a partire dall’evento dell’Incarnazione, a partire ontologicamente e non solo cronolo­gicamente, l’Unigenito è diventato il primogenito di molti fratelli, colui nel quale ogni uomo può inverare il suo destino di Figlio; figli nel Figlio, secondo la felicissima espressione di origine patristica, rimessa in auge da Mersh e ormai patrimonio indiscusso della teo­logia. La nota che distingue Gesù nel grembo della Trinità, la fonte della sua gioia segreta, a detta di Chesterton, proprio questa Cristo ha voluto che, nell’Amore che viene da Dio, qualificasse l’identità di un cristiano.

Il cristiano perciò, chiamato alla vita piena è generato da Dio e in quanto figlio, vive una relazione unica ed irripetibile con il Padre; sempre Giovanni si premura di escludere da questa generazione qualunque potenza o volontà che proceda dalla natura: «I quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati», afferma nel suo Vangelo al v. 13 del primo capitolo. Successivamente, al v. 3 del c. 3, nel dialogo notturno con Nicodemo, Gesù preciserà la natura di questa generazione come una rinascita dall’alto, da quel “luogo” donde proviene lui stesso e che è il cielo (13,31), una rinascita dall’acqua e da quell’Amore che è lo Spirito Santo. Nella sua prima Lettera poi, inviterà fortemente i suoi figli (2,1) a contemplare l’amore grande di cui i cristiani sono fatti oggetto da parte di Dio, al punto che è avvenuta in loro quasi una trasmutazione di natura: da creature a figli di Dio, destinati in­fine ad essere “divinizzati” quando vedranno Dio quale egli è.

Paolo, a conoscenza delle categorie culturali del diritto romano, qualificherà più adeguatamente questa filiazione come filiazione adottiva (Gal 4).

 

  1. Il nome segreto

Tale aspetto di relazione unica ed irripetibile con Dio Padre si evince in modo particolarmente suggestivo nella categoria semitica del “nome”, il conferimento del quale è compito quasi esclusivo del padre che ha generato; non è dunque per caso che Giuseppe rice­verà da Dio il nome che dovrà imporre al figlio di Maria (Mt 1,21). I nomi che le persone possiedono a volte sembrano risultare insuffi­cienti ad esprimere il mistero della persona e le sue funzioni sociali, cosicché Dio, per esempio, per indicare la sua presa di possesso della vita di una persona le dà un nome nuovo. Lo fa con Abramo (Gen 17, 5), con la moglie Sara (17,15), con Giacobbe (32,29); lo stesso farà Gesù con Simone Barjona (Mt 16,18), con i figli di Zebedeo (Mc 3,17). Nell’Apocalisse, al capitolo secondo, nella lettera alla Chiesa di Pergamo, Cristo Gesù fa scrivere: «Al vincitore darò la manna nascosta e gli darò una pietra bianca, e sulla pietra scritto un nome nuovo, che nessuno conosce se non colui che lo riceve».

Esiste dunque nel cuore di Dio un nome segreto, fuor di me­tafora il suo sogno su di noi, come amiamo dire a proposito della vocazione, ma che sarebbe meglio, a mio avviso, chiamare, disegno, piano; consistente in un’economia di grazia, grazia su grazia, come dice Giovanni (Gv 1,16), finalizzate alla gloria finale (il climax di Rm 8,28-30), che il Padre non può non rivelare ai suoi figli, anzi, se ne compiace, quando ne facessero richiesta sincera.

Questo nome, che coincide con quella che chiamiamo vocazio­ne, il Signore ama rivelarcelo durante il cammino della vita in un dialogo personalissimo che solo secondariamente verte sulla mis­sione, le cose da fare; primariamente, invece, altro non rivela se non il nostro posto nel suo cuore. Esemplare il caso di Maria. Il suo nome familiare significa magnificata, esaltata, ma l’angelo si rivol­ge a lei direttamente con un appellativo misterioso: kecharitomène (stracolma di bellezza spirituale) che qui, appunto, mancando il nome, osserva Zerwick, è da intendersi non come un qualificativo, bensì come un nome proprio. Sarà Maria stessa poi a definire la sua missione chiamandosi serva.

Molto suggestiva l’icona di lei proposta dal Vangelo di Luca che la Chiesa, nella liturgia, per ben due volte (2,19.51), pone di fron­te agli occhi del nostro cuore durante il tempo natalizio: è còlta meditabonda sugli eventi riguardanti il Figlio e dunque anche lei, mentre li va confrontando nella loro frammentarietà, è alla ricerca del disegno nascosto (Col 3,3). Quanto è decisivo questo esercizio da parte di coloro che dicono di desiderare di conoscere il piano di Dio sulla loro vita!

Il nome segreto che solo Dio conosce è dunque la vita cristiana nel suo mistero, ossia il disegno d’amore, eternamente pensato dal Padre nel Figlio suo Gesù Cristo e realizzato nel tempo dallo Spirito Santo, che riguarda ogni figlio, la cui generazione, iniziata nel bat­tesimo, ovviamente troverà il suo culmine nell’esito finale; sarà una vera e propria vittoria, quando vedremo Dio quale egli è e, nel suo mistero ormai dispiegato e contemplato, contempleremo pure noi stessi: pensati prima, quindi eletti (Ef 1,3-7), voluti, amati, cercati, raggiunti, afferrati (Fil 3,12)!

Ne consegue allora che sussiste una sostanziale uguaglianza dal punto di vista più vero, quello dinamico della vita, tra le categorie di vocazione, vita spirituale nel senso forte di vita secondo lo “Spirito”, identità cristiana, vita cristiana.

 

  1. La carità pastorale

Dopo aver focalizzato teologicamente la natura della vocazio­ne, siamo in grado di comprendere meglio in che modo gli uomini possono diventare collaboratori di Dio nella pastorale vocazionale, quella che riguarda appunto le vocazioni e che, proprio a partire dalle riflessioni compiute, non si può considerare solamente come un settore, magari specialistico, della pastorale tout court, della Chie­sa. Certo esiste la necessità di individuare le vocazioni cosiddette di speciale consacrazione, ma io credo che insistere ad ogni piè sospinto sulla parola speciale ci faccia intanto correre il rischio, prima, di perdere di vista la consacrazione sostanziale del battesimo, che è la vita cristiana, quindi pregiudichi l’aspetto più vero e decisamente più affascinante della vocazione: la sua unicità, riducendo il tutto al problema degli stati nella Chiesa, importante certo, ma non quanto il rapporto irripetibile che il Padre celeste realizza con ognuno dei suoi figli. Notava acutamente Von Balthasar in Sponsa Verbi a propo­sito del misterioso Regista della vita spirituale:

«Nella storia della Chiesa grandi impulsi sono sempre sorti dall’eliminazione di steccati spirituali… e dal ritorno dell’impulso primitivo del Vangelo… La differenziazione delle spiritualità oggi diventata pacifica – si parla di spiritualità dei diversi ordini, di spiri­tualità dei sacerdoti diocesani, dei laici, dei differenti gruppi e mo­vimenti –, è quasi totalmente un aborto, spesso ben intenzionato, ma sovente avvelenato, e non solo inconsciamente, dal risentimen­to. Come se un santo potesse essere interessato alla “sua propria” spiritualità! Come se una simile spiritualità a scomparti non fosse indegna dello Spirito Santo, il Quale vuole ispirare nei cuori sempre e soltanto la pienezza di Cristo!»[1].

La carità è l’amore di Dio che rende partecipe il cristiano della vita intima di Dio Trinità, quella vita che dalla vite che è Cristo, come linfa, scorre nei tralci, rendendoli capaci di fruttificare per la vita eterna (Gv 15,1-8). Ma il dono di Dio è perfetto (Gc 1,17) e dun­que nessuno, al pari di Dio che scruta il cuore e le reni (1Cr 28,9), è in grado di personalizzare i doni, secondo il suo disegno, certo, ma anche tenendo conto, mi si passi l’antropomorfismo, delle capacità e della missione a cui soprattutto lui chiama. È il “sarò con te” di ogni missione, intrinseca ad ogni vocazione, che dà consistenza ed efficacia al “non temere” che pure non manca mai.

La carità pastorale è, più precisamente, la carità del pastore, vo­lendo la formula esprimere, col genitivo soggettivo, quella specie di carità che caratterizza i pastori che continuano, attraverso il sa­cramento dell’ordine, nei gradi del presbiterato e dell’episcopato, il ministero di Cristo buon pastore.

È l’amore di Gesù di cui, in forza dell’ordinazione, partecipano gli episcopi ed i presbiteri, è l’amore che anima Gesù e che, dal suo Cuore, passa al loro cuore; un amore da accogliere prima che da im­parare. La domanda di Gesù a Pietro sul lago di Tiberiade, riportata alla conclusione del quarto Vangelo al c. 21: «Mi ami tu più di co­storo?» non deve trarci in inganno: tutta la vicenda del primo degli apostoli dimostra l’incapacità da parte sua ad amare Gesù in modo disinteressato (la richiesta riportata da tutti e tre i Vangeli sinottici Mt 19,27; Mc 10,28; Lc 18,28, ne forniscono la prova), fino a quan­do, ormai indegno e in modo eclatante, non è raggiunto dall’unico amore sempre veramente puro, quello del Figlio di Dio che, sem­plicemente per-dono, glielo restituisce… Certo, va anche detto che è un amore che si impara, ma non a prescindere dall’amore preve­niente ed avvolgente di Cristo.

Questo amore, mediato dal battesimo, confermato dalla cresi­ma e finalmente configurato a quello di Cristo sommo sacerdote dall’ordinazione presbiterale ed episcopale, opera in due direzioni, ambedue fondamentali. Per un verso unisce a Cristo intimamente, (notevole a questo proposito la comparazione – più di costoro – ag­giunta da Gesù alla prima delle domande rivolte a Pietro, volendo indicare, in primo luogo, quanto gli stiano a cuore le pecore del suo gregge; in secondo, quanto più amore supponga la responsabilità di esse), senza il quale non c’è speranza di realizzare nulla (sempre in Gv 15,5) e men che meno speranza di fecondità spirituale (Mt 12,30).

 

  1. Carità pastorale ed amicizia con Cristo

Si può dire che il tema dell’amicizia con Cristo a fondamento della spiritualità cristiana ed in special modo di quella dei pasto­ri, sia un vero e proprio assillo del Magistero di Benedetto XVI e non solamente a partire dal suo pontificato. Era presente infatti già nell’omelia pro eligendo pontefice del 18 aprile del 2005, allorquando, enucleando il pensiero di Gesù sull’amicizia a partire dal v. 15 del c. 15 del IV Vangelo, ricordava che, se la prima condizione dell’ami­cizia risulta la confidenza, tale da non avere più segreti e fino al punto di poter parlare con il suo io – è il caso dei presbiteri e dei vescovi – la seconda è la comunione delle volontà. «Idem velle – idem nolle», che era anche per i Romani la definizione di amicizia: «Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando». L’amicizia con Cristo coincide con quanto esprime la terza domanda del Padre nostro: «Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra». Vi ritornava poi da Papa a Colonia alla Giornata Mondiale della Gioventù il 19 Agosto 2005, nel discorso ai seminaristi: «Il segreto della santità è l’amicizia con Cristo e l’adesione fedele alla sua volontà. “Cristo è tutto per noi”, diceva Sant’Ambrogio; e San Benedetto esortava a nulla anteporre all’amore di Cristo».

Per un altro verso il pastore, letteralmente impregnato dell’amo­re di Cristo, non può non rivolgersi verso coloro che Cristo ama e che attraverso le mediazioni ecclesiali gli sono stati affidati; lo farà non soltanto nell’oggettività garantita dal sacramento, ma «con tut­to il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente, con tutte le forze» (Mc 12,30): con quello stesso amore con cui è unito al suo Signore e che, solo, è degno di Dio, perché l’amore è uno e noi tutti ne par­tecipiamo, secondo le diverse modalità.

 

  1. Carità pastorale e contemplazione

Si capisce immediatamente, allora, come sia possibile al pastore, ma vale per ogni cristiano, evitando la dispersione, quell’unità di vita, utopica al contrario per chiunque voglia vivere seriamente la molteplicità del mondo: solo con un’interiorità guarita e pacificata da un alto amore (e nessuno è più alto di questo), ma che, soprat­tutto, è nel cuore, anzi il cuore delle persone e delle cose! È questo il segreto della contemplazione, per la quale invece sarebbe inutile aumentare il tempo dell’orazione, senza questo sguardo d’amore: «Chi ama vede Dio – asseriva Agostino esplicitando il pensiero Gio­vanneo – perché Dio è amore: “Ma, si dirà, vedo la carità e, per quanto posso, fisso su di essa lo sguardo dello spirito e credo alla Scrittura che dice: Dio è carità, e chi dimora nella carità, dimora in Dio. Ma quando vedo la carità, non vedo in essa la Trinità”. Ebbene, sì, tu vedi la Trinità, se vedi la carità»[2].

La carità pastorale, come si può dedurre, è tale da far sì che i pa­stori riescano a vivere la verità del loro ministero: essere strumen­ti di Cristo Gesù e, come dicevo, non puramente e semplicemente nell’oggettività del sacramento che assicura, per intenderci, la realtà dei misteri che dispensano (1Cor 4,1), ma nella ricchezza della sua propria personalità. Li inserisce pienamente e coscientemente in quell’intenzionalità che muove il dinamismo della salvezza a partire dalla Trinità, appena evocata come sorgente dell’Amore. Chiamati così a fare l’esperienza mistica del proprio “servizio inutile” (Lc 17,10) nei confronti del Signore che si compiace di salvarli, strumenti ina­deguati, mentre lavorano alla salvezza di tutti, vivono la loro forma particolare di santità; capiamo, allora, più profondamente il motivo reale, mistico, della fecondità apostolica: «Ma la stessa santità dei pre­sbiteri, a sua volta, contribuisce non poco al compimento efficace del loro ministero: infatti, se è vero che la grazia di Dio può realizzare l’opera della salvezza anche attraverso ministri indegni, ciò nondi­meno Dio, ordinariamente, preferisce manifestare le sue grandezze attraverso coloro i quali, fattisi più docili agli impulsi e alla direzione dello Spirito Santo, possono dire con l’Apostolo, grazie alla propria intima unione con Cristo e santità di vita: «Ormai non sono più io che vivo, bensì è Cristo che vive in me» (Gal 2,20)[3].

Il pastore non si appartiene più, espropriato di se stesso dall’amo­re del suo Signore non ha più progetti propri da perseguire: la sua libertà è consegnata al suo Signore mediante la volontà del vescovo e quella dei “poveri”, quello che possiede obbedisce alla medesima legge e mediante il celibato «si dispone meglio a ricevere più am­piamente la paternità in Cristo»[4]. Non è più neppure tanto rilevante la sua perfezione umana, dal momento che la sua attività non è in proprio, bensì strumentale e si sa, in questo caso non è decisiva la qualità dello strumento, ma la sua docilità, la capacità di lasciarsi “adoperare” dal suo Signore.

 

  1. La paternità del pastore

Tutti gli uomini e le donne sono chiamati a diventare padri e ma­dri nello Spirito secondo il Magistero di Giovanni Paolo II che dice della donna – ma è ovviamente estendibile anche all’uomo –: «E se si tratta della maternità fisica, non deve forse anch’essa essere una maternità spirituale, per rispondere alla verità globale sull’uomo che è un’unità di corpo e di spirito? Esistono, quindi, molte ragioni per scorgere in queste due diverse vie – due diverse vocazioni di vita della donna – una profonda complementarietà e, addirittura, una profonda unione all’interno dell’essere della persona»[5]. Che senso avrebbero, infatti, una paternità e maternità puramente biologiche? In forza del battesimo e, per la maggior parte, del matrimonio, tutti i cristiani sono chiamati a vivere il mistero della maternità della Chiesa secondo la propria speciale vocazione e, da questo punto di vista, anche la paternità spirituale non può fare a meno di conno­tarsi della dimensione della maternità: «Proprio di fronte alle “gran­di opere di Dio” l’apostolo-uomo sente il bisogno di ricorrere a ciò che è per essenza femminile, al fine di esprimere la verità sul pro­prio servizio apostolico. Proprio così agisce Paolo di Tarso, quando si rivolge ai Galati con le parole: “Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore” (Gal 4,19)»[6].

È chiaro, allora, che è necessario risolvere più in alto – ed è il compito della teologia – l’aporia che sembra risultare sul tema della generazione della vita cristiana che, se per un verso sembra essere preclusa all’uomo e alla donna, come farebbe pensare l’espressione di Giovanni («Né da volere di carne né da volere di sangue» Gv 1,13) e, più esplicitamente, Gesù stesso in Mt 23,9, per un altro verso è rivendicata dall’apostolo Paolo, che almeno due volte si di­chiara in grado di generare, nel testo citato dal Papa e poi in 1Cor 4,15, dove audacemente contesta ai Corinzi, divisi per via di molte­plici leader: «Sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo»; e anche dall’apostolo Giovanni che, al primo versetto del secondo capitolo della prima delle sue Lettere, non esita a rivolgersi ai suoi discepoli col termine di “figlioli”. È proprio la categoria della strumentalità, ministero, che la risolve. L’uomo da solo non è capa­ce di generare, ma assunto da Dio, causa principale, allora diventa partecipe di quella Paternità (Ef 3,15) che è al di sopra di ogni nome e di quella maternità che rende feconda la Sponsa Verbi.

 

  1. Suscita le vocazioni…

La fecondità vocazionale, da quanto detto, appartiene al miste­ro della vita cristiana e perciò possiamo tranquillamente stabilire un’equazione: laddove è maggiore la santità, là, agli occhi di Dio e non a quelli degli uomini, ci sarà più fecondità; risplende questa ve­rità nella vicenda della patrona delle missioni che, per riuscire tale, ha desiderato fortissimamente la cosa più semplice ed in un certo senso più ovvia della vita cristiana in ogni stato: essere nel cuore della Chiesa, alla sorgente dell’Amore[7]. D’altra parte però non pos­siamo non fare nostro l’assillo di Gesù, che ogni uomo si compia come uomo e più che uomo: figlio di Dio, dal momento che il Pa­dre, nell’Unigenito, lo pensa tale dall’eternità. Perciò è chiaro che la Chiesa intera non potrà fare a meno di una pastorale vocazionale, cioè di una pastorale che faccia sua la sollecitudine del Pastore som­mo delle pecore: che tutti gli uomini abbiano la vita e «l’abbiano in sovrabbondanza» (Gv 10,10). Quindi ora appare ancora più chiaro che la dimensione vocazionale attraversa tutto l’agire pastorale del­la Chiesa: è il prolungamento di quella conoscenza mirabilmente divina del Pastore che dichiara di conoscere le sue pecore una per una, da chiamarle per nome (Gv 10,3), un dramma per i pastori di oggi condizionati purtroppo dalla pastorale dei grandi numeri!

Credo che il rapporto personale, il tu per tu, lo sguardo, la messa a fuoco dei volti, l’amicizia, oggi siano una sfida irrinunciabile per la pastorale vocazionale e non solo, nel nostro tempo, una sfida in cui è in gioco perfino la santità dei pastori nella forma concreta del­la carità! Pena la vanificazione di ogni sforzo. Ebbene, la carità che unisce il presbitero saldamente a Cristo nella fraternità presbiterale e lo sottomette al suo vescovo come ad un padre[8], anzi, come a co­lui che è l’immagine del Padre celeste[9], rende il sacerdote vera icona di Cristo: il suo non appartenersi, la sua passione per il Regno, la libertà dai luoghi comuni, la sua profondità generata dalla frequen­tazione dell’Altissimo, la gioiosità misteriosa delle cose semplici, la sua accessibilità nella verità… fanno di lui veramente una rinnovata presenza del Cristo; il suo passaggio tra la gente non resta inosser­vato, produce una scia di luce, lo stesso fascino che emetteva Gesù e che spingeva gli uomini alla sequela, come è narrato in Gv 1,32ss., dove l’apostolo ricorda ancora e con sintomatica precisione quei primordi indimenticabili. Seguirà spontaneamente la condivisione della vita e, nella condivisione, l’educazione alla fede come espe­rienza dialogica, fino alla direzione spirituale, cui tutti i sacerdoti sono chiamati, appunto come pastori, nella quale sarà loro dato, più che in altri ambiti, di sperimentare quella paternità che riempirà il loro cuore come mai avrebbero potuto immaginare[10].

Risplenderà non solo la bellezza della sua persona, più affasci­nante ancora perché priva di ogni risvolto di autoconsapevolezza, ma quella della sua vita che apparirà “realizzata”, come amano dire i giovani, nonostante l’assenza di quei “nutrimenti terrestri” che sembrerebbero così necessari alla felicità; invece, conformemente al Vangelo, apparirà dedicata al Regno di Dio e stracolma d’amore e nell’amore, corredata di quel sentimento così alieno ai nostri tempi che è appunto la gioia, la gioia di vivere ogni attimo, senza morirvi dentro. Chi non desidererebbe una vita così? Alcuni, la maggior parte, colpiti dalla bellezza della sua vita, potranno chiedersi, mossi dallo Spirito: a me cosa manca? E forse scopriranno l’amore puro, quella carità che è il cuore pulsante di ogni vocazione e di ogni stato, risalendo la quale si arriva a Dio che chiama, altri, nella bel­lezza della sua persona, non senza la mozione segreta dello Spirito potranno rispecchiarsi e dunque domandarsi: perché io non potrei essere come lui? E dunque aprirsi alla voce di Colui che mai smette di parlare nel profondo del cuore, per dare inizio così all’avventura più affascinante che si conosca, e non il viaggio interiore nel cuore dell’uomo, ma quello nelle profondità di Dio (1Cor 2,10).

La vita pastorale che organizzerà e anche le iniziative cosiddette vocazionali che metterà in essere, primo, non riusciranno avulse dalla trama relazionale che sarà stato capace di tessere, vera espres­sione della carità che genera comunione e condivisione, ma soprat­tutto avranno il sapore fragrante di questa esperienza, qualcosa di autentico, una vibrazione del cuore che nasce spontanea e si tra­smette come un cerchio d’onda, a partire da questo nucleo incande­scente: portatrici non di un’idea, ma della vita e la vita stessa di Dio!

 

 

Note

[1] H.U. Von Balthasar, Sponsa Verbi, Morcelliana, Brescia 1969, p. 11.

[2] La Trinità VIII, 12 1. Mi piace citare tutto il brano: «Nessuno dica: “non so che cosa amare”. Ami il fratello ed amerà l’amore stesso. Infatti conosce meglio l’amore con cui ama che il fra­tello che ama. Ed ecco che allora Dio gli sarà più noto che il fratello; molto meglio noto, perché più presente; più noto perché più interiore; più noto perché più certo. Abbraccia il Dio amore e abbraccia Dio con l’amore. È quello stesso amore che associa tutti gli Angeli buoni e tutti i servi di Dio con il vincolo della santità e che ci unisce scambievolmente insieme, essi e noi, unendoci a lui che è al di sopra di noi. Quanto più dunque siamo esenti dal gonfiore della superbia, tanto più siamo pieni d’amore. E di che cosa è pieno se non di Dio colui che è pieno d’amore?».

[3] Presbyterorum Ordinis, 12, in Enchiridion Vaticanum, 1, 1284.

[4] Presbyterorum Ordinis, 16, in Enchiridion Vaticanum, 1, 1297.

[5] Giovanni Paolo II, Mulieris Dignitatem, 21.

[6] Ibidem, 22.

[7] Santa Teresa Di Lisieux, Scritti autobiografici, 254 Post. Gen. Ed. Ocd, Roma 1995, p. 238.

[8] Lumen Gentium, 28, in Enchiridion Vaticanum, 355.

[9] Sant’ignazio Di Antiochia, Lettera ai cristiani di Tralle, 3, 1.

[10] Paolo VI, Sacerdotalis Coelibatus, 58-59.