N.02
Marzo/Aprile 2010

Narratori e testimoni di una “buona notizia”

«Andrea incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse:

“Abbiamo trovato il Messia”, e lo condusse da Gesù» (Gv 1,41-42)

 

Questo intervento rientra nell’area pedagogica, dopo la conferenza di stampo dottrinale-pastorale del cardinale presidente della CEI. Nostro compito, dunque, è semplicemente quello di cercare di indicare alcune linee operative per educare l’animatore vocazionale (AV) a compiere il suo ministero di testimone e narratore di una “buona notizia”.

È ormai un’attenzione abituale dei nostri convegni quella pedagogica, in linea col documento Nuove vocazioni per una nuova Europa, che dedica una sezione intera alla Pedagogia della vocazione e dell’animazione vocazionale (an voc).

Ciò che invece forse risulta in parte nuovo nel titolo della presente relazione (che riprende quello dell’intero Convegno) è quel modo di qualificare l’AV come narratore (e l’an voc come narratio).

Partiremo allora proprio da un tentativo di analisi di questo termine per giustificarne la pertinenza in una riflessione come la nostra.

 

  1. Narrare e narrarsi: qualche chiarimento preliminare

Vediamo solo di comprendere il senso di queste operazioni, spesso relegate in un ambito non così significativo della vita, e che invece occupano un posto rilevante in essa e interessano molte espressioni del nostro essere, anche a nostra insaputa. Io, in questo momento, ad esempio, mi sto narrando dinanzi a voi, e – ancor prima – il preparare questa relazione ha voluto dire per me raccontarmi a me stesso, con una storia che conoscevo solo in parte e che – ne sono certo – al termine di questa relazione mi apparirà ancor più nuova.

E non solo, ma sono anche sicuro che questa storia personale che vi racconto in qualche modo evocherà anche in ciascuno di voi un’altra storia, in parte nota, in parte nuova. Ma non anticipiamo quanto chiariremo più avanti.

Consideriamo ora alcuni significati o modi d’intendere della narrazione da alcune angolature, più precisamente da un punto di vista psicologico, poi pedagogico, quindi spirituale e poi vocazionale. Ovviamente ci muoviamo all’interno di una concezione antropologica di base cristiana.

 

1.1 Profilo psicologico

Nella psicologia la “narrazione” fa il suo ingresso in un contesto terapeutico, come catarsi della parola e attraverso la parola con cui il narrante racconta-di-sé, parola che sembrerebbe avere il potere di sbloccare ciò che s’era irrigidito attorno ad un nucleo mestico (memorizzato in un certo modo) più o meno traumatico ed eventualmente patogeno. Vanno proprio in tale direzione certe intuizioni della prima ora che sono tuttora a fondamento del metodo psicanalitico (dalle libere associazioni al racconto dei sogni, dal racconto anamnestico alla cosiddetta “regola d’oro” d’ogni psicoterapia – dire quel che viene in mente, senza censure e rispettando possibilmente anche l’ordine in cui le cose vengono in mente). In fondo, nella psicoterapia non si può certo cancellare il trauma che ha determinato la patologia, ma si mira esattamente a modificare il modo di raccontarlo (e di raccontarsi) da parte del paziente. C’è un racconto lamentoso e autocommiserativo, che non porta da nessuna parte, e c’è un raccontarsi realista e responsabile, che invece fa crescere. Tutt’altro discorso, come vedremo, è il presunto automatismo tra racconto e liberazione interiore (o guarigione).

 

1.2 Profilo pedagogico

La narrazione sembra possedere una notevole valenza pedagogica. Tutti ne abbiamo fatto esperienza, formati molto più dalle storie o dalle favole della buonanotte (“C’era una volta…”) che non dai precetti o dai rimproveri ricevuti. La narrazione è uno strumento pedagogico, di crescita, di veicolo particolarmente efficace e comprensibile di valori e ideali.

Per altro la cosa continua anche ora: gli attuali pedagogisti ci ripetono ormai da tempo come questa generazione, specie la nuova generazione, preferisca ascoltare “narratori” più che insegnanti[1], più storie che teorie, cantastorie che cantano dal vivo più che playback o pappagalli che le ripetono sempre eguali, esperienze esistenziali più che citazioni sapienti; e come essa stessa, questa generazione un po’ narcisista, preferisca raccontare più che ascoltare, raccontarsi più che conoscere ciò che altri hanno detto.

Al tempo stesso, specie nel campo dell’apprendimento, la pedagogia ci spiega che quanto è narrato ha una particolare presa nella psiche di chi ascolta e diventa anche più facilmente comprensibile, ma probabilmente consente anche al soggetto di proiettarsi in ciò che ascolta, di sentirsene compreso. Tanto più questo sembra vero e significativo in altri contesti, non direttamente collegati con l’apprendimento qua talis, come quello della conoscenza e della manifestazione di sé, persino della terapia vera e propria.

Se ciò è vero, è un grosso guaio che oggi siano finite le cosiddette “grandi narrazioni”, queste storie riguardanti la collettività in cui era narrato il senso della vita o attraverso cui si tramandavano certe risposte fondamentali ai quesiti essenziali dell’esistenza umana. Per Caffarra quella che lui chiama la “catastrofe educativa della famiglia” ha origine proprio dal fatto «che la narrazione della vita di generazione in generazione si è interrotta: padri-madri senza figli e figli senza padri-madri»[2].

 

1.3 Profilo spirituale

Rami Shapiro, autore d’una bellissima serie di racconti chassidici, racconta d’aver udito una volta da un singolare rabbino che la Torà «inizia con la parola bereshit: c’era una volta! La Torà è il libro dei racconti di Dio; Dio è un narratore… I racconti fanno rivivere le cose, non una volta e per sempre, ma tutte le volte che sono narrati. I racconti trascendono il tempo e lo spazio. I racconti rivelano le verità più profonde della vita, i dolori più grandi, le gioie più sublimi. E lo fanno non raccontandoti qualcosa, ma mostrandoti ogni cosa»[3].

D’altronde il Salvatore è presentato nel Vangelo come Logos (Gv1,1), Parola, ossia il mezzo con cui ogni persona umana si esprime normalmente; e Gesù è presentato come la comunicazione che Dio fa di se stesso. Da notare, inoltre, che per descrivere la modalità con cui Gesù ci rivela il Padre, l’Evangelista avrebbe potuto prendere in prestito dalla tradizione molti termini, come svelare, manifestare… Egli, invece, ha fatto ricorso al verbo raccontare (exegeomai), che il latino traduce lapidariamente: Ipse enarravit. E ce lo ha raccontato parlando del Padre anche attraverso espressioni e gesti d’uomo[4].

 

1.4 Profilo vocazionale

A partire da queste sottolineature possiamo forse definire in un certo modo l’evento della vocazione, che è il tema che ci interessa maggiormente, e magari capirlo anche meglio. Vocazione, infatti, è chiamata che viene dall’alto e si manifesta progressivamente nella vita ed è risposta che abbraccia tutta l’esistenza, in essa compiendosi. È dunque qualcosa che si salda immediatamente con la storia del soggetto, è la sua storia, sia per come l’ha scoperta che per come l’ha vissuta. È qualcosa che può essere raccontato, anzi, ne ha bisogno, perché solo così i singoli avvenimenti e fasi della vita assumono un senso unitario e convergente.

Ebbene, l’an voc è questo racconto, è narrare la propria storia in chiave vocazionale, facendo cioè risaltare in essa l’azione del Dio che chiama e dell’uomo che risponde; un raccontarla prima a sé (come un narrarsi) e poi all’altro, come proposta di lettura e interpretazione anche della sua vita. In tal senso ogni chiamato può e deve compiere tale operazione, benefica anzitutto per se stesso, poiché ogni chiamata è sempre una storia originale e irripetibile, inventata da Dio e anche portata avanti da lui, e che potrebbe funzionare da scintilla per “accendere” altre storie vocazionali. Ma perché sia possibile questa narrazione, in verità non così abituale e normale nel mondo dei chiamati, devono darsi alcune condizioni, dobbiamo comprendere le componenti di questa operazione, dalle quali potremo trarre alcune linee d’un possibile cammino di formazione alla narrazione.

 

  1. La narrazione in sé (e in prospettiva vocazionale)

Può essere utile accennare brevemente al senso della narrazione come genere letterario o come tipo di pensiero da essa espresso. In noi, infatti, nel nostro modo di pensare, esistono due tipi diversi di organizzazione del pensiero stesso: il pensiero logico e quello, appunto, narrativo.

 

2.1 Pensiero logico e pensiero narrativo

Vediamo in cosa sono differenti[5].

a- Pensiero logico

Il pensiero logico indica quel modo di ragionare che parte da una verità, da una serie di principi teorici, ne scruta sempre più la connessione reciproca, legge la realtà alla luce di questi principi e come conferma d’essi. Caratteristiche del pensiero logico sono queste:

– è un pensiero fondamentalmente analitico, in funzione della comprensione della realtà, della scoperta della verità, della riflessione pura;

– dal punto di vista formale, osserva un procedimento logico causale o un ordo mentis fondamentalmente deduttivo, che porta a interpretare la realtà secondo categorie generali, universalmente valide, a partire dal principio che lega la causa all’effetto;

– dal punto di vista del contenuto adotta lo stesso un metodo deduttivo, che consente di applicare verità oggettive a situazioni soggettive o di usare un metodo uguale per tutti.

 

Il pensiero logico ha pure degli aspetti problematici:

– rischia di perdere o sottovalutare il contatto con la realtà dei fatti, con la storia d’ogni giorno, con il contesto originale, con il dato imprevisto, con la soggettività inedita;

– afferma a priori la verità e l’unicità della verità, e questo lo può portare a non cogliere quella verità o quei frammenti e sfumature di verità che emergono dal vissuto o a non fare dialogare tra loro questi diversi (e convergenti) aspetti della verità;

– il metodo deduttivo rischia di ridursi ad un’operazione soprattutto mentale, come se bastasse spremere le conseguenze dalle premesse per capire la realtà della persona; e ancora, ad un’operazione statica, in buona sostanza, perché non sufficientemente provocata sempre dalla realtà, e poco personalizzata e vitale, perché la verità sarebbe già contenuta in quei principi generali.

 

Sul piano dell’an voc:

– molti animatori vocazionali adottano esclusivamente un pensiero logico per fare an voc; ovvero, portano avanti un lavoro essenziale di riflessione sul dato teo-logico della vocazione, o su quello psico-logico della disponibilità vocazionale del soggetto, con analisi o sul versante ecclesiale o su quello delle aspirazioni o tendenze del singolo, deducendo semplicemente da esse la presenza o meno della chiamata. Spesso un’an voc che s’ispira al pensiero logico parte da premesse veritative non scorrette, ma che potrebbero essere piuttosto schematiche e riduttive (sul piano vocazionale), in quanto partono da un dato oggettivo e sembrano lasciare poco spazio all’imprevedibile varietà delle vocazioni, alla singolare vocazione della persona in discernimento. In tal senso un pensiero logico usato in maniera esclusiva sembra meno adatto per fare an voc.

Altro elemento non positivo, sul piano vocazionale, è che un’an voc che adotta il pensiero logico diventa fatalmente meno appassionata e personalizzata anche e anzitutto sul versante dell’AV, il quale si coinvolgerà molto poco in questo tipo di an voc, non parlerà di sé e della sua esperienza personale, risultando dunque meno convincente.

 

b- Pensiero narrativo

Il pensiero narrativo è quello che parte dalla esperienza vissuta, semplicemente per raccontarla e, raccontandola, cogliervi il senso della vita o della propria vita per come in essa si manifesta. Caratteristiche del pensiero che narra sembrano dunque queste:

– tale pensiero mira a descrivere più che a dimostrare, a raccontare prim’ancora che a cogliere la verità della cosa, o cerca di giungere al dimostrare attraverso il descrivere, alla verità attraverso il racconto;

– è molto vicino alla vita reale, anzi, parte da lì, dal patire e dall’agire della vita di tutti e d’ognuno: adotta infatti un metodo induttivo per giungere alla verità;

– costruisce la storia personale d’un individuo attraverso la storia delle sue singole esperienze, scoperte, incontri, scontri, apprendimenti, magari anche delle convinzioni personali o della propria fede, dando a tutto ciò una colorazione inedita e mai banale e scontata;

– permette diverse tipologie contestuali narrative: descrizione, dialogo, poesia, diario, dramma e drammatizzazione, video, film, rappresentazione  teatrale…

 

Ma, ovviamente, anche il pensiero narrativo presenta dei rischi:

– il rischio di essere più in funzione dell’io e della sua centralità che della verità, quasi quest’ultima fosse un’espressione del suo narcisismo;

– l’assenza di criteri interpretativi oggettivi potrebbe causare una certa banalità e povertà interpretativa, quasi una sorta di analfabetismo (di lettura o di scrittura della propria vita);

– la radicalizzazione delle proprie posizioni potrebbe a sua volta ,essere all’origine di altri strani fenomeni, come l’incapacità di decentramento da sé, l’avvitamento in valutazioni egocentriche e una vana autocontemplazione…

 

Sul piano vocazionale:

– in prospettiva vocazionale il rischio del pensiero narrativo potrebbe condurre la persona ad ascoltare più il proprio io che non Dio, più la soggettività delle proprie simpatie e qualità naturali evidenti che non un progetto dell’io che sembrerebbe a prima vista smentire tutto ciò, ma che alla lunga potrebbe invece promuovere l’autentica verità dell’io stesso;

– altro pericolo in chiave vocazionale sarebbe quello di considerare chiuso il passato, o di ritenere che una certa storia trascorsa condizioni in modo definitivo vita e scelte del soggetto, senza alcuna possibilità d’integrazione del passato, di cura di esso (o accontentandosi di “accettarlo”).

Ovvio che i due tipi di pensiero possono tra loro integrarsi e collaborare insieme per giungere alla verità vocazionale della persona. Verità che ha un versante logico e uno pure narrativo.

 

2.2 Dal modello di pensiero al modello d’annuncio

Ma senz’altro il problema della scelta tra i due modelli di pensiero va al di là del discorso sull’an voc. Tali modelli di pensiero, infatti, diventano anche modelli di annuncio e di un annuncio che diventa ben diverso a partire proprio dal modello di pensiero che si adotta.

 

a- Prevalenza del pensiero logico nell’annuncio

Insomma, tanto per fare un esempio, è molto diverso che io dica, più o meno solenne e con tono più o meno didattico, che la fede è anche sopportazione del dubbio e cognitio vespertina, dunque conoscenza mai pienamente luminosa e immediata, con citazioni pure bibliche o di personaggi lontanissimi dalla gente che mi ascolta, o che dia voce, per parlare della fede, a Giustino Parisse, giornalista di Onna, che nel terremoto d’Abruzzo ha perso il padre e i due figli, che si chiamavano Domenico di 18 anni e Maria Paola di 16, e gli lasci dire che da quel giorno ha continuato «a chiedere a Dio perché. Perché mi sono stati strappati i miei figli, perché o Dio, padre mio? E mi sono sentito come un operaio che lavora in un’azienda per tanti anni, e poi all’improvviso viene lasciato a casa, e decide di protestare, di scioperare anche, non perché voglia male al suo datore di lavoro, ma per fargli capire quanto è importante per lui lavorare, quanto si sente trattato ingiustamente… Per questo non ho smesso di andare in chiesa, ogni domenica ci sono accanto a don Cesare e ai miei compaesani. Sto lì; non faccio nulla, non partecipo alle celebrazioni come gli altri parrocchiani. Ma devo starci – continua – perché so che arriverà una risposta, prima o poi, so che vedrò il segnale, e capirò»[6].

Volete mettere la differenza d’impatto tra la lezione cattedratica e teologicamente (o politicamente) corretta, tutta intrisa di pensiero logico, e la confessione di Giustino, con nomi, date, una memoria viva quanto sofferta, indicazioni che tutti gli ascoltatori sentono familiari, nomi noti, rimando a una storia drammatica, confessione sincera del proprio dolore, coraggio di dire la propria debolezza, uso di termini ben comprensibili da tutti, di simboli o immagini prese dalla vita di tutti i giorni (persino il termine “sciopero” diventa qui utile ed espressivo), originalità nell’indicare il proprio modo singolare di mettere insieme una fede che ancora c’è – eccome – e che si sente come sopraffatta dall’enormità dell’evento che s’è abbattuto su di essa…? Ma volete mettere la differenza tra la citazione dotta che non commuove nessuno e la confessione-testimonianza… in diretta, dal vivo, d’un credente che, distrutto dal dolore, parla di “sciopero” della fede e ha il coraggio di dire: «Sto lì, in chiesa… non partecipo come gli altri, ma devo starci, perché so che arriverà una risposta, prima o poi, so che vedrò il segnale, e capirò»? È proprio esagerato dire che Giustino qui è come Maria che conservava nel cuore il mistero che non capiva? O non c’è qui addirittura una catechesi spicciola e pur sempre misteriosa sulla fede e sulla preghiera?[7]

Purtroppo non è quello che avviene normalmente nella Chiesa, nella quale in genere oggi si adotta, e noi ancora adottiamo in larga misura, un pensiero logico, nella predicazione, nella catechesi, nella liturgia, nel dialogo col mondo e la cultura odierna, perdendo possibilità e potenzialità enormi di evangelizzazione… Vogliamo dire: quante persone, come il Giustino della storia prima narrata, potrebbero arricchirci nella nostra chiesa e nelle nostre chiese col racconto della loro fede!

Eppure si insiste con un modello di pensiero che è rivolto solo alla testa, alla parte razionale della persona e che ad un certo punto diventa fatalmente ripetitivo, sempre uguale e uguale per tutte le circostanze, qualcosa che galleggia aereo sulle teste degli ascoltatori senza provocare granché. E che non può certo risultare adatto per l’an voc, che suppone, per sua natura, qualcosa di vivo e vivace, di più aderente alla realtà e alla realtà della vita di chi ascolta.

Il genere narrativo non è probabilmente escluso, né pare non apprezzato; semplicemente sembra confinato-relegato a particolari momenti celebrativi, a circostanze speciali e straordinarie (per la giornata del seminario, o delle vocazioni, o per le Missioni, ecc.), o si fa solo all’interno di particolari gruppi e movimenti, oppure è legato ad un particolare tipo d’annuncio, quando appunto si fanno le testimonianze. Troppo poco, decisamente, anche perché raramente ciò che è straordinario o episodico ha l’autenticità delle cose abituali e familiari.

 

b- Testimonianza artificiale o (pre) confezionata

Ci riferiamo, per l’appunto, a quel certo modo di “fare (o dare) testimonianza” che nasconde una inautenticità di fondo, e che non è infrequente proprio nell’an voc, in occasione d’incontri spirituali, veglie di preghiera, ritiri vocazionali… Non vogliamo dire che la persona che si offre per questo tipo di operazioni sia volutamente insincera o narcisista in cerca di applausi, ma che si crea un certo contesto, semmai, che rischia di togliere sincerità e verità alla cosa.

Contesto che proprio per essere qualcosa di straordinario esige anche che tale sia anche la stessa testimonianza, per cui la persona che deve parlare di sé intuisce che deve dire qualcosa di eccezionale, che deve forzare i toni, che deve caricare le circostanze, magari senza dire vere e proprie falsità, ma semplicemente alterando le cose quel tanto che basta per attirare l’attenzione, per scuotere l’uditorio, per suscitare interesse, insomma per il buon esito della cosa. E allora si prepara meticolosamente, mette tutto per iscritto (sai che spontaneità!), prepara un testo controllato e corretto magari da altri, e in cui abbondano le frasi fatte, tutto è corredato da puntuali citazioni della Scrittura, e magari il giorno della testimonianza è tutto emozionato e diventa rosso come si stesse esibendo per ricevere un premio… Insomma, tutto un clima artefatto ed esagerato.

Il contrario di quello che dovrebbe essere una testimonianza basata sulla narratio vitae. Col risultato che chi ascolta si sente lontano mille miglia da chi ha parlato.

Ricordo un giovane che veniva spesso chiamato per dare testimonianza della sua vocazione proprio perché capace di captare l’attenzione dei giovani in ascolto raccontando la storia della sua vocazione in modo brillante e incisivo. Solo che ogni volta caricava questa storia di particolari inediti e sempre più “a colori”. Ma anche falsi, come si venne a scoprire qualche tempo dopo. Insomma, costui, per la nobil causa di ottenere un interesse vocazionale, “drogava” la sua storia, riteneva che la narrazione della sua vita non fosse abbastanza avvincente dal punto di vista vocazionale e così aveva provveduto e provvedeva continuamente ad aggiungervi qualcosa, qualcosa di forte e più o meno strabiliante, situazioni difficili dalle quali lui emergeva regolarmente come il piccolo grande eroe che supera tutti gli ostacoli. Una testimonianza un po’ artefatta e un po’ confezionata; una pia finzione.

A parte l’insincerità della cosa e della persona il problema è più generale e duplice: la prevalenza del modello logico, anzitutto, rende eccezionale in tutti i sensi quello narrativo, per cui uno non esita a cercare cose altrettanto eccezionali nel suo raccontarsi e, se non le trova, le inventa in qualche modo. L’insincerità è grave in questo caso non solo perché svela la falsità della persona, ma perché viene qui a mancare un elemento costitutivo della narrazione, e soprattutto della narrazione che diventa testimonianza, ovvero il coinvolgimento della persona in quel che dice, coinvolgimento che nasce dal fatto che ciò che racconta ha cambiato la sua vita. Per questo lo dice con passione.

Ma quale passione ci può essere in uno che si appropria di cose non sue e le presenta come esperienza personale ingannando gli altri? Inoltre, ecco un altro equivoco abbastanza grave: la disaffezione al modello narrativo rende la persona sempre meno capace di imparare a narrare la propria storia, ossia a cogliere al suo interno le cose strabilianti che Dio ha fatto, senza il bisogno di ricorrere ad aggiunte non vere, senza la necessità di alterare la realtà per risultare più interessanti. Questo è un fatto abbastanza grave, poiché indica un’incapacità teologica di leggere la presenza di Dio nella propria storia, così come essa è, nel suo svolgersi normale. Ma proprio questa è una condizione e componente fondamentale della narratio.

 

c- Narrazione banale e presuntuosa

C’è infine un altro equivoco nell’uso delle testimonianze, ma che in realtà è legato a quanto appena detto. È il caso di chi racconta e racconta e per il semplice fatto di raccontare pensa d’aver toccato il cuore, senza sottoporre il racconto a tutto quel lavoro di preparazione e rielaborazione dei dati, di riconciliazione col proprio vissuto, di ricerca di verità o di lettura d’essi alla luce d’un criterio veritativo, quel criterio veritativo che per il credente è costituito dalla fede, di ricerca ancora di quel certo modo di porgere la propria storia che possa renderla comprensibile e godibile, ma anche capace di provocare chi ascolta al punto di metterlo in crisi e spingerlo a cambiare qualcosa della sua vita, a fare una scelta. Il racconto è ben raccontato quando può funzionare addirittura da schermo in cui l’ascoltatore può proiettare e ritrovare se stesso.

Tutto questo non è automatico, ma la pretesa è frequente. In tal senso possiamo dire che vi sono anche molte testimonianze interpretate e proposte con questa banalità e presunzione, forse anche sul piano vocazionale. Con esiti pressoché nulli.

Insomma, il pensiero narrativo non può fare a meno di quello logico.

 

d- Evangelizzare con stile narrativo

In positivo, allora, cosa vuol dire evangelizzare con stile narrativo? Prendo alcune suggestioni sintetiche dall’interessante analisi di Mons. Semeraro, che ha fatto dell’argomento il punto centrale della sua Lettera Pastorale alla diocesi nell’anno 2009.

Narrativa è una evangelizzazione costruita sulla comunicazione dell’esperienza di colui che “narra” e di coloro ai quali egli si rivolge; dunque attenzione, è comunicazione esperienziale, ma non solo del vissuto di chi narra, ma anche tenendo conto di quello di chi ascolta.

Questa esperienza è in ogni caso e soprattutto una “buona notizia”, qualcosa di bello, in cui chi narra ha scoperto la propria verità, la propria salvezza e vocazione, qualcosa che non può tenere per sé.

Narrativa è dunque annuncio, evangelizzazione in cui l’evangelizzatore è in grado di mostrare in se stesso la novità che annuncia, per mirare però anzitutto non all’informazione, ma alla sequela. Ed è capace di fare questo perché è “attraente” non solo nel senso estetico del termine, ma in quello letterale del coinvolgimento per anticipazione: ciò che narra è già una prefigurazione, lascia intravedere qualcosa d’importante per il futuro di chi ascolta.

Narrativa è un’evangelizzazione che è così logica e coinvolgente al punto da trascinare con sé l’interlocutore dell’esperienza di fede narrata[8].

A ben vedere questo stile espositivo mette insieme pensiero logico e narrativo.

 

2.3 Pensiero logico-narrativo nell’animazione vocazionale

Facciamo una veloce applicazione concreta al contesto vocazionale, sul piano del metodo e del contenuto.

 

a- Sul piano del metodo

Adottare un pensiero logico-narrativo alla pastorale vocazionale significa passare sempre più alla testimonianza vocazionale o alla parola testimoniale. In teoria ciò può essere realizzato a questi progressivi livelli:

1) Il testimonial. Sarebbe una sorta di sponsor, che vuole convincere della bontà d’una cosa o d’una causa, d’una idea o d’un prodotto. Forse ha una certa convinzione teorica di quella bontà, ma non necessariamente la ama né vi si compromette personalmente (come invece fa l’autentico testimone). Sarebbe il punto zero. Con testimonial e sponsor non si fa alcuna an voc, che per altro non ne ha bisogno.

2) Colui che fa citazioni di autori più o meno autorevoli, magari della Bibbia, nella convinzione che la citazione del grande Autore sia convincente e concluda il discorso. Le citazioni, a loro volta, possono essere o alla base di un discorso e fondare una certa proposta (ed è quel che si dovrebbe fare con le citazioni prese dalle scritture sante), oppure essere usate a supporto di chi parla.

3) Colui che riporta esempi vocazionali di altre persone, storie edificanti, racconti virtuosi. E ottengono normalmente attenzione e mantengono alto il livello d’interesse. Il problema dell’esempio è che si tratta pur sempre di altre persone chiamate in causa e, normalmente, di cose passate. Inoltre, non sempre l’esempio stesso è appropriato e del tutto in tema e spesso non è elaborato, ma semplicemente raccontato.

4) Colui che racconta la propria storia passata. Qui c’è un cambio sostanziale, non si parla più di altri, ma di sé. Però la vicenda è già trascorsa e a volte sa di vecchio. E può anche dare la sensazione di qualcosa che s’è un po’ spento nel tempo, di non così vivo e vivace, né attuale e sempre nuovo.

5) Colui che racconta la propria storia passata e presente, e sarebbe la vera narratio vocationalis, poiché qui c’è una testimonianza in diretta, di qualcosa che continua ad apparire bello e vero al soggetto, qualcosa che può essere presentato seduta stante, come un’esperienza iniziata un giorno, ma che si rinnova ogni giorno sempre più fresca e bella.

 

b- Sul piano del contenuto

Propongo qui una semplice esemplificazione, una fra le tante possibili, di approccio vocazionale che fa riferimento al pensiero logico-narrativo e parte dal primo per procedere col secondo.

– Pensiero logico: la verità che sta alla base di ogni proposta vocazionale, anzi, addirittura di una teologia e psicologia della vocazione, è quella verità elementare in cui ritroviamo il senso universale della vita (e della morte) e che tante volte abbiamo ricordato nei nostri convegni vocazionali: la vita è un bene ricevuto che tende, per natura sua, a divenire bene donato. Tutto parte e deve partire da qui, perché è un messaggio che riguarda tutti e non esclude nessuno, e pone il giovane dinanzi ad una logica senza via d’uscita, stringente ,e inequivocabile. Lì dentro c’è la grammatica della vita, per tutti. Ogni scelta di vita deve obbedire a questa logica, altrimenti si sceglie il proprio male. Per cui un giovane è libero di scegliere quel che crede circa il proprio futuro, ma non è libero di uscire da questa logica.

– Pensiero narrativo: si tratterebbe di raccontare, da parte dell’animatore-testimone vocazionale, la verità soggettiva ed esistenziale di questa verità oggettiva, o diciamo che essa potrebbe e dovrebbe diventare, come diremo meglio poi, il suo senso centrale, e quel passaggio dal bene ricevuto al bene donato costituire la scelta che ha dato verità e felicità all’esistere. Fa vera e propria an voc o è credibile testimone vocazionale colui che riesce a mettere insieme questi due procedimenti logici, proponendo storie sempre originali e sempre vive. Naturalmente la storia vocazionale dovrebbe avere quelle cinque caratteristiche indicate nel punto d, quando abbiamo parlato dell’evangelizzare con stile narrativo.

 

  1. Narrazione vocazionale: elementi costitutivi

Vogliamo ora andare a vedere gli elementi costitutivi del racconto e del raccontare, da un punto di vista psicopedagogico, ma sempre in prospettiva vocazionale. Mi sembra di poter concentrare tali elementi nei seguenti punti.

 

3.1 Storia personale: il contenuto

Anzitutto c’è una serie di eventi, ovvero il vissuto, bello o brutto che sia, in ogni caso una storia, che dunque non va cancellata-ignorata-rimossa-aggiustata, ma rispettata nella sua identità e attualità, registrata con cura, riconosciuta come parte di sé. Poiché quella storia appartiene alla persona, è la sua storia. «Voi siete le vostre storie»[9], dice Taylor all’inizio del suo volume sulla narrazione e la sua valenza terapeutica. Il racconto potrà poi essere espressivo e dotato di efficacia comunicativa solo se la persona parla di sé e si coinvolge in quel che dice proprio per questo e ha speranza di toccare il cuore altrui proprio perché sta trasmettendo qualcosa di personale, che viene dal suo cuore.

La storia, infatti, dice sempre per natura sua qualcosa che appartiene al soggetto e dice di lui. Ancora Taylor: «Le storie uniscono il passato, il presente e il futuro in un modo che ci racconta dove eravamo (anche prima della nascita), dove siamo e dove stiamo andando. Le nostre storie insegnano che esiste un posto per noi, in cui ci inseriamo. Suggeriscono che la nostra esistenza può avere una trama. Le storie trasformano la mera cronologia, una pura successione di eventi, nell’azione accorta di un intreccio e pertanto in significato»[10]. Che, in ogni caso, suppone eventi concreti e storia che poi sarà da caricare di senso. Come vedremo.

Per questo ogni storia di ogni persona è degna d’esser raccontata, anzi, ogni storia vocazionale è degna di essere raccontata, sarebbe un peccato perderla; nessuno può pensare di non avere nulla da raccontare, o molto poco di sé che sia degno di essere narrato, né mettersi a tagliare ed eliminare segmenti interi del proprio vissuto. Ma attenzione, la storia non è solo quella passata, ma anche quella presente. Altrimenti facciamo solo patetiche rimembranze, inefficaci sul piano comunicativo

 

3.2 Memoria: il senso oggettivo

La funzione della memoria è quella di recuperare il vissuto, per impedire che la storia vada nel dimenticatoio o nell’inconscio, o perda quel senso che ha o nasconde in sé, o che attende di ricevere; è ciò che rende capaci, come diremo meglio poi, di “leggere e scrivere” e poi narrare, appunto, la propria vita. Ma attenzione, la memoria ha pure dei virus (ad es. la memoria ingrata, parziale, superficiale, idealizzante, lamentosa, offesa, ferita, depressa, insensata, arrabbiata…), e in ogni caso ha bisogno di formazione; si impara a ricordare. Il credente, in modo particolare, apprende progressivamente la memoria spirituale o pasquale, quella che potrebbe ricordare tutto (e non dimenticare nulla, idealmente), poiché può dare senso a tutto, un senso pasquale, che sgorga dalla croce (che è il massimo del non senso divenuto invece il massimo del senso, dell’amore, dell’amore che salva), “sanando” al tempo stesso le eventuali ferite emotive della memoria affettiva[11]. In effetti è più facile ricordare ciò che è sensato o logico, che non ciò che non ha alcun senso. Qui il senso scoperto è un senso oggettivo, ovviamente per il credente, quel senso che sgorga da quell’evento di salvezza universale che è la Pasqua dell’Agnello immolato.

La memoria, in ordine alla narrazione, può essere di due tipi: la memoria riproduttiva è quella che riproduce fatti, e li riproduce tali e quali, o che fissa nella mente volti e luoghi, ma senza alcuna nuova interpretazione; la memoria significativa è quella che scopre e dà significati nuovi a ciò che richiama al cuore e alla mente (lo vedremo meglio al punto 3.4 prendendo in esame anche il senso soggettivo).

Ricordare, allora, diventa già una prima elementare ed implicita forma di narrazione a se stessi.

 

3.3 Parole, gesti, simboli, immagini…: lo strumento espressivo

Ma ci vogliono anche delle parole con cui raccontare e delle parole che alla lunga consentano al ricordo di “fissarsi” nella memoria. Ciò che resta non detto, infatti, è meno ricordato e rischia la cancellazione, almeno dalla mente conscia. In ogni caso è già significativo e impegnativo scegliere delle parole incaricandole di raccontare la vita o di raccontarci esplicitamente a noi stessi. Le parole saranno sempre strumento parziale, che non riuscirà a dire tutto, ma in ogni caso lo sforzo di cercare e scegliere delle parole (tanto meglio se scritte) cui affidare il compito di raccontare il vissuto è sforzo salutare che normalmente aiuta il narratore medesimo a capire meglio il vissuto stesso personale. E quanto diciamo delle parole possiamo dirlo anche di gesti o simboli: chi, ad esempio, non ricorda la potenza del gesto di Giovanni Paolo II, che nell’anno del Giubileo chiese perdono dei peccati della Chiesa e dei credenti di fronte al mondo intero inginocchiandosi dinanzi al Crocifisso? Quel gesto ha detto e raccontato la storia della Chiesa più di mille trattati di storia della Chiesa stessa!

 

3.4 Progetto vocazionale: il senso soggettivo

Ma ciò che è importante e decisivo è la coerenza che ad un certo punto il narratore intravede nella propria storia e che gli fa pensare ad un progetto intelligente su di essa, a una storia che non è affidata al caso, ad un disegno lineare e pensato per la sua vita. È in fondo l’intuizione d’una chiamata dietro e dentro il mistero della vita che le dà ancor più senso (specie in certi segmenti negativi) e linearità coerente, come un filo rosso che connette ogni evento. Ma a questo punto è un senso soggettivo, sempre fondato su quello oggettivo (fondato sulla Pasqua del Figlio, come abbiamo visto prima), ma ora interpretato in maniera da dare alla propria vita una caratteristica inconfondibile, un modo d’essere, un ideale preciso, un ministero da compiere… tutto quel che noi intendiamo quando diciamo “vocazione”.

La vocazione è in fondo questo filo rosso o colorato del colore inconfondibile del soggetto che non solo tiene assieme tutto il proprio vissuto fino a quel punto, ma lo spiega pure.

Viene da Dio, ma è anche scelta libera e responsabile dell’individuo. In altre parole, in parte è la vita stessa a dettare questa evidenza, in parte è l’individuo che intuisce disegno e progetto.

È il momento nel quale il credente scorge il progetto di Dio farsi luce progressivamente nella sua personale storia, come un segnale all’inizio appena percettibile e poi sempre più chiaro e indicativo. È il momento nel quale il credente sceglie di seguire quel segnale e di spiegare tutta la propria storia alla luce di esso. Ad esempio, il senso oggettivo che nasce dalla fede mi consente di scoprire il significato redentivo della sofferenza legata a un evento del passato; il senso soggettivo mi fa decidere di riconoscere e assieme dare un significato vocazionale al fatto d’aver vissuto quella sofferenza, perché può essere stato momento di percezione d’un certo senso della vita, o perché può aver determinato un passaggio significativo nell’esistenza, o perché può aver offerto al soggetto la motivazione di una certa scelta di vita.

Raccontare diventa sempre più un dare senso, come operazione indispensabile poiché difficilmente possiamo cogliere il senso degli eventi non appena essi accadono; più uno racconta, più è provocato e sceglie di dare senso. E sempre più egli può raccontare la propria storia come un insieme coerente di fatti, episodi, persone, incontri, aspirazioni, attese, successi, insuccessi… La narrazione, in tal senso, è in fondo una lettura vocazionale della vita, come uno spiegare l’esistenza a partire dal progetto intelligente che Dio, volontà buona, ha su di essa. La vocazione, cioè, diventa come il nucleo significativo, ciò che dà verità e possibilità di connettere e interpretare il vissuto in tutti i suoi risvolti, offrendo assieme il quadro entro cui porre la propria storia, con ogni sua componente al posto giusto. Tale nucleo, o centro significativo, è ciò che consente non solo di ricordare, ma di integrare il vissuto, ovvero di dargli un senso logico e convincente, che può essere sentito anche da chi ascolta come convincente.

L’alternativa opposta, ovvero l’assenza di questo centro significativo, determinerebbe un processo di non integrazione, con serie conseguenze a livello psichico, perché ciò che non viene integrato normalmente non resta innocuo, ma diventa disintegrante. Un esempio potrebbe essere Santa Bakhita, che sceglie liberamente di ricordare-raccontare le terribili esperienze del suo rapimento e della sua prigionia come una benedizione. Giungendo a dire: «Se incontrassi quei negrieri che mi hanno rapita e quelli che mi hanno torturata, mi inginocchierei a baciare loro le mani, perché se non fosse accaduto ciò non sarei ora cristiana e religiosa, né avrei conosciuto Dio né mi sarei consacrata a lui». La vocazione diventa il suo modo di dare senso, oggettivo e soggettivo, al suo drammatico passato[12]. Solo a questo punto il racconto diventa testimonianza vocazionale.

 

3.5 Interlocutore: la dimensione relazionale e feconda

Il racconto nasce come attività soggettiva, ma è per sua natura evento essenzialmente relazionale. Chi (si) racconta, infatti, cerca orecchie che l’ascoltino, cerca un altro, un interlocutore cui raccontare, quasi affidandogliela, la propria storia, un tu che reagirà in un modo o in un altro, o solo riecheggiandola o contribuendo in qualche modo a dargli senso o lasciandosene contagiare. La relazione, diversamente detto, non è solo orecchie che ascoltano, ma grembo in cui nasce o è aiutato a nascere un certo senso. Sarebbe la dimensione generativa della narrazione.

Ma poi, in realtà, l’altro non entra in scena solo come interlocutore attuale, ma come quel “tu” (o “Tu”) che ha abitato in qualche modo la vita del narratore nel passato, o è stato parte di esso, di quel passato che ora è raccontato.

In definitiva, dunque, non solo il racconto è relazionale, ma anche il senso è relazionale.

 

  1. Narrazione-testimonianza e animazione vocazionale

Come si vede da quanto detto c’è un rapporto diretto tra narrazione e an voc, tra capacità-libertà di narrare, di narrarsi e provocare vocazionalmente l’altro. Ma il passaggio non è automatico, come abbiamo lasciato intendere: esso avviene quando la narrazione assume la natura e le caratteristiche della testimonianza. Ovvero quando passa attraverso le tre classiche fasi di conquista della verità, anzi della generazione in noi della verità che, a questo punto, diventa feconda anche negli altri. È questo, infatti, che significa, fare an voc: proporre la verità della propria esistenza – identificata nella scoperta della propria vocazione – perché attivi lo stesso processo generativo in chi ci ascolta.

Ecco le tre fasi: conoscenza – esperienza – sapienza.

 

4.1 Conoscenza (teo-logia)

Anzitutto colui che narra deve aver fatto quel percorso prima accennato, che parte dall’osservazione sempre più in profondità della sua vita, della comprensione – certo mai completa, sempre progressiva – del suo senso oggettivo e poi soggettivo, in una parola, del senso vocazionale della propria storia, della convinzione che lì, in quella chiamata, egli ritrova sempre più anche il proprio nome e il proprio io, la propria realizzazione e la propria positività, la propria verità e felicità, la propria libertà e responsabilità.

È la fase, questa, in cui c’è una certa prevalenza del pensiero logico, e teo-logico, soprattutto perché nella fase narrativo-espositiva è importante far vedere le connessioni logiche, il progetto che si fa sempre più chiaro, senza forzare i dati o abbellire inutilmente le cose, o ancora una volta lasciando intravedere situazioni miracolistiche, ma mostrando come sia la scelta vocazionale la chiave di lettura e assieme il denominatore comune, il punto di partenza e d’arrivo della propria vicenda esistenziale, e dunque Dio come regista nascosto della propria esistenza. Ma fermo restando che in definitiva è sempre il soggetto che sceglie liberamente di dare un senso alla propria storia, anche a ciò che parrebbe non aver senso o averne uno solo negativo (vedi Bakhita).

Per questo è importante che uno, in concreto, abbia fatto questo lavoro di integrazione della propria storia, o – in termini più biblico-spirituali – di ricapitolazione in Cristo di tutta la propria esistenza. La narrazione non è un fatto tecnico che qualsiasi persona o credente o bravo seminarista o discepolo può improvvisare, ma richiede una certa maturità spirituale, quella di chi ha imparato a raccogliere la propria storia attorno a un punto centrale, che è la croce di Gesù, che dà senso a tutto e che è anche punto di partenza e d’arrivo della sua stessa vocazione[13]. La capacità di narrazione è la conseguenza naturale di questo lavoro di integrazione che dovrebbe essere proposto in maniera sistematica nella prima formazione. Rigorosamente parlando uno può raccontare di sé solo ciò che ha integrato della propria storia e della propria persona. È un principio psicopedagogico estremamente importante.

 

4.2 Esperienza (teo-fania)

La narrazione diventa ancor più testimonianza quando accede al secondo livello, quello della esperienza, intesa come uscita del soggetto da sé (è il senso della particella “ex”) per entrare con tutto se stesso (con tutti i sensi) dentro una realtà altra, nuova o non abbastanza conosciuta, e vederla e udirla e toccarla dall’interno, non più semplicemente da fuori o per sentito dire, ma lasciando che tale realtà possa anche cambiare la propria vita o portare a nuove scelte. Nell’esperienza entra più decisamente in scena l’altro, ma al tempo stesso è quanto mai attivo l’io. Tanto più in ottica cristiana, ove, come ci ammonisce Von Balthasar, è Dio soprattutto che fa esperienza dell’uomo, non viceversa.

Sul piano spirituale è la fase corrispondente alla teo-fania. È l’esperienza vocazionale di Andrea, animatore vocazionale di suo fratello Pietro, quando – dopo l’esperienza della chiamata e della giornata passata con Gesù – si precipita dal fratello per dargli l’incredibile annuncio: «Abbiamo trovato il Messia» (Gv 1,41).

La singolarità dell’esperienza è data, anzitutto, dal fatto che si tratta d’un evento che prende tutta la persona e tutti i suoi sensi, non è più solo intellettuale, logica mentale, ma occhi che vedono, mani che toccano, orecchie che sentono, cuore che contempla… (cf 1Gv 1); e, proprio perché impatto pieno, determina una scelta, ed è la seconda caratteristica, o quanto meno comincia a cambiare qualcosa nella vita, porta ad alcune scelte. Infine – terza caratteristica dell’esperienza – è evento che non può restare nascosto ed essere considerato privato dalla persona, qualcosa di intimo e tutto suo. E proprio qui avviene la narrazione, come bisogno di condividere qualcosa di bello e grande (una “buona notizia”), ma anche con la consapevolezza che questo qualcosa di straordinario è atteso anche dall’altro.

Così come l’annuncio di Andrea a Pietro. È difficile per noi oggi capire il senso vero di questo annuncio. Per un ebreo dire a un altro queste parole equivaleva a dare una notizia sensazionale, lo scoop da tutti atteso, il desiderio e l’ansia che era nel cuore di ognuno, l’incredibile divenuto reale. Mentre oggi forse un po’ tutti, ma specie i nostri giovani, sembrano non attendere più nessuno, hanno, già tutto e troppo, bambini superviziati e obesi o “adultescenti” sazi e discretamente disperati. È difficile soprattutto avere oggi il coraggio di dire a uno di questi giovani dalle attese corte e dalle braghe basse: «Abbiamo trovato quel che il cuore umano attende, quel che aspetti anche tu, anche se non lo sai o lo neghi addirittura…». È difficile anche perché… non va di moda un parlare così positivo-assertivo, sa di predica ed è invadente, ti chiede di prendere posizione, non è mica un messaggino, potrebbe cambiarti la vita, è pericoloso e per niente politically correct

In realtà è tutto qui il cristianesimo: nel coraggio di dire che esiste la verità e la bellezza e… io l’ho incontrate, nel saper dire parole che traducono la realtà dell’incontro… È qui che nasce la comunità dei credenti, quando uno osa dire all’altro la propria fede: “Abbiamo trovato…”, ed è interessante che nel Vangelo un singolo, Andrea, parli al plurale, proprio perché si tratta di esperienza comunitaria; è qui che si può parlare finalmente di animazione vocazionale, quando la proposta nasce dall’esperienza, così bella da doverla condividere e proporre, così vera da perdere ogni paura e pudore nel dirla.

 

4.3 Sapienza (teo-patia)

Infine siamo alla terza fase, quella di cui si parla molto meno. Si parla sempre, anche nei nostri ambienti, della necessità di “fare esperienza”, di fare esperienza di Dio, in particolare, e molte volte i nostri giovani fanno esperienze, vanno ovunque, alla GMG, a fare il pellegrinaggio a Santiago di Compostela, a fare il volontariato al Cottolengo, persino a fare il deserto nel monastero di clausura…

Tante esperienze, tutte belle e ben riuscite, ma che spesso sono come parentesi che si aprono e si chiudono senza lasciare tracce nell’individuo. È il pericolo dell’esperienzialismo, come se l’esperienza fosse o divenisse una specie di oggetto di consumo che allarga la frammentazione interiore e non aiuta la fede né promuove la sequela.

Sapienza significa un’esperienza (e ancor prima una conoscenza) che ha convertito in modo definitivo la vita del soggetto, l’identità e la coscienza, il modo di giudicare ciò che è vero e buono e di gustare ciò che è bello e attraente, piacevole e desiderabile… Ne deriverà una nuova conoscenza e pure una nuova esperienza. In termini spirituali, una nuova teo-logia e una nuova teo-fania, ovvero una teo-patia, un modo più intenso di vivere la realtà di Dio nella propria vita, fino al punto di “soffrirlo” e pure di gustare le cose divine profondamente, di vibrare all’unisono con lui, di avere i suoi stessi sentimenti, di sceglierlo per sempre. Altra differenza con l’esperienza: se quest’ultima riguarda il passato, la sapienza è un fatto o un atteggiamento presente o che perdura nel tempo.

Tutto ciò avrà come conseguenza una capacità corrispondente di narrazione, in cui l’intensità della partecipazione soggettiva e del coinvolgimento emotivo avrà una particolarissima forza di convinzione e credibilità. Ma, più in particolare, succederà che il soggetto narrante, ogni qualvolta racconta la sua esperienza la rivive a tutti gli effetti, come se l’approfondisse nuovamente scrutandone aspetti inediti e lasciandosene di nuovo “toccare” in profondità.

L’esperienza o il fatto narrato in questi casi può riferirsi sia a storie personali, vissute in prima persona, sia a storie in cui il soggetto può ora riconoscersi (per raccontarsi). Questo tipo di racconto ha in qualche modo il potere o determina la conseguenza di riattualizzare non solo il fatto, ma pure le emozioni a esso legate e ora riedite, connesse alla memoria di qualcosa che è stato assolutamente decisivo e importante per la persona (poiché legato alla scoperta del senso della sua vita e alla decisione successiva vocazionale), e che ora è ricordato, di conseguenza, con memoria grata e commossa, con effetti “terapeutici” di crescita e maturazione anzitutto per la persona stessa narrante.

Per dare un’idea di questo livello di lettura, potremmo rifarci al famoso apologo di Buber:

«Mio nonno, narra un anonimo credente ebreo, era zoppo. Una volta gli chiesero di raccontare una storia del suo Maestro. Allora raccontò di come il Santo Baal-Schem fosse solito saltellare e danzare mentre pregava. Mio nonno allora istintivamente si alzò e raccontò, e il racconto lo prese e trasportò così tanto che a un certo punto lui, zoppo, senza rendersene conto si mise a saltellare e danzare per mostrare come faceva il Maestro. E in quel momento guarì!».

Cosa fa emergere questo modo di raccontare con il finale a sorpresa?

La grande efficacia del raccontare, quasi un’efficacia performativa, per cui si compie ciò che viene narrato, come se il raccontare un evento lo riattualizzasse a tutti gli effetti. Ciò è possibile quando la storia narrata è diventata storia del narratore, in cui egli ritrova la sua propria identità (vedi, in tal caso, l’identificazione proiettiva del personaggio della storia, il nonno, con il suo Maestro, tale perché gli ha trasmesso qualcosa di importante, la fede, la vocazione, potremmo anche dire). Il profondo coinvolgimento emotivo che ne deriva porta addirittura a identificarsi nel gesto fisico con lui, cioè alla guarigione, rivivendo in pieno quel rapporto. Ecco il vero senso della testimonianza, che rende così vivo il racconto o la persona ricordata o il fatto raccontato da farlo rivivere e renderlo vivo a chi ascolta. Allora e solo allora chi ascolta viene come inserito in quella storia, la sente come sua e non può non sentirsene inevitabilmente provocato. Un po’ come coloro che ascoltarono Pietro il giorno di Pentecoste, così catturati dalla passione della sua testimonianza del crocifisso-risorto da sentirsi “trafiggere il cuore” e chiedergli: «E noi cosa dobbiamo fare?» (At 2,37).

Così vanno raccontate le storie. O così andrebbero fatte le omelie o rese le testimonianze, particolarmente quelle vocazionali: parola testimoniale è parola estremamente impegnativa poiché indica un’esperienza personale – all’origine – e quella partecipazione intensa che rende in qualche modo contemporanei coloro che ascoltano all’evento narrato o commentato. Forse questo è anche il senso attualizzante di quell’oggi, proclamato da Gesù nella sinagoga (cf Lc 4,14-21). In effetti questo delizioso apologo chassidico ci fa intendere l’efficacia liberatoria o terapeutica del raccontare autentico, sapienziale, e come una storia andrebbe raccontata perché sia efficace per chi ascolta, sia sapienza per chi la riceve; e lo è solo quando è stata efficace (terapeutica) per chi la racconta, e proprio per questo l’annuncia, ne dà testimonianza.

 

  1. Il decalogo del… cantastorie vocazionale

Per riassumere e indicare l’essenziale in termini il più possibile sintetici e concreti potremmo dare queste indicazioni.

1) Prima di tutto se vuoi davvero narrare agli altri in modo vocazionalmente efficace devi raccontare e raccontarti a te stesso. C’è una lettura da fare anzitutto dentro di sé. L’efficacia della narrazione non è un fatto automatico, né per sé né per gli altri, ma parte da lontano, da come un fatto è diventato parte della propria identità e verità, del proprio progetto di vita, della propria spiritualità.

2) Narrare vuol dire costruire e proporre eventi logici e avvincenti, percorsi coerenti e lineari, che vanno a confluire in un disegno vocazionale. Dunque, se non hai un centro che ti consenta di raccogliere attorno a esso la tua vita e dare un senso a tutto di essa, un ideale di vita, non puoi raccontare, non hai nulla da raccontare.

3) Non accontentarti di leggere, ma impara a scrivere, altrimenti a lungo andare non saprai nemmeno più leggere. “Scrivere” nel senso di dare alla lettura della tua vita un assetto e un senso sempre più definitivi e compiuti, attraverso un lavoro serio e sistematico. Anzi, dubita di aver capito e integrato ciò che non sai tradurre in parole che tutti possano intendere. Il quartetto corretto e progressivo sarebbe: leggere-scrivere-narrare-testimoniare. O lo scrivere come mediazione ideale tra il leggere e quel narrare che poi diventa testimonianza. E non difenderti dicendo che tu non sei portato a scrivere; ti posso assicurare che nessuno è subito attratto da questo tipo di scrittura, di per sé faticoso e impegnativo, specie nelle prime fasi…

4) Un racconto o storia personale di per sé dovrebbe poter cambiare, nel senso che non è mai fatto una volta per tutte, né è mai completo, pur restando fermo lo schema fondamentale interpretativo (o l’aggancio alla fede come criterio ermeneutico). Più passa il tempo e la persona cresce e matura, più dovrebbe approfondire e sviluppare la propria capacità di lettura e la libertà di dare un senso nuovo al vissuto, sempre più creativo e coerente con il proprio nucleo veritativo o con la propria vocazione. Quell’approfondire il senso della chiamata originale è in realtà come una seconda chiamata, che radicalizza la prima.

5) Ogni tanto fai una revisione o scansione della tua memoria. Gli innumerevoli virus che la insidiano e cercano di penetrare nel suo sistema potrebbero infettare anche cuore e mente. E deformare la narrazione o renderla impossibile, mandando a vuoto ogni velleità di testimonianza. Di solito i virus vanno nel senso della forzatura o dell’abbellimento inutile (e illusorio) del proprio racconto, o – al contrario – dell’oscuramento o negazione addirittura del suo valore. Il migliore antivirus è l’apprendimento della capacità di lettura dal punto di vista di Dio della tua, per quanto piccola, storia, ovvero guardarla con gli occhi di Dio. Se sei ancora arrabbiato con la tua storia o con qualche persona d’essa, non puoi fare alcuna narratio vocationalis.

6) Cerca sempre un interlocutore: Dio, anzitutto, e un altro, se possibile, o altri, con cui condividere qualcosa di significativo. Da un lato non c’è narrazione se non davanti a un tu; dall’altro non c’è fraternità, né relazione, laddove non c’è narrazione e narrazione di qualcosa di centrale per entrambi. In ogni caso non stare a parlarti addosso. E allora ecco un bel metodo per imparare la narratio: la collatio, ovvero la lectio comunitaria, ove s’impara a narrarsi e ascoltarsi reciprocamente (ove l’ispirazione diventa co-spirazione).

7) E così pure sii disponibile all’ascolto quando un altro si racconta, sospendendo ogni giudizio, pregiudizio, valutazione morale o interpretazione psicologica; semplicemente impara ad ascoltare le narrazioni altrui. Anzi, lasciati “toccare” da esse; lascia che la strada dell’altro ora incroci la tua, o possa diventare la tua o che il Dio di tuo fratello ora interpelli te.

8) Pensiero narrativo e narrazione vera e propria possono essere valido strumento comunicativo, specie quando si tratta di veicolare verità difficilmente comunicabili col semplice pensiero logico, dalla catechesi all’omelia, nella comunicazione di massa e nel rapporto col singolo, o verità difficili da accettare, come l’appello vocazionale. Ma, in ogni caso, pensiero narrativo e pensiero logico possono e devono collaborare assieme.

9) La narrazione tipicamente cristiana nasce dalla preghiera e conduce alla preghiera; è fondamentalmente atto orante. Pregare, in fondo, è ascoltare il racconto che Dio mi fa di se stesso, e raccontarsi poi dinanzi a Dio (come l’emorroissa che gli raccontò tutta la verità di sé). Ma raccontarsi dinanzi a Dio significa in qualche modo ascoltare la narrazione che Dio fa di noi a noi stessi. Che bello! Qui nasce l’autentica accettazione di sé!

10) La narrazione non è fatta solo di parole, pur passando normalmente attraverso tale antico e umile utensile umano, ma anche di gesti e simboli, di arte e di poesia. Non occorre essere artisti per esprimersi anche a questi livelli; occorre e basta avere un significato forte da trasmettere, conosciuto e sperimentato nella propria storia, ponendo assieme gesto e parole.

 

Note

[1] Sembra l’eco delle parole ben note di Paolo VI (una delle citazioni maggiormente riportate):«L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri (…), o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (Evangelii Nuntiandi, 41).

[2] Cf C. Caffarra, Documento base per la scelta educativa nella chiesa di Bologna, 2008.

[3] R. Shapiro (a cura di), Un silenzio straordinario. Racconti chassidici, La Giuntina, Firenze 2005, p. 19.

[4] Cf M. Semeraro, Di generazione in generazione. Lettera pastorale alla chiesa di Albano sulla trasmissione della fede, Albano 2009, p. 66.

[5] Cf J. Mezirow, Apprendimento e trasformazione. Il significato dell’esperienza ed il valore della riflessione nell’apprendimento degli adulti, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003.

[6] V. Daloisio, Lo “sciopero” di Giustino in attesa di una Sua risposta, in «Avvenire», 24/XII/2009, p. 9.

[7] E forse potremmo citare qui anche l’episodio “narrato” da Bonhoeffer: «Una volta un maestro, un po’ maldestro in verità, chiese pubblicamente a un suo alunno: “È vero che tuo padre torna a casa ogni sera ubriaco?”. Era vero, in effetti, ma il bambino, già triste e mortificato per questo fatto, abbassando gli occhi per la vergogna rispose di no. Allora un compagno s’alzò e disse: “Signor maestro, lei ha ragione, è vero; io lo vedo spesso suo padre tornare a casa tutto ubriaco”. Ma intervenne ancora un altro compagno: “Signor maestro, io abito proprio accanto, e le assicuro che non è vero”». Un racconto come questo è più efficace di chissà quanti ragionamenti per far capire che il contrario della verità non è la menzogna, ma la verità senza amore, come nel caso di questo maestro e del suo alunno.

[8] Cf M. Semeraro, op. cit., pp. 49-50.

[9] D. Taylor, Le storie ci prendono per mano. L’arte della narrazione per curare la psiche, Frassinelli, Milano 1999, p. 1.

[10] Ibidem, pp. 1-2.

[11] Sui virus e la formazione della memoria cf A. Cencini, L’albero della vita. Verso un modello di formazione iniziale e permanente, San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, pp. 180-231. Cf anche, in prospettiva vocazionale, Idem, Il padre prodigo, Paoline, Milano 1999, pp. 17-22.

[12] In genere chi ha vissuto un’esperienza drammatica sente il bisogno di raccontare – vedi le storie scritte dai superstiti dei lager – come un’esigenza impellente che impone loro di scrivere perché altri sappiano, perché non si dimentichi, perché il sacrificio di tanti non vada perduto, e certamente anche come sfogo personale comunque necessario e solitamente efficace-terapeutico, ma l’effetto è molto diverso a seconda che chi racconta abbia trovato il modo d’integrare quanto successo, ossia di dargli un senso, o che abbia trovato un punto centrale attorno a cui raccogliere la propria storia, un nucleo veritativo che gli consenta il più possibile di dar senso al non senso o all’assurdo addirittura, come Bakhita, appunto (tristemente interessante, in tal senso, l’esito finale drammatico di Primo Levi, l’autore di Se questo è un uomo).

[13] Il processo di integrazione conduce a costruire e ricostruire, comporre e ricomporre la propria vita e il proprio io attorno a un centro vitale e significativo, fonte di luce e calore, nel quale ritrovare la propria identità e verità, e la possibilità di dare senso e compimento a ogni frammento della propria storia e della propria persona, al bene come al male, al passato e al presente, in un movimento costante centripeto di at-trazione progressiva. Tale centro, per il credente, è il mistero pasquale, la croce del Figlio che, elevato da terra, attira a sé tutte le cose (cf Gv 12,32) (cf A. Cencini, L’albero della vita, pp. 101-102).