N.02
Marzo/Aprile 2010

Talk dei testimoni: “A.A.A. testimone cercasi”

“Nella tenda della testimonianza” (è stato sia il titolo del nostro Convegno, sia il clima che lo ha caratterizzato), alcuni “narratori della vocazione”, nel pomeriggio di lunedì 4 gennaio, hanno animato il talk dei testimoni: “A.A.A. Testimone cercasi”, una tavola rotonda sul tema della testimonianza che ha coinvolto quattro persone con altrettante diverse esperienze di vita. Abbiamo chiesto di narrarci la loro storia vocazionale a suor Eugenia Bonetti, Missionaria della Consolata, impegnata nella pastorale di ambiente settore “tratta”; don Carlino Panzeri, Direttore dell’Ufficio Famiglia della Diocesi di Albano Laziale; padre Cesare Falletti, monaco cistercense, Priore del monastero di Pra’d Mill, a Bagnolo (Cuneo); don Armando Matteo, Assistente nazionale della FUCI.

I quattro testimoni insieme a Monica Mondo, moderatrice del talk e conduttrice televisiva di TV 2000, hanno dato vita ad un momento molto intenso e coinvolgente.

Riportiamo di seguito un breve profilo biografico, preparato dagli stessi ospiti del talk, che propone in sintesi quello che hanno raccontato in risposta alle domande poste con maestria dalla conduttrice.

 

 

Suor Eugenia Bonetti, USMI – Pastorale di ambiente settore “tratta”

L’incontro con una donna “prostituta”

 

È la sera del 2 novembre 1993, giorno dei defunti. Sto uscendo dal Centro di accoglienza per donne immigrate della Caritas di Torino, per recarmi a Messa nella vicina Parrocchia. Piove a dirotto. Sulla porta si presenta una donna di colore, non più tanto giovane; ha una lettera di un medico da consegnarmi.

La osservo e, dal suo abbigliamento, pettinatura e trucco, concludo semplicemente che debba trattarsi di una delle tante donne straniere che “lavoravano” sulle strade della periferia di Torino di giorno, ma soprattutto di notte, di cui non mi ero mai occupata.

Anch’io, come tante persone “per bene” la giudico per ciò che vedo esternamente e le metto un’etichetta… “prostituta”.

Mi fermo con lei in un angolo, ma ho fretta di andare a pregare. Le faccio alcune domande sul motivo della sua visita: mi parla della famiglia lontano, dei suoi tre bambini lasciati in Nigeria due anni or sono e mai più rivisti, e scoppia a piangere. Si asciuga le lacrime con il colletto del giubbotto di pelle e si nasconde il viso. Ammette di non aver nessun documento, è malata e ha bisogno di un intervento chirurgico. Singhiozzando chiede aiuto con un grido accorato e straziante: «Sister, please, help me, help me»

È molto imbarazzata, ma forse lo sono io più di lei perché non so che cosa fare e che cosa dire. Infatti dopo alcuni mesi di servizio al Centro Caritas di Torino, questo è il primo contatto con il “mondo della notte e della strada”. E pensare che ogni giorno al centro si presentano in media 150 donne immigrate provenienti dall’Africa, dall’America Latina e dai Paesi dell’Est. A noi si rivolgono per qualsiasi necessità: scuola d’italiano, ospitalità, ricerca lavoro, sistemazione per la casa, problemi di salute, maternità e sussistenza. Donne piene di problemi, ma capaci di superarli con serenità e coraggio. Maria però ha una storia diversa alle spalle.

Mi trovo confusa e le dico di ritornare il giorno dopo per un colloquio più approfondito: sono già in ritardo, devo andare in chiesa! Lei chiede di accompagnarmi. Camminiamo fianco a fianco sotto un unico ombrello: per la strada la gente mi guarda stupita nel vedere una Missionaria della Consolata camminare insieme ad una… “prostituta”.

In chiesa Maria si inginocchia nell’ultimo banco in un angolo: la sento singhiozzare. Io vado più avanti e non riesco a pregare. Qualche cosa mi tormenta dentro. Rifletto sui miei sentimenti di ribellione provati quando mi fu chiesto di lasciare il Kenya, dopo 24 anni di missione, per un nuovo servizio in Italia. Ero così felice ed integrata in quell’ambiente africano, coinvolta in attività socio-educative-pastorali, con donne e giovani! Le donne africane che ho conosciuto avevano un profondo senso di gioia, di celebrazione, di ospitalità, di solidarietà e condivisione; sapevano affrontare la vita con coraggio, resistenza e determinazione; erano orgogliose, nonostante vivessero ancora nell’indigenza e nella sottomissione culturale/patriarcale.

Condividere la lotta per migliorare le loro condizioni di vita, favorire l’istruzione, l’emancipazione e l’autocoscienza alla luce dell’annuncio di speranza e di liberazione portato da Cristo, erano gli ideali che mi avevano affascinata da giovane e guidata nel mio inserimento missionario in Africa. Ma ora tutti i miei progetti, le mie sicurezze, i sogni, la nostalgia di quello che avevo lasciato svanivano. Mi ritrovavo nel buio, come Paolo sulla via di Damasco: «Signore cosa vuoi che io faccia? Signore, dove vuoi condurmi?» (At 9,3-9).

Maria aveva messo fortemente in crisi le mie sicurezze, i miei desideri, i miei sogni e proprio in quel giorno dei morti anch’io avevo bisogno di morire ai miei progetti e al mio egoismo per scoprire il nuovo volto dei poveri e degli ultimi che ancora oggi attendono di essere accolti, amati, aiutati e consolati. Ci sono nuove sfide oggi per la missione e per i missionari ed io me ne stavo scordando. Quell’incontro mi fece vivere la realtà del mistero Pasquale di morte e risurrezione per una vita più vera, evangelica, autentica e missionaria.

Passo una notte insonne. Dentro mi risuonano alcune domande: Eugenia, dove è tua sorella? (Gn 4,9). Dove è Maria? Dove sono questa notte tutte le Marie della strada? Mentre la pioggia scende abbondantemente nella piccola cappella penso a Maria e a tutte le Marie che come lei sono state ingannate e portate in Italia per il commercio della mercificazione del loro giovane corpo: le nuove schiave del 2000. Donne del terzo mondo a servizio del benessere del nostro così detto “mondo civile”, ricco di beni materiali, ma assai carente di valori umani, culturali e cristiani. Rivedo e ripenso alle motivazioni della mia vocazione missionaria sbocciata nel 1953, quando, adolescente, lessi su «Crociata Missionaria» il racconto dell’uccisione da parte di un gruppo di guerriglieri Mau Mau, di Sr. Eugenia Cavallo, Missionaria della Consolata. La sua mano, che aveva sparso tanti gesti di amore e bontà per 32 anni ininterrotti di vita missionaria in Kenya, era stata recisa da un colpo di panga ed ella morì sulla porta di casa completamente dissanguata. Il suo posto era rimasto vacante ed io, nell’esuberanza dei miei 14 anni, decisi di offrirmi ad occuparlo. Cercai di mettermi in contatto con le Suore della Consolata di Torino, che non conoscevo, e feci la mia entrata nel 1959. Iniziai la formazione missionaria e presi il suo nome giacche, nel frattempo, era morta una seconda Sr. Eugenia all’età di 33 anni. Nel 1967 mi venne data la destinazione missionaria, partii per il Kenya dove vi rimasi per 24 anni.

Partii col desiderio di vivere la missione portando a tutti il messaggio di Cristo che è vita, gioia, liberazione, promozione e rispetto della dignità umana. Ora invece mi trovavo nella mia stessa patria a veder calpestata e sfruttata la dignità di tante donne e giovani che, per potersi riscattare dalla nuova schiavitù della prostituzione (subita e non voluta), dovevano pagare alle organizzazioni criminali un grosso debito che oggigiorno è di 70-80 mila Euro.

A poco a poco capii che la missione non era più geografia, ma è il luogo in cui i popoli si spostano in cerca di pace, sicurezza e benessere. Dovevo quindi fare qualche cosa per ridare a queste donne immigrate dai paesi di missione un volto, un nome, una dignità e un futuro. Non potevo più rimpiangere con tanta nostalgia la vita missionaria in Africa, dovevo bensì vivere la mia vocazione missionaria in questo nuovo contesto e nel mio stesso paese.

Il mio incontro con Maria mi aveva messa in crisi e dovevo arrendermi. Col tempo Maria si ristabilisce, non solo fisicamente, e inizia un cammino nuovo; aiuta altre donne ad uscire dalla schiavitù e dalla morte e diviene per me una guida discreta, perché mi aiuta a capire il “mondo della notte e della strada”. Da oltre 16 anni il mio servizio missionario si svolge su strade diverse che, ancora oggi, scendono da “Gerusalemme a Gerico” e mi chiede con forza di chinarmi con amore e compassione, come il buon Samaritano, su tante donne immigrate, ferite e derubate della loro dignità, per aiutarle a guarire e a ritrovare la speranza di una vita nuova.

Dopo la prima esperienza a Torino e una sosta a Londra per una riqualifica missionaria con una corso per post graduati su “Missione, Giustizia e Pace”, da gennaio del 2000, anno del grande Giubileo, ho iniziato un nuovo servizio a Roma, nella sede dell’USMI nazionale per coordinare il prezioso servizio di 250 religiose appartenenti a 70 congregazioni che operano in un centinaio di case famiglia per il recupero delle tante donne immigrate vittime di tratta di esseri umani.

Le mie giornate sono piene di incontri di persone con volti, nomi e storie diverse. Sono proprio loro che mi hanno evangelizzato e aiutato a capire meglio perché Gesù disse che le «prostitute ci precederanno nel regno dei cieli». Sono proprio i più poveri ed emarginati ad avere diritto di cittadinanza in paradiso. Cristo il giorno di Pasqua è apparso alla Maddalena, la peccatrice, forse una ex-prostituta, e le ha affidato il messaggio più sconvolgente della storia dell’umanità: “Cristo è risorto”

Quante Maddalene sono ancora oggi inchiodate alla croce del Venerdì Santo e attendono di spezzare le loro catene di morte per incontrare anche loro il Cristo Risorto! Hanno però bisogno del tuo, del mio e del nostro aiuto. Insieme potremo realizzare la vera comunione di una autentica Chiesa missionaria, aperta ed accogliente, riconciliata con tutti e premurosa verso tutti, specie con i più poveri, emarginati e sfruttati. Solo così potremo essere veri testimoni visibili e credibili, portatori di una buona novella, di un messaggio nuovo che è: “passione per Cristo e passione per l’umanità”.

 

 

Don Carlino Panzeri, direttore dell’Ufficio Famiglia della diocesi di Albano Laziale

Da 38 anni sacerdote della Chiesa di Bergamo. Insegnante-educatore nel Seminario di Bergamo nei primi 6 anni di sacerdozio e da 32 anni a servizio nella diocesi di Albano Laziale: per 4 anni come Rettore del Seminario e da 28 anni come Vicario episcopale per la Pastorale della Famiglia, consulente familiare e morale, direttore della Commissione Famiglia della Conferenza Episcopale Laziale e membro della Consulta Nazionale CEI per la Famiglia.

La sua vocazione nasce in famiglia, nei ritmi naturali del lavoro della terra, da cui apprende da subito non il prendere ma il ricevere, non il potere, ma il dono, e dalla fede semplice e concreta dei suoi genitori, dal loro “sacerdozio” incarnato in una quotidianità dove si respira la consapevolezza che non c’è da una parte il sudore del loro lavoro e dall’altra la Provvidenza, ma il comune sudore di Dio.

Il suo servizio in diocesi negli anni si è speso nella pratica quotidiana come consulente coniugale, familiare e morale, supportato dalla sua formazione, culminata con la tesi di dottorato presso la Pontificia Università Lateranense, Istituto Giovanni Paolo II, sulla “Identità dell’amore coniugale. Approccio antropologico e psicologico”. L’incontro con più di 800/900 coppie ogni anno che si orientano a una scelta di vita nel Matrimonio, le numerose proposte di crescita umana e spirituale relative alle varie fasi della vita familiare hanno così contraddistinto il suo ministero sacerdotale:

– annunciare, celebrare e servire il Vangelo del Matrimonio e della Famiglia;

– testimoniare che nella Chiesa e nella società gli sposi non sono un problema, ma “il grande mistero di Dio”, la rivelazione permanente in carne e ossa come Dio è Sposo, e che la vocazione originaria di ogni persona e di ogni comunità è alla “sponsalità”.

Su questa ottica sponsale dell’identità umana, imposta i percorsi di accompagnamento nei primi anni di nozze, la crescita come genitori ed educatori e il cammino personale e comunitario degli sposi che vivono in situazione di separazione, divorzio e nuova unione.

Ma è la sua modalità di porsi in empatia con quanti lo avvicinano che rende credibile il messaggio di un Dio Sposo che ama per primo. L’attenzione verso le persone, la cura dei particolari, porsi sempre in un atteggiamento di non giudizio, farsi prossimo nei momenti di dolore, ma anche di gioia, rendersi disponibile per chi ha bisogno, sono le caratteristiche del suo essere e del suo ministero che, dice spesso, ha imparato non in seminario, ma dalla vita in famiglia, dalle tante famiglie conosciute negli anni.

Non sono le vocazioni che mancano nella Chiesa, ma la coscienza che la chiamata originaria è alla sponsalità. È la sponsalità che rende padre, madre, vergine, sacerdote, ministro. La nuzialità è la categoria-paradigma di ogni vocazione, del volto e del futuro della Chiesa.

Nella Chiesa l’Ordine e il Matrimonio sono i due Sacramenti del servizio, sono ordinati alla salvezza altrui e hanno un’unica missione: costruire il Popolo di Dio. Verginità, Matrimonio, Sacerdozio ministeriale: un unico mistero nuziale.

Sacerdote è un testimone della nuzialità dell’uomo con Dio; gli sposi sono il segno-sacramento di questa nuzialità, incarnato quotidianamente per costruire la “e”, cioè la relazione, mistero e ricchezza racchiuso in ogni coppia.

Il sacerdote, con gli sposi, diventa amico della loro “e”, della loro relazione-sacramento, amico con loro dell’unico Sposo.

 

 

Cesare Falletti, monaco cistercense, Priore del monastero di Pra’d Mill (Piemonte)

Nato nel 1939. Giovinezza vissuta a Roma. Studi fino al 4° anno di giurisprudenza all’Università “La Sapienza” e in seguito filosofia e teologia alla Gregoriana.

Ordinato presbitero nel 1966.

Vice-rettore del nascente seminario per le vocazioni adulte a Torino. Entrato in monastero nel 1971.

Ci sono delle cose nella vita di un bimbo o di un adolescente che col “senno di poi” potrebbero dirsi orientatrici del futuro dell’uomo.

Sono certo che certi momenti di grande e intenso amore per il Signore, anche in età molto bassa, sono raccolti dal Signore stesso e resi con delle grazie “vocazionali” in età in cui si pensa a tutt’altro. Ne sono stato testimone durante tutta la mia vita, sia seguendo vocazioni religiose, cosa che ho fatto per gran parte della mia vita, sia semplicemente ascoltando “storie” sempre belle e sorprendenti delle tante persone che ascolto nel corso delle mie giornate.

La riscoperta del Signore non mi sembra essere in generale un cammino prevedibile o meccanico.

Posso chiedermi se è capitato così anche a me.

È certo che l’ambiente in cui sono cresciuto, nonostante l’agnosticismo di mio padre, è stato molto religioso. La famiglia di mia madre è stata prevalente, non avendo io conosciuto i nonni paterni e non avendo cugini da quella parte. L’origine piemontese ci dava quel sano anticlericalismo liberale conseguenza dell’Unità d’Italia e perfino nella famiglia romana di mio padre c’era un nonno incarcerato da Pio IX in Castel Sant’Angelo per essere partigiano dell’Unità.

Fra i miei cinque fratelli ero forse il più religioso, ma da noi la religiosità non si esprimeva, salvo andando a messa la domenica e recitando il rosario in famiglia la sera dei Santi. Mia madre ci faceva dire le preghiere prima di andare a letto finché siamo stati bambini, ma la sua era una fede così forte e discreta che si mescolava con l’aria che respiravamo.

Tutti e sei, fratelli e sorelle, siamo rimasti praticanti, alcuni anche ben impegnati e io monaco, mentre ho un fratello diventato sacerdote a 62 anni.

Pur essendo rimasto credente e praticante, non solo per forma, ma un po’ per sincero sentimento – fede? – e un po’ per dovere, passata l’infanzia l’idea di vocazione non si è radicata; qualche breve passaggio durante gli esercizi spirituali nel collegio che frequentavo (scuola cattolica).

Liceo e università con nessun impegno ecclesiale, ma senza perdere la devozione. Erano gli anni del boom, famiglia agiata, molto divertimento, poco studio. Quanto basta.

Non rientro certo nel tipo di bravo cattolico zelante, impegnato in parrocchia, iscritto all’Azione cattolica, ecc. Ero certo che fossero cose per altri ambienti, gente diversa, fatta in modo speciale.

L’anticlericalismo c’era anche in me. Quando si è trattato di rispondere alla vocazione ed entrare in seminario il sentimento era più di umiliazione che di gioia!

Ma quando la chiamata è venuta, e si è confermata dopo un tempo di lotta e riflessione (c’era anche una ragazza), non ho esitato: non c’era altro da fare che dire di sì; non l’ho detto a malincuore, ma quasi con un gusto dell’avventura che ha segnato tutto il mio cammino vocazionale. Se il Signore chiama, suggerisce o invita, è chiaro che lui ci aspetta lì ed è inutile cercarlo altrove.

Ora, non avevo dubbi che il “Buon Dio”, come si diceva allora, è ciò che passa davanti a tutto e lui sa quello che fa. L’unica idea che mi sosteneva era: tutto potrà andare male, ma nessuno mi impedirà di amarlo. E questa è stata sempre la forza del mio cammino.

Stranamente l’idea del monastero si è subito presentata; non ne conoscevo, non sapevo neanche bene cosa fosse e l’immagine romantica della trappa voluta nell’800 creava in me un senso di rifiuto. Ho trovato un Padre spirituale che ha preferito mandarmi al Collegio Capranica, dove ho ricevuto tantissimo e ho imparato che cos’è la Chiesa, non solo studiando Teologia, ma educato dai miei compagni e superiori.

Diventato prete ho però voluto lasciare Roma, per staccarmi dalla famiglia e sono andato a Torino, dove intanto avevo conosciuto vari amici; era un tempo di forte fermento ecclesiale. Il Concilio finiva e cominciava il ‘68. Tempo appassionante; ma da Torino ho cominciato a frequentare i monasteri francesi e ho scoperto un mondo che mi ha permesso di fare il passo, unendomi a una comunità nascente.

Però il Signore voleva altro e, anche se con fatica, 40 anni dopo riconosco che aveva ragione. Per cui sono passato in un monastero molto antico e piuttosto malandato.

È stato il “sì” più duro della ma vita, ma ha portato molto frutto. 23 anni difficili e belli, una scuola di vita molto forte, “tosta”. Qualcosa che volevo, ma non mi aspettavo. La bellezza della vita monastica è inspiegabile, come la sua ragione.

Dopo tutti questi anni posso dire che il Signore mi ha fatto la grazia di non lasciarmi mai voltare indietro, di non rimpiangere o pentirmi per i passi fatti, neanche quando era duro, apparentemente assurdo.

Intanto è successo “Pra‘d Mill”, la fondazione di un nuovo monastero in Italia: questa volta il mio “sì” è stato più facile! Ma non con meno rischio di fare un fiasco e rovinarmi la vita. La solita fiducia in Dio e accettazione a priori di “finire male”, ma senza abbandonare l’amore per il Signore e non essere abbandonato dal suo, che considero la grande grazia della mia vita e che non mi sono procurata né con ragionamenti né con atti di volontà, né con virtù speciali che non ho, mi ha fatto avanzare passo passo, a volte solo, a volte con dei fratelli, sperimentando anche con una certa lacerazione la tensione che ci può essere fra obbedienza, che è ciò che dà più fiducia, e intuizione.

Spesso questa tensione si risolve con un’attesa fiduciosa dei tempi del Signore che non sono i nostri e che, dopo averci sfidati nell’impazienza, quando scattano, non si può tergiversare.

La vocazione non è un momento della vita; è qualcosa che ho sempre dovuto riascoltare, ritrovando l’atto di fede, che è il dono che ho ricevuto senza mio merito e senza poter dire perché.

 

 

Don Armando Matteo, Assistente nazionale della FUCI

Sono nato a Catanzaro 39 anni fa.

Sono entrato in Seminario all’età di dieci anni e poi ne sono uscito a 15. C’era ancora la vecchia struttura fisica e “mentale” del vecchio Seminario Minore.

Dopo il Liceo ho studiato filosofia a Milano. Nel frattempo l’idea di diventare prete non era scomparsa del tutto. Durante l’esperienza universitaria ho incontrato un prete davvero in gamba di Padova e con lui ho iniziato un nuovo cammino di discernimento.

Finita l’Università, sono entrato in Seminario nella mia città natale.

Ordinato prete, ho lavorato in parrocchia per due anni. Poi due anni per studio a Roma per la licenza. Rientrato a Catanzaro, ho iniziato a insegnare Teologia e nello stesso tempo sono stato cappellano in una piccola parrocchia della città.

Dal gennaio 2005 vivo e lavoro a Roma come Assistente ecclesiastico nazionale della FUCI, Federazione universitaria cattolica italiana. Questo mi ha dato l’opportunità di riprendere sistematicamente gli studi e di lavorare a stretto contatto con i giovani universitari. Oggi insegno pure alla Pontificia Università Urbaniana.

I miei studi vertono principalmente su alcune domande: è possibile essere credenti senza smettere di essere uomini e donne di questo tempo? È possibile credere nel Dio di Gesù senza rinunciare a quella trama di relazioni umane, professionali, culturali, che dicono la nostra identità di cittadini occidentali di questo inizio millennio? Questo nostro tempo è solo una “maledizione” per la nostra fede oppure ha qualcosa da dire a noi credenti esattamente in merito a un più profondo accesso alla Parola di Gesù? Qual è la migliore strategia per un’azione evangelizzatrice all’altezza (e all’abissalità) della cultura contemporanea (il postmoderno)?

Ho coltivato queste domande, proprio mentre è cresciuto il contatto quotidiano con i giovani e per di più con i giovani cattolici. Da qui è nato un nuovo filone di ricerca, ovvero altre domande, che, intrecciandosi alle prime, ne sviluppano lati nascosti, aspetti inediti, parentele impensate. Ecco alcune delle domande che mi fanno compagnia da circa un paio d’anni: perché la Parola di Gesù non fa più breccia nel cuore dei giovani? Perché appena i ragazzi diventano giovani scompaiono dalle parrocchie e dagli oratori? Dove sono finiti i ragazzi e le ragazze delle GMG? E soprattutto: noi cosa stiamo facendo per tutti loro? Quale bella notizia abbiamo da dare?

Da qui sono nati articoli, incontri, discussioni, letture di diverso taglio e infine un mio volumetto che uscirà a fine gennaio da Rubettino Editore: La prima generazione incredula. Il difficile rapporto tra i giovani e la fede.

Come particolare apporto alla tavola rotonda, ritengo di poter affermare che la questione della vocazione non è solo una questione vocazionale. C’è di mezzo un problema relativo alla sequela sempre più difficile – cioè al non più scontato aver fede – che caratterizza l’appartenenza dei giovani all’universo ecclesiale. È un problema legato a uno scarso esercizio della libertà, il quale a sua volta è dovuto al fatto che gli adulti hanno creato una società che tanto ama la giovinezza quanto non si cura dei giovani, in particolare della loro necessaria relazione al futuro.

Più nello specifico non vi sono più in giro testimoni affidabili della vivibilità e dell’amabilità della vita. Per questo il futuro spaventa e blocca sul presente la vita dei giovani. Per questo il futuro ha un volto minaccioso e le nuove generazioni si abbarbicano sul presente. Tale circostanza compromette la possibilità di un vero compimento della libertà, della quale la fede è la massima destinazione. Compromette quindi la possibilità di aver fede e quindi la decisione di una scelta di consacrazione. Vi è pertanto un legame sotterraneo che vorrei portare alla luce: vocazione come espressione della fede, fede come declinazione massima della libertà, libertà come affidamento libero e coraggioso al futuro, futuro come dono degli adulti ai propri figli. Questo meccanismo oggi è gravemente compromesso.