N.03
Maggio/Giugno 2010

Vivere in uno spot: tra identità e ruolo

L’Anno Sacerdotale, che il Santo Padre Benedetto XVI ha inaugurato lo scorso 19 giugno, ha richiesto a tutta la Chiesa una prolungata e più matura riflessione sull’identità e sulla missione dei presbiteri nella Chiesa. Si è trattato di un compito non facile perché esistono diversi modelli di vita sacerdotale, così come sono plurime le aspettative che il popolo di Dio ha sui propri pastori.

Se è vero che dai preti di tutte le generazioni si è auspicato che fossero esperti in umanità (Paolo VI) e spiritualità, a quelli di oggi si chiede un requisito supplementare: una maggiore preparazione intellettuale. Essa è imprescindibile sia in vista del fine soprannaturale che la Chiesa, da sempre, si impegna a perseguire (la salvezza delle anime), sia a causa di una necessità più contingente qual è la complessità del mondo in cui viviamo.

La nostra società è definita, a ragione, della comunicazione. Non è allora fuori luogo interrogarsi su come i media e la pubblicità in particolare incidano non solo in ordine all’acquisto di questo o di quel bene, ma, soprattutto, in relazione alla percezione che abbiamo di noi stessi e ai rapporti che instauriamo con gli altri. Siamo sedotti dalla pubblicità, oppure pensiamo di esserne totalmente incolumi? E poi: quale visione della realtà ci prospetta? Attraverso questo contributo, tenterò di dare alcune piste di riflessione.

Il titolo è volutamente provocatorio, Vivere in uno spot: tra identità e ruolo. Perciò, dopo aver chiarito cosa significhi vivere in uno spot (1), in un secondo momento, spiegherò quale impatto può avere la pubblicità sulla formazione dell’identità delle persone e sul ruolo che queste sono destinate ad assumere nella società (2). Infine, proverò a suggerire come il presbitero (lui pure non estraneo a questi condizionamenti) sia tuttavia chiamato a proporre un modello alternativo, più evangelico, di presenza e di relazione in rapporto all’altro (3) inteso sia con la A maiuscola (Dio) che con la a minuscola, (l’uomo).

 

  1. Vivere in uno spot

Di fronte alla pubblicità, spesso siamo rapiti da un sentimento di stupore e di meraviglia. Siamo sorpresi nel vedere, ogni volta, come niente sia lasciato al caso. In poco più di trenta secondi di spot televisivo, in pochi centimetri di carta stampata o in un simpatico jingle, è concentrato un lavoro d’équipe straordinario, frutto di mesi di fatiche. Questo fa della pubblicità una realtà affascinante. Un sano atteggiamento realistico, tuttavia, ci esorta a non fermarci ad una semplice contemplazione estetica del messaggio, bensì ad indagare come esso condizioni di continuo le abitudini, i modi di pensare e di agire delle persone, molto di più di quanto queste possano ingenuamente credere. Un serio motivo di preoccupazione è costituito dall’“eccedenza di messaggi pubblicitari”.

Soffermiamoci, per un attimo, sulle prime parole del titolo di questo articolo: possiamo dire di vivere davvero in uno spot? Qualcuno potrebbe obiettare che questa espressione è un po’ troppo esagerata! In realtà, il valore di questa frase sembra andare ben oltre la semplice provocazione.

A conferma di quanto sostengo, riporto quanto scrisse la giornalista Maria Stella Conte in un suo articolo pubblicato dal quotidiano «La Repubblica» nel 2005: «Se un bambino guardasse per due ore al giorno Italia 1, nella fascia oraria compresa tra le 15 e le 18, durante la quale è trasmessa una programmazione specificamente destinata all’infanzia, quel bambino rischierebbe di vedere in un anno 31.500 spot pubblicitari»[1]. Questo per quanto riguarda la televisione, ma la pubblicità può essere veicolata mediante tanti altri mezzi di comunicazione: il cinema, la radio, la cartellonistica, la stampa, internet (solo per ricordare i media più comuni).

Chiunque commissioni una pubblicità è consapevole che dovrà pagare tantissimo denaro: la cifra dipenderà dal mezzo al quale si ricorrerà e all’estensione dell’uditorio al quale ci si vorrà rivolgere. Una cosa è fare una pubblicità su una televisione locale, altro è proporla su una rete nazionale, magari proprio in quella fascia oraria in cui tutti gli italiani sono incollati davanti al televisore.

Chi paga non vuole mai spendere a fondo perduto. Il suo messaggio deve raggiungere assolutamente il proprio scopo: far vendere! Per questo si affida ai pubblicitari, il cui compito è proprio quello di creare messaggi che arrivino diritti al proprio destinatario. Non è un’operazione facile; non è scontato che l’utente si ricordi e sia orientato proprio verso quel prodotto, tra i tantissimi che ogni giorno cadono sotto il suo sguardo. Per conquistare il potenziale consumatore non ci si può fermare ad una semplice descrizione dell’oggetto e delle sue caratteristiche merceologiche; è importante, ma non è sufficiente.

Quel bene deve essere evocativo di valori nei quali riconoscersi e ai quali fare affidamento. Questo compito è svolto dalla marca. Così, i prodotti diventano segno. Spostare l’accento dal prodotto alla marca è stata quindi una scelta davvero geniale. Prima di questa scoperta, gli unici criteri validi per l’acquisto erano il rapporto qualità/prezzo ed il valore d’uso del bene in questione: a parità di condizioni, se si vuole bere, una bottiglia d’acqua vale l’altra. Introducendo invece il concetto di marca, avviene un fatto davvero singolare: la marca, valore simbolico del prodotto, è ritenuta garanzia anche della qualità del prodotto; per cui, ritornando all’esempio di prima, se l’acqua è di marca (meglio se è famosa), è senz’altro più buona delle altre. Non solo: la (presunta) qualità superiore del prodotto giustifica eventualmente anche la spesa maggiore rispetto ad un’acqua altrettanto buona ma priva di brand. La situazione paradossale alla quale assistiamo è la seguente: più il consumatore è in grado di spendere, più privilegerà le caratteristiche immateriali della merce.

In quelle società che hanno da tempo superato la fase del soddisfacimento dei bisogni primari sono i significati intangibili dei beni a diventare progressivamente più importanti: si può persino affermare che «viviamo nella società meno materialistica che sia mai esistita»[2]. Anche il sociologo Giorgio Triani sembra concordare con questa posizione: «Il marchio è un segno intangibile, che non si tocca, ma che ha il potere di materializzare quella relazione emozionale con il cliente senza la quale un prodotto resta una cosa, un oggetto inerte e senza vita»[3]. Queste considerazioni sulla potenza del marchio ci introducono un po’ alla volta in quello che è il cuore di queste pagine.

Fino ad ora il mio intento è stato quello di presentare una panoramica – seppur generale e corredata da alcuni dati tecnici – sull’invadenza della pubblicità nelle nostre vite. Si tratta di un dato oggettivo, inoppugnabile. A volte è come un ospite sgradito che entra in casa nostra. Forse non ci piace, ma c’è. Occorre quindi coltivare un attento sguardo critico su questo fenomeno; diversamente, ciò ci porterebbe a subirne gli effetti senza nemmeno assumerne una piena consapevolezza. E questo non solo a danno di noi adulti. Coloro che subirebbero le conseguenze più devastanti sarebbero soprattutto i più giovani, verso i quali la sfida educativa e formativa deve essere perennemente raccolta e rilanciata dalla e nella Chiesa. Pertanto, dal paragrafo successivo proverò ad entrare in medias res, parlando dell’apporto della pubblicità alla formazione di un’identità e di un ruolo sociale.

 

  1. Tra identità e ruolo

È interessante notare un fatto davvero singolare: il marchio (il quale ha la pretesa di essere segno distintivo dell’acquirente d’élite rispetto alla massa che non se lo può permettere) si dimostra invece, paradossalmente, segno di una sempre più diffusa “standardizzazione dei costumi”: «Tutti erano consci che la democrazia… non voleva più significare uguale distribuzione di ricchezze, ma richiedeva una sana uniformità di pensiero, d’abbigliamento, di pittura, di moralità, di vocabolario»[4].

Alla base di queste strategie di marketing e di comunicazione soggiace un’antropologia chiaramente individualistica. Alla radice di tutto c’è il continuo (e continuamente sollecitato) bisogno del singolo di realizzare i propri desideri. Non sempre alla base di tali desideri esiste una vera necessità di soddisfarli. Anzi, l’abilità del bravo pubblicitario è proprio quella di creare un numero sempre maggiore di bisogni voluttuari e fittizi.

Di conseguenza, quel motorino, quella macchina, quel computer o quei viaggi, ai quali non avevo pensato fino ad ieri, diventano oggi fondamentali! Lo scopo è quello di affezionare il consumatore ad una marca per tutta la vita. Affinché questo progetto possa trovare compimento bisogna studiare come accompagnare l’utente, così come, nella vita di fede, i sacramenti accompagnano il cristiano lungo l’arco della sua esistenza. La fidelizzazione alla marca diventa in questo modo una sorta di cammino di iniziazione: non però alla fede, bensì al consumo! Al riguardo, credo che le prove più inoppugnabili siano quelle offerte da Susann Linn, una psicologa americana che ha preso a cuore i problemi dell’infanzia come oggetto di attenzione dei marketers. Ella sostiene: «Fino a pochi anni fa un bambino al di sotto dei sei anni difficilmente era preso di mira dai pubblicitari. Negli ultimi tempi invece, anche un bambino di due mesi può essere un potenziale consumatore. L’obiettivo dichiarato è facilmente intuibile; educare alla fedeltà ad una marca, sintetizzata in uno slogan, macabro ma efficace, cradle to grave cioè “dalla culla alla tomba”. Non è casuale che aziende come Ralph Lauren e Harley Davidson stiano puntando sui minori di tre anni producendo t-shirt e felpe minuscole recanti il loro logo: gli sforzi degli operatori di mercato per promuovere il riconoscimento di una marca hanno luogo prima ancora che un bambino sia in grado di parlare… Se il bambino che si rannicchia sotto le lenzuola di Sesame Street e che beve da una bottiglia di Bugs Bunny viene anche regolarmente posto di fronte alla televisione per guardare programmi con gli stessi personaggi che vede sul suo letto, sui suoi vestiti, sulla giostra della culla e sui suoi giocattoli, questa familiarità si tradurrà (forse prima ancora che il bambino avrà sviluppato completamente le sue capacità verbali) in manifestazioni di gioia ogni qual volta li ritroverà sulle scatole dei cereali al supermercato, e in pianti di delusione se i cereali non approderanno nel carrello della spesa»[5].

Affinché il cradle to grave si estenda su scala mondiale, i pubblicitari si rivolgono ai potenziali consumatori fin dalla più tenera età, facendo leva su un quid che li aiuterà senz’altro a conseguire meglio i loro fini: il “fattore capriccio”. Non tutti i genitori sanno dire no di fronte alle continue richieste dei figli. Questo fattore non si spegne in età adulta, quando capriccio significa togliersi alcuni sfizi non permessi a tutti. Questo spiega il successo di astute operazioni di marketing, «dalle più celate (lo stanziamento di un milione di dollari da parte della Coca-Cola in favore dell’Accademia americana di odontoiatria pediatrica) a quelle più manifeste (il campeggio estivo organizzato dalla Toys R Us nei suoi negozi)»[6]. Proprio i bambini – e qui veniamo alla seconda questione – sono le prede più facili e ambite della pubblicità. Di ciò non c’è da stupirsi, se si tiene conto della loro eccessiva esposizione ai media. La noncuranza di questo aspetto da parte degli adulti è sovente causa dell’insorgere di effetti devastanti sulle abitudini dei minori. La comunicazione del prodotto che la marca mette in atto realizza i suoi obiettivi facendo parlare la merce in questo modo[7]:

– Informare = Io esisto.

– Convincere = Io sono il migliore.

– Spingere all’acquisto = Io sono tuo.

– Trasmettere valore aggiunto = Tu con me sarai quello che vuoi essere.

– Motivare alla fedeltà = Io sarò il tuo unico, per sempre.

L’identità alla quale la pubblicità intende conformare parte sì dal soggetto, ma non per valorizzarne la singolarità, né per dirigerlo alla conoscenza, al dialogo e alla comunione con l’altro. La persona ritrova se stessa e acquista stima di sé nella misura in cui si identifica progressivamente con la merce e con i valori di cui si impegna ad essere garante e portavoce. Anche le relazioni umane diventano sempre più strumentali ed elettive, perché si instaurano a partire da una comune affiliazione ai medesimi beni o al medesimo prestigio. Quanto all’Altro con la A maiuscola (Dio), Egli non può che sfuggire a questa logica del do ut des o del facio ut facias. Ne consegue che l’adorazione che Gli sarebbe spettata di diritto, rischia seriamente di essere destinata a qualcosa (o qualcuno), l’idolo, appunto, che ha la pretesa di scalzarne il posto e la signoria.

 

  1. Un modello alternativo?

Da questa visione d’insieme emerge un quadro, almeno potenzialmente, preoccupante, perché la pubblicità è in grado di forgiare un’identità personale orientata al consumo e di modellare alcune relazioni interpersonali sulla base di (pseudo) valori veicolati dagli stessi spot. Così facendo, è capace di mostrare come fondamentale quanto invece sarebbe per sé accessorio, eterno ciò che è soggetto alle leggi del tempo e dell’usura.

Tuttavia, quando parliamo di pubblicità non dobbiamo considerarla soltanto per i suoi aspetti negativi. Esattamente come i media, anche la pubblicità non è intrinsecamente buona o cattiva: una sua valutazione morale dipenderà dalle finalità per le quali è creata e proposta sul mercato. Anche gli spot possono essere validissimi strumenti a servizio della persona umana e del bene comune. Ma questo è possibile soltanto se si ricolloca la persona umana al posto che le compete: al centro.

Per proporre un modello positivo di pubblicità, occorre ricominciare proprio dalla centralità della persona, i cui bisogni non sono soltanto e primariamente materiali. Per quel che ci riguarda più da vicino, come Pastorale vocazionale ci interessa mettere in risalto proprio quei punti sui quali la pubblicità tradizionale è carente: la socialità e la gratuità.

La socialità non è per gli uomini un dato accessorio o secondario: l’essere umano è per sua natura un essere sociale. Non può pensare alla propria esistenza senza gli altri né, a maggior ragione, senza l’Altro del quale reca impressa per sempre l’immagine. Non a caso Jacques Maritain, quando parla della persona, la definisce un tutto aperto. È un tutto perché è in se stessa completa, ma aperto perché non può conseguire la propria felicità se non nell’andare incontro all’altro, il quale ha in se stesso una dignità e un valore incommensurabili.

Pertanto, pur senza rinnegarlo, la pubblicità dovrebbe imparare ad andare oltre il dato puramente economico e soprattutto dovrebbe educare a rimuovere il principio dell’autoreferenzialità alla quale è educato il proprio destinatario. Lo slogan Tutto ruota intorno a te, ad esempio, è fallace e molto pericoloso.

L’apertura all’altro, poi, dovrebbe essere mossa non da calcolo opportunistico o da bieco interesse, bensì da un reale e maturo spirito di gratuità.

Vi possono essere situazioni di povertà e di indigenza nelle quali molte persone – persino popoli interi – possono venirsi a trovare. La pubblicità può svolgere allora una responsabilità sociale di primo piano: non solo informando chi ne è all’oscuro, ma anche – e in questo il suo aiuto può essere concretissimo – invitando i propri utenti a contribuire economicamente. È il caso del terribile maremoto (tristemente conosciuto come Tsunami) che il 26 dicembre 2004 ha letteralmente devastato intere regioni del Sud-Est asiatico, mete abituali di vacanze da parte di molti cittadini statunitensi ed europei, tra i quali anche molti nostri connazionali.

Numerose persone si sono offerte (anche attraverso un solo sms, al costo di un euro) di aiutare economicamente chi, da un giorno all’altro, si è trovato a non avere più nulla: né cibo, né casa, né affetti. Ebbene, proprio in seguito a questa sciagura di proporzioni inimmaginabili, ci si è interrogati su cosa avrebbe potuto fare la pubblicità, quando dimentica per un attimo il desiderio di vendere, per trasformarsi in una sorta di moderno Robin Hood, che regala ai poveri quanto è in grado di sottrarre ai ricchi. Le Ong hanno riconosciuto che la pubblicità può salvare vite umane; questa tesi è confermata dal sociologo Philippe Mesnard: «Le immagini parlano ad un’opinione pubblica pigra o incerta. Ma serve un’etica forte nell’uso di questi mezzi… Quando si ricorre ai pubblicitari, lo scopo è quello di raggiungere gli individui che non si sentono normalmente chiamati in causa. Perché, in realtà, è molto ampia la massa di persone disposte a donare senza saperlo»[8]. I valori della socialità e della gratuità possono inoltre essere riproposti attraverso due differenti modelli di pubblicità: quella sociale e, ciò che più ci interessa, le campagne di sensibilizzazione mirata, come le pubblicità che invitano a devolvere l’otto per mille dell’IRPEF alla Chiesa Cattolica. In questo caso concreto, la richiesta di denaro non contraddice le finalità che la Chiesa persegue.

Anzi, affinché questa possa svolgere al meglio la propria missione (che è soprannaturale) ha bisogno di mezzi idonei al conseguimento di tali scopi. Detenzione di beni e spirito di gratuità non sono due esigenze che si devono per forza contraddire, soprattutto se l’impiego di quegli stessi beni è subordinato al soddisfacimento delle necessità degli altri.

Oltre a quelli materiali (es. sfamare gli affamati, vestire gli ignudi), tra questi bisogni, rientrano a pieno titolo quelli spirituali. Senza denaro come si potrebbe, diversamente, provvedere al sostentamento dei propri pastori? O come si potrebbe riunire una comunità per la celebrazione dell’Eucaristia, se quell’unica chiesa del paese è fatiscente? Oppure ancora: come assicurare l’esercizio della carità ai poveri, mediante l’erezione e la gestione di strutture idonee, se mancano i mezzi per poterli porre in essere?

Da un punto di vista della rivelazione, la comunicazione (compresa, ovviamente, anche quella della pubblicità) non è fine a se stessa, ma è “in vista della comunione”. Per comprendere meglio questo passaggio non si può non guardare a Cristo come al “grande comunicatore”[9]; la sua esistenza umano-divina, contrassegnata dalla più grande vicinanza di Dio agli uomini che nessuna fede avrebbe mai potuto pensare, ci mostra come l’evento comunicativo per eccellenza sia quello della rivelazione del Figlio di Dio. Egli, che è Amore, non si è limitato a dire qualcosa di sé (comunicazione puramente a livello conoscitivo), né si è limitato a compiere alcuni gesti d’amore, ma è l’Amore stesso (Cristo) che si è fatto dono in nostro favore.

Ecco allora che la comunicazione, per essere realmente piena, non può limitarsi ad una prospettiva superficiale di relazione intesa come “vivere con”, ma deve fare esperienza di exitus, di uscita da sé. Occorre, in breve, che la comunicazione sia in vista di un dono, di una pro-esistenza, modellata su quella del Figlio. Affinché socialità e gratuità possano diventare tratti costitutivi della persona e della sua identità, è necessario educare ad un forte senso di corresponsabilità, esigenza profondamente umana, autenticamente ecclesiale.

Il fondamento ultimo di questo atteggiamento è la solidarietà di Cristo in croce con gli uomini e le donne di ogni tempo. La ricerca della comunione e della corresponsabilità possono aiutare la pubblicità a superare situazioni di conflittualità che essa stessa può aver generato. In effetti, la proliferazione dei mezzi di comunicazione e la loro accresciuta potenzialità sono in grado di poter far accedere alla conoscenza della verità e del bene dell’uomo.

Non poche volte, invece, il loro utilizzo si rivela irresponsabile, generando divisioni e ostilità anziché comunione e pace. Quando fortunatamente ciò non accade, la relazione tra Dio e gli uomini assume visibilità nella “comunicazione che si fa comunità”, attraverso la creazione di una società solidale e fraterna. Per il battezzato il vertice e, al tempo stesso, il punto di partenza di questa comunicazione che si fa comunione, non può che essere il sacramento dell’Eucaristia, fons et culmen del suo vissuto di fede. Il primato da riconoscere, insieme all’Eucaristia, alla comunità e alla dignità personale di ogni singolo battezzato, dovrebbe aiutare a ripensare attentamente al “valore ambivalente del ruolo nella società”, sia essa civile o ecclesiale.

Da un lato, infatti, non si può prescindere dal ruolo, perché questo offre alle persone una collocazione e una missione ben precise nella società, a servizio del prossimo. Dall’altro lato, però, il valore della persona e della sua dignità è permanente e trascende il ruolo stesso che può invece essere modificato, ridimensionato o addirittura sostituito con un altro. E quando una persona (a causa, per esempio, di una grave malattia) non ha più un ruolo (es. parroco o catechista), cessa forse di essere figlia di Dio? Deve essere esclusa dalla comunità e dalle sue attenzioni? Certamente no!

Per creare un modello che difenda e promuova la persona umana, bisogna pensare ad una pubblicità che eviti di far coincidere l’identità con il ruolo. Ovviamente, quanto detto vale anche per il prete e per l’immagine che di lui si vuole far conoscere.

 

Note

[1] M.S. Conte, Bambini e televisione, 30mila spot all’anno, in «La Repubblica», 29/4/2005.

[2] A. Testa, La pubblicità, Il Mulino, Bologna 2003, p. 43.

[3] G. Triani, Sedotti e comprati. La pubblicità nella società della comunicazione, Eléuthera, Milano 2002, p. 68.

[4] G.L. Falabrino, Pubblicità serva padrona, Il sole 24 Ore, Milano 1999, p. 3.

[5] S. Linn, Il Marketing all’assalto dell’infanzia. Come media, pubblicità e consumi stanno trasformando per sempre il mondo dei bambini, Orme, Milano 2004, pp. 77-80.

[6] Ivi, p. 31.

[7 ]D. Pitteri (ed), Fabbriche del desiderio. Manuale delle tecniche e delle suggestioni della pubblicità, Luca Sassella Editore, Roma 2000, p. 139.

[8] D. Zappalà, Ong, anche la pubblicità può salvare vite umane, intervista a Philippe Mesnard, in «Avvenire», 8/1/2005, p. 25.

[9] Cf Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, Etica nelle comunicazioni sociali, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 4 giugno 2000, n. 33.