N.04
Luglio/Agosto 2010

Direzione spirituale e sacramento della riconciliazione

«Non sapendo cosa fare, decise di mettersi nelle mani del confessore» (a. 36)

 

 

 

 

  1. Nel contesto della spiritualità ignaziana

1.1 Direzione spirituale e riconciliazione nell’itinerario di Ignazio

1.1.1 «Dio lo trattava come un maestro di scuola tratta un bambino» (A. 27)[1]: il cammino di Ignazio, solo e a piedi

Ignazio è giustamente considerato un maestro nell’arte di guidare le persone nelle vie dello Spirito e quindi può sorprendere che, nel suo itinerario spirituale, abbia camminato prevalentemente da solo. Solo e a piedi è il titolo di una bella biografia del Santo scritta da Ignacio Tellechea[2]. O meglio, solo e direttamente con Dio che, fin dalla conversione, «lo trattava come un maestro di scuola tratta un bambino: gli insegnava» (A. 27). In effetti, non interviene nessuna mediazione umana né nel cambio di orientamento di vita, che poco a poco avviene durante la convalescenza a Loyola (A. 1-8), né nella decisione successiva di intraprendere come penitente un pellegrinaggio verso Gerusalemme (A. 9); e anche la composizione del libretto degli Esercizi Spirituali, che pure prevedono nel loro svolgersi il ruolo di due attori umani – chi li dà e chi li riceve –, è frutto di un lavoro di discernimento che Ignazio compie senza alcun confronto: «Egli mi disse che gli Esercizi non li aveva fatti tutti in una volta, ma osservava alcune cose nella sua anima e, trovandole utili, gli sembrava che potessero servire anche ad altri e perciò le metteva per iscritto» (A. 99), annota il p. Da Camara, il padre scelto da Ignazio per raccogliere il suo racconto autobiografico.

Ciò poteva dipendere da vari fattori: in parte le circostanze, per cui Ignazio non incontrò attorno a sé persone spirituali con le quali aprirsi (A. 27.37); in parte il suo timore di cercare altrove quell’affetto e quella speranza che egli voleva riporre in Dio solo (A. 35); in parte l’originalità di un percorso che fin dai primi passi sfuggiva a schemi e riferimenti consueti (A. 12).

 

1.1.2 «Non sapendo cosa fare, decise di mettersi nelle mani del confessore» (A. 36): il ruolo dei confessori nella vocazione di Ignazio

Con tutto questo Ignazio ha però sempre voluto che il suo cammino, benché “solo e a piedi”, si svolgesse comunque all’interno dei confini della Chiesa e per tale motivo vediamo che in diversi momenti cruciali egli si appella alla figura di un confessore. Ricordiamo soprattutto la confessione generale a Montserrat, che rappresenta un po’ il sigillo sacramentale a tutto il precedente processo di conversione (A. 17); poi, disceso a Manresa, si rivolge ad un confessore per superare una tremenda crisi di scrupoli e ritrovare un maggiore equilibrio nella pratica delle penitenze (A. 27). Quindi a Barcellona gli impongono di prendere delle provviste per imbarcarlo sulla nave verso l’Italia; a lui pare che così verrebbe meno alla fiducia nella Provvidenza e allora «non sapendo che cosa fare, decise di mettersi nelle mani del confessore» (A. 36). Lo stesso farà molti anni dopo di fronte ad una decisione molto più seria: accettare o meno l’elezione da parte dei compagni a primo Generale del nuovo ordine religioso.

È interessante che in tutti questi casi, tranne forse il primo della confessione a Montserrat di tutta la vita precedente, il confessore in fondo è considerato da Ignazio prevalentemente in quanto rappresentante legittimo della Chiesa, a cui chiedere di costituire un’istanza esteriore di oggettività piuttosto che un aiuto per il discernimento dei movimenti del cuore. In tal senso, esemplare è l’episodio dell’incontro con il Provinciale dei Francescani a Gerusalemme, analogo, anche se l’interlocutore di Ignazio è il Provinciale e non un confessore. Finché questi vuole convincerlo a tornare in Europa solo sulla base di ragioni di opportunità, Ignazio resta irremovibile; ma quando passa a parlare in nome dell’autorità ricevuta dalla Chiesa, allora immediatamente Ignazio conclude che «non era volontà di Dio che restasse a Gerusalemme» (A. 47.50).

 

1.1.3 «Aiutare le anime» (A. 44): la nascita dell’ideale apostolico

Sulla base di questi elementi, può apparire singolare che, poco a poco, Ignazio venga condotto da Dio a maturare proprio una vocazione ed un ministero che nel suo cammino spirituale nella Chiesa mai aveva incontrato e sperimentato su di sé: a partire dalle illuminazioni sperimentate a Manresa (A. 27-30), quasi inconsapevolmente il penitente si trasforma in apostolo e all’arrivo a Gerusalemme gli è ormai chiara la centralità del fine di aiutare le anime, benché ancora lo tenga segreto e non lo comunichi neppure al confessore (A. 47). Perché? Nel suo ampio commento all’Autobiografia, p.Maurizio Costa ipotizza che probabilmente si tratta di una misura precauzionale[3]: Ignazio è cioè ben consapevole di non avere studiato teologia, di non essere un uomo di Chiesa, ma un semplice laico senza preparazione e prevede che quel suo modo originale di aiutare personalmente le anime a disporsi all’incontro con la grazia di Dio susciterà sospetti nell’autorità ecclesiastica. Cosa che effettivamente accade al ritorno in Spagna: al padre domenicano di Salamanca che lo interroga, Ignazio risponde che non predica né insegna, solo «parliamo (da Barcellona si è già costituito un primo gruppo di compagni) in modo familiare con qualcuno di cose di Dio, per esempio dopo mangiato, con alcune persone che ci invitano» (A. 65). Dunque Ignazio non confessa, non essendo tra l’altro ancora sacerdote: si potrebbe dire che qui distingue con chiarezza ed esercita un ministero non sacramentale, ma spirituale, di accompagnamento e discernimento, in maniera da «aiutare e disporre le anime a conseguire il loro ultimo fine dalla mano di Dio nostro Creatore e nostro Signore» (così più tardi le Costituzioni definiranno la ragion d’essere della Compagnia di Gesù: Cost. 156).

 

1.2 Direzione spirituale e riconciliazione nell’itinerario dell’esercitante

1.2.1 Colui che dà gli Esercizi e il sacramento della riconciliazione

Il modo in cui Ignazio aiuta le anime progressivamente si struttura e prende forma nel libretto degli Esercizi Spirituali: sempre basandoci sull’Autobiografia, scopriamo che nel periodo di Salamanca, nel 1527, esso è gia praticamente composto, almeno nelle parti principali e nel senso dell’insieme (A. 67). Gli Esercizi Spirituali riflettono le caratteristiche tipiche dell’ideale apostolico di Ignazio: non sono una predica o una catechesi, e neppure un corso di teologia o di Sacra Scrittura, avvengono piuttosto come un colloquio tra due persone, colui che li dà e colui che li riceve. È significativa questa definizione: Ignazio mai parla di direttore spirituale (l’unico vero direttore spirituale è lo Spirito Santo, mentre la guida si pone a fianco e accompagna l’esercitante), né tanto meno di confessore (gli Esercizi possono essere dati da persone che non siano sacerdoti, e così sempre di più accade ai giorni nostri). In un passaggio iniziale del libretto è anzi suggerita una esplicita separazione tra colui che dà gli Esercizi e il ministro del sacramento della riconciliazione: «Giova molto che chi propone gli esercizi, senza voler indagare sui pensieri personali e sui peccati dell’esercitante, sia informato con precisione delle varie agitazioni e dei pensieri che i diversi spiriti suscitano in lui. In questo modo, secondo il suo maggiore o minore profitto, è in grado di proporgli alcuni degli esercizi spirituali che sono opportuni e adatti alle necessità della sua anima variamente agitata» (E.S. 17). A prima vista il discorso risulta un po’ confuso: colui che dà gli Esercizi deve o non deve essere informato sui pensieri di colui che li fa? La contraddizione si risolve se accostiamo un altro paragrafo: «Presuppongo che esistono in me tre tipi di pensieri, cioè uno mio proprio, che deriva unicamente dalla mia libertà e dalla mia volontà, e gli altri due che provengono dall’esterno, uno dallo spirito buono e l’altro dallo spirito cattivo» (E.S. 32). Dunque – come poi ai nostri giorni la psicoanalisi confermerà – esistono in noi vari tipi e livelli di pensiero: il confessore si occupa di quelli che provengono «unicamente dalla mia libertà e volontà» (E.S. 32), ossia di quei pensieri che esprimono la dimensione etica della persona e pertanto possono essere letti nell’ottica del peccato. Invece colui che dà gli Esercizi viene messo al corrente dei «vari pensieri e agitazioni che i diversi spiriti suscitano» (E.S. 17), i quali sono in qualche modo esterni alla libertà del soggetto. L’attenzione è rivolta al piano soggettivo più che a quello oggettivo, al processo spirituale più che al discorso morale, al discernimento personale più che ai contenuti che ne derivano.

 

1.2.2 Il sacramento della riconciliazione nel processo degli Esercizi

Se gli Esercizi Spirituali prevedono la separazione tra colui che li dà (e li accompagna) e il confessore, comunque non escludono la possibilità e, anzi, l’utilità di vivere ad un certo punto il sacramento della riconciliazione. Qual è questo punto? Molto dipende dalle agitazioni dei diversi spiriti, perché – nota Ignazio – «alcuni sono più lenti nel trovare quello che cercano» (E.S. 4); tuttavia normalmente la celebrazione sacramentale avverrà verso la conclusione della cosiddetta prima settimana (E.S. 44). È noto che gli Esercizi completi si articolano in quattro settimane, che sono tappe spirituali più che cronologiche: la prima di esse consiste nella via o vita purificativa (E.S. 10; qua è riproposta in parte la distinzione classica delle tre vie della vita spirituale) e sfocia in una specie di rinnovamento della grazia battesimale.

Capiamo allora perché comprende pure il sacramento della riconciliazione: l’esercitante viene condotto prima a confrontarsi con la storia di peccato dalla quale è preceduto e nella quale è inserito (E.S. 45-53), quindi ripercorre la propria personale partecipazione a  questa storia, dai primi momenti della coscienza al presente (E.S. 55- 61). La confessione generale diventa allora il segno sacramentale che sancisce l’ingresso in una nuova vita: da un lato, esprime il riconoscimento di una salvezza ricevuta gratuitamente; dall’altro, sul versante della soggettività, significa la guarigione della memoria dalla tendenza all’autogiustificazione e l’apertura dello spazio di una vera libertà.

Si tratta in fondo di un’esperienza analoga a quella vissuta da Ignazio a Montserrat (A. 17-18): dopo la conversione e la convalescenza a Loyola, sul punto di iniziare il pellegrinaggio in povertà verso Gerusalemme, Ignazio vive nel santuario di Montserrat una confessione generale di tre giorni, lì lascia la spada e i vestiti da cavaliere per diventare “soldato di Cristo” (A. 21). In questo episodio, e parallelamente al termine della prima settimana del Mese di Esercizi, il sacramento della riconciliazione si situa come una sorta di spartiacque, tra un passato da cui ci si sente liberati ed un futuro nuovo nel quale cercare dove il Signore ci chiama a condividere la sua missione.

È interessante notare che, nella prosecuzione degli Esercizi, la confessione non verrà più nominata; essa viene solo  raccomandata – insistendo sulla frequenza, in accordo con i tradizionali consigli della Chiesa – a chi, per motivi diversi, non continua oltre con le settimane successive. In tal caso, la confessione rappresenta allora uno strumento efficace per mantenere nelle vicende della vita quotidiana il frutto della prima settimana (E.S. 18).

  

  1. Una chiave di lettura: la vigilanza

Ricapitolando quanto abbiamo detto finora della vita di Ignazio e dello svolgimento degli Esercizi Spirituali, possiamo affermare che nella spiritualità ignaziana il sacramento della riconciliazione non costituisce né l’inizio né il compimento del cammino della vita spirituale, almeno per coloro che non si accontentano di «soddisfare la propria anima fino ad un certo grado» (E.S. 18) e invece «desiderano progredire al massimo possibile» (E.S. 20). Collocato nel passaggio tra la prima e le successive settimane del Mese, il sacramento trova senso ed efficacia in un contesto più ampio, che ci sembra possa essere definito adeguatamente dal termine “vigilanza”. Nei Vangeli il Signore ci chiama con insistenza a vigilare e nelle sue parole cogliamo due sfumature principali che corrispondono bene alle coordinate della spiritualità ignaziana e che adesso passiamo a sviluppare.

 

2.1 «Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione» (Mt 26,41)

La prima coordinata è bene espressa dall’invito rivolto agli apostoli nell’orto degli ulivi. Occorre vigilare, per non cadere in tentazione.

Seguendo lo stesso schema del primo capitolo, vediamo come questa esigenza trova spazio, prima nella vita di Ignazio, poi nel processo degli Esercizi Spirituali.

 

2.1.1 Nella vita di Ignazio: «Da quando aveva cominciato a servire Dio… mai aveva acconsentito a peccato mortale» (A. 99)

Nel racconto dell’Autobiografia, quando ormai ha terminato di ripercorrere le vicende della propria vita, Ignazio fa alcune dichiarazioni conclusive, quasi in forma di testamento, in un clima particolarmente raccolto e solenne. E la prima cosa che dice può sorprenderci: «Da quando aveva cominciato a servire Dio… mai aveva acconsentito a peccato mortale» (A. 99). Ci saremmo attesi altri argomenti e raccomandazioni di vita spirituale: perché per lui è invece così importante parlare di peccato e fa qui tale sottolineatura? Perché il peccato per Ignazio non è solo una questione di trasgressione di una legge o di salvezza individuale; come rileva San Paolo (Rm 8,19-21), il peccato tiene schiava la creazione (e, all’interno di essa, la nostra vita) e dunque, se viene eliminato, la creazione stessa riprende vita.

Potremmo dire che la lotta al peccato, e di conseguenza l’attenzione ad ogni costo per non cadere in tentazione, in Ignazio non è una preoccupazione morale, bensì un’opera quasi ecologica: dovunque si trovi, con qualunque mezzo, egli si impegna senza risparmio in questo compito essenziale di ripulitura e liberazione della creazione.

Gli esempi sono innumerevoli. Alcuni li troviamo nell’Autobiografia (cf A. 38.43.88-89). Da Generale della Compagnia poi fondò a Roma la casa di Santa Marta, per aiutare le prostitute che volevano cambiare vita. Un aneddoto narra che a un tale che un giorno gli pose l’obiezione: «Perché lavorate tanto con questa gente? Sono incallite nel vizio, vi ricadranno, non ne vale la pena», rispose: «Se posso fare in modo che solo per una notte una di loro non pecchi, tutto quello che sto facendo è proporzionato!».

Dunque Ignazio ne ha inventate di tutti i colori per combattere il peccato, sia nella sua dimensione sociale e strutturale, sia soprattutto nel luogo dove nasce, cioè la coscienza di ciascuno. E ovviamente il sacramento della riconciliazione rientra tra gli strumenti importanti che adopera.

 

2.1.2 Negli Esercizi Spirituali: la pratica degli esami di coscienza (E.S. 24-43)

L’invito a “vegliare per non cadere in tentazione”, che è così centrale nella vita di Ignazio dopo la conversione, attraversa – come possiamo immaginare – l’intero percorso degli Esercizi Spirituali.

A partire praticamente dall’inizio, ossia dalla serie dei cosiddetti esami che, assieme al brano del Principio e Fondamento (E.S. 23), Ignazio premette all’ingresso vero e proprio nella prima settimana del Mese (E.S. 24-44). Si tratta di paragrafi molto interessanti, che hanno una portata pratica che va al di là dello spazio particolare del ritiro, e quindi su di essi ci soffermiamo, tralasciando tanti altri passaggi degli Esercizi che potrebbero ulteriormente illuminare il nostro tema (per es. le note sugli scrupoli: E.S. 345-351. È veramente sorprendente che Ignazio, pur avendo personalmente attraversato una crisi di scrupoli che lo condusse sull’orlo del suicidio, ritenga che in una certa misura essi possano risultare utili nel cammino spirituale, se servono a rendere la coscienza più sensibile ad ogni parvenza di peccato).

Scorrendo i titoli, distinguiamo quattro testi successivi, tra loro collegati: l’esame particolare e quotidiano (E.S. 24-31), l’esame generale di coscienza (E.S. 32-42), il modo di fare l’esame generale (E.S. 43), la confessione generale e comunione (E.S. 44). Se il Principio e Fondamento presenta una specie di assioma, ossia una considerazione che ha un carattere assoluto e universale, gli esami invece portano uno sguardo retrospettivo nella storia e dunque scendono nel concreto verificando la conformità o meno al Principio e Fondamento stesso.

«Primo tempo. Al mattino, appena alzati, si deve fare il proposito di evitare con impegno quel peccato particolare o quel difetto da cui ci si vuole correggere ed emendare» (E.S. 24): il Principio e Fondamento si rivolge all’intelligenza, mentre l’esame particolare alla volontà, intesa come manifestazione cosciente del desiderio, impegnandola su un punto preciso e determinato.

«Secondo tempo. Dopo il pranzo si chiede a Dio nostro Signore quello che si vuole, cioè la grazia di ricordare quante volte si è caduti in quel peccato particolare o in quel difetto, e la grazia di emendarsene per l’avvenire. (…).

Terzo tempo. Dopo la cena si fa il secondo esame allo stesso modo, di ora in ora, a partire dal primo esame fino a questo secondo» (E.S. 25-26): la domanda della grazia trasforma l’eventuale volontarismo in volontà di ricevere, poi viene sollecitata la memoria. In effetti, ogni peccato comporta una perdita di memoria e allora la grazia fondamentale da chiedere è quella di ricordare. In primo luogo, l’esame particolare ha come fine di ristabilire l’obbiettività delle cose, senza preoccuparsi di sentire contrizione e pentimento. La semplice domanda “quante volte?” obbliga ad uscire dall’indeterminatezza. L’esame verte sempre su aspetti particolari ed esteriori – sul comportamento e non sugli stati d’animo – e sia la suddivisione del tempo che il prendere nota danno visibilità e concretezza: piuttosto che rimanere nell’impressione, venata da sensi di colpa, di aver speso oggi troppo denaro, faccio alla sera i conti!

Nel libretto segue una lista di note complementari o addizioni, cioè consigli pratici che presuppongono che già si abbia iniziato ad esercitarsi e si “aggiungono” per correggere o migliorare l’esecuzione.

Suggeriscono una serie di paragoni sempre più ampi, ancora basandosi su ciò che è oggettivamente verificabile, in modo da stimolare la capacità di incidere sulla realtà (E.S. 28-31); e, contemporaneamente, chiedono di sottolineare con un gesto del corpo l’esperienza dell’eventuale caduta: «Ogni volta che si cade in quel peccato particolare o in quel difetto, si porti la mano al petto dolendosi di essere caduti; questo gesto si può fare anche in presenza di molti, senza che se ne accorgano» (E.S. 27). A ben vedere, questa piccola curiosa indicazione ha una profonda portata antropologica, perché il dispiacere, diventando espressione fisica, evita di alimentare sensi di colpa e dunque di sfociare in conseguenze tipiche di un temperamento ossessivo/compulsivo: o la fuga nella superficialità e nella dimenticanza o, all’opposto, la schiavitù del ricordo insuperabile delle proprie mancanze.

In sintesi, Ignazio nell’esame particolare utilizza uno strumento che indubbiamente si espone al rischio di derive ossessive (e che quindi va maneggiato con sapienza e delicatezza) proprio per sciogliere ogni tendenza ossessiva allo scrupolo e recuperare il funzionamento libero e sano della prima facoltà dell’agire umano: la memoria.

Dopo questo primo modo di esaminarsi, che mette in moto la memoria in una progressiva crescita della consapevolezza, l’esame generale intraprende il cammino di educazione della coscienza morale dell’esercitante. Evidentemente il testo è datato nei suoi contenuti, lontano dalla sensibilità e dalla cultura del nostro tempo – si ispira ai manuali dei confessori del XVI secolo – rimane però interessante ed attuale nella logica: parte dalla considerazione dell’attività mentale e, passando attraverso l’espressione della parola, giunge all’opera, intesa come risultato del dinamismo dell’azione. In effetti, al di fuori della mediazione della parola, i pensieri sfocerebbero direttamente in atti più o meno impulsivi e disumanizzanti. Senza commentare tutti i paragrafi, vediamo le articolazioni principali e il processo di questo tipo d’esame.

Già abbiamo visto la definizione di “spirito” contenuta in E.S. 32. Ignazio sostiene che non esistono pensieri neutri: si suddividono in quelli che ho perché li voglio e possono risultare – in riferimento alla legge – buoni o cattivi; e quelli che invece subisco, dunque in qualche maniera che vengono dal di fuori (dagli spiriti) e mi spingono con forza ad aderire, scegliendo una determinata direzione.

In questo schema è fondamentale distinguere lo spirito buono dallo Spirito Santo: cioè, sia lo spirito cattivo che quello buono sono in ultima analisi nelle mani dello Spirito di Dio, che attraverso il loro combattimento ci conduce ad una purificazione più profonda e ad una libertà più autentica (cf E.S. 33-37).

Ignazio non parte dalla legge o dai comandamenti, bensì dai pensieri. Infatti, per aderire alla realtà (e poi al Reale che fonda tutto, ossia Dio) occorre una preparazione: che, un po’ come l’azione del tergicristallo sul parabrezza, consenta di guardare attraverso i pensieri per riconoscere ciò che di essi appartiene solo alla mia immaginazione e non dà accesso alla realtà. In sintonia con tutta la tradizione dei Padri del deserto, Ignazio ritiene che il combattimento spirituale si scateni nel campo delle immagini mentali. E l’esame dei pensieri comincia all’interno di un conflitto inevitabile (E.S. 314-315) con l’esercizio di una opposizione, in modo da evitare il passaggio diretto dalle immagini mentali all’atto, senza passare per la mediazione della parola (e quindi della coscienza morale): dobbiamo far funzionare il tergicristallo sul vetro dei pensieri per scorgere e prendere la strada che conduce alla vita!

«Le parole. (…) Non si devono dire parole inutili: si intende, cioè, quelle che non giovano né a sé né ad altri, e neppure sono indirizzate a tale scopo. Non è inutile, invece, parlare di tutto quello che giova, o ha intenzione di giovare, all’anima propria o degli altri, o al corpo o a qualche bene terreno; e neppure parlare di cose in sé estranee al proprio stato, come quando un religioso parla di guerre o di commerci. Ma in tutti questi casi c’è merito se si parla con retta intenzione, e c’è peccato se si parla con cattiva intenzione o inutilmente» (E.S. 38-41): è la parola che ci porta ad esistere come esseri umani. Essa contiene una promessa: quando parlo in verità,implicitamente sempre mi impegno in quel che dico e, di conseguenza, in quel che faccio. In questa linea, anche l’antropologia e la psicologia contemporanee mettono in evidenza il valore performativo della parola. Ignazio ci invita allora a riflettere sulla serietà delle parole che usiamo, al di là magari della nostra consapevolezza. Lo fa con due esempi chiaramente distanti dalla nostra cultura, soprattutto il primo: il giuramento e le parole inutili o irresponsabili. Che cosa trarre dalla riflessione sul giuramento? L’uomo è a immagine e somiglianza di Dio in quanto essere di parola e, in ogni parola espressa dall’uomo sulle cose, in qualche modo è Dio stesso che impegna la propria libertà e parola. Da qui cogliamo la gravità delle parole inutili o, peggio, indiscrete.

«Le azioni. Prendendo come riferimento i dieci comandamenti, i precetti della Chiesa e le disposizioni dei superiori, tutto quello che si fa contro qualcuno di questi tre punti è peccato più o meno grave, secondo la maggiore o minore importanza» (E.S. 42): in spagnolo, Ignazio usa il termine “opera” e non azione. L’opera è il risultato del dinamismo dell’azione e anche il risultato oggettivo della parola. È significativo che solo adesso arrivi la menzione esplicita della legge e dei comandamenti. Lì dove si riconosce che la legge è violata, non c’è più bisogno di discernimento, ma piuttosto di confessione e di perdono. Ma il compito degli esami è anteriore, ossia scoprire se effettivamente, in una determinata circostanza, la legge è stata rispettata o trasgredita; è analizzando la complessità dei pensieri che è possibile valutare il grado di responsabilità della parola data e quindi giudicare l’opera nel suo rapporto alla legge.

Infine: notiamo che, da un punto di vista pratico e pedagogico, il percorso avviene sovente nella direzione opposta. Parte cioè da una domanda esteriore, rivolta ad atti che sono stati posti: rispettano o no i comandamenti? Da tale domanda si viene poi a scoprire una parola che precede il gesto e abita il soggetto e, nella pratica dell’esame, è possibile quindi risalire e discernere le differenti direzioni dei pensieri.

«Modo di fare l’esame generale: comprende cinque punti.

Primo punto: ringraziare Dio nostro Signore per i benefici ricevuti.

Secondo punto: chiedere la grazia di conoscere i peccati e di eliminarli.

Terzo punto: chiedere conto alla propria coscienza ora per ora, o periodo per periodo, da quando ci si è alzati fino al momento di questo esame, prima sui pensieri, poi sulle parole e infine sulle azioni, seguendo lo stesso procedimento che è stato indicato nell’esame particolare.

Quarto punto: chiedere perdono a Dio nostro Signore per le mancanze.

Quinto punto: proporre di emendarsi con la sua grazia. Infine dire un Padre nostro» (E.S. 43): questa nuova maniera di esercitarsi raccoglie i frutti dei due primi esami (cioè, l’attenzione della memoria richiesta dall’esame particolare e la lucidità dell’intelligenza maturata nell’esame generale) e li inquadra in una preghiera esplicita, composta da vari punti come in seguito negli Esercizi accade nelle meditazioni e contemplazioni. Il riferimento alle due prime forme di esami appare evidente nella centralità del terzo punto; il quale però, per essere vissuto correttamente, esige che ci si sia veramente aperti al ringraziamento (primo punto) e che si possa ricevere e vivere la conoscenza del peccato come una autentica grazia (secondo punto). Solo così è possibile guardare le proprie mancanze senza rimanere invischiati nei sensi di colpa.

Ricapitolando, l’esame particolare e l’esame generale, presi in se stessi, mettono in moto le risorse psico-affettive dell’uomo: il primo stabilendo una procedura di tipo ossessivo per educare la memoria; il secondo coinvolgendo in un combattimento nel quale battersi e resistere acquistando merito. L’esame generale quotidiano invece, aprendosi con una preghiera esplicita di azione di grazie, permette di utilizzare le medesime risorse umane come mezzi attraverso cui ci raggiunge la grazia di ricevere quel che vogliamo realizzare. In tal modo viene evitato il rischio di cadere in un volontarismo che attribuirebbe alla volontà umana un potere spirituale che essa non ha. Qualsiasi tecnica o strumento è incapace di condurre alla priorità assoluta dell’azione di grazie, che resta essenzialmente un dono; verso il quale comunque possiamo disporci, di solito con un’educazione che avviene attraverso varie forme di preghiera, differenti dagli esami stessi (qui si entra nello spazio del Mese di Esercizi).

La pratica degli esami può sfociare nel gesto sacramentale (cf E.S. 44): mettere cioè in movimento il corpo, che prende la parola davanti ad un testimone legittimo della Chiesa. Questa sottolineatura della dimensione corporale, che un poco assomiglia e, prolunga il gesto inserito nell’esame particolare (E.S. 27), consente di manifestare la sofferenza morale sentita o desiderata. Così prepara l’esperienza della seconda forma di consolazione, descritta nella terza regola di discernimento della prima settimana: E.S. 316.

Credo che ci sia capitato qualche volta di provarlo personalmente: l’espressione esteriore del nostro dolore, che ci orienta verso Dio, può costituire davvero una consolazione dolcissima e commovente (talora accompagnata pure da lacrime).

 

2.2 «Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora» (Mt 25,13)

Nei discorsi escatologici pronunziati da Gesù nel Vangelo di Matteo, troviamo la seconda sfumatura della vigilanza che vogliamo sviluppare. Qui non si tratta più dell’attenzione da rivolgere a se stessi per evitare di cadere nella tentazione, ma piuttosto dell’attesa di un altro, ossia di riconoscere una visita. Questa della visita di Dio è, come sappiamo, una linea che attraversa tutta la Scrittura, fino alla bellissima affermazione di Ap 3,20: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me». Ancora una volta, vediamo che spazio essa occupa prima nell’esperienza Ignazio e quindi nell’itinerario degli Esercizi.

 

2.2.1 Nella vita di Ignazio: «Ogni volta, ogni ora che voleva trovare Dio, lo trovava» (A. 99)

Nelle dichiarazioni finali dell’Autobiografia, dopo aver sottolineato – come già abbiamo visto – di non aver mai acconsentito a peccato mortale da quando aveva cominciato a servire Dio, Ignazio aggiunge, raccontando di sé in terza persona: «Anzi aveva progredito in devozione, cioè nella capacità di trovare Dio; al presente più che in tutta la sua vita. Di modo che, ogni volta, ogni ora che voleva trovare Dio, lo trovava… Ciò gli accadeva spesso quando parlava di cose d’importanza, per cui, con quello, si sentiva confermato» (A. 99).

Contrariamente ad una certa idea molto diffusa, Ignazio non è prevalentemente l’asceta che mira a conquistare la virtù a forza di volontà, ma piuttosto un mistico che tiene in grande considerazione le visite di Dio e la consolazione che ne consegue. In tal senso, è molto bello il contenuto di una lettera scritta a Francesco Borgia il 20 settembre 1548: «…L’intensità di fede, speranza, carità, la gioia e il riposo spirituale, le lacrime, la consolazione intensa, l’elevazione della mente, le impressioni e le illuminazioni divine… Qualunque di questi santissimi doni si deve preferire a tutti gli atti di penitenza corporale, che sono buoni nella misura in cui tendono a conseguire tali doni o parte di essi. Non voglio dire che dobbiamo ricercarli solamente per nostra compiacenza o diletto ma, convinti che senza di essi i nostri pensieri e le nostre parole e opere sono confusi, freddi e agitati, perché diventino caldi, chiari e giusti dobbiamo desiderare questi doni, tutti o parte, e queste grazie spirituali nella misura in cui ci possano aiutare a maggior gloria di Dio»[4].

Ignazio dunque ricerca la consolazione che viene da Dio, non tanto per una semplice gratificazione personale, ma perché senza questo dono, se si riesce a muovere qualche passo, lo si fa comunque in modo confuso, freddo, agitato. E così di sicuro non si arriva lontano. Sono innumerevoli, nella sua vita, le situazioni in cui solo dopo essere stato confermato dalla consolazione egli mette in atto una decisione (e a quel punto allora niente può più fargli cambiare idea). Esemplare, a questo proposito, è la testimonianza del Diario Spirituale, che riporta le sue note private mentre portava avanti un discernimento delicato sulle caratteristiche del regime di povertà che la Compagnia di Gesù avrebbe adottato.

In fondo, il modo di procedere di Ignazio corrisponde alle indicazioni che, negli Atti degli Apostoli, il Signore lascia alla Chiesa nascente al momento dell’Ascensione: «Ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre», cioè il dono dello Spirito Santo. È solo nella consolazione di questo Spirito che gli apostoli riceveranno la forza per essere testimoni «a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,4-8).

 

2.2.2 Negli Esercizi Spirituali: la contemplazione per raggiungere l’amore (E.S. 230-237)

All’inizio del libretto degli Esercizi, Ignazio propone una definizione introduttiva di cosa essi siano e della loro finalità. Spiega: «Esercizi spirituali sono tutti i modi di preparare e disporre l’anima a liberarsi dagli affetti disordinati e, una volta che se ne è liberata, a cercare e trovare la volontà divina» (E.S. 1). Con altri termini, ritroviamo qui le due sfumature contenute nell’idea di vigilanza cristiana: la purificazione della coscienza e, collegata, la lotta contro le tentazioni, cioè liberarsi da tutti gli affetti disordinati (prima sfumatura); per essere in grado poi di riconoscere le visite di Dio, ossia per cercare e trovare la volontà divina (seconda sfumatura). La purificazione è pertanto una tappa e un mezzo necessari affinché si giunga davvero a trovare la volontà di Dio. Ma, si può ancora aggiungere, se si cerca tale volontà non è soltanto per trovarla, ma pure in seguito per metterla in pratica (il testo completo recita: «Cercare e trovare la volontà divina nell’organizzare la propria vita»): quindi gli Esercizi, nella loro stessa dinamica, conducono ad un certo punto ad uscire dal ritiro per rientrare nella vita concreta.

È proprio sulla frontiera tra la conclusione del ritiro e il ritorno alla vita ordinaria che Ignazio ci invita a passare attraverso un esercizio molto originale, che risulta particolarmente interessante per la nostra riflessione e il cui titolo è: «La contemplazione per giungere ad amare» (E.S. 230-237). Vari commentatori osservano che questo esercizio rappresenta, nell’itinerario dell’esercitante, il mistero della Pentecoste, che in effetti non viene citato nella lista dei misteri evangelici offerti alla contemplazione (la serie si chiude con l’Ascensione). Siamo qui ricondotti a quanto detto al termine del precedente paragrafo: come per la Chiesa delle origini, egualmente per l’esercitante è indispensabile il dono dello Spirito per avere la forza di incarnare nella realtà la volontà di Dio trovata durante il ritiro. Il verbo spagnolo usato nel titolo ha un ventaglio di significati più ampio: non solo giungere, ma pure ottenere, ricevere, stabilirsi, risvegliarsi a… Potremmo anche tradurre: contemplazione per vivere nello Spirito. Dopo la seconda, terza e quarta settimana del Mese, nelle quali la materia delle contemplazioni è costituita dai misteri del Vangelo, lo sguardo ormai rinnovato dell’esercitante è invitato a voltarsi nuovamente verso la realtà; allora la contemplazione scopre la presenza del Cristo Risorto non più solo nella Parola, ma in tutto il mondo nel quale siamo inseriti. Può avvenire così una congiunzione tra la preghiera di meditazione/contemplazione della Scrittura e la preghiera dell’esame di coscienza quotidiano. Commentiamo brevemente, in tale ottica, i paragrafi dell’esercizio.

«Nota. È necessario premettere due osservazioni. La prima è che l’amore si deve porre più nei fatti che nelle parole. Seconda osservazione: l’amore consiste in un reciproco scambio di beni, cioè l’amante dà e comunica all’amato quello che ha o una parte di quello che ha o può, e a sua volta l’amato lo dà all’amante; in questo modo, chi ha scienza, onori, ricchezze, li dà a chi non li ha, e così reciprocamente» (E.S. 230-231): due note iniziali precisano che cosa intendere per amore.

Innanzitutto l’amore si pone nelle opere e questo vocabolo richiama quanto già considerato nell’esame generale sul rapporto tra pensieri, parole ed opere. Secondo Ignazio, l’operazione costituisce l’espressione e l’incarnazione di ogni vero atto di parola; ne è in qualche modo il risultato efficace e visibile. Pertanto l’opera è inseparabile dalla parola, cioè è sempre fondata su una relazione intersoggettiva, senza la quale si tramuterebbe in un’apparenza menzognera.

La seconda nota, avanzando sulla medesima linea, aggiunge che l’amore è scambio, comunicazione reciproca. In tal senso, l’amore si pone al di là e al di qua delle cose che riempiono la realtà, eppure si incarna e manifesta necessariamente in esse. È infatti nelle opere, incarnazioni della parola, che la relazione di reciprocità avviene in verità; senza rimanere un ideale astratto o un semplice sentimento.

È notevole il realismo di questa nota: benché, nell’esperienza umana, il dono rimanga inevitabilmente parziale (solo Dio è in grado di donare e donarsi interamente), tuttavia il movimento dell’amore comincia quando siamo sufficientemente padroni e liberi rispetto a qualcosa da poterlo rendere mezzo, espressione efficace del dono. Quel che viene così dato, non è propriamente l’amore; piuttosto ne è una mediazione, che trova valore nella parola che vi è sottintesa. In sintesi, si tratta di donarsi donando ciò che si può, come risposta ad una chiamata ascoltata (nella quale all’uomo è donato di essere in grado di donarsi a sua volta) e non lasciandosi ingannare dalla propria immaginazione. Pretendere ed affermare di aver dato tutto sarebbe costruirsi un oggetto immaginario, una pretesa di onnipotenza!

Ai punti dell’esercizio vengono premessi ancora due preamboli (cf E.S. 232-233). Il primo presuppone che, al termine del cammino degli Esercizi, abbiamo maturato una sufficiente libertà rispetto alle immagini che riflettono un ripiegamento su noi stessi. Stare in pace davanti a Dio, nella verità di sé e del mondo, a partire da una scelta compiuta nel Mese, la quale costituisce la base solida su cui costruire ormai il senso e la realizzazione della vita. Ed ogni scelta cristiana ci inserisce nella Chiesa, ci fa sentire la vicinanza mistica sia con i Santi del cielo che con la comunità concreta, dove l’elezione fatta mi impegna.

La libertà rispetto all’immagine di sé apre poi al secondo preambolo, perché ci rende capaci di una vera conoscenza del dono ricevuto e quindi di renderlo in lode nella forma del servizio. La conoscenza diventa allora spontaneamente atto di riconoscenza. I quattro punti dell’esercizio tracciano così un itinerario per sviluppare la dinamica di reciprocità caratteristica dell’amore. Il loro movimento conduce, attraverso un progressivo approfondimento, a leggere ogni particolare della vita come un dono nel quale riceviamo la possibilità di rispondere offrendoci a nostra volta.

 

«Primo punto. Nel primo punto richiamo alla memoria i benefici ricevuti (…); poi ancora quanto egli desidera darsi a me, in tutto quello che può, secondo la sua divina disposizione. Quindi rifletto su me stesso, considerando che cosa è ragionevole e giusto che io, da parte mia, offra e doni alla sua divina Maestà, cioè tutte le mie cose e me stesso con esse, come chi offre con molto amore e dice: “Prendi, o Signore, e accetta tutta la mia libertà, la mia memoria, il mio intelletto, la mia volontà, tutto quello che ho e possiedo. Tu me lo hai dato; a te, Signore, lo ridono. Tutto è tuo: tutto disponi secondo la tua piena volontà. Dammi il tuo amore e la tua grazia, e questo solo mi basta” » (E.S. 234). Il punto di partenza è la storia, che può estendersi su tempi e luoghi molto differenti: la storia di un ritiro, o di una tappa della propria vita, o della crescita di una comunità, o di una giornata particolare riletta attraverso l’esame di coscienza. “Ponderare con molto affetto” comporta un coinvolgimento di tutte le facoltà dell’uomo che, ordinate ed unificate dalla preghiera, consentono adesso di riconoscere nel dono il desiderio stesso di Dio. «Chi ama, dona», sottolineava la seconda nota preliminare: nel dono, Dio si dà senza riserve. Il “riflettere su me stesso” non indica tanto un ragionamento, quanto piuttosto un lasciare che questa verità del dono si rifletta in tutta la mia persona come un raggio di luce in uno specchio.

Da qui scaturisce la famosa preghiera finale di offerta. In essa la libertà come indifferenza, introdotta dal Principio e Fondamento (E.S. 23), si tramuta definitivamente in preferenza: la libertà cioè non sceglie più uno stato di vita o un determinato comportamento come mezzi per servire Dio, piuttosto sceglie Dio stesso in qualsiasi cosa. E ciò avviene in un continuo uscire dall’immagine di sé, ossia nel continuo superamento della tendenza al ripiegamento e all’appropriazione; così l’essere e l’avere passano costantemente l’uno nell’altro, senza rimanere tra loro divisi.

In tali termini, è chiaro che la preghiera d’offerta segna un inizio più che una conclusione: apertura e chiamata a proseguire poi, nella concretezza della quotidianità, questo movimento di uscita da sé che incarna la vera azione di grazie (vale a dire, il rendere la grazia ricevuta).

 

«Secondo punto. Nel secondo punto osservo come Dio è presente nelle creature (…) e così è presente in me, dandomi l’esistenza, la vita, la sensibilità, l’intelligenza; inoltre fa di me un suo tempio, poiché sono creato a immagine e somiglianza della sua divina Maestà. Quindi rifletto di nuovo su me stesso, come è indicato nel primo punto o in un altro modo che mi sembri migliore» (E.S. 235): la capacità di intendere, di ascoltare e quindi entrare in relazione, introduce al mondo umano. L’uomo, essere parlante, non è solamente una cosa: egli infatti è soggetto di una parola che, passando attraverso le cose, raggiunge l’altro in quanto soggetto (per es. l’innamorato che dona ad una ragazza un mazzo di fiori: nel gesto stesso, senza necessariamente parlare, le comunica “ti amo”). In ciò è a somiglianza ed immagine di Dio e può entrare in dialogo con lui come un amico ad un amico (E.S. 54). Dio non solo ci manda dei doni, ma in essi ci visita ed entra in relazione. Il peccato è la dolorosa perversione di questo rapporto, per cui l’uomo giunge a trasformare in idoli le cose e se stesso come cosa, e di fatto riduce tutto, anche Dio, alla dimensione di oggetto.

Al contrario, l’intendere – nella forma corretta – significa orientare l’intera realtà verso Dio: non soltanto ammettere la sua esistenza, ma pure percepirlo in ogni cosa come persona nell’atto di donarsi.

Se il primo punto ripercorreva la sequenza e i passaggi della storia umana, il secondo concentra la storia stessa nella densità del presente: questo è, in fondo, il tempo reale in cui viviamo, il tempo della Risurrezione già operante e vincente nella morte e nel dolore.

 

«Nel terzo punto considero come Dio opera ed è attivo per me in tutte le realtà di questo mondo (…). Quindi rifletto su me stesso» (E.S. 236): Dio “fatica ed opera”. I due verbi sottolineano la pena e lo sforzo più che il fatto di produrre un’opera; nella creazione, la visita di Dio è un’attività attuale che in qualche misura può venire accostata alle doglie del parto (cf Gv 16,21 e Rm 8,22), alla nascita di un nuovo mondo (la lista degli elementi citati – il cielo, le piante, i frutti, gli armenti – subito evoca il secondo racconto della creazione di Gen 2). Diversi commentatori inseriscono qui il riferimento al mistero della Passione, che nel Mese di Esercizi viene ripercorsa durante la terza settimana. Certo, nel nostro testo la morte non è direttamente nominata, però capiamo che la nascita e il compimento dell’uomo nuovo avvengono esclusivamente attraverso la risurrezione di Cristo. L’uomo è così invitato a considerare in maniera differente le prove e i dolori della propria vita: non sono solo occasioni nelle quali resistere ed acquistare meriti (secondo una tipica spiritualità); a partire dalla presenza di Dio nella totalità della creazione e anche in ogni aspetto dell’umanità, il lavoro dell’uomo che, in una storia segnata dal peccato, “fatica ed opera” esprime qualcosa della stessa  attività creatrice di Dio.

 

«Nel quarto punto osservo come tutti i beni e i doni discendono dall’alto (…). Termino riflettendo su me stesso, nel modo indicato. Alla fine farò un colloquio e dirò un Padre nostro» (E.S. 237): il vocabolario passa a designare attitudini e valori morali, esprime cioè l’identità di Dio nel suo nucleo più intimo. Dio non è un elemento, è invece giustizia, bontà, pietà, misericordia.

La progressiva purificazione delle facoltà umane porta ad una nuova percezione ed intelligenza della realtà, andando al di là dello schema della rappresentazione spaziale, secondo il quale una cosa non può essere contemporaneamente interiore ed esteriore ad un’altra. Gli enti si pongono tra di loro in un rapporto di esclusione proprio nella misura in cui hanno qualche cosa di comune. Si tratta di un principio di logica: è impossibile tracciare un cerchio quadrato, perché cerchio e quadrato sono entrambi figure geometriche; invece posso disegnare un cerchio rosso. Tra Dio e la creatura l’alterità è totale e dunque la sua immanenza assoluta è l’altra faccia della sua trascendenza assoluta. Non c’è incompatibilità tra le due.

Questo quarto punto apre così all’universo delle relazioni. Tutto scende dall’alto, ma tutto si trova in basso. Non posso vedere il sole se non nei raggi, eppure il sole non si esaurisce nei raggi. Pertanto l’uomo è invitato a incontrare Dio e pure la trascendenza del dono di Se stesso “in quanto può”, nelle creature. Si apre in tal modo un orizzonte inesauribile: vedo un atto di generosità in una persona, e mi domando come sarà la generosità di Dio; vedo la tenerezza di una mamma, e rimango affascinato dalla tenerezza di Dio; vedo la magnanimità di un gesto e subito penso alla magnanimità di Dio.

Vedo la fedeltà, la bellezza, la giustizia, l’amicizia, l’umiltà nelle relazioni e mi stupisce immaginare come esistono in Dio. Passo dopo passo, Dio si rivela e ci introduce nella sua vita intima.

La conclusione degli Esercizi propone dunque un discorso di teologia spirituale che esce dallo schema classico di un Dio posto “lassù”, al quale ritornare attraverso un movimento di liberazione dall’universo creato che resta “quaggiù”. Alcuni commentatori definiscono perciò quella di Ignazio come una mistica orizzontale[5]: l’impegno ascetico consiste nella grazia attiva di togliere gli ostacoli che impediscono di cercare e trovare Dio in tutte le cose. Per chi diventa contemplativo, Dio diventa davvero visibile in tutti gli aspetti della sua attività creatrice, sia nel tempo della preghiera che nel servizio del prossimo.

 

  1. Nel contesto del mondo di oggi: alcune (parziali) conclusioni pratiche

Riassumiamo il cammino percorso a proposito del nostro tema.

Nel primo capitolo abbiamo affermato che nella spiritualità ignaziana il sacramento della riconciliazione non costituisce né il punto di partenza né il culmine dell’itinerario dell’uomo con Dio. Lo abbiamo quindi inserito all’interno di un orizzonte più ampio, la vigilanza, a cui sono state dedicate le analisi del capitolo successivo. In esso ci siamo soffermati a lungo nella lettura e nel commento di due testi tratti dal libretto degli Esercizi Spirituali: uno iniziale, la serie dei cosiddetti esami (E.S. 24-44); l’altro invece conclusivo, la contemplazione per giungere ad amare (E.S. 230-237). Come tradurre questi due testi, che si pongono sulla soglia d’ingresso e di uscita tra la vita e il ritiro, nella concretezza delle vicende quotidiane? Come possono effettivamente condurre a cercare e trovare Dio in tutte le cose?

 

3.1 Una proposta di esame di coscienza

Ci sembra che dalle considerazioni fatte possa derivare una pratica nuova, viva e feconda del vecchio e classico esame di coscienza quotidiano; esso si trasforma allora in una modalità per pregare la vita quotidiana, ossia per diventare contemplativi nell’azione. Nel concreto, è possibile utilizzare la struttura in cinque punti dell’esame generale (E.S. 43), svolgendolo però attraverso la prospettiva dei quattro punti della contemplazione per giungere ad amare (E.S. 234-237). Ecco un esempio, che sviluppa un poco di più lo schema della preghiera di alleanza del P. Gouet[6]:

 

  1. Rileggo il giorno trascorso, cercando di cogliere le tracce di Dio.

In particolare:

– i doni ricevuti oggi (E.S. 234): nella misura in cui la vita spirituale matura, lo sguardo diventa più acuto e riesce a vedere Dio nella povertà, nelle crisi, nei fallimenti, nella malattia, nella croce. San Francesco chiamava persino la morte “sorella”. Poco a poco aumenta pure l’apprezzamento di tanti doni spirituali: il Signore Gesù stesso, lo Spirito con i suoi doni e frutti, i sacramenti, Maria, la Chiesa, ecc.

– La presenza di Dio stesso (E.S. 235): nella famiglia, nella comunità, nell’amicizia, nella creazione, nel povero, nel mio cuore, nell’Eucaristia, nella preghiera, dove due sono riuniti nel suo nome, ecc.

– Il lavoro e la fatica di Dio per me e con me (E.S. 236): Dio sostiene ogni dettaglio della creazione, è provvidente, ispira, anima, dona amore, amicizia, intelligenza, fa sì che noi stessi collaboriamo con lui.

– La diffusione e la partecipazione delle qualità di Dio, che vengono seminate dovunque (E.S. 237). Come dall’acqua risaliamo alla sorgente e dai raggi al sole, così nell’amicizia, nella paternità/ maternità, nella generosità delle persone possiamo scorgere un riflesso dell’amicizia, della paternità e della generosità di Dio.

 

  1. Chiedo luce a Dio, per entrare nel mio cuore e discernere ciò che lo muove e lo abita.

«Che tutte le mie intenzioni, azioni ed operazioni siano puramente ordinate al servizio e alla lode della sua Divina Maestà», prega Ignazio.

 

  1. Alla luce della grazia di Dio, esamino il mio cuore.

In una duplice direzione:

– ripercorro ciò che oggi ho offerto al Signore, come sono stato presente a lui e lui a me, come ho lavorato e faticato per lui e con lui, come ho trasmesso e diffuso qualche aspetto del suo mistero.

– Valuto quale spirito mi ha mosso durante il giorno, se di figlio o di schiavo. Mozioni che mi hanno spinto, luci, segni di quel che

Dio attende da me…

 

  1. Ringrazio, chiedo perdono.

Nel punto anteriore posso aver sperimentato una grande consolazione, nella consapevolezza dell’unione con Dio e dell’aver compiuto la sua volontà (e allora ringrazierò) e però magari sono emerse pure alcune mancanze, lievi o gravi. Allora chiedo perdono, con un atto chiaro di fiducia nell’amore di Dio (basandomi su Rm 8,35-39: «Niente può separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù»), che chiude il giorno e anche il pericolo di ripiegarsi su se stessi.

 

  1. Domani le cose andranno meglio…

Non perché mi fidi in modo eccessivo delle mie capacità, ma perché in questo giorno è cresciuta un poco la conoscenza di Dio e di me stesso. Sentendo in forma più umile di essere amato, si rafforza la convinzione e la speranza di poter domani essere più unito a lui…

 

Questo esame di coscienza costituisce una preghiera (e non una semplice o complicata tecnica) per alimentare lo spirito di vigilanza. Normalmente, un accompagnatore spirituale è chiamato a sostenere la persona di fronte a due difficoltà ricorrenti. La prima caratterizza soprattutto i primi passi: è la sensazione di incapacità di interiorità, cioè la fatica a ricordare e penetrare il tempo di una giornata per poi poter operare il discernimento. La seconda invece tocca chi è più avanti nel cammino: non raramente arriva un momento in cui egli ha l’impressione che determinate cadute e fragilità, di cui ha preso consapevolezza, risultino insuperabili e dunque rendano impossibile un ulteriore progresso, una vera apertura e speranza verso il domani.

 

3.2 E il sacramento della riconciliazione?

Al termine e alla luce di tutto il percorso, riprendiamo la domanda implicita contenuta nel titolo: come articolare il rapporto tra direzione spirituale e sacramento della riconciliazione? È ormai sovrabbondante, negli ultimi decenni, la letteratura che prende in considerazione la crisi del cosiddetto quarto sacramento, tanto che alcuni autori più pessimisti arrivano a prevedere la sua futura scomparsa.

Normalmente due sono le cause che vengono sottolineate – la perdita nella nostra cultura del senso del peccato e la necessità di un rinnovamento nelle forme della celebrazione – e il rimedio proposto spesso si muove nella linea di una maggiore direzione/ accompagnamento spirituale all’interno del sacramento stesso: si auspica che l’antica “monizione” si allarghi in un dialogo che apra ad una crescita nel chiarimento della coscienza e renda la riconciliazione qualcosa di più del semplice confessare i propri peccati.

Senza sminuire il valore di tali analisi e suggerimenti, mi sembra – da quanto abbiamo visto – che la spiritualità ignaziana prenda una strada diversa e complementare: il sacramento della riconciliazione costituisce un passo (estremamente significativo, per l’oggettività che assume nel segno e nella testimonianza del ministro ufficiale della Chiesa) inserito in un più ampio cammino spirituale. Ciò non toglie che rimanga comunque opportuno distinguere formalmente i due momenti, cioè la direzione spirituale e il sacramento della riconciliazione, ed eventualmente pure le persone con cui viverli (cosa che è ovvia nel caso che la direzione spirituale venga offerta da qualcuno che non sia sacerdote); però è importante che tale distinzione non diventi l’occasione di una settorialità nell’apertura della coscienza. Senza dimenticare che tale trasparenza non può in nessun modo essere forzata e, pertanto, che quel che qui affermiamo si basa su una vera alleanza, su una fiducia reciproca mai scontata ed assolutamente necessaria in qualsiasi percorso di accompagnamento spirituale. Non a caso gli Esercizi Spirituali la mettono a premessa dell’intero processo: «Presupposto. Per maggiore aiuto e vantaggio, sia di chi propone sia di chi fa gli esercizi spirituali, è da presupporre che un buon cristiano deve essere propenso a difendere piuttosto che a condannare l’affermazione di un altro. Se non può difenderla, cerchi di chiarire in che senso l’altro la intende; se la intende in modo erroneo, lo corregga benevolmente; se questo non basta, impieghi tutti i mezzi opportuni perché la intenda correttamente, e così possa salvarsi» (E.S. 22).

 

Note

[1] Nel nostro lavoro, usiamo alcune abbreviazioni: “A.” = Autobiografia, “E.S.” = Esercizi Spirituali. I due testi possono essere letti integralmente in Ignazio di Loyola, Gli scritti, ADP, Roma 2007, pp. 76-163 e 182-331.

[2] I. Tellechea Idigoras, Solo e a piedi, Borla, Roma 1990.

[3] Ignazio di Loyola, Autobiografia. Commento di P. Maurizio Costa, S.J., ADP, Roma 2010, p. 187.

[4] Ignazio di Loyola, Gli scritti, ADP, Roma 2007, pp. 1090-1093.

[5] J.A. García, S.J., En el mundo desde Dios, Sal Terrae, Santander 1989, pp. 107-120.

[6] P. Gouet, S.J., Preghiera di alleanza, un modo di proporre l’esame, in «Appunti di Spiritualità» (Supplemento del mensile Notizie dei Gesuiti d’Italia), n. 25, maggio 1989, pp. 62-65.