N.04
Luglio/Agosto 2010

La lettera

Il grande regista portoghese Manoel de Oliveira (classe 1908) continua a realizzare con stupefacente continuità opere che lo hanno reso famoso in tutto il mondo. Questa volta si è cimentato con un testo classico della letteratura francese, il seicentesco La principessa di Clèves, di Madame de La Fayette, conservandone le atmosfere e gli snodi dell’intreccio, ma ambientandolo, con grande libertà, nella Parigi dei nostri giorni. Il film ha ottenuto il Premio della Giuria al Festival di Cannes del 1999.

 

La vicenda – Mademoiselle de Chartres, una giovane educata all’antica dalla madre, una nobildonna parigina, ha da poco provato una delusione amorosa. Abbandonata da un giovane di cui era innamorata, si è vista costretta a lasciarlo quando egli, ritornato da lei, voleva solo prendersi delle libertà. Ora sta respingendo la corte di un giovane irruento, François de Guise, che invano cerca di far breccia nel suo cuore.

Un giorno, mentre sta scegliendo con la madre una collana in Place Vendôme, viene notata da un rispettabile medico, Monsieur de Clèves, che se ne innamora a prima vista. Per lei non è vero amore; tuttavia accetta di sposarlo per la stima e l’affetto che questi le ispira.

Ma l’incontro con un celebre cantante pop, Pedro Abrunhosa, famoso per le sue avventure galanti, fa divampare nella giovane donna il fuoco della passione. Anche Pedro si innamora di lei e cerca ogni pretesto per incontrarla. Sul letto di morte la madre dell’attuale Madame de Clèves raccomanda alla figlia di non seguire l’esempio di tante altre ragazze che, trovandosi l’amante, infangano il loro buon nome, e di pensare alla propria reputazione. La giovane donna respinge pertanto i tentativi di approccio da parte del cantante, ma sente il bisogno di confidare le proprie pene d’amore ad un’amica suora.

La sua lealtà nei confronti del marito la porta a confidargli il proprio segreto, assicurandogli però la sua fedeltà. Ma l’uomo non può sopportare il dolore di quella rivelazione e dopo qualche tempo si ammala e muore. Ora la donna è libera e potrebbe realizzare il suo sogno d’amore. La stessa amica suora la invita a farlo. Ma il senso del dovere unitamente a un senso di colpa e alla paura di una cocente delusione che potrebbe esserle fatale, la portano a sfuggire ancora alla corte serrata da parte di Pedro. Improvvisamente Madame de Clèves sparisce. Pedro la cerca disperatamente, ma invano.

Un giorno la suora riceve una lettera dall’Africa: l’amica si trova presso una missione di suore che si prodigano a favore di profughi vittime delle guerre e della fame. E Abrunhosa canta la sua disperazione in concerto.

 

Il racconto è caratterizzato da una struttura lineare ed è contrappuntato da una serie di didascalie che informano lo spettatore circa i principali sviluppi narrativi della vicenda. Si capisce, pertanto, che l’interesse del regista non è rivolto a ciò che accade, quanto piuttosto al modo di reagire e di comportarsi della protagonista (chiaramente Mademoiselle de Chartres, che poi diventerà Madame de Clèves), al suo mondo interiore, nel tentativo di scavare nella profondità della sua anima. Tutta l’opera inoltre rivela una chiara contrapposizione strutturale tra il mondo moderno, concepito dall’Autore in chiave negativa, e quello, per così dire, antico, caratterizzato da valori forti e immutabili.

Fin dall’inizio, infatti, in un colloquio tra Madame de Chartres e la sua migliore amica, si sente parlare di una società che schiaccia e alla quale è necessario opporsi con una grande determinazione e forza di volontà. Naturalmente per far questo è necessario un certo tipo di educazione: «La morale cambia – afferma Madame de Chartres –, cambiano le cose, è vero; ma vi sono dei valori che restano sempre validi, che non cambiano mai. E poi vi sono ancora delle eccezioni, grazie a Dio, dei rari esemplari». La protagonista è appunto uno di questi rari esemplari.

L’educazione forte e rigida fornitale dalla madre viene ulteriormente sottolineata in una sorta di testamento spirituale sul letto di morte. La madre s’è accorta della passione che turba la figlia, la vede sull’orlo di un baratro e, nel timore che cada come tante altre donne, le raccomanda di non infangare la sua reputazione: «Sii forte e coraggiosa; non avere timore di scegliere un percorso troppo drastico e difficile».

Il rigore morale della protagonista è infine rimarcato da un elemento che assume un notevole peso strutturale nel film: si tratta del quadro di quella religiosa che, come viene detto, ha introdotto il Giansenismo a Port Royal. La protagonista guarda quel ritratto e sembra quasi identificarsi con il personaggio rappresentato: non a caso, proprio in questo momento, parla del Calvario che deve salire.

La contrapposizione strutturale di cui s’è parlato viene mirabilmente espressa anche attraverso il contrasto tra due tipi di musica, quella classica, antica, e quella moderna, rock e pop. È significativo che il film inizi con un concerto rock di Pedro Abrunhosa e si concluda con un altro suo concerto. L’ultimo è decisamente diverso dal primo, in quanto il cantante esprime accoratamente la propria disperazione per la perdita dell’amata. Ma tutti e due sono rappresentati con toni scuri e lividi, in un buio quasi tenebroso che ne rivela la negatività e l’ambiguità. Per di più, quasi all’inizio del film, l’Autore accosta per contrasto due sequenze particolarmente significative: un brano musicale di Schubert, suonato al pianoforte da Maria João Pires, una vera pianista portoghese, e un concerto di Pedro, caratterizzato da volgarità e sguaiataggine. Lo stesso Pedro, nonostante il suo comportamento formalmente corretto nei confronti dell’amata, diventa quasi l’emblema di questo mondo moderno che l’Autore dimostra chiaramente di disprezzare e di condannare.

Oltre alla sua musica e alle sue rappresentazioni, a cui le luci artificiali e una massa indistinta di giovani danno una connotazione quasi infernale, è la sua stessa figura ad assumere caratteri obiettivamente malefici: è presente dappertutto, porta sempre un paio di occhiali scuri che impediscono di coglierne lo sguardo, viene descritto come un grande seduttore pieno di amanti. C’è inoltre un piccolo elemento semiologico, ma particolarmente significativo: quando Pedro va a far visita a Madame de Clèves ruba una sua foto incorniciata. In quel momento un’ombra scura avvolge la foto: è, ancora una volta, un segno negativo, un pericolo che sembra entrare nella vita della protagonista per farla soccombere.

Infine, in vari nuclei narrativi vengono rappresentate delle statue. Sono sculture di personaggi antichi, che però sembrano incombere sui personaggi moderni del film, condizionandoli (è significativo che il titolo di un film di Manoel de Oliveira del 1971 sia proprio Passato e presente). E anche questi personaggi antichi sembrano appartenere a due tipologie ben precise: ci sono i personaggi sacri (il gruppo scultoreo al cimitero con accompagnamento di musica classica e le statue del convento che sembrano essere testimoni delle confidenze accorate della protagonista all’amica suora) e quelli profani (probabilmente la statua di Bacco e quella del dio Pan).

 

Risulta sempre più evidente una concezione dualistica, che pone sotto il segno negativo tutto ciò che appartiene a questo mondo moderno privo di valori e di punti di riferimento e che indica in un rifiuto di questo mondo l’unica via di salvezza (si ricordi il chiaro riferimento al Giansenismo).

Per completare questo quadro negativo resta da rimarcare quanto si sente dire nell’episodio in cui la protagonista con il marito e una coppia di amici commentano le notizie date dalla televisione e alcuni riferimenti espliciti che emergono nella lettera finale: si parla di un mondo in cui l’economia si è sostituita alla politica, del dio denaro nuovo vitello d’oro, delle menzogne e dei conflitti che insanguinano il mondo, dei bambini vittime e futuri carnefici («In dieci anni la guerra ha ucciso più di due milioni di bambini nel mondo e ne ha feriti o mutilati più di sei milioni… e i bambini di oggi saranno i boia di domani»), di un sistema che non offre via d’uscita («Stiamo correndo verso il baratro»).

È in questo contesto negativo che vive la protagonista del film. Come si è detto è una persona rara, una donna educata all’antica e a certi valori immutabili. La sua, come quella di tante altre donne, è una ricerca di amore e di felicità. Ma quale amore è possibile in questo mondo? E quale porta alla felicità? L’Autore sembra prendere in rassegna i vari tipi di amore per poi approdare a quello più impegnativo e radicale.

C’è innanzitutto l’innamoramento, che sembra però eludere continuamente l’aspettativa di felicità. La protagonista viene appunto da una delusione amorosa: si sente dire che un ragazzo l’ha lasciata, provocandole una grande sofferenza. Poi è tornato da lei, ma per avere ciò che la donna non era disposta a concedergli («Egli non mi amava, voleva solo prendersi delle libertà… io ne ho sofferto molto… per me sentiva solo desiderio, non amore»). Anche François de Guise la assilla con le sue profferte amorose, ma la donna non ricambia e per di più la famiglia di lui non è favorevole a tale unione.

C’è poi il matrimonio che dovrebbe rappresentare l’apice dell’amore tra uomo e donna, ma ben presto la donna si accorge che il suo non è vero amore; è piuttosto stima, affetto, ammirazione. Certo il matrimonio le ha dato sicurezza e stabilità affettiva, ma l’amore è un’altra cosa. Anche questo è motivo di sofferenza («Mio marito mi ama… ma l’idea di non ricambiare il suo amore mi tormenta»). E a nulla valgono le parole dell’amica suora che le fa notare che per la Chiesa il matrimonio non è fondato sull’amore ma sul consenso.

C’è poi la passione che esplode (reciprocamente) nell’incontro con Pedro Abrunhosa. Madame de Clèves non tradirebbe mai il marito: ne va della sua lealtà e della sua reputazione («Ma chi ci bada più al giorno d’oggi alla reputazione?»). Ma ciò la fa soffrire, nella consapevolezza che noi «possiamo controllare i nostri sentimenti, ma non possiamo evitarli». Ella è confusa («Non so più ciò che è bene… io non ho mai amato veramente qualcuno») e sconsolata («Mio marito soffre, io soffro, colui che amo soffre: vivo con questi tre dolori chiusi nel cuore»). La suora tuttavia cerca di farle capire qualcosa di molto profondo: «La tua sofferenza nasconde un altro amore ben più grande, l’amore di Colui che è sempre con te, che è sempre con noi». Ma ciò vale per tutti o solo per chi è toccato misteriosamente dalla grazia divina? La protagonista sembra essere di questo secondo avviso («Questo vale per te che sei una religiosa»).

La sofferenza non cessa neppure dopo la morte del marito, quando la strada sembra essere spianata verso il coronamento del sogno d’amore. La suora la invita in tal senso: «È in gioco la tua felicità… perché questi scrupoli?… sei libera ora». Ma per la protagonista non è solo un problema di reputazione o di libertà esteriore: «Già due volte mi sono esposta ed ho perduto; non devo rischiare la terza volta… ho paura, paura di una sofferenza ancora più grande, che può risultare fatale… non potrei resistere a un simile colpo. L’amore è un incantesimo… un incantesimo che si è trasformato in cruda realtà». Ci vorrebbe la vocazione, bisognerebbe prendere il velo, ma la vocazione non viene data a tutti. Ed ecco l’approdo finale. Tutta la struttura del film porta verso quella lettera (che dà il titolo all’opera) e che rivela il punto d’arrivo del lungo travaglio interiore della protagonista, che è giunta a scoprire l’amore oblativo, quello più alto, l’unico che può dare gioia e serenità. La protagonista è rimasta conquistata da quelle suore missionarie che vivono in qualche parte dell’Africa ad assistere quelle povere persone, soprattutto bambini, vittime di guerre fratricide prodotte dalla cecità, dalla cupidigia e dalla follia degli uomini.

Quelle suore, ignorate dal mondo, si donano con tutta l’anima, con tutto il cuore, senza temere le malattie e, malgrado tutto, riescono ancora a sorridere. La protagonista dice di provare un senso di sgomento e di non sapere se riuscirà a farcela: «Devo ammettere che non ho più la forza di sostenere ciò che la coscienza mi impone; ho un solo desiderio: fuggire. Ciò che mi ha trattenuto è l’abnegazione delle suore missionarie che si donano a questa gente, con la stessa forza del primo giorno. E allora mi chiedo: da dove viene questa loro forza?». È chiara l’indicazione tematica: questa è la strada del vero amore, quello che, solo, può dare gioia e serenità. Ma non tutti sono in grado di seguirla. Già in precedenza si era detto che per fare certe cose (prendere il velo) è necessario avere la vocazione (cioè essere toccati dalla Grazia).

Così come non tutti sono in grado di capire certe scelte: è significativo infatti che il film si concluda con il concerto di Pedro Abrunhosa che, accoratamente, canta il proprio amore e il proprio smarrimento di fronte a quella scelta che ai suoi occhi risulta incomprensibile. La splendida immagine che si vede dopo la lettura della lettera, quella delle suore che, in piena notte, al suono della campanella, si recano nella cappella a pregare, acquista un significato emblematico: i loro lumi sono le uniche luci autentiche che, seppur di poco, possono rischiarare il buio della notte, che è il buio di valori in cui è gettato, secondo il regista, questo nostro mondo contemporaneo.

 

A livello tematico si può rilevare una concezione dualistica, di stampo quasi giansenista (il riferimento alla suora che ha introdotto il Giansenismo a Port Royal è chiaro e rimarcato), sia per la visione negativa del mondo, sia per il riferimento ad una Grazia che cade dall’alto in modo straordinario e imprevedibile. Va però sottolineato il fatto che, secondo il regista, non è il mondo in quanto tale ad essere posto sotto il segno negativo, ma piuttosto questo mondo moderno, che ha smarrito quei valori «che non cambiano mai» e che ha snaturato l’amore, privandolo di quella dimensione oblativa che ne costituisce l’intima essenza.

 

Dal punto di vista cinematografico si può sottolineare il ritmo lento che caratterizza il film, che in certi momenti rivela un’impostazione di tipo quasi teatrale, anche per la grande importanza che possiedono le parole e i dialoghi. Ma il grande maestro portoghese riesce a sfruttare con estrema efficacia anche gli elementi semiologici tipici del linguaggio cinematografico, come ad esempio la musica e l’illuminazione, e a realizzare un’opera scarna nel linguaggio (in certi momenti sembra di vedere un film di Bresson), ma essenziale nell’espressione. E ricca e profonda nella sua capacità di provocare e di far riflettere.