N.04
Luglio/Agosto 2010

La libertà interiore dell’accompagnatore nel colloquio spirituale

«Come una bilancia lasci immediatamente operare il Creatore con la creatura» (E.S. 15)

 

  1. I tre aghi

L’espressione ignaziana che accompagna il titolo della relazione suggerisce l’immagine dell’ago della bilancia. Un’immagine suggestiva. Ignazio la usa con questa chiarezza almeno due volte nel libretto degli Esercizi Spirituali (E.S.) [1]. Nel n. 179 si riferisce alla persona accompagnata, a chi vive l’esperienza degli esercizi: «È necessario avere come obiettivo il fine per cui sono creato, che è per lodare Dio nostro Signore e salvare la mia anima; e con questo trovarmi libero, senza alcun affetto disordinato, in modo da non essere inclinato o affezionato più a prendere la cosa proposta che a lasciarla, né più a lasciarla che a prenderla; ma in modo che mi trovi come nel mezzo di una bilancia, per seguire quello che sentirò essere più a gloria e lode di Dio nostro Signore e per la salvezza della mia anima» (E.S. 179).

Nel n. 15 si riferisce invece propriamente a chi accompagna: «Chi dà gli esercizi non deve spingere chi li riceve a povertà né a promessa più che ai loro contrari, né a uno stato o modo di vivere piuttosto che a un altro. Perché, sebbene fuori degli esercizi possiamo, lecitamente e meritoriamente, esortare tutte le persone probabilmente idonee a scegliere continenza, verginità, vita religiosa e ogni tipo di perfezione evangelica; tuttavia, in questi esercizi spirituali, è più opportuno e molto meglio che sia lo stesso Creatore e Signore a comunicarsi all’anima devota abbracciandola nel suo amore e lode e disponendola per la via nella quale potrà meglio servirlo in futuro. Di modo che chi li dà non propenda né si inclini verso l’una o l’altra parte; ma, stando nel mezzo, come una bilancia, lasci immediatamente operare il Creatore con la creatura e la creatura con il suo Creatore e Signore» (E.S. 15).

L’accompagnatore opera stando nel mezzo, come una bilancia, è cioè l’ago. Qual è lo scopo dell’ago? “Indicare” e quindi muoversi, essere sensibile a ciò che è posto sul piatto della bilancia. Deve indicare e “solo” indicare, cioè non interferire, lasciare che sia il peso posto sul piatto a determinare la sua posizione, leggero. Questo modo di essere e di agire, da “ago”, lo scopriamo anche in Dio. Anche lui si muove con la stessa discrezione e leggerezza, anche lui sa non interferire.

Guardiamo dunque tre aghi. Brevemente l’ago di Dio, per imparare  da Dio; e l’ago dell’altro, per chiarire lo scopo dell’accompagnamento in questa luce. E poi, propriamente, il tema della relazione: l’ago dell’accompagnatore.

 

  1. L’ago di Dio – Un Dio libero di lasciar andare 

«È proprio del Creatore entrare, uscire (dall’anima)» (E.S. 330), «…silenziosamente come in casa propria a porta aperta» (E.S. 335).

Ignazio non applica l’immagine della bilancia a Dio, ma troviamo negli esercizi due belle espressioni che suggeriscono lo stesso agire: entrare e uscire dall’anima come proprietà di Dio, entrare silenziosamente come in casa propria a porta aperta (espressione che Ignazio riferisce a Dio quando si tratta di chi cerca la volontà del Padre). Entrare e uscire come in casa propria, senza molto farsi notare. Lasciare liberi, infine. Uno sconosciuto o un ospite non fanno così, perché in qualche modo si impongono con la loro presenza, costringono.

Lasciare liberi. Forse potremmo parlare dell’indifferenza di Dio, nel senso che Ignazio dà a questa parola. L’indifferenza di Dio che nasce non dal disinteresse, ma anzi da un così grande amore per la persona, per questa persona concreta, che tutto il resto non conta, nulla di sé interferisce, né le aspettative, né le preoccupazioni, né le delusioni, né il desiderio di una teorica riuscita educativa.

Esemplifichiamo di seguito con tre passi evangelici.

 

2.1 «Divise fra loro le sostanze» (Lc 15,11-32)

All’inizio della parabola del padre misericordioso, normalmente diamo attenzione ai figli, non al padre; al padre della parabola di solito si dà attenzione solo dopo, nella seconda metà, al tempo del ritorno. La prima breve frase pare solo un piccolo cappello per spiegare la situazione: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì…» (Lc 15,11-13).

Ma in realtà già dice molto del padre. Divide le sostanze: perché? Non ha capito cosa rischia? Perché lascia andare il figlio? Si dice che il figlio minore se ne va dopo non molti giorni… dunque il piano era pronto, possibile che il padre non avesse intuito niente? E non fa nulla per fermarlo? Sappiamo tuttavia che «quando era ancora lontano lo vide»… quindi lo aspettava, sentinella del ritorno.

Dunque, Dio sembra fare al contrario di noi. Lui pare piuttosto “indifferente”, cioè lascia andare, all’inizio, quando ci sono tante promesse e possibilità. Poi, quando tutto sembra perduto, mostra il suo attivo desiderio, pronto ad attendere e riaccogliere. Invece noi ce la mettiamo tutta all’inizio, perché vogliamo riuscire. Poi ci scoraggiamo se la persona resiste o si allontana e, alla fine, davanti a segni di rifiuto o insuccessi educativi, ci allontaniamo anche noi, o perlomeno manteniamo una buona distanza. Siamo accoglienti all’inizio e, delusi, ci ritiriamo dopo il fallimento. Ma Dio fa il contrario, sembra essere più passivo all’inizio e attivarsi dopo il fallimento.

Ci viene in mente la zizzania del campo, la preoccupazione dei lavoratori e l’apparente calma del padrone. «Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania? Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? No…» (Mt 13,24-30). Dio non si spaventa di fronte al male, come invece facciamo noi.

 

2.2 «Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso» (Mt 21,28-30)

Ancora un uomo con due figli: «…Rivoltosi al primo disse: Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò. Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò» (Mt 21,28-30). Sì, e non va; no, ma poi va. Il padre lo sa cosa fanno i suoi figli? Non controlla?

Chiede e poi lascia liberi. Chiede con chiarezza e la volontà del padre è evidente: che si lavori nella sua vigna. Ma sembra non curarsi troppo di come la persona risponde. Non fa pressione, non insiste. Chiede a tutti e due e lascia che reagiscano alla richiesta. Sa che ognuno deve fare i suoi passi, lascia che ognuno arrivi alla scelta.

 

2.3 «Forse anche voi volete andarvene?» (Gv 6,67-69)

Anche voi? Cerchiamo di indovinare il tono della domanda. È amaro? Provocatorio? Libero? Ci domandiamo perché Gesù rischia di fare questa domanda, perché metta in parole paure e dubbi ancora informi. Non ha paura di chiedere. Qualcosa gli sta a cuore più di un nostro restare non ancora veramente scelto. La risposta di Pietro è chiara, non preparata, ma provocata dalla domanda. Neppure lui deve aver capito il discorso di Gesù: non c’è niente che ci possa far credere che lui o i Dodici avessero capito più degli altri. La libertà provoca una scoperta della verità. Andare dove? Da chi?

La verità è: la vita eterna viene da quello che dici tu, non devo cercare altrove. La verità è: non c’è reale alternativa, anche se la domanda mi lascia libero di tentare. Nella domanda di Gesù si coglie un atteggiamento di fiducia nella persona: un credere che dentro ciascuno c’è desiderio di vita vera. Si coglie anche un atteggiamento di fede nelle sue stesse parole, le uniche portatrici di vita, anche se apparentemente oscure.

E noi, crediamo che la persona che ci sta di fronte ha dentro il desiderio giusto, magari sprofondato chissà dove o confuso con chissà cosa, e crediamo che la proposta di Gesù risponda alle attese del cuore?

 

  1. L’ago dell’altro – Libero di dire di sì

«Trovarmi libero, senza alcun affetto disordinato, in modo da non essere inclinato o affezionato più a prendere la cosa che a lasciarla, né più a lasciarla che a prenderla; ma in modo che mi trovi come nel mezzo di una bilancia, per seguire quello che sentirò essere più a gloria e lode di Dio nostro Signore e per la salvezza della mia anima» (E.S. 179).

Applicando l’immagine della bilancia a chi fa gli esercizi, Ignazio indica come obiettivo degli esercizi la libertà propria dell’ago che, sensibile alle sollecitazioni, si inclina solo alla volontà di Dio, senza farsi trascinare da affetti disordinati. Due passi evangelici mostrano questa libertà di dire di sì.

 

3.1 «Eccomi, sono la serva del Signore» (Lc 1,38)

Maria: sono la serva, cioè “faccio quello che vuoi”. Il servo è immagine analoga a quella dell’ago. Un servo non fa di sua iniziativa, segue, come l’ago. Così descrive questa docilità il centurione del Vangelo di Luca: «Anch’io infatti sono uomo sottoposto a un’autorità, e ho sotto di me dei soldati; e dico all’uno: Va’ ed egli va, e a un altro: Vieni, ed egli viene, e al mio servo: Fa’ questo, ed egli lo fa» (Lc 7,8). Liberissimo l’ago di Maria. Sensibile, ascolta attento, chiede, si inclina dal lato giusto. Eccomi. Come Pietro, anche lei forse non ha capito tutto, ma decide di stare: sia fatto di me come hai detto.

 

3.2 «Ti agiti per molte cose, ma una sola…» (Lc 10,41-42)

All’altra Maria, seduta ai piedi di Gesù, interessa una cosa sola, come Gesù dice di lei. Non l’agitarsi di Marta dietro tante cose. L’ago che si agita non misura niente. L’ago fermo e tranquillo si inclina solo al peso posto sul piatto della bilancia. L’ascolto attento fa pendere da una parte sola. E non ci sono altre cose che tirino dall’altro lato. Ma ecco che davanti a queste libertà di dire di sì, nasce una domanda, tanto più frequente oggi: quell’altro che accompagno, che guido nel suo discernimento, può dire di no, pur avendo compreso che gli è chiesto un sì? Si può dire davvero di no a Dio? Oppure ogni scelta alla fine è semplicemente la risposta possibile nella libertà che si ha? È il tema della resistenza alla vocazione[2].

I testi evangelici presentati sopra sono tutti, per così dire, a lieto fine. Dio ha avuto ragione di lasciare liberi di andarsene o di rifiutare. Ma si trattava di una libertà di dire di no provvisoria, quasi una strategia per una maggiore libertà.

Anche il giovane ricco, lasciato libero (“se vuoi”, non: “devi”), ha detto di no. Gesù commentando sembra dire: era difficile per lui. «Quanto è difficile…» (Mc 10,24), umanamente difficilissimo. Ma possibile, ben possibile a Dio. Umanamente il giovane non ce la faceva, ma con Dio avrebbe potuto. Umanamente parlando, una data persona, nella sua effettiva libertà, nella sua libertà limitata, con quei suoi rapporti familiari, con quelle sue paure, forse con la sua debole attrazione per i valori, non ce la fa. La proposta di Dio attrae, ma non abbastanza. Come dice Ignazio a Teresa Rejadell[3]: «La tattica generale del nemico rispetto ai principianti che vogliono servire Dio N.S. consiste nel porre impedimenti e ostacoli. È la prima arma con cui procura di ferirli. Per esempio: “Come potrai passare tutta la tua vita in tanta penitenza, priva della gioia dei parenti, degli amici, dei beni, in una vita così solitaria, senza un po’ di pace? Non c’è altra maniera di salvarti senza tanti pericoli?”. Ci dà ad intendere che avremo da vivere una vita più piena di sofferenze che mai altro uomo abbia vissuto, ma non ci dà ad intendere i tanti conforti e le consolazioni che di solito il Signore concede quando il suo nuovo servo supera tutte queste difficoltà scegliendo di soffrire con il suo Creatore e Signore. Avviene che chi accompagna ascolti conclusioni di questo tipo: “Capisco che Dio mi chiede di più, ma non mi sento”; oppure, situazioni più drammatiche, nel caso di scelte già fatte: “Non voglio più”».

È possibile di fatto dire liberamente di no a Dio? O si tratta di un lavoro per la libertà fatto a metà, un lavoro non finito di acquisizione di una libertà più vera di dire di sì?

In ogni caso la libertà interiore di chi accompagna deve mettere in conto realisticamente anche questa possibilità: che l’altro dica di no. Un no che poteva essere sì: l’aspetto drammatico di ogni processo educativo, alla fine l’aspetto drammatico dell’amore.

 

  1. L’ago dell’accompagnatore – Libero di favorire l’incontro

«Chi dà gli esercizi spirituali non propenda né si inclini verso l’una o l’altra parte; ma, stando nel mezzo, come una bilancia, lasci immediatamente operare il Creatore con la creatura e la creatura con il suo Creatore e Signore» (E.S. 15).

4.1 Tre figure bibliche e un contadino

4.1.1 «Vattene a dormire e, se ti si chiamerà ancora, dirai…» (1Sam 3,1-10)

È Samuele che sta davanti a Dio, è lui che dorme nel tempio, con la lampada accesa, non Eli. In un certo senso sta davanti a Dio senza mediazioni, “immediatamente”. Eli sta nella camera accanto e, anche quando interpellato, non si alza, non va con lui, lo lascia rispondere da solo. Rimanda Samuele davanti a Dio con un’indicazione.

Non si mette in mezzo, non “ruba” l’esperienza, non gliela sottrae anticipandola, non gli toglie la scoperta personale di chi sia il possessore della voce. Non dice troppo, solo quel tanto che basta a mantenerlo attento: se ti si chiamerà ancora. Il “se” dice che alla fine non è al cento per cento sicuro neppure lui. Ha capito prima di Samuele, questo sì, e allora lo aiuta a decodificare l’esperienza (e tra l’altro non riesce a decodificarla subito, solo alla terza volta).

Eppure Eli non può dormire in pace… Si lascia svegliare tre volte, apparentemente per niente.

Aver capito, o semplicemente intuito qualcosa della persona, è una responsabilità: da dire, da ridare (“guarda che forse ti chiama”). Quindi, accanto a un lato “passivo” del restare a letto e lasciare Samuele arrangiarsi, c’è un lato “attivo”, dello svegliarsi e del dire.

 

4.1.2 «Afferra il pesce!… Il ragazzo riuscì ad afferrare il pesce» (Tb 6,1-7)

Raffaele con Tobia, parabola di una relazione di accompagnamento[4]: Raffaele resta sulla riva, anche quando il giovane è in difficoltà per l’attacco del grosso pesce. Come Eli resta in camera, così Raffaele sulla riva. Come il padre della parabola, l’angelo aspetta e guarda un po’ da lontano. Ma non è distratto. Il ragazzo ha la forza sufficiente.

Però non sa come si fa e soprattutto non sa la ricchezza di quel che ha fatto, tutte le possibilità che ne emergono. Raffaele fa fare e poi spiega il senso. Al ragazzo nascono altre domande e allora la guida c’è, per rispondere e spiegare. Anche qui, il momento “passivo” (dalla riva) e il momento “attivo” (le spiegazioni lungo il cammino).

 

4.1.3 «…Sentendolo parlare così, seguirono Gesù» (Gv 1,35-37)

Giovanni Battista è estremamente rappresentativo: essere ago è proprio la sua vocazione, è quasi specializzato in questo. Egli è solo un indicatore, un dito puntato. I suoi discepoli li lascia andare dietro a Gesù. Non li trattiene, anzi, sembra provocarne l’andarsene, con le sue parole: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!

Ecco colui del quale io dissi: Dopo di me viene un uomo che mi è passato avanti, perché era prima di me» (Gv 1,29-30). Seguano lui, è più sicuro.

Viene in mente il contadino del Portico del mistero della seconda virtù di Peguy[5]: «Egli pensa ai suoi bambini che ha messo particolarmente sotto la protezione della santa Vergine. Un giorno che erano malati. E che aveva avuto una grande paura. (…) Allora aveva fatto un colpo (un colpo d’audacia) (…) Bisogna dire che era stato piuttosto ardito e che era un colpo ardito. Eppure tutti i cristiani possono fare altrettanto. Ci si domanda perfino perché non lo facciano.

Come si prendono tre bambini da terra e come li si mettono tutti e tre. Insieme. Contemporaneamente. Per divertirsi, per una specie di gioco. Nelle braccia della loro madre e della loro nutrice che ride.

E dà in esclamazioni. Perché gli se ne mettono troppi. E non avrà la forza di portarli. Lui, ardito come un uomo, aveva preso, con la preghiera aveva preso (…) i suoi tre bambini nella malattia, nella miseria in cui giacevano. E tranquillamente te li aveva messi. Con la preghiera te li aveva messi. Molto tranquillamente tra le braccia di colei che è carica di tutti di dolori del mondo. E che ha già le braccia così cariche. Perché il Figlio ha preso tutti i peccati. Ma la Madre ha preso tutti i dolori.

Lui aveva detto, con la preghiera aveva detto (…) Prendili, te li do. Fanne quel che vorrai. Io ne ho abbastanza. Colei che è stata la madre di Gesù può ben essere anche la madre di questi due maschietti e di questa bambina. Cosa ti può fare questo, ne hai tanti altri. Cosa ti può fare, uno di più uno di meno. (..) Da quel tempo tutto andava bene. Naturalmente. Come vorreste che andasse altrimenti. Che bene. Poiché era la Santa Vergine ad occuparsene. Che se ne era incaricata. Lei sa più di noi».

Il contadino affida a Maria i figli ammalati, trionfante, certo di aver fatto la cosa più intelligente. Anticipa l’affidare non come offerta, ma come audacia e furbizia. Fin che ci sentiamo responsabili delle persone, da soli, è un carico enorme, anche se può dare soddisfazione fino a che tutto va bene. Ricordiamo anche Mosè (Nm 11,11-17). Devo portarlo io tutto questo popolo? Chiedi, dice Dio, cosa vuoi, un aiuto? E risolve la cosa anche abbastanza in fretta. Mosè si lamentava, ma non vedeva la via di uscita. Dio invece gli suggerisce: affida; non fare degli altri un carico che ti ammazza.

Dobbiamo ricordarlo anche noi: le persone non sono nostre, non ne siamo gli unici responsabili o gli unici a cui stanno a cuore. Alla fine, Dio ci tiene più di noi.

 

  1. Il contesto dell’accompagnamento: «Sebbene fuori possiamo…»

Ignazio precisa che è nel dare esercizi spirituali che è importante essere come l’ago della bilancia. «Chi dà gli esercizi non deve spingere… sebbene fuori degli esercizi possiamo… in questi esercizi spirituali, è più conveniente e molto meglio, nel cercare la divina volontà, che lo stesso Creatore e Signore si comunichi…» (E.S. 15).

Nell’accompagnamento l’ago è importante, in altri luoghi è possibile che sia lecito spingere.

Un invito aperto fatto a una testimonianza vocazionale (perché qualcuno di voi non potrebbe pensare seriamente a…), un appello anche appassionato in un gruppo, ma anche in un colloquio sulla scelta della propria vocazione (potresti pensarci, vedo che hai queste e queste caratteristiche…; ma hai pensato al senso di tutte queste esperienze? Non sarà che ti viene chiesto qualcosa?), come una provocazione che spalanchi finestre nuove sul mondo… Invece, in un contesto di relazione di aiuto, in cui l’obiettivo è ascoltare insieme un Altro in attento discernimento, c’è il rischio della manipolazione, anche inconscia. Perciò, quello che Ignazio dice degli esercizi, possiamo dirlo anche dell’accompagnamento vocazionale in cui la persona si apre e in qualche modo si consegna con fiducia, mette davanti la sua storia, i suoi desideri, le sue fragilità. Ogni pressione potrebbe diventare manipolazione: usare più o meno inconsciamente i suoi sensi di colpa, la responsabilizzazione eccessiva, l’entusiasmo superficiale, l’autonomia difensiva… Se accompagniamo da vicino, diventa molto importante quello che diciamo, perché le cose hanno un peso diverso a seconda di chi le dice. E l’accompagnamento è come un contratto di aiuto alla crescita, da rispettare nella sostanza, non solo nella forma.

Per questa libertà occorre molta fede, è un accompagnare nella fede. Ignazio dice la necessità di tale libertà interiore negli esercizi per lasciare che la creatura operi con il Creatore, non solo per rispetto, per stile personale, per opportunità. Non è un inchino all’altare dell’individualismo (alla fine ognuno decide da solo), non è semplicemente eticamente corretto: è questione di fede.

Come Eli sa che nella stanza accanto qualcuno parla, così dobbiamo credere che qualcosa sta succedendo, che c’è un Altro che agisce ed è per questo che ci tiriamo in disparte. Alimentare questo atteggiamento di fede è importante, perché rimanga motivante e ispirante lungo tutto il percorso.

Allora, per accompagnare nella fede: non sottrarsi al suo sguardo, mentre lavoriamo; davanti ai limiti e alle debolezze, avere fiducia nella persona e nel mistero che c’è in lei, credendo che Dio ha un progetto per ciascuno; crescere nell’intimità con la Parola, per raggiungere una familiarità che ci consenta di farla entrare nel cammino con una certa naturalezza; pregare per chi si accompagna, nella certezza della realtà di una comunione oggettiva; far memoria del proprio cammino, dell’aiuto ricevuto e quindi custodire una riconoscenza che facilita la libertà, dà respiro, allarga il cuore preoccupato del risultato.

 

  1. Libero, senza alcun affetto disordinato

Cosa vuol dire un ago della bilancia libero? Che possa muoversi (dimensione attiva); che non sia sbilanciato (dimensione passiva).

6.1 Un ago non arrugginito

La libertà dell’ago ha una dimensione di attività. L’ago deve muoversi. Se è arrugginito non si muove e non coglie le sollecitazioni.

La guida deve essere attiva per rendere attivo il chiamato; entrare, sia pure chiedendo permesso; insegnare a farsi domande.

Nella lettera di Ignazio a sr. Teresa Rejadell[6] si vede bene questa dimensione attiva. Ne è parte il decidere di ascoltare: e cioè mettere da parte se stessi, come dono di sé, come offerta cosciente di se stessi all’ascolto. «(Dio) mi dà gran desiderio di fare tutto il bene che posso… Desidero anche servire quelli che lavorano al suo divino servizio. (…) Desidero trovarmi in grado di poter mostrare con i fatti quanto dico a parole».

L’attività è sensibilità a cogliere la realtà dell’altro ed è conseguente libertà di dire: «Avrei preferito l’informazione diretta, perché nessuno è in grado di rendere le proprie impressioni meglio di chi le prova. (…) Dirò volentieri ciò che sento nel Signore, cercando di chiarirlo bene. Se le sembrerà che in qualcosa sia duro, più che contro la sua persona sarà contro chi la turba. (…) (Il nemico) le presenta e le inculca una falsa umiltà; in secondo luogo le ispira una paura estrema di Dio che la paralizza e la invade troppo».

Coraggio e chiarezza! In una seconda lettera a sr. Teresa Rejadell, di poco posteriore[7], Ignazio avanza una critica su un accompagnamento fatto con poco impegno: «Mi dice di trovare in se stessa tanta ignoranza… Ma già è molto conoscersi! Intanto le sembra che contribuisca a questo l’abbondanza di pareri poco precisi. Anch’io la penso così: chi precisa poco, comprende poco e aiuta meno. Ma il Signore vede ed è lui ad aiutare».

Essere attivi, infatti, vuol dire non dare per scontato che si sa ascoltare, ma riconoscere che occorre imparare l’ascolto e allenarsi; quindi prepararsi prima e verificare dopo.

Questa attività provoca un’attività nell’accompagnato. Ascoltare le domande consce, lavorare per liberarne altre e rispondere a quelle più vere: «Se così piace al Signor nostro, spero che presto ci rivedremo costì e potremo trattare allora più a fondo alcune cose»[8].

Una “ruggine” può bloccare questa dimensione attiva: guardiamo cosa arrugginisce il nostro desiderio di accompagnare e cosa si può nascondere dietro i “non devo spingere”. Indifferenza e disinteresse: ritenere non abbastanza interessante, non abbastanza gratificante, o l’accompagnare in quanto tale, o accompagnare questa specifica persona.

Pigrizia: la fatica della dedizione, dello scomodarsi, come Eli che si deve svegliare tre volte. Quando l’entusiasmo iniziale passa o la persona “stagna”, l’impegno dell’accompagnatore può anche calare (appuntamenti rimandati, non prendere nota, non preparare l’incontro…).

Una vita eccessivamente attiva: diventa non aver tempo per questo compito che tempo richiede; tutto il resto sembra più efficace, utile, produttivo di questo stare ad ascoltare con frutti a volte così lenti o diversi da quelli attesi.

Mancanza di sensibilità e di ascolto profondo: può essere dovuta ad uno stile personale di eccessiva repressione, un restare alla superficie per paura di scavare, un aver chiuso dei discorsi per sé e quindi non aver voglia di aprirli in altri, per timore di risvegliare ansia e sofferenza.

E ancora: paura di coinvolgersi, una pretesa neutralità per non “esserci” davvero.

Infine, specie agli inizi, paura di non sapere, di trovarsi a trattare cose troppo difficili, come appunto l’interiorità di un altro, di non sapere cosa dire, di non capire il problema e deludere le attese. Tutta questa ruggine blocca l’ago. Ma occorre disincrostarlo, spingere no, ma indicare sì. Se un ago non indica nulla, a cosa serve?

 

6.2 Un ago non sbilanciato

La libertà dell’ago ha una dimensione di passività. Deve andare dove è tirato, non dove vuole lui. Se è sbilanciato in partenza, non legge quel che c’è da leggere. È condizionato da altro, da una taratura non corretta per cui non misura la realtà, ma anche altro, di suo. Questa libertà passiva è lasciar spazio a Dio, non trattenere, saper consentire anche ad un’apparente o provvisoria lontananza.

È sintonizzarsi sui desideri di Dio, senza altri attaccamenti.

Qui la domanda da farsi è: cosa c’è che invece mi tira altrove? Qual è il mio sbilanciamento?

Rispondere non è facile, specie rispondere da soli, senza un altro che aiuti a comprendere. Non basta dire di voler essere liberi per esserlo davvero; non basta dire che è importante non essere condizionati per smettere di esserlo. Ma è importante saperlo.

Se la bilancia su cui pesiamo le valigie prima della partenza segna due chili in meno, e non lo sappiamo, in aeroporto ci incastrano al check-in: ma se lo sappiamo, allora possiamo tenerne conto e, anche se per ipotesi non possiamo aggiustare la bilancia, possiamo usarla lo stesso. Io devo sapere di quanto devia la mia bilancia; anche se non è perfetta, posso usarla lo stesso, ma devo aggiungere due chili a quello che misura. So dunque qual è il mio “sbilanciamento” centrale?

Qui occorre tenere conto che non possiamo rispondere troppo in fretta, perché la prima risposta rischia di essere difensiva. Quando l’ago pende troppo da una parte, subito giustifica il suo pendere sottolineando il rischio di pendere troppo dall’altra.

Qualche esempio: «Chi inconsciamente desidera sottrarsi a richieste esigenti e di fatto fa meno di quel che potrebbe: “Non posso farmi mangiare da tutte queste pretese, non è giusto, uno deve avere i suoi spazi. Io sto imparando a dire di no”. Chi non vuol rinunciare a relazioni gratificanti: “So che in genere basta un’ora di ascolto, ma adesso non voglio essere rigido. Oggi nessuno sa ascoltare, non voglio aver paura di dare tempo alla gente”».

Un rischio facile per chi è accompagnatore, per chi ha già fatto un certo cammino di conoscenza di sé, è fermarsi a ciò che si è già compreso e, anzi, usarlo difensivamente nei confronti di una crescita ulteriore, di un dono di sé sempre nuovo.

Qualche altro esempio potrà ancora essere utile: «Sono sempre stato rigido, basta fare tutto per dovere. Ho imparato a leggere la mia eccessiva responsabilizzazione, ne ho individuato le radici nel mio passato familiare. Ora basta sentirmi in colpa, non sono il salvatore del mondo. Non sono obbligato ad accettare queste proposte…».

Giusto. Ma è possibile che “sotto” il senso del dovere spinga una profonda insicurezza di sé. Adesso che ha capito che il senso del dovere portava a responsabilizzarsi troppo, a notevole costo, e se ne è parzialmente liberato, il senso di inferiorità sottostante, che spinge a eludere quanto sentito difficile, emerge e inclina a evitare iniziative e richieste per paura di sbagliare e rischiare fallimenti.

L’accompagnatore dirà che il suo ago pende verso il troppo dovere e quindi deve starci attento, ma in realtà ora rischia di essere governato dalla paura del fallimento. Oppure: «Sono sempre stato attento a cosa pensano gli altri e ho evitato di dare impressioni sbagliate, avevo paura che dicessero che sono troppo attaccato ai giovani, di passare troppo tempo fuori comunità… Adesso sono più libero dalla paura del giudizio e ho coraggio di fare le mie scelte: incontrare i giovani è importante come pregare».

Ha capito l’importanza che aveva sulle scelte il giudizio degli altri e, dicendosi finalmente libero dallo sguardo critico altrui, adesso la gratificazione che riceve dal lavoro rischia di prevalere su altri valori, come la comunità e la preghiera. Dirà che l’ago pende dal lato della paura del giudizio, ma in realtà rischia di essere governato dalla dipendenza dalle soddisfazioni che riceve: «Dicevo sempre di sì per paura, ma sono cresciuto. Adesso so anche ribellarmi alle pretese eccessive degli altri».

Ha imparato a vedere la compiacenza, ma adesso non vede che emerge l’aggressività che prima aveva paura di vedere e reprimeva, e scambia per libertà dalla compiacenza l’aggressività contro gli altri che percepisce come se volessero sempre imporgli qualcosa. Dirà che il suo ago pende verso la compiacenza, ma in realtà ora rischia di essere governato dall’aggressività: «Tendevo a instaurare sempre relazioni di aiuto con gli altri, ho capito che non è sano e che la santità non è non avere mai tempo per se stessi. Adesso voglio anch’io permettermi di ricevere cura dagli altri e prendermi cura di me stesso».

Il discorso è corretto, ma occorre vigilare. Se il bisogno di aiuto difendeva dal quello di dipendenza, il rischio è che, interpretato come difensivo il bisogno di aiuto, ci si fermi alla gratificazione del sottostante bisogno di dipendenza che invece non è ancora l’ultima parola. Dobbiamo quindi guardare bene se il rischio è davvero quello che mi appare a una prima valutazione, a un primo sentire: il cammino fatto può diventare ancora ragione per ingannarci [9].

Per questo occorre continuare a voler camminare e crescere! Non è solo a servizio della propria maturità, ma è una forma di carità.

Ignazio, scrivendo a Teresa [10], ci ricorda in altre parole questa possibilità di inganno: «Dobbiamo quindi stare molto attenti: se il nemico ci esalta, dobbiamo abbassarci enumerando i nostri peccati e le nostre miserie; se ci abbassa e deprime, dobbiamo elevarci alla vera fede e speranza nel Signore, enumerando i benefici ricevuti e con quale amore e benevolenza ci attende per salvarci.

Il nemico non si cura di dire il falso o il vero, ha interesse solo di vincerci. Lei, quindi, di fronte al nemico della natura umana, che la tenta per toglierle le forze che il Signore le dà e per renderla fiacca e tanto paurosa con insidie e inganni, (…) deve dire e proclamare senza timore: “Sono sua serva e morrò piuttosto che rinunciare a servirlo”. Se il nemico mi presenta la giustizia, io immediatamente richiamo la misericordia; se egli la misericordia, io al contrario la giustizia».

È molto interessante vedere nelle lettere come l’esperienza di vita spirituale di Ignazio non diventa un condizionamento nell’aiuto dell’altro. Poiché la sua esperienza non è stata messa da parte, ma è stata pensata, elaborata, usata per comprendere la comune umanità, allora non emerge inconsciamente a condizionare l’ascolto e l’aiuto. In quello che scrive riconosciamo la sua storia: l’esperienza della prima tentazione, quella della paura della vanagloria, quella degli scrupoli… Nella lettera a Teresa c’è la sua vita, ma non raccontata (perché sposterebbe l’accento dell’incontro su se stessi), non applicata automaticamente come una lettura della esperienza dell’altro, ma riflettuta a sufficiente profondità da diventare esperienza di umanità.

 

  1. Stando nel mezzo… lasci operare

In una relazione di accompagnamento si instaurano processi che richiedono molta libertà interiore. Concetti mutuati dalla pratica psicoterapeutica possono servire per analogia. Ci sono infatti dei processi che si instaurano in ogni interazione significativa per lo sviluppo della persona.

Per esempio, si parla ormai comunemente di rapporto transferenziale, che significa riattivazione nell’oggi, in sede di psicoterapia, di una relazione molto più precoce. In qualche modo questo aspetto transferenziale (il fatto, cioè, che qualità di una significativa persona del passato sono attribuite all’accompagnatore, mentre sono sperimentati i sentimenti di allora), può presentarsi nelle vicende extraterapeutiche di ciascuno. Assieme ad una certa competenza, necessaria per individuare il fenomeno e sapere come affrontarlo, occorre la libertà di trattarlo con grande onestà, senza mai perdere di vista lo scopo della relazione.

Un articolo di Guarinelli [11], da cui attingiamo per illustrare e discutere questo punto, offre la possibilità di trarre qualcosa di utile per le nostre relazioni di aiuto da un altro fenomeno, la cosiddetta identificazione proiettiva.

L’identificazione proiettiva è sia un meccanismo di difesa primitivo, sia un processo di scambio nelle interazioni precoci madre-bambino.

È un meccanismo di natura interattiva, una primitiva forma di comunicazione grazie alla quale il bambino comunica alla madre le esperienze emozionali che lo invadono e dalla madre riceve quelle stesse esperienze in modo per lui ora sostenibile.

Un esempio semplice, che fa intuire di cosa stiamo parlando: osserviamo un bambino piccolo che cade. Prima ancora di reagire, anzi, prima ancora di sapere cosa provare, guarda la mamma. Se la mamma si allarma e dimostra ansia, il bambino si spaventa e piange, se la mamma resta tranquilla, il piccolo si rialza mantenendo la tranquillità. È come se il bambino non sapesse cosa sentire e come reagire davanti a quello che gli è successo. La mamma presta se stessa perché il bambino cominci a sperimentare, perché il piccolo non ha ancora tutti i mezzi, le strutture da usare per organizzare e dominare le sue emozioni primitive.

Da processo normale nei primi stadi di sviluppo del bambino, che non sa gestire affetti intensi, l’identificazione proiettiva può diventare una modalità di interazione adulta patologica, dovuta a confini psichici labili. Ma in realtà qualcosa di questo processo viene in qualche modo attivato anche in un contesto extraterapeutico e con soggetti non patologici.

Cosa succede? La persona, con una modalità inconscia, trasferisce, proietta nell’accompagnatore sentimenti che sono suoi e che sente confusamente cattivi, pericolosi, disturbanti. Con una sorta di pressione interpersonale spinge l’accompagnatore ad assumerli, inducendo inconsciamente una reazione (per esempio, si comporta in modo irritante finché l’accompagnatore si irrita; e inconsciamente la guida si conforma a quell’altro arrabbiato che la persona aveva precocemente sperimentato senza sapere, allora, come trattare in modo maturo), oppure inducendo un affetto che non può controllare in se stesso. Così l’accompagnatore sperimenta sentimenti come se fossero suoi, ma non sono veramente suoi. Per esempio, la guida potrebbe sperimentare una profonda sensazione di impotenza, di “non riusciremo a farcela”, che in realtà non è sua, ma gli viene “buttata addosso” dalla persona che accompagna, che si spaventa davanti ad affetti intensi e non sa come fare a non esserne schiacciata.

Questo è l’aspetto proprio tipico dell’identificazione proiettiva: che la persona induce affetti che la guida può contenere, può vivere con le proprie strutture più mature e può rimandare in qualche modo modificati, resi tollerabili per la persona che, per così dire, li riprende trasformati e può crescere. Fare “da contenitore” significa, ad esempio, accettare di sentire rabbia, ma non accettare le provocazioni, non essere sarcastico, ostile; significa non cedere per paura o per colpa ai desideri insaziabili di cura dell’altro, pur percependoli.

Alla guida è chiesto di “patire” i sentimenti dell’altro, perché l’altro possa riprenderli in forma accettabile, mentre prima erano un peso troppo grande da portare, mantenendo una sufficiente distanza psicologica, in equilibrio tra ascolto empatico (sto dentro) e capacità di osservazione (resto fuori).

Il riferimento all’ascolto empatico suggerisce un rapporto tra identificazione proiettiva ed empatia.

L’empatia, che di fatto consiste nel comprendere affettivamente e nel condividere lo stato psicologico di un’altra persona, sarebbe l’esito positivo del lavoro psicologico attivo di contenimento dell’identificazione proiettiva. Questo significa che fin da piccolissimi si comunica molto profondamente e che l’empatia segnala la conservazione di quella capacità e la sua positiva evoluzione.

Identificazione proiettiva ed empatia, «entrambe evidenziano che il livello più alto della maturità umana non sta nell’impermeabilità del proprio Sé, e nemmeno nella capacità di rispedire al mittente ogni sentimento disturbante».

Accogliere i sentimenti disturbanti dell’altro, contenerli e restituirli trattati diversamente da chi li sa vivere in forma più matura e quindi resi accettabili, questo processo dice che la maturità non nasce dall’escludere l’imperfezione, ma dall’accoglierla, custodirla e restituirla[12].

Accettare il sentire dell’altro, accettare di rimanere dentro l’inquietudine dell’altro, prendendola dentro di sé, reggendola e ridandola rinnovata: non è fuori posto un pensiero al mistero della croce, luogo in cui il male, il negativo è preso, accolto, trasformato nella persona stessa di Gesù.

 

  1. Due piste da esplorare

Altre due piste da esplorare, utili per l’oggi.

8.1 Prima pista: Ago e culture

Ancora a proposito dello sbilanciamento dell’ago e, quindi, della dimensione della passività che fa parte della libertà interiore dell’accompagnamento, oggi è in particolare necessario riflettere sullo sbilanciamento del pregiudizio culturale. L’etnocentrismo, una taratura inconscia che impedisce una comprensione libera, è un pregiudizio di cui certamente si parla, ma su cui forse non si è sufficientemente riflettuto in ambito formativo[13].

 

8.2 Seconda pista: Quando l’ago è donna

La libertà interiore non è un insieme di comportamenti standard. Si mostra con il volto di questo o quell’accompagnatore, che ha la sua storia, la sua personalità. Che è uomo oppure donna.

La femminilità è una sorta di postazione da cui la guida spirituale guarda le cose in una prospettiva leggermente diversa e da cui suggerisce il cammino.

«Accostiamo alcuni passi evangelici. Per esempio, le parabole della misericordia, da un lato quelle maschili del padre e del pastore, dall’altro quella femminile della donna che spazza la casa per trovare la dracma (Lc 15,8-10). Il messaggio delle tre parabole è lo stesso. Ma notiamo la leggera differenza: l’uomo si dà da fare per un figlio su due e poi per una pecora su cento; la donna lavora per recuperare uno spicciolo e ci fa festa. O ancora le parabole del lavoro per la crescita: analogia tra il seme per il contadino (Mc 4,26-29) e il lievito per la donna di casa (Mt 13,33). Anche qui il messaggio è lo stesso: qualcosa di piccolo che ha vita in sé, la forza della grazia. Ciò che è differente è il contesto.

Il contesto del lievito è femminile, la casa invece del campo, la cura interna invece della produzione. L’attività della donna è più dimessa e avviene dentro.

O infine Cana (Gv 2,1-5), la festa tante volte commentata per quello sguardo di Maria su ciò che manca. Tutti bevono, ma Maria vede. O forse altri vedono, ma Maria si preoccupa. O forse qualcuno si preoccupa, ma Maria trova cosa fare: cede il passo e non fa il miracolo lei»[14].

Ora, se questa è la postazione femminile, nell’accompagnamento spirituale possiamo notare che, da una postazione femminile, ci si occupa volentieri del piccolo. La donna, nell’accompagnamento spirituale, può aiutare a far passare la grazia attraverso dettagli che sono trascurabili per gli uomini e importanti per le donne. Da una postazione femminile ci si occupa volentieri del concreto. L’accompagnamento spirituale al femminile ha spesso un accento più esperienziale che teorico, valorizza esempi di vita. Da una postazione femminile l’accompagnamento è vissuto con un maggior coinvolgimento personale. La donna crea legami, tiene dentro con affetto la persona e la custodisce. Ha cura che il processo non si interrompa, non si arrende facilmente, è capace di molta attesa, resiste nelle difficoltà del cammino e non dimentica mai.

Se questa è la postazione femminile, allora il rischio dello sbilanciamento sarà anche diverso, forse, tra uomo e donna. Per la donna il “troppo” che rischia sarebbe che l’attenzione al piccolo diventi ripiegamento; l’attenzione al concreto fiato corto e perdita dello sguardo d’insieme; il coinvolgimento eccesso di protezione, esagerato bisogno di consigliare e risolvere, appropriazione e fatica a lasciar andare… Sbilanciamento sul lato della presenza. Dall’altra postazione, quella maschile, forse non si raccoglie la moneta, non la si cerca; non ci si accorge che il vino è finito; non si fa così attenzione all’interno. Sbilanciamento sul lato dell’assenza. Certamente non si può generalizzare. Ma, nel cercare la propria libertà, si può tener conto che la stessa vocazione alla maternità o alla paternità ha i suoi rischi da tenere d’occhio.

 

  1. Conclusione

La conclusione è un promemoria. Non dimentichiamo il senso del nostro servizio di accompagnatori: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).

Non c’è solo la fame, la sete, la nudità. Ero solo e mi avete ascoltato, dice Gesù. Ero confuso e mi avete aiutato a capire. Ero bloccato e mi avete aiutato a scegliere.

Ci sono anche le opere di misericordia spirituale e di queste sette opere, ben quattro credo entrino a pieno diritto nel servizio di accompagnamento, ora una ora l’altra: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti.

Anche Ignazio fa questo nelle lettere a Teresa:

* ammonisce: «Dobbiamo quindi stare molto attenti: se il nemico ci esalta, dobbiamo abbassarci enumerando i nostri peccati e le nostre miserie; se ci abbassa e deprime, dobbiamo elevarci alla vera fede e speranza nel Signore, enumerando i benefici ricevuti»[15];

* consiglia: «Non si deve trascurare il naturale nutrimento e la distensione dovuti al corpo (…), superando il tempo previsto per la meditazione»[16];

* insegna: «Per meglio spiegare come si produca questa paura, parlerò, anche se brevemente, di due lezioni che il Signore usa dare o permettere»[17];

* consola: «Soprattutto pensi che il Signore l’ama, cosa di cui non ho dubbio. Gli risponda con lo stesso amore, non badando affatto ai pensieri cattivi, impuri o sensuali (…). Come infatti non mi salverò per via delle opere buone e dei buoni angeli, così non mi dannerò per via di quei pensieri cattivi»[18].

Consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti… È una gioia poter fare così tanta misericordia nel nostro semplice servizio!

 

Note

[1] Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, in Gli scritti, ADP, Roma 2007, pp. 165-331.

[2] Cf AA.VV., Resistenza alla vocazione, Ancora, Milano 2006, sul tema: “La chiamata di Dio è irresistibile?”; C. Corbella, Resistere o andarsene. Teologia e psicologia di fronte alla fedeltà nelle scelte di vita, EDB, Bologna 2009, sulla fedeltà alla vocazione.

[3] Ignazio di Loyola, Lettera a Teresa Rejadell (del 18 giugno 1536; MI Epp I 99-107), in Gli scritti, ADP, Roma 2007, pp. 935-941.

[4] P. Rota Scalabrini, L’angelo accompagnatore. Come la Bibbia aiuta a capire la propria vocazione, San Paolo, Torino 2009.

[5] C. Peguy, Il portico del mistero della seconda virtù, Jaca Book, Milano 1978, pp. 33-36 (corsivo a cura della Redazione).

[6] Ignazio di Loyola, Lettera a Teresa Rejadell (del 18 giugno 1536), in op. cit..

[7] Ignazio di Loyola, Lettera a Teresa Rejadell (dell’11 settembre 1536; MI Epp I 107-109), in op. cit, pp. 942-943.

[8] Ignazio di Loyola, Lettera a Teresa Rejadell (del 18 giugno 1536), in op. cit..

[9] Si suggerisce, come complemento, anche se direttamente tocca un altro problema, la lettura di: S. Guarinelli, Cambiamento terapeutico e fallimento vocazionale, in «Tredimensioni» n. 2/2008, Ancora, Milano, pp. 132-146.

[10] Ignazio di Loyola, Lettera a Teresa Rejadell (del 18 giugno 1536), in op. cit..

[11] Cf S. Guarinelli, L’inquietudine dell’altro, in «Tredimensioni» n. 1/2007, Ancora, Milano, pp. 8-18.

[12] S. Guarinelli, L’inquietudine dell’altro, cit., p. 17.

[13] G. Tripani, Formazione e culture, in «Tredimensioni» n. 2/2008, Ancora, Milano, pp. 183-196.

[14] G. Tripani, Accompagnare al femminile, in «Rogate Ergo» n. 10/2008, Ed. Rogate, Roma, pp. 23ss.

[15] Ignazio di Loyola, Lettera a Teresa Rejadell (del 18 giugno 1536), in op. cit.

[16] Ignazio di Loyola, Lettera a Teresa Rejadell (dell’11 settembre 1536), in op. cit.

[17] Ignazio di Loyola, Lettera a Teresa Rejadell (del 18 giugno 1536), in op. cit.

[18] Ibidem.