N.04
Luglio/Agosto 2010

Un purpose to achieve: fine ed obiettivi da raggiungere

Briciole di apprendistato per il direttore del CDV

 

  1. Bisogna tornare all’essenziale

La paura non esiste: è il titolo dell’ultimo romanzo di Fabio Salvatore, pubblicato quest’anno da Aliberti Editore e già in ristampa[1].

Racconta dell’esperienza del cancro, questo scarafaggio invisibile che si è insinuato nella vita di Andrea più di 10 anni fa e che ha portato il protagonista a cambiare molte cose della sua esistenza: basta con una vita fatta di corazze, di barriere, di involucri protettivi, che mascherano la persona. L’esigenza ormai è quella di tornare a fermarsi all’essenziale. Non ha senso ed è ridicolo guardare alla vita con superiorità, con la sicurezza di sentirsi sufficienti a se stessi; inoltre, non risolve nulla temere la vita e perdersi in questa specie di paura, dimenticandosi di vivere. È proprio questo tornare a concentrarsi sull’essenziale che fa nascere il bisogno di una donazione reciproca con un suo amico colpito dallo stesso male, condividendo la stessa esperienza di sofferenza e di malattia. Alla fine il risultato inaspettato è una vera rinascita della vita, attorno al suo vero fine e scopo ritrovati.

 

  1. Nell’epoca della dispersione, dov’è approdato il fine?

Certo, la nostra epoca è in preda al trauma della dispersione, un vero cancro che sbriciola le vite come un muro cadente. Dispersione all’interno della stessa persona fra tutte le sue componenti corpo, sensibilità, intelligenza, volontà, immagine di sé, livello di coscienza, doti profonde. Davvero senza capo né coda.

Dispersione nei rapporti: tra pluriappartenenze ed amicizie/innamoramenti da stelle filanti, che durano qualche stagione e poi si spengono nel dimenticatoio, per lasciare spazio a nuove esperienze.

Valanghe di messaggi sul telefonino, su Facebook, sulla posta elettronica: le generazioni del digitale, che dovrebbero vivere al massimo il contatto con le persone, si isolano invece sempre più nelle loro stanze bunker, sole, senza capacità di parole, disumanizzate, violente e indifferenti; senza spirito critico, abbindolate di volta in volta dall’opinion-maker di turno. Prevale il mondo virtuale all’interno del villaggio globale: un’unica cultura degli affari delle multinazionali e dei comunicatori pubblicitari. Persone squartate dentro come i personaggi della play-station e dei videogiochi. Una gamma infinita di opportunità da scegliere in un oceano di stimoli e proposte, che ti strattonano da tutte le parti. Persone e società in preda alla dispersione.

Anche nella Chiesa, per rispondere, tra le urgenze, la vastità delle richieste particolari e l’inadeguatezza delle forze, c’è il rischio più che probabile di accrescere la dispersione globale più che fermarla, correggerla e curarne la malattia.

Non sfugge al contagio generale della dispersione neppure la Pastorale Vocazionale. Quanti di voi Direttori del CDV hanno solo questo impegno da portare avanti? Credo nessuno. Non è nemmeno solo questo il problema. Ma quante altre cose vi affastellano la mente e il cuore, per cui non si sa più che cosa fare per prima! Come ci dicevamo già qualche tempo fa: «La scarsità degli “addetti ai lavori” e le urgenze straripanti obbligano ad essere completamente assorbiti dai vari impegni pastorali, non con uno, ma con una serie di ruoli affidati, come se fossero il panino Big-Mac della Mc Donald con il gusto di ben dieci strati. E così, alla fine, non sai più chi sei e cosa fare per primo. In tal modo, oltre la crisi di’identità, sei un candidato abbastanza prossimo al burnout. Dunque, essere Direttore del CDV: ma, chi sei veramente?»[2].

Questa è già una buona fonte di dispersione, ma il più viene dal non aver chiara la finalità della Pastorale Vocazionale all’interno della Chiesa, sia universale che particolare, e limitarsi semplicemente all’obiettivo di spremere qualche vocazione in più per far fronte alle necessità impellenti della diocesi e, per questo, riducendosi ad iniziative sporadiche. Anche qui, in troppe situazioni di fatto, una cupa riserva di dispersione, cioè una Pastorale Vocazionale senza capo né coda.

 

  1. Purpose to achieve

Sì, una Pastorale Vocazionale che si rispetti deve avere un purpose to achieve, un fine ben chiaro e degli obiettivi intermedi per raggiungerlo o, almeno, perseguirlo in modo sufficiente. È chiaro, il fine non se lo può dare ognuno semplicemente secondo le sue visuali ed i suoi gusti. Il fine ce l’ha dato la Chiesa, quando ci dice solennemente che la Pastorale Vocazionale nasce dal mistero della Chiesa stessa che è mistero di vocazione, per servire la vocazione di tutti; come mediazione tra Dio che chiama e l’uomo che risponde [3]. Questo fine solenne ed onnicomprensivo deve però articolarsi bene in tre obiettivi specifici, che vogliamo approfondire e comprendere bene.

 

3.1 Prendere coscienza della vocazione

Certamente è una delle cose più disattese del mondo. Eppure tutti hanno il diritto e il dovere di prendere coscienza che non sono stati gettati a caso, come se fossero dei birilli, su questo nostro pianeta, ma, dal momento che esistono, hanno scritto dentro di sé un progetto da realizzare con la loro vita. Un progetto ed un disegno più grande della propria persona, perché non è frutto del fai da te, ma è stato pensato e voluto da chi è più grande di tutti: Dio. Un progetto che ti indica anche il posto da occupare nella società e nella Chiesa, un posto che permette di esprimere al massimo le proprie potenzialità nel canale giusto della propria esistenza e diventa, per ciò stesso, una grande responsabilità verso la propria vita prima di tutto e poi verso la vita di tutti gli altri, per lasciare il mondo migliore di come lo si è trovato.

Mi dirai che questa è la cosa più difficile da far capire e da far accettare alla gente della nostra epoca; in particolare ai giovani, che vivono il rifiuto immediato e senza discussione circa la prospettiva di un progetto predefinito sulla loro vita e preferiscono magari banalizzarla e stracciarla nello sballo e nell’inutilità, piuttosto che entrare nella visuale coscientizzata di un piano di Dio sulla loro vita.

Sì, condivido con te che le cose stanno così. E non saranno né queste mie semplici riflessioni, né i tuoi ragionamenti a convincerli. Però, se si trovano circondati dalle vite riuscite o recuperate di noi adulti, proprio nella prospettiva del progetto di Dio, ti assicuro che non faranno fatica a mettersi in discussione e ad entrare nel nostro giro.

 

3.2 Accompagnare il travaglio della ricerca, scoperta e decisione vocazionale

Se si accetta un piano di Dio sulla propria vita, certamente si è disposti ad incominciare l’avventura della ricerca, della scoperta e della decisione circa la vocazione. Tuttavia non è così semplice come il dirlo con queste poche parole. In realtà si tratta di un processo travagliato, in cui giocano in stretto ingranaggio quattro dinamismi importanti:

– una forte esigenza personale (il bisogno di dare un senso chiaro ed una piena riuscita alla mia esistenza);

– le urgenze del pianeta (la richiesta accorata e traboccante di umanizzare e di promuovere in qualche modo tante situazioni del mondo che interpellano la mia esistenza, perché non la viva esclusivamente per me);

– il timore del futuro (l’inedito della mia vita che mi attira ed insieme mi sconcerta e mi dà ansia, perché senza sicurezze, previsioni certe e garanzie);

– la paura di sbagliare tutto (non sarà tutto un miraggio e un’illusione, frutto della mia fantasia, o di una presunzione allucinata?).

Queste le quattro “ruote dell’orologio della vocazione”, che girano insieme ben sincronizzate e segnano il tempo del travaglio del cercare, dello scoprire e del decidere sul proprio progetto vocazionale.

Tutti, in particolare adolescenti e giovani, vivono questa realtà, anche se sono distratti e storditi dal sistema imbonizzante e presentista della cultura contemporanea. Purtroppo, in tantissimi di loro questo processo a travaglio si risolve in un nulla di fatto, giungendo prima o poi a farsi decidere da altri o da altro, oppure a scegliere di decidere per una vita a scartamento ridotto, molto al di sotto delle proprie possibilità, accontentandosi del ribasso di ciò che è più immediato e costa meno impegno, in base al principio: spendi meno e ti gratifichi di più. Capisci che questo travaglio, in fin dei conti, è una strategia di Dio per condurre a trovare il suo progetto in noi e a deciderci per esso? Purtroppo, invece, si trasforma in un buco nero di energie e di vita sprecata all’insegna di giovani senza vocazione.

Tutto questo dovrebbe metterci dentro un tormento terribile, se non facciamo qualcosa per annunciare il Vangelo della Vocazione e per accompagnare il travaglio di questo parto vocazionale. Dio ci vuole così bene che non si rassegna a lasciarci come un caso senza senso e senza scopo sul Pianeta e vuole prendersi cura di noi, perché nemmeno una briciola di vita vada perduta; perciò ci fa premura, chiedendoci di accompagnare con grande passione ogni giovane verso l’ora X della sua decisione vocazionale. Come? Semplicemente liberando un po’ la matassa – tanto o poco non importa – della loro esistenza, per raccoglierla nel gomitolo ordinato della loro storia, diventata storia di salvezza nel progetto vocazionale di Dio.

Più praticamente? Accompagnando questo processo attraverso 4 passaggi di presa di coscienza e di decisione:

– vocazione alla vita: ho una sola esistenza che mi è stata donata, che è insieme la mia più grande responsabilità verso me stesso e verso gli altri e l’accetto;

– vocazione a Gesù Cristo: sono stato chiamato col battesimo a consegnare la mia vita a Gesù Cristo, perché ne faccia quello che vuole, dal momento che credo che solo lui è capace a realizzarla in pienezza. Quindi è lui che decide quello che devo fare nella mia esistenza: lo accetto;

– vocazione alla Chiesa: se è Gesù che decide quello che devo fare nella vita, questa cosa passa attraverso un’esistenza tutta impostata sul servizio. Con la Confermazione devo essermi orientato per trovare il mio posto da occupare nella Chiesa, che è una famiglia di vocazioni: lo accetto;

– vocazione a me stesso: tutti i tre passi precedenti si raccolgono in quella modalità unica di vita che è la mia vocazione concreta, la quale è già tutta quanta scritta dentro di me. Basta tirarla fuori con cura e tanta decisione, organizzando le scelte che faccio attorno e in funzione di essa: lo accetto.

A questo punto, ho fatto il più dell’obiettivo che mi ero proposto!

 

3.3 Animare la promozione e la complementarietà di tutte le vocazioni a servizio del Regno di Dio nella Chiesa

Non voglio dilungarmi su questo, perché te ne ho già parlato precedentemente. Ti invito perciò a rileggere quanto ci dicevamo nelle puntate precedenti. Cf a proposito:

– Si può fare… 3: Chi sono i miei collaboratori, in «Vocazioni» n. 3/2009

– Si può fare… 4: Camminare insieme. Con chi?, in «Vocazioni» n. 4/2009

– Si può fare… 2: Il quadro teorico…delle idee chiare, in «Vocazioni» n. 2/2010

 

  1. Un po’ di verifica…

Ora ti invito a verificare, tra le molte cose che hai pensato di fare e, magari, hai già messo in cantiere per la Pastorale delle Vocazioni nella tua Diocesi, a verificare la presenza e la forza della finalità giusta.

Metti l’albero del purpose della Pastorale Vocazionale nel tuo servizio: [Allegato 1]

Ponendo teoricamente la valutazione 100 al tuo impegno per la Pastorale Vocazionale nel tuo modo di pensare e nella tua attività, quale percentuale dedichi ai tre obiettivi?

 

Quindi, qual è la percentuale media nel tuo impegno per raggiungere il fine?

 

 

Note

[1] F. Salvatore, La paura non esiste, Aliberti, Ariccia 2010.

[2] B.M. Roggia, Si può fare… 1: Ma chi sono io?, in «Vocazioni» n. 1/ 2009, p. 84.

[3] Ti invito a mentalizzarti bene, confrontando per questo: LG 2; OT 3; Piano pastorale per la Chiesa Italiana/1985, nn. 3-13; Nuove vocazioni per una nuova Europa, nn. 14-19.22.