N.05
Settembre/Ottobre 2010

Fragilità sociale delle famiglie

 

 

  1. Famiglia tra vocazione e scelta: trasformazioni con radici diverse

Non è retorico dire che per ridurre in qualche modo la comples­sità di questo problema è necessario segnalare alcuni fattori ritenuti più influenti di altri, ma sempre nella consapevolezza che non ci sono soltanto una o poche cause a portare alla condi­zione odierna per quanto riguarda i progetti di famiglia, le scelte di vita, desiderate, possibili, praticate da giovani e adulti.

Una tradizione sociologica, ottocentesca ma ricca, ha messo in luce il senso di ciò che veniva indicato come beruf, che in italiano rinvia sia all’idea di vocazione che a quella di professione, entram­be con forte contenuto etico-sociale. La tradizione ebraico-cristiana ha sottolineato con forza la dimensione di missione, di chiamata dall’alto, da Dio, cui segue la risposta, la scelta positiva (del profeta, del discepolo). Oggi si mette in primo piano piuttosto la dimensio­ne della scelta personale, autonoma, che cerca di mettere a frutto i talenti e i desideri individuali: le ricerche empiriche[1] continuano a mostrare che i percorsi dei giovani verso la vita adulta sono sempre più individualizzati, anche se non sono liberi per tutti allo stesso modo, perché soffrono (o si avvantaggiano) ancora in modo consi­derevole delle condizioni sociali delle famiglie di provenienza.

Le famiglie, che sono il nucleo potenzialmente più coinvolgente nella vita quotidiana delle persone, hanno una storia sociale, assu­mono forme profondamente influenzate dai grandi cambiamenti, sia delle strutture sociali, sia delle aspirazioni delle persone, soprat­tutto i giovani. Ed ogni singola famiglia costruisce una propria sto­ria, cui bisogna prestare grande attenzione: al di là delle utili tipologie di famiglie proposte negli studi demografico-sociologici, queste oggi hanno sempre più il volto delle scelte personali, di unione e talvolta di separazione, che le persone fanno, quasi a prescindere da modelli e da norme.

Sulle condizioni economiche e le (dis)attenzioni politiche che rendono difficile la vita di tante famiglie si parla molto sui giornali e nei dibattiti pubblici; il breve percorso riflessivo che qui si cercherà di tracciare sarà piuttosto di tipo socio-culturale, attento alla vita dei soggetti.

Le fragilità e le opportunità di oggi non hanno cause singole e dirette, tra le loro radici hanno una serie di spinte, di svolte – condi­visibili o meno – che hanno generato ulteriori successive trasforma­zioni: alcune vengono percepite come acquisite, date per scontate, altre svalutate o rivalutate a secondo dell’apprezzamento che si dà alle novità portate o alle tradizioni da riprendere (si pensi alle di­scussioni attuali sul Concilio Vaticano II); altre ancora considerate degli eventi prevalentemente negativi (si pensi a molti riferimenti recenti ai movimenti del ‘68), il tutto spesso con semplificazioni che non giovano ad una analisi corretta delle cose.

Alcune trasformazioni culturali si sono rivelate particolarmen­te importanti nello sviluppo della società italiana, che, a partire dall’immediato dopoguerra, è sì cresciuta sulle proprie radici, ma in modo ampiamente condizionato dall’economia, dalla politica e dalla cultura, soprattutto dalla cultura di massa, di altri paesi. Le aspirazioni, soprattutto giovanili, sono cresciute prendendo come riferimento valori e stili di vita diversi da quelli tradizionali, stimo­lati dal nuovo crescente benessere: negli anni ‘50-’60, in Italia han­no avuto successo film come Americano a Roma, Il sorpasso, La dolce vita, che hanno messo in scena tipi di giovani, di donne, di relazio­ni affettivo-sessuali che hanno sollevato scandalo nel modo allora normale di concepire la vita e la morale. Eventi anche lontani, che continuano a lasciare tracce.

L’internazionalizzazione iniziata in quegli anni, oggi diventata – nella forma della globalizzazione – un modo normale, pur sempre problematico, di informazione e di vita quotidiana, ha spalancato le porte a modi di pensare, modelli di comportamento centrati sul­la libertà, sul desiderio di avere, di piacere, di avere successo, di avere più diritti e di poter essere anche più individualisti. A tale apertura le generazioni, allora giovani e attive, sono state stimolate dai movimenti espressivi che andavano nascendo in occidente (ad es. negli USA i movimenti per i diritti civili dei neri, o per il rifiuto della guerra), ma anche dai “figli dei fiori”, che rifiutavano i vincoli delle vite normali, il lavoro dipendente e anche i rapporti familiari tradizionali.

All’interno di quel mondo in grande travaglio, e in anticipo su altri fenomeni di cambiamento, nella prima metà degli anni ‘60 c’è stato il grande evento mondiale del Concilio Vaticano II, che ha vo­luto aggiornare il proprio modo di essere e di guardare il mondo, af­frontandone le angosce e le speranze, valorizzando la dignità di tutti i fedeli per il loro battesimo, il Popolo di Dio e le comunità in cui si articola, la funzione dei diversi ministeri, inclusi quello degli sposi e dei genitori, favorendo la maturazione delle persone (piuttosto che degli individui), di tutte le donne e gli uomini del mondo, a partire dai più poveri. I fermenti di animazione dei fedeli, donne e uomini, laici, istituti religiosi, diocesi, sono stati ampi e fecondissimi, anche se non senza controversie, fino ai nostri giorni.

Alla fine degli anni ‘60 e lungo i ‘70, c’è stata l’esplosione in Europa di movimenti più ideologico-politici, giovanili, femministi, operai. La loro spinta, molto influente, è stata di critica radicale alle istituzioni, ai poteri dominanti, alle diseguaglianze sociali da essi alimentate: contro l’autorità costituita negli stati, nelle acca­demie, nelle religioni, contro il potere economico, contro il potere maschile in tutte le strutture della vita, da quelle più ampie a quel­le più vicine come la famiglia. Proponevano contemporaneamente sia responsabilità collettive per una diversa partecipazione sociale nella società e nel lavoro, sia nuove esigenze di libertà radicali, di diritti individuali di espressione, in tutti i campi, a partire da quelli dell’affettività, della sessualità, delle relazioni personali-sociali. Una diffusa effervescenza, una volontà di cambiare che, nella società ci­vile più generale, ad es., hanno portato nell’arco di cinque anni ad approvare leggi sia per sciogliere il matrimonio sia per interrompe­re volontariamente una gravidanza, sollevando profondi contrasti etici, politici e sociali. Al di là del fatto che – in termini di accetta­bilità civile – i cattolici siano stati compatti contro l’aborto e meno sul divorzio, è stato un passaggio etico-culturale molto influente sia nella società civile che nella Chiesa, perché ha segnato da un lato la legalizzazione di quelle possibili scelte considerate assoluta­mente negative dalla Chiesa, ma, dall’altro, soprattutto il declino della legittimazione in sé della Chiesa a regolare la vita intima delle persone, realtà che in Italia si evidenzia in ogni ricerca empirica su morale e religione[2].

Una delle più forti correnti socioculturali che emergono dalla storia di questi ultimi decenni è l’individualizzazione. Nella società moderna, o tardo-moderna, le tradizioni, le istituzioni civili, cul­turali, religiose, non impongono, se non in misura limitata, la loro impronta valoriale agli individui, non imprimono un’identità per la condizione sociale e religiosa o la provenienza territoriale. Come ha ben chiarito G.P. Fabris (purtroppo recentemente scomparso) nei suoi lavori di sociologia del consumo e degli stili di vita[3], la messa al centro dell’individuo per alcuni versi lo ha lasciato libero dai tra­dizionali vincoli o da destini sociali pre-costituiti, ma lo ha anche lasciato solo nell’incontro-scontro tra i suoi interessi e quelli degli altri individui, il che rende la vita personale e sociale assai più incer­ta e rischiosa di pochi decenni fa.

Gli individui scelgono però due strade diverse: l’individualismo, che implica occuparsi soltanto delle proprie convenienze, riducen­do al minimo possibile le proprie responsabilità, oppure l’individua­lità, che tiene in primo piano la propria esperienza personale, ma in un contesto di responsabilità sociale, ecologica, magari riscrivendo le regole e i diritti-doveri. Forse questa seconda potremmo definirla meglio: personalizzazione, perché l’idea di persona nella tradizione filosofica e teologica ha una connotazione ampia di interiorità e di socialità.

In questo contesto di complessità ed incertezza sociale per gli individui, soprattutto giovani, da anni anche i posti di lavoro sono offerti con vincoli minimi, per cui l’esperienza della flessibilità, e spesso della precarietà, è diffusa soprattutto tra i giovani fino ai 30 anni, se non pressoché normale. Questo ha reso assai più difficile costruire una famiglia e molte coppie scelgono – e sono nello stesso tempo costrette a farlo – di essere flessibili[4].

 

  1. Le trasformazioni dell’intimità

La fragilità per molte famiglie comincia di fatto quando inizia la relazione tra le due persone che scelgono di mettersi insieme. Un sociologo inglese, A. Giddens[5], ha analizzato acutamente le tra­sformazioni nella formazione delle coppie negli anni ‘80-‘90, ed ha chiamato “pura relazione” quella che vedeva diffondersi in misura significativa nella società. In una situazione tipica, che possiamo riscontrare diffusamente anche vicino a noi, due persone si incon­trano, si piacciono, ciascuna di loro sente che il proprio benessere si realizza nello stare con l’altro: l’amore di ognuno si concretizza at­traverso il convergere quotidiano delle proprie preferenze con quel­le dell’altro, con scelte democratiche, senza violenze e con reciproco rispetto e valorizzazione, ma considera, e continuerà a considerare, il suo bilancio costi-benefici come una questione appunto indivi­duale, sua. Perciò costruisce il proprio amore verso l’altro, ed ap­prezza l’amore dell’altro per se stesso, fino a quando ciò lo gratifica, va bene per lui: quando il suo bilancio comincia ad andare in rosso, a sperimentare delle forzature (se non violenze) non tollerate, dei costi che considera non proporzionati, non bilanciati, allora può co­minciare a pensare di ritirarsi dalla relazione, e magari ne esce, per quanto possibile a prescindere da quale possa essere l’esperienza, il bilancio costi-benefici dell’altro (o di altri come possono essere dei figli messi al mondo insieme).

In questo tipo di relazioni affettive, le interazioni familiari sono basate molto sullo scambio bilanciato di servizi e di affetti, reddito, la­voro, doni, piaceri, spazi di libertà, impegni per l’altro o per i figli. In questa “pura relazione” i due individui si amano e stanno volentieri insieme, restano però individui, non costituiscono un nuovo sog­getto sociale con un nuovo bilancio “come coppia”, con una nuova identità condivisa in cui le due persone né si confondono né voglio­no diventare reciprocamente dominanti. Un rapporto democratico, rispettoso, arricchente, ma che fa proprio soltanto fino ad un certo punto l’impegno della cura reciproca, della condivisione del progetto di vita e delle esperienze dell’altro e con l’altro nella gioia ma anche nel dolore e nelle avversità. Le eventuali condizioni economiche e sociali di precarietà influiscono fortemente su queste scelte.

Ma anche coppie che si sono costruite come unità condivisa, come nuovo soggetto, possono in una qualche fase del proprio per­corso arrivare a questo tipo di situazione, di “pura relazione”, conti­nuando a reggersi sul prolungamento al meglio possibile di conver­genze e di scambi bilanciati. Le ragioni e gli affetti che si esprimono in molte delle separazioni, e nei successivi divorzi[6], partono spesso da questo modo di concepire o adattare la strada di coppia. Va regi­strato che in recenti ricerche empiriche, questi eventi, quantomeno la separazione, vengono ammessi come di fatto possibili ed accet­tabili – non certo auspicabili – anche da una quota consistente di persone, donne e uomini, che affermano di andare a messa tutte le domeniche: evidentemente la rappresentazione sociale della sepa­razione e del divorzio si è diffusa sul piano simbolico – e viceversa l’affermazione “quando ci si sposa è per sempre” non è più accetta­ta con convinzione – soprattutto perché viene riscontrata nel pro­prio intorno sociale in coppie “prima” religiose e poi andate in crisi. Quando in una famiglia, anche in famiglie cattoliche, ognuno sta, ma tenendo conto prevalentemente del proprio individuale bilan­cio costi-benefici, la fragilità delle relazioni aumenta, il rischio che gli scambi si riducano o si interrompano è più elevata; e il vivere da separati in casa viene considerato meno sensato.

Vi è un problema di genere da mettere in evidenza, anche per evitare discorsi stereotipati. Nei documenti ISTAT a cui si è fatto riferimento, viene osservato che le separazioni sono chieste più da donne, i divorzi successivi più da uomini; le separazioni sono più probabili quando nella coppia ci sono difficoltà di occupazio­ne, quando la donna è più istruita del partner, quando la coppia si basa su di un rapporto di istruzione, di professione, di ruoli fami­liari diverso da quello tradizionale (marito che produce il reddito e donna che cura figli e casa). Una reazione diffusa tra adulti-anziani è di colpevolizzare la trasformazione della condizione delle donne, mentre invece bisognerebbe considerare più criticamente la diffusa incapacità di molti uomini, giovani e adulti, di armonizzare il pro­prio modo di vivere i rapporti con le donne, giovani e adulte, con la loro dignità, le opportunità di studio, di lavoro, di autonomia e di responsabilità personale e sociale che ne fanno una delle ricchezze della società attuale (il che vale anche per i fedeli cattolici).

 

  1. La fragilità della comunicazione

Un sociologo, tedesco questa volta, N. Luhmann[7], nel corso dei suoi studi teorici piuttosto complessi e non sempre correttamen­te criticati, ha messo in luce una funzione sistemica fondamenta­le della famiglia: la comunicazione sulla comunicazione. Uscendo dall’apparente gioco di parole, in famiglia non sono rilevanti tanto le informazioni che i membri della famiglia, padre, madre, figlio e figlia, si danno reciprocamente su quello che hanno fatto o dovran­no fare, dato il fatto che vivono ruoli e ambienti sociali diversi e sempre più diverse sono le esperienze che, soprattutto i figli, fanno fuori della famiglia: questo è un modo induttivo di concepire la co­municazione. Sono fondamentali piuttosto le interazioni e la con­divisione che essi raggiungono sui modi di pensare, di interpretare, di valutare culturalmente ed eticamente le cose che vengono fatte o progettate, cioè su quelli che sono i “codici simbolici” che rendo­no possibile la comprensione reciproca dei messaggi. È importante raccontare bene o male le cose che si fanno (di cui si occupano moltissimo i genitori per sapere dei figli, dove e con chi sono anda­ti, cos’hanno fatto), ma soprattutto riuscire a condividere il senso delle singole cose che si raccontano, il modo di intendere e valutare la verità, la religione, l’autorità e il diritto, il denaro, l’amore, l’arte, la solidarietà. Interagire sul senso della comunicazione stessa, che è appunto condivisione di modi di pensare e non solo trasmissione di dettagli più o meno abbondanti delle cose.

Nelle famiglie in cui non si condividono quei codici, logicamente non si riescono a capire i singoli messaggi che un partner o un figlio può trasmettere su ciò che compra, che sa, che crede, ecc. Soprat­tutto non si possono costruire una progettazione ed un cammino in comune. Non si rendono condivisibili le passioni, le cose importanti che ciascuno considera davvero valori anche senza bisogno di pa­role. Infatti, tra le persone che vivono faccia a faccia tutti i giorni, per anni ed anni, la comunicazione non verbale è un modo di in­teragire costante e fondamentale attraverso cui ognuno dei com­ponenti del nucleo percepisce ed interpreta per conto suo – senza che si dica nulla – quello che l’altro pensa, ama, gode o soffre. Se non c’è condivisione dei modi di pensare, cosa può capire l’uno dai silenzi dell’altro? Può non capire nulla, o, ancor peggio, interpreta­re in modo sbagliato il sentire dell’altro, peggiorando la vita di sé e dell’altro.

Negli anni recenti, l’individualizzazione della vita ha spinto mol­ti genitori a basare i rapporti con i propri figli sul “lasciarli liberi di fare le loro esperienze, poi capiranno”, ritenendo di far loro evita­re – in un mondo molto cambiato rispetto a quello della propria adolescenza, anche tecnologicamente – quelli che allora erano stati vissuti come vincoli o pesi sgraditi. Hanno cioè avviato loro stessi l’individualismo nell’esperienza famigliare, ritenendo un bene – per sé e per il figlio – che le nuove generazioni si facciano propri valori e scelte pratiche, pagandone poco i costi, senza averne strumenti adeguati di discernimento. Si è così arrivati molto presto ad avere a fianco degli adolescenti, in casa fino a 25 e più anni, che molti degli stessi genitori dichiarano di non capire (cosa che, date le premesse, è del tutto ovvia, e infatti sono aumentati i lavori di psichiatri che si occupano della non comunicazione genitori-figli e dei disturbi psi­chici di entrambi). Adolescenti con i quali, anche se di loro qualcosa riescono a sapere, non sono riusciti a costruire nel tempo se non una condivisione fisica, e negoziati continui su cosa formalmente si può o non si potrebbe fare, depotenziando in anticipo qualsiasi discussione e valutazione (a questo punto rifiutate come moralistiche). Nella lettura di molta cronaca, anche di violenze commesse da ragazzi, o nelle testimonianze di insegnanti sul bullismo, si ri­scontrano diffusissimi i casi di genitori che giustificano comunque i propri figli, anche se hanno commesso reati, violenze, atti di sopraf­fazione, perché a loro dire alla fin fine sono giovani, fanno ragaz­zate, è stato un momento, in fondo sono bravi ragazzi, sono gli altri che non li hanno rispettati, e via discorrendo. E che, anticipando le critiche al proprio carente impegno di responsabilità educativa, rovesciano sugli altri, gli insegnanti, i preti, la TV, internet, qualsiasi altro ambiente, le responsabilità morali: loro hanno altri pensieri.

Con il decrescere vistoso delle nuove nascite e l’assottigliarsi de­gli alberi generazionali, bisnonni e nonni a lungo sopravviventi, ge­nitori, figlio o figlia unici, la scarsa cura della “comunicazione sulla comunicazione” si accompagna ad una carenza, talora ad una rot­tura cognitiva ed affettiva nelle relazioni tra le diverse generazioni, che diventano irrilevanti se non in termini di utilità, per i servizi ed i benefici che gli anziani danno ai nuovi genitori e ai nipoti. La frammentazione tra le generazioni è un ulteriore grave aspetto, psi­cologico e culturale, della frammentazione della società e le nuove tecnologie delle comunicazioni individuali, che potrebbero fornire nuovi mezzi di interazione e di memoria, ne accelerano la perdita di senso.

 

  1. Fragilità della socializzazione religiosa e spirituale in famiglia

Seppure in forma ancor più breve, non si può evitare di sot­tolineare un’altra fragilità delle famiglie attuali. Nelle ricerche sui giovani, sulla trasmissione di valori etici e religiosi in cui essi si sono sentiti coinvolti da bambini, tra le molte cose che emergono se ne possono segnalare almeno due, attinenti ai nostri problemi[8]. Innan­zitutto, in linea con quanto affermato sopra, ognuno di loro, ra­gazza o ragazzo, dai 18 anni in poi, afferma che le cose in cui oggi crede sono frutto di un suo e solo suo percorso di convincimento, al di là del fatto che sia in sintonia o in contrasto con le convinzioni e le pratiche dei genitori. La personalizzazione del senso è un per­corso che l’individuo fa dentro di sé, più o meno riflessivamente, e interagendo con altri di pari età e adulti significativi, percorso che viene rivendicato come condizione imprescindibile e non di rado si dichiara di essersi scontrati con genitori, preti, religiosi, che in vari modi hanno loro posto delle cose “già date”, da credere e da prati­care (come hanno detto alcuni: persone che ti danno risposte ancor prima che tu faccia delle domande).

In secondo luogo, è diffusissima e consolidata la scelta di lasciare pratiche e discorsi religiosi dopo l’eventuale partecipazione ai sacra­menti, quasi come una condizione scontata nel passaggio dalla vita di ragazzo a quella di giovane adulto, autonomo nei pensieri e nelle relazioni. La catechesi e l’eventuale insegnamento della religione hanno dato loro cognizioni religiose in misura anche al di sopra di quanto si possa pensare comunemente, ma è il senso dell’esperien­za di fede (dei genitori e propria) che viene messo in sordina se non negato. La religione in quella fase della vita viene messa in ultimo piano, altre sono le cose ritenute prioritarie per diventare adulti (per questo Castegnaro ha parlato di “religione in standby”, in sospeso). Sono realtà note da anni, soprattutto tra gli esperti di catechesi, ma ancora affrontate con strategie e mezzi di socializzazione religiosa non troppo diversi da quelli tradizionali. Non può non riemergere l’influenza del vissuto concreto, verbalizzato e non verbalizzato, dei genitori, degli adulti e degli anziani del loro intorno sociale.

Negli ambienti cattolici potremmo distinguere tre aree: una, molto ristretta, formata dalle famiglie degli adulti che aderiscono a movimenti religiosi (focolari, neocatecumenali, neo-pentecostali, ecc.), che in genere si impegnano molto a coinvolgere i propri figli nel cammino religioso che hanno intrapreso, vanno insieme alle liturgie, ai raduni, passano periodi estivi in proprie comunità e in cui molti dei figli si integrano, ma anche altri rifiutano; un’altra è formata dalle famiglie che, da fedeli, sostanzialmente delegano la socializzazione religiosa al catechismo e alla preparazione dei ragaz­zi ai sacramenti, quindi ai catechisti, ai religiosi, al prete; una terza di adulti che, pur non essendo fedeli, ritengono comunque impor­tante una socializzazione religiosa dei figli soprattutto per le impli­cazioni genericamente educative e delegano agli ambienti religiosi una formazione etico-sociale, senza ritenersi impegnati loro stessi nei valori e nelle pratiche a cui avviano i loro figli, in forme quindi delegate, ma anche scisse rispetto alla propria vita.

Emergono perciò da un lato interazioni di nicchia basate su ambienti e linguaggi del tutto specifici legati ai singoli movimenti (molto diversi da movimento a movimento), dall’altro interazioni in cui la comunicazione della religione e della fede è di fatto delega­ta all’istituzione ecclesiale.

Al di là dei costanti inviti ai genitori ad essere i primi testimoni ed educatori alla fede, di fatto la comunicazione, nel senso ampio definito sopra, dell’esperienza religiosa e spirituale è rimasta di fat­to una funzione di personale specializzato, che i genitori stessi in­teriormente ed esteriormente delegano. Questo mette in luce una incapacità, un pudore, un’autosvalutazione della propria comuni­cazione religiosa, in moltissimi casi forse un vero e proprio “analfa­betismo di ritorno”, o – in ambiti come quello della familiarità con le Scritture – un analfabetismo tout-court, nel senso che, pur avendo un sentire religioso ed etico, non se ne ha alcuna padronanza rifles­siva di conoscenza e di linguaggio. Una realtà socio-religiosa delle famiglie, quindi, o troppo integrale, o troppo poco, in cui ad essere fragile non è solo la seconda condizione, ma anche la prima.

 

Note

[1] A. Schizzerotto (a cura di), Vite ineguali. Disuguaglianze e corsi di vita nell’Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna 2002; A. Brandolini, C. Saraceno, A. Schizzerotto (a cura di), Dimensioni della disuguaglianza in Italia: povertà, salute, abitazione, Il Mulino, Bologna 2009.

[2] Cf ad es. F. Garelli, G. Guizzardi, E. Pace (a cura di), Un singolare pluralismo: indagine sul pluralismo morale e religioso degli italiani, Il Mulino, Bologna 2003, cui ha partecipato anche chi scrive.

[3] G.P. Fabris, Il nuovo consumatore: verso il postmoderno, F. Angeli, Milano 2003.

[4] L. Salmieri, Coppie flessibili. Progetti e vita quotidiana dei lavoratori atipici, Il Mulino, Bologna 2006.

[5] A. Giddens, La trasformazione dell’intimità: sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne, Il Mulino, Bologna 1994.

[6] Dalle Statistiche in breve dell’ISTAT del 21.07.10, su “Separazioni e divorzi in Italia. Anno 2008”, sappiamo che in quell’anno le separazioni sono state 84.165 e i divorzi 54.351, con un incremento rispettivamente del 3,4 e del 7,3 per cento rispetto all’anno precedente. I due fenomeni sono in continua crescita: nel 1995 si verificavano 158 separazioni e 80 divorzi ogni 1.000 matrimoni, nel 2008 si arriva a 286 separazioni e 179 divorzi. La durata media del matrimonio al momento dell’iscrizione a ruolo del procedimento di separazione è risultata pari a 15 anni, 18 anni in media per i divorzi. Dati precedenti riferiti al 2005 documentavano che in quell’anno i tassi di separazione e di divorzio totali erano circa il 250 ed il 150 per mille.

[7] N. Luhmann, Illuminismo sociologico, Il Saggiatore, Milano 1983; iDEM, Sistemi sociali, Il Mu­lino, Bologna 1990.

[8] A. Castegnaro, Religione in standby, Marcianum Press, Venezia 2008; AA. VV., C’è campo? Giovani, spiritualità, religione, Marcianum Press, Venezia 2010.