N.05
Settembre/Ottobre 2010

Maturazione umana: gestione delle emozioni nella crescita, guida allo sviluppo corretto

La gestione delle emozioni nella vita di relazione è un tema im­portante perché diviene il criterio per valutare se una crescita umana è corretta e completa. I risvolti psicologici che hanno fondamento nelle emozioni entrano in tutte le situazioni della vita relazionale, modificano ad ogni stadio di crescita lo stile individuale di porsi e di apprendere e conferiscono alla persona il colorito de­finitivo che la presenta all’esterno; quel colorito che viene super­ficialmente chiamato “carattere”, ma che sarebbe meglio definire “personalità”. Chi non ha raggiunto un sufficiente sviluppo emo­zionale o non riesce a padroneggiare il proprio mondo emotivo non può ritenersi adulto del tutto: si sentirà sempre fragile, bisognoso di appoggio, timoroso e inquieto.

Nel corso della vita tutti devono confrontarsi con le proprie emo­zioni, per cui non esistono differenze importanti tra persone che crescono con la prospettiva di una vocazione alla vita consacrata e persone che si avviano verso la vita matrimoniale.

Esistono invece differenze notevoli tra la crescita emozionale e l’uso delle emozioni al maschile e la crescita al femminile.

La debolezza psichica è già implicita nella struttura di una per­sona giovane, se per giovane si intende adolescente (e a maggior ragione bambino) o giovanissimo adulto, che oggi va dalla fascia dei fatidici 18 anni della maggiore età alla fascia dei 25/30 anni e può venire estesa a tutti quei ragazzi e quelle ragazze che “non diventano mai grandi” e che le famiglie (e anche le istituzioni) considera­no sempre “ragazzi”, senza responsabilità e senza impegni definitivi per la vita.

Debolezza psichica non significa scarsità di capacità fisiche o in­tellettuali, ma solo incompletezza di struttura, in quanto non è sta­ta ancora raggiunta la maturazione completa che nella vita di un uomo permette l’autonomia rispetto alla famiglia di origine.

Ho appena detto che incompletezza significa quasi sempre non maturazione affettiva o emozionale, ma voglio qui organizzare al­cune idee attorno a questo nucleo, dando una panoramica dei gio­vani come appaiono oggi, in base alle ricerche attuate sul campo e in base, soprattutto, all’esperienza clinica di consultorio sulle pro­blematiche giovanili.

 

  1. Il perché della fragilità: che cosa vogliono e che cosa sentono i giovani di sempre

Non è facile dire che cosa vogliono i giovani di oggi. Vogliono pressappoco quelle cose che hanno voluto i giovani da sempre, che sono state da sempre oggetto di ricerca da parte degli studiosi di psicologia evolutiva o di sociologia dei giovani. Dalle lunghe con­sulenze e dalla pratica quotidiana con le richieste giovanili [1] emerge nei giovani di questa generazione una profonda contraddizione: da una parte sentono una spinta profonda a superare lo status di perso­na incompleta che non conta (nella società, nella famiglia e anche nelle istituzioni ecclesiali) in modo da arrivare quanto prima a mete di autonomia, di indipendenza e di responsabilità; dall’altra però, in linea contraria, mantengono in maniera altrettanto forte una spinta a rimanere in parcheggio a lungo per godersi un poco ancora “il nido caldo” e per inoltrarsi – accanto ai coetanei – nel cammino della vita senza troppa fretta.

Le ricerche sui giovani – almeno in Italia – evidenziano que­ste contraddizioni ormai da anni e i media strumentalizzano spesso questo stato di “limbo giovanile” ora nella polarità della contesta­zione arrabbiata verso un divenire impedito, ora nella polarità di passività e rassegnazione nella quale i giovani “non pensano al do­mani”.

Anche nei seminari e nelle scuole apostoliche, i ragazzi e le ra­gazze che vi entrano appartengono alla generazione che proviene da questo “limbo”.

Tutti i giovani vogliono arrivare allo stato adulto perché la spinta al divenire è la più vera, quella socialmente riconosciuta, quella che conta nelle Istituzioni scolastiche, civili e anche ecclesiali, ma non sempre questa meta è consapevole: negli interessati perché sono ancora identificati nella struttura infantile e nei formatori (inse­gnanti, istruttori, guide di gruppo, ecc.) perché spesso strumenta­lizzano proprio l’inconsistenza dei giovani per mantenere con più facilità “l’ordine e le regole” (tanto reclamato e troppo sottolineate anche nei documenti formativi ecclesiali).

La necessità di diventare grandi e rimanere se stessi, a mio modo di vedere, dovrebbe essere oggetto di studio in tutte le istituzio­ni formative e dovrebbe venire enucleata nei suoi risvolti pedagogici (superamento corretto delle tappe evolutive), sociologici (il distacco dalla famiglia di origine e l’inserimento nel contesto sociale) e poli­tici (le modalità per trovare lavoro, abitazioni e possibilità di auto­nomia).

Purtroppo squilibri familiari e squilibri sociali interferiscono nel­la percezione della dinamica del divenire dei giovani; la stessa ri­flessione pedagogica non ha sufficientemente formulato le conclu­sioni che le Scienze Umane hanno ormai elaborato sul ruolo delle emozioni nella crescita umana, e alla stessa società sembra andar bene che i giovani rimangano in un file protetto, senza interferire sul mondo del lavoro. Le istituzioni formative non sanno quindi pro­porre (meglio sarebbe “imporre”) un iter didattico per la vita emo­tiva, analogo a quello proposto (e imposto) per gli apprendimenti scolastici. Forse per questo in Italia non riesce mai a decollare una politica giovanile.

Sembra che gli insegnanti e i formatori – anche nei seminari e nelle scuole dei religiosi – non abbiano sufficiente fiducia (o cono­scenza?) negli insegnamenti proposti dalla psicologia evolutiva e dinamica. Così il giovane, fragile per la sua posizione di “incompleto”, di­venta, secondo la bella definizione del Diamanti, “specialista del presente”, flessibile nello strumentalizzare tutto quello che gli può essere gradito nel momento attuale e per questo non visualizza il futuro, che non sa differenziare dallo stato presente nemmeno nella fantasia. Egli sente di non “contare” nella società dei gran­di, ma non si rassegna ad essere l’ultimo nella scala di coloro che “contano” perché adulti: per questo rimane fisso nel presente di adolescente.

I giovani attuali tardano a diventare adulti e sprecano di conse­guenza non poche energie.

«Se si analizzano i meccanismi di questo ritardo si scopre che le generazioni più giovani impiegano più tempo di prima nel com­piere una serie di transizioni o passaggi essenziali: si è allungato il periodo di studio; il periodo necessario per trovare un ruolo non effimero nel mondo del lavoro; il tempo per maturare la decisione e le condizioni per uscire di famiglia; il tempo di decisione per la costituzione di una unione stabile; l’intervallo tra la costituzione di una unione e la decisione di avere un figlio. Poiché spesso queste tappe sono in successione, l’intero arco di tempo per compiere il ciclo, o le sue sezioni significative, viene fortemente allungato. Ho chiamato questo complesso fenomeno “sindrome del ritardo” nel­la convinzione che il ritardo nella transizione alla vita non sia solo un adattamento fisiologico ai mutamenti strutturali della società, ma un fenomeno con caratteristiche patologiche che si autoali­menta…»[2].

Questo fenomeno di ritardo, forse patologico, già rilevato – come sottolinea lo stesso prof. Livi Bacci dell’Università di Firenze – negli anni ‘90 del secolo appena trascorso, si rivelò in questi ultimi anni in crescita statistica e si è cronicizzato nella sua struttura.

Le ricerche più recenti hanno definito i giovani come un “uni­verso parallelo” rispetto a quello degli adulti, ma che tende a stru­mentalizzare gli adulti dall’interno delle strutture nelle quali vivono (famiglia e scuola). I giovani vivono in famiglia, frequentano le scuole ma… come se fossero estranei, con valori e prospettive fumosi[3].

Se analizziamo il fenomeno nella sua dimensione psicologica, arriviamo ad una conclusione ancora più precaria: i giovani non hanno imparato ad esprimere i loro contenuti interiori e usano di preferenza il registro dell’infanzia, del logico-concreto (immediato, tutto e subito) perché non riconoscono le loro emozioni e i loro sentimenti e non hanno ancora compiuto il collegamento emozione-pensiero

Grossi studi sono stati fatti in questi ultimi anni nel settore del funzionamento tra emozioni, attività e intelligenza[4].

 

1.1 Il problema delle emozioni

Le emozioni sono un riferimento importante che spinge l’indivi­duo a rapportarsi con il suo ambiente, a operare a favore di se stesso in relazione però con gli altri: sono impulsi ad agire e a comportarsi in modo proporzionato al proprio sentire.

«Tutte le emozioni sono essenzialmente impulsi ad agire; in altre parole, piani d’azione dei quali ci ha dato l’evoluzione (del cervello) per gestire in tempo reale le emergenze della vita. La radice stes­sa della parola emozione è il verbo latino moveo, con l’aggiunta del prefisso e (“movimento da”), per indicare che in ogni emozione è implicata una tendenza ad agire. Il fatto che le emozioni spingano all’azione è ovvio e soprattutto si osservano gli animali o i bambi­ni; è solo negli adulti “civili” che troviamo tanto spesso quella che nel regno animale si può considerare una grande anomalia, ossia la separazione delle emozioni – che in origine sono impulsi ad agire – dall’ovvia reazione corrispondente»[5].

Imparare a riconoscere in sé le emozioni dovrebbe essere un ap­prendimento di base che i bambini imparano sulle ginocchia delle mamme, ma che spesso imparano in modo “drammatico” proprio dalla fretta e dalle alternanze emotive delle loro mamme, prese da problematiche contingenti, e che rafforzano nelle relazioni altret­tanto frettolose con i care giver – spesso ragazzine immature propo­ste per questo servizio da qualche agenzia, o giovani donne venute magari dall’estero – che sostituiscono le mamme impegnate in al­tro. I care giver comunicano al bambino piccolo i loro sentimenti, le loro alternanze emotive e i loro modi di porsi.

L’educazione di base dovrebbe abilitare il bambino a riconoscere le sue emozioni (a leggere cioè il proprio codice emotivo) e a separare sempre meglio il sentire dall’agire.

Anche gli animali hanno emozioni molto intense, in base alle quali “agiscono” con risposta immediata, senza capacità di dila­zione quasi in piena coerenza tra sentire e agire. Nell’uomo, inve­ce, accade che – per effetto dell’educazione – all’agire impulsivo sollecitato dalla emozione intensa deve subentrare un tempo di riflessione (o di filtraggio emotivo), mediante il quale l’azione im­pulsiva viene ritardata e viene anche cambiata di colorito. Questo processo di controllo e dilazione può durare a lungo, ma deve ve­nire inserito tempestivamente, altrimenti l’uomo non è in grado di convogliare le proprie energie verso uno scopo, mediante un atto di intelligenza.

«Il nostro focus sulla trasformazione affettiva o emozionale ha portato non solo ad un nuovo modo di osservare lo sviluppo dell’in­telligenza ma anche ad un nuovo modo di pensare all’intelligenza. Dal nostro punto di vista… l’intelligenza è la trasformazione pro­gressiva delle nostre emozioni da una reazione globale alle sensa­zioni, al pensiero riflessivo di livello superiore. I primi stadi da noi descritti, che trattano le interazioni emozionali co-regolate che por­tano ai simboli, sono le pietre angolari di questo processo. (…) In seguito a studi approfonditi sui bambini apprendemmo che i tratti comunemente definiti come intelligenza, abilità sociali e moralità erano basati sulla capacità del bambino di usare le sue emozioni per riflettere sui problemi nelle diverse aree. (…) Per aiutare bambini con limiti, scoprimmo che bisognava mobilitare le loro emozioni e abilità generative perché imparino a creare idee e a diventare emo­zionalmente intenzionali e interattivi…»[6].

La scolarizzazione dovrebbe andare di pari passo nello svilup­pare le due polarità umane emozionale e cognitivo-ideativa, senza che l’una polarità annulli l’altra. Ma non è così perché dopo la scuola dell’infanzia (e, se si vuole essere generosi, dopo la scuo­la elementare) il mondo della scuola privilegia quasi solo il polo cognitivo e le istituzioni curano quasi esclusivamente gli appren­dimenti – impartiti e controllabili –, mentre il polo emotivo viene trascurato, cioè lasciato ad altri come se la società rinunciasse al ruolo educativo su questo settore per mancanza di “valori” accet­tabili da tutti.

Così le famiglie si trovano sprovvedute di fronte ai bisogni for­mativi dei figli adolescenti: non ci sono programmi formativi ade­guati fatti da esperti e le esigenze di educazione morale (sessuale, relazionale, del lavoro, ecc.) vengono demandate tacitamente al mondo extrascolastico, dove chi si interessa dei giovani è di solito “volontario”, quasi sempre parzialmente preparato a raccogliere la sfida della formazione morale (parrocchie, catechismi, gruppi spor­tivi, gruppi ricreativi, ecc.).

Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: gli adolescenti e i giovani di ambo i sessi sono incapaci di raccordare il loro mondo emozionale agli schemi di vita proposti dalla società. In altre parole, i giovani dovrebbero leggere situazioni “adulte” che non conoscono (come la sessualità mercificata, i modelli aggressivi dei media, la scalata al potere, le discriminazioni del mondo del lavoro, il mondo virtuale dei media, ecc.) con il codice emotivo imparato nell’infanzia, quando le emozioni erano interpretate dalle madri e dalle maestre (o dai care giver).

 

1.2 Il problema di relazionarsi in modo adulto

Gli studi fatti dalle neuroscienze in questi ultimi decenni hanno completato le teorie che cercavano di spiegare la comunicazione adulta: hanno rilevato che la comunicazione è sempre improntata di colorito emotivo, che in qualche modo si aggiunge al messaggio di comunicazione razionale espresso in modalità cognitivo lingui­stica. Hanno descritto il lungo percorso di sforzi e di controlli me­diante il quale ogni persona raggiunge, progressivamente, le mete psicologiche necessarie a collegare immediatamente i processi emo­zionali e cognitivo-ideativi, che ad ogni stadio di sviluppo si perfe­zionano e si completano.

Ogni stadio di sviluppo ha un suo codice emotivo che media la comprensione e l’espressione delle emozioni e delle azioni a quel livello. Chi non aggiorna questo codice nel corso della sua crescita pretenderebbe di valutare sempre le cose della vita col metro infan­tile: rimane nella triste condizione di sentire dentro di sé un nodo confuso di sensazioni (la cosiddetta memoria implicita) che non sa decifrare, ma che crea “disagio”: il disagio di non potersi mai espri­mere e di non sentirsi mai compreso. Con la crescita progressiva non basta più il codice di lettura emotiva infantile incentrato solo sul soggetto (l’egocentrismo infantile descritto dai piagetiani), ma necessita un cambiamento di codice, tale che possa includere l’in­contrare l’altro percepito fuori di sé, per rapportarsi con lui a livello emozionale oltre che operativo. La lettura delle emozioni deve tra­sformarsi progressivamente in modo complementare alla crescita.

La trasformazione di questo codice (che sopra ho chiamato me­moria implicita) comporta un duplice processo: individuazione delle emozioni che lo hanno generato e lo sostengono, e comprensione del contenuto interiore, cioè la capacità di esprimerlo (la cosiddetta memoria esplicativa)[7].

La persona adulta dovrebbe aver compiuto questi passaggi e fare questi passi in automatico, ma molto spesso non è avvenuto così perché, alle singole tappe di sviluppo, il raggiungimento delle mete necessarie – del riconoscimento delle emozioni e confronto dei con­tenuti con il care giver – non è stato risolto bene.

La persona adulta per età cronologica non è sempre adulta (cioè completa) a livello emozionale: rimane talvolta infantile (o adole­scente) a livello di riconoscimento delle emozioni e nell’uso di esse nel contesto relazionale.

Ciò chiarisce molti comportamenti giovanili e molti atteggia­menti difensivi in seno alle istituzioni educative (nei confronti degli apprendimenti) e, soprattutto, nella necessità di formulare un progetto di vita per il futuro, che comporti un impegno di con­tinuità.

«Per queste ragioni, più che costruire il futuro, i giovani sembra­no essersi specializzati nel navigare sul mare agitato del presente e del futuro prossimo. Del domani senza arrivare al domani l’altro»[8].

Lo “specialista del presente” non ha futuro: non lo comprende e quindi non lo può progettare.

 

1.3 Il problema di progettare il proprio futuro nei giovani attuali

Per ogni singolo uomo – come anche per ogni istituzione socia­le – è necessario progettare il proprio futuro sopra basi materiali-economiche consistenti e solide, ma anche sopra risorse umane (spirituali) solide e consistenti. Tutte le istituzioni hanno bisogno di persone adulte perché esigono sempre e da tutti partecipazione mo­tivata a qualche attività. In compenso assicurano vantaggi di status (inserimento sociale e retribuzione economica).

Partono sempre dalla posizione “adulta” della persona. Discerni­mento, formazione e inserimento giuridico dovrebbero garantire la posizione adulta per la vita consacrata; conoscenza, fidanzamento e matrimonio garantiscono la posizione adulta per la vita coniugale; professionalità e contrattualità garantiscono per il mondo del lavoro.

Di questa natura sono tutte le istituzioni. Tali sono sempre an­che le istituzioni di vita consacrata che accolgono individui per la Chiesa.

Tutte quante le Istituzioni hanno una storia collegata sempre a patrimonio materiale (più o meno solido), a carisma spirituale (più o meno avvincente), a proposte apostoliche (più o meno im­pegnative).

L’individuo che vi accede si deve immettere con il suo proget­to per il futuro: un progetto spesso incompleto fatto di desideri informi, ma anche di ricchezza, perché include conoscenze pro­fessionali (studi e titoli), capacità lavorative, capacità espressive e relazionali, motivazioni, ecc. che ognuno porta con sé per seguire il carisma dei Fondatori e il lavoro apostolico ecc. Ognuno si im­pegna a garantire con firma contrattuale un agire responsabile e continuato, che lega dall’interno la persona con tutte le sue mo­tivazioni.

Strettamente connessa a queste strutture è la problematica del­le “vocazioni” perché ogni vocazione sfocia in una professione, pri­ma temporanea, poi perpetua, che richiede alla persona una mo­dalità definitiva, garantita dal contratto sottoscritto per accettare le Costituzioni. La professione perpetua non è un ingaggio tempora­neo, provvisorio, precario, di passaggio per riportarne un giudizio “mi piace o non mi piace”.

Le ricerche che esplorano i desideri dei giovani di oggi (mi ri­ferisco ad alcune recenti ricerche che cito in nota, in modo parti­colare a quella del campione IARD 2002), presentano una visuale giovanile un poco limitata e chiusa rispetto a queste mete “adulte”. Il futuro dei giovani, come emerge dalle ricerche sul campo, è fat­to di prospettive idealistiche sul come prospettarsi la vita, di ideali adolescenziali che ancora li affascinano, di posticipazione rispetto all’uscita definitiva di famiglia o a finire un corso di studi, di man­canza di impegno responsabile di fronte agli ingaggi, ecc. I giova­ni hanno consapevolezza di dover preparare un futuro personale (59%), ma ritengono che fare esperienze interessanti nel momento attuale sia più importante che pianificare un futuro che il 58% del­lo stesso campione sente ancora molto lontano. I giovani sentono la necessità di tenersi aperte molte strade per il futuro (69%), ma soprattutto vogliono avere la certezza che le scelte fatte possono venire modificate sempre anche in seguito (66%).

«La visione del futuro è dunque quella di un vasto campo di pos­sibilità sempre aperte a nuove opportunità e, perciò, a nuove scelte. Sicché impegnarsi in scelte troppo vincolanti non piace o forse non ne vale la pena, infatti, sembra cresciuta la percentuale di coloro che credono alla reversibilità delle scelte compiute: nulla deve ap­parire tanto irreversibile perché ciò che non può essere cambiato diventa un ostacolo alla capacità di adattamento e di risposta a un mondo che sottopone sempre nuove sfide da affrontare»[9].

Le conclusioni dei sociologi della gioventù parlano di fluidità delle decisioni, di precarietà di posizioni psicologiche, di rallenta­mento negli impegni da assumere, ma anche nella pratica clinica di consulenza matrimoniale o di crisi vocazionali ho riscontrato io stesso in questi ultimi anni – purtroppo! – come parecchie situazioni che avrebbero dovuto essere definitive (matrimoni, sacerdozio, voti perpetui, ecc.) nella percezione soggettiva delle persone in difficoltà erano solo prove: «Ho fatto il passo per vedere se mi piaceva» [10].

Ciò dopo soli pochi mesi dal matrimonio, o dopo pochi mesi di esperienza sacerdotale, la situazione non piaceva più.

 

  1. Divenire adulti per poter impegnarsi con tutto se stesso

Ad una certa età tutti hanno smesso in qualche modo di essere bambini ed entrano nel mondo dei grandi. Ma non tutti entrano allo stesso modo, realizzati per il meglio, funzionanti a tutti i livelli come fossero computer della stessa marca che escono dalla stessa fabbrica, che si immettono sul mercato. Ognuno si presenta alle istituzioni con la struttura di personalità che si è costruito, con le cognizioni umane e scolastiche che è riuscito a possedere.

L’azione pedagogica e formativa non può che partire dalla base reale che è la struttura di personalità che l’individuo presenta nel momento in cui accosta l’istituzione, della quale intende assumere il carisma e gli impegni…

“Fare” e “adattarsi” magari per anni a qualche cosa che la perso­na non capisce a livello emotivo, non persuade a livello cognitivo ed è sempre fonte di disagio: un fare “estorto” genera passività e resistenze e non raggiunge il livello di motivazione che smuove li­beramente l’atto volitivo.

 

2.1 Essere se stessi in una struttura religiosa

La perfezione a cui la vita consacrata indirizza la persona che vi accede non è condizione iniziale, ma punto di arrivo che si raggiun­ge a fatica nel corso di una vita intera. È necessario però che il pe­riodo di formazione inserisca in ciascuno il meccanismo spirituale della crescita: una crescita che realizza e completa la persona e la mette in grado di sentirsi se stessa. La “chiamata” in sé può starci anche con difficoltà evolutive, non esige necessariamente condizio­ni ottimali per la sua realizzazione, ma esige la autenticità di ricerca nella verità di sé e delle istituzioni.

Come si può conoscere la verità di una persona che magari è ancora in corso di evoluzione? Come si possono conoscere le moti­vazioni interiori che reggono e indirizzano l’attività di una persona?

C’è solo una modalità: bisogna conoscere la storia evolutiva che solo il soggetto può “raccontare”. Ognuno la vorrebbe raccontare, però, nel contesto di una relazione amichevole e i formatori la do­vrebbero ascoltare con comprensione, alla luce della fede, ma la dovrebbero valutare con competenze psicologiche. L’ascolto delle storie evolutive che contengono le motivazioni e i contenuti inte­riori non si può fare in modo “superficiale”: tali storie costituiscono la pista di comprensione dell’individuo al quale fu rivolta la “chia­mata”.

Se per molti la storia evolutiva è tranquilla e normale, con il co­lorito della solita routine di crescita, per altri può essere stata dram­matica e difficile, tale da prognosticare difficoltà future.

 

2.2 Il discernimento

Il problema del discernimento parte da queste premesse: il forma­tore deve aiutare ognuno a leggere la propria storia, a comprender­ne il valore, i desideri nascosti, le frustrazioni e, se esiste, a scoprir­ne il progetto per il futuro. Valutare se un individuo presenta una “chiamata autentica” di colorito soprannaturale non è cosa facile, ma è necessario che una valutazione venga fatta anche in questa luce. Tale ricerca fatta alla luce della fede coinvolge interessato e formatore delegato dalla istituzione. Ciò innesta però un processo relazionale sull’umano, che spesso non è ben gestito perché troppo spesso il formatore non è competente.

Il lato umano della storia personale esige competenze psicologi­che che il formatore deve acquisire, diversamente fatica a leggere il continuum del presente nel passato delle persone. Troppo spesso i formatori vengono cambiati, spesso non prendono il tempo suffi­ciente per incontri continuativi che possono arrivare al profondo, spesso giudicano inutile parlare del passato quando la preparazione è per il futuro, e quasi sempre le istituzioni non ripensano le espe­rienze di fallimenti basati su motivazioni non vere. Spesso si dice: «Mettiamo una pietra sul passato!», ma le esperienze del passato rimangono nell’interno di chi le ha fatte. Le ansie, le perplessità, le sofferenze e le eterne indecisioni in persone adulte hanno sempre radici nella posizione esistenziale che è sintesi del passato…

Il formatore incaricato dalle istituzioni per il discernimento ri­schia di intessere con gli interessati un dialogo a livello cosciente, basato sopra elementi puramente razionali: entusiasmo per una vita nuova, presentazione di proposte interessanti (spesso eroiche o eccezionali), delucidazioni legate al carisma dei fondatori… ma non arriva ai contenuti che sostengono concezioni distorte della vita consacrata, posizioni irrealizzabili verso il futuro[11], o rassegnata posizione di non contare nulla.

Rischia cioè di “imbottire” i candidati con ideali che essi pren­dono sul piano cognitivo, ma accolgono come hanno accolto i con­tenuti scolastici, per dovere, senza comprenderne le implicazioni di valore emozionale, che impegnano sulla linea della vita.

Per questo giovanissimi uomini da poco ordinati sacerdoti (ana­logamente a giovani da poco sposati) entrano nel ministero (o nella vita matrimoniale) per… accorgersi che “non mi piace più; il sacer­dozio (o il matrimonio) non è come lo pensavo”… Quindi?

La conclusione che essi tirano è spesso riduttiva e deludente: ritornare a casa per fare ancora un poco il figlio o la figlia di fami­glia accanto ai genitori che ormai “non possono più impormi quello che vogliono loro” e “mi godo un poco la vita dopo tante fatiche”, oppure “devo ricominciare tutto di nuovo, ma senza le imposizioni familiari (o istituzionali) che ho subito”, come se dovesse ricomin­ciare una nuova vita, distaccata e lontana da quella finora vissuta, portata avanti magari fino verso i trenta anni[12]!

 

2.3 L’accompagnamento

Spesso accompagnare un giovane (o una ragazza) verso la verità di sé comporta la correzione di alcuni tratti psicologici male inseriti nella personalità (ad es. l’incapacità a stare agli orari, a mangiare alle ore dei pasti, a non scambiare il giorno con la notte, a rinuncia­re a certe vacanze e a certi amici o amiche, ad assumere abitudini di comportamento sociale collegate al rispetto degli altri…). È facile tutto questo?

L’accompagnamento spesso si tramuterebbe spontaneamente in psicoterapia[13], ma la psicoterapia non dovrebbe continuare a lungo (condizione sine qua non) come il supporto senza il quale il soggetto non sta in piedi, come una protesi per poter continuare: dovrebbe essere funzionale a raggiungere nel soggetto un equilibrio suffi­ciente.

La vita religiosa (almeno quella di vita attiva!) non è un “am­biente protetto” per persone incapaci a reggersi da sole, dove i pro­blemi del quotidiano sono risolti da qualcuno e i membri devono fare solo quello che il superiore, o la superiora, ordinano. Oggi la vita consacrata non è più quella delle comunità medioevali, nelle quali la persona doveva solo obbedire; oggi la persona consacrata è chiamata ad una vita impegnata e responsabile che solo persone adulte possono esplicare come servizio alla Chiesa, mediato dal ca­risma di fondazione. La persona deve poter lavorare in condizioni svariate, in posti diversi, in modo spesso autonomo senza andare in crisi, almeno analogamente a quanto fanno uomo e donna nella vita matrimoniale.

L’accompagnamento avrebbe lo scopo di aiutare la persona a diventare adulta, rispettandone i ritmi evolutivi, in modo che le istituzioni possano contare su persone adulte e responsabili. In casi di conflitto non esito a dire che il servizio alla crescita personale ha una corsia di precedenza rispetto alle esigenze della istituzione, perché l’individuo inserito nella istituzione senza la possibilità di diventare se stesso sarà scontento e si chiuderà presto o tardi nella difensività che nuoce alla persona e alla istituzione.

 

2.4 La psicoterapia

Dall’esperienza clinica devo tirare una conclusione un poco ri­duttiva in proposito. Chi avesse bisogno realmente di psicoterapia continuata (nelle forme di psicoterapia del profondo, di cure psi­chiatriche prolungate, di assistenza psicologica legata a qualche nu­cleo di mancanza di identità, come ad esempio sono omosessualità, forme asociali, gravi fobie ad affrontare gli altri ecc.[14]) non sarebbe nella condizione di entrare nella vita consacrata fino a quando – a detta del medico psicoterapeuta – non ha risolto definitivamente tali problematiche e non è in grado di “stare in piedi da solo”.

Si troverebbe sempre a disagio e non sarebbe in grado di vivere la vita comunitaria entro i limiti di tolleranza delle Costituzioni del­le varie istituzioni. Tali problematiche sarebbero controindicazioni perché la convivenza comunitaria non è incentrata sui bisogni indi­viduali (istintuali), ma su strutture rette da motivazioni istituzionali compatibili con le Costituzioni (il carisma dei Fondatori), dove i bisogni degli individui sono quasi sempre ridotti alle esigenze fon­damentali di mangiare, dormire, abitare e lavorare.

 

2.5 Il contatto con il proprio mondo affettivo

Chi entra nella vita religiosa – come chi entra nella vita matri­moniale – non dovrebbe mai perdere il contatto con la propria affet­tività, anche se impegni di lavoro o contingenze della vita spingono spesso a trascurare proprio l’aspetto affettivo che serve all’equilibrio interiore.

Nella vita consacrata si insiste troppo su mete spirituali che ope­rano talvolta un distacco interiore tra mondo emozionale e mon­do razionale. Il Perfectae Charitatis dice dei religiosi: «I membri di qualsiasi istituto avendo di mira unicamente e sopra ogni cosa Dio, congiungano tra loro la contemplazione, con cui sono in grado di aderire a Dio con la mente e col cuore, e l’ardore apostolico, con cui si sforzano di collaborare all’opera della Redenzione e dilatare il Regno di Dio» (PC 5).

Ma a che prezzo? Molto spesso soltanto a prezzo di repressioni, che sono sempre contrarie al bene della persona. La vita consacrata richiederebbe invece motivazioni vere, non basate sopra repressio­ni, accettate anche nel profondo e partecipate. Ma chi ha problemi quasi sempre non ha fatto una sintesi buona tra razionale e affettivo.

Voglio concludere con una bella citazione di C. Gustav Jung, il grande psichiatra psicoanalista di Zurigo, che impostò la compren­sione della vita dinamica esistente in ogni persona:

«(…) La vita psichica dell’uomo civile è ricca di problemi: non solo ma non la si potrebbe concepire senza di essi. I nostri processi psichici sono per la maggior parte riflessioni, dubbi, esperienze; fe­nomeni tutti che la psiche istintiva inconscia del primitivo, si può dire, non conosce affatto. Dobbiamo questi problemi all’allargamen­to della coscienza; tali sono i dati funesti della civiltà. L’allontanarsi dall’istinto o l’erigersi contro di esso crea la coscienza. L’istinto è na­tura e vuole natura. Al contrario, la coscienza non può volere che la civiltà… Quanto poi più noi apparteniamo ancora alla natura, tanto più noi siamo inconsci e viviamo nella sicurezza dell’istinto privo di problemi. Tutto quanto in noi è ancora natura, teme ogni problema, poiché problema significa dubbio, incertezza, possibilità di diverse strade. Ma quando diverse strade ci appaiono possibili, noi abban­doniamo la guida dell’istinto e diamo libero ingresso alla paura. A questo punto bisognerebbe che la nostra coscienza facesse ciò che la natura ha sempre fatto verso i suoi figli: cioè che essa prendesse una decisione sicura, priva di qualsiasi dubbio, univoca. (…) Ognuno si allontana volentieri dai problemi e quando è possibile preferisce non menzionarli; o meglio negare la loro esistenza. Ognuno deside­ra che la vita sia semplice, sicura e senza ostacoli; ecco perché i pro­blemi sono tabù. L’uomo vuole certezze e non dubbi, risultati e non esperienze, senza accorgersi che le certezze non possono provenire che dai dubbi e i risultati dalle esperienze…» [15].

 

Note

[1] Ricordo che l’autore di questa relazione vive e lavora nel grande “Istituto S. Zeno” dei Salesiani di Verona, dove ha diretto per decenni il Centro di Orientamento COSPES, in seno al quale ha tenuto sempre in prima persona il consultorio vocazionale e la consulenza per le difficoltà nella vita consacrata. Ha scritto parecchi contributi in materia all’interno della pub­blicazione (purtroppo ormai esaurita) sull’argomento: P. Dal Core (coordinatrice), Difficoltà e Crisi nella vita consacrata, Elledici, Torino 1996.

[2] M. Livi Bacci, Quanto “contano” i giovani?, in i. DiaMaNti (a cura di), La generazione invisibile, Il Sole 24 Ore, Milano 1999, pp. 33-34.

[3] L’ultima ricerca autorevole che conosco è quella multidisciplinare realizzata dalle Facol­tà di due prestigiose Università (Torino e Bologna): F. Garelli, A. Palmonari, L. Sciolla, La socializzazione flessibile. Identità e trasmissione di valori tra i giovani, Il Mulino, Bologna 2006. Da questa ricerca prenderò vari concetti che utilizzo in questa relazione, ai quali attacco la mia esperienza clinica.

[4] Cito fra tanti alcune pubblicazioni che non dovrebbero mancare nel bagaglio del for­matore: j. lE Doux, Il cervello emotivo, Baldini Castoldi Dalai, Milano 1998; S.I. Greenspan, L’intelligenza del cuore, le emozioni e lo sviluppo della mente, Mondadori, Milano 1997; E.R. Kan-Del, Psichiatria, psicoanalisi e nuova biologia della mente, Raffaello Cortina, Milano 2007; S.I. Greenspan, S.G. Shaker, La prima idea, l’evoluzione dei simboli, del linguaggio e dell’intelligenza, Fioriti, Roma 2007.

[5] D. Goleman, Intelligenza Emotiva, Rizzoli, Milano 1999 (originale inglese 1995). Libro fortuna­tissimo che creò opinione in tutto il mondo, basti pensare che dal 1995 al 1999 ci sono state ben 35 edizioni. Per una introduzione a questa problematica rimando ad un mio recente studio pub­blicato in due articoli nella Rivista dell’Università dove insegno Psicologia dinamica e proiettiva: Fontana, Affettivamente “selvaggi” o affettivamente “educati”?, in Rivista ISRE, XI, 2004 n. 1, pp. 88-103; e U. Fontana, L’educazione del cuore, in Rivista ISRE, XI, 2004, n. 3, pp. 54-66.

[6] S.I. Greenspan, S.G. Shenker, op. cit., pp. 230-231.

[7] Ivi, pp. 240-241. Cf anche M. Mancia, Sentire le parole, archivi sonori della memoria implicita e musica del transfert, Bollati Boringhieri, Torino 2004.

[8] I. Diamanti, op. cit., p. 20.

[9] P. Del Core, Atteggiamenti e stili decisionali degli adolescenti e dei giovani, in Rivista di Scienze dell’educazione, Auxilium, Roma, XLV, n. 1, 2007, pp. 55-77. Ivi, pp. 63-64. La prof.ssa Pina Del Core della Università Auxilium di Roma si rifà nel suo interessante articolo alle ricerche IARD 2002 (della quale è collaboratrice), alla ricerca garElli del 2006 e cEsarEo del 2005.

[10] Interessanti per conoscere il contesto in cui vivono i giovani oggi sono i libri del sociologo Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari 2000; Z. Bauman, Amore liquido, Laterza, Bari 2008.

[11] Nella mia esperienza di consulente ho trovato candidati al sacerdozio che fantasticavano di divenire vescovi, altri che volevano girare il mondo a propagandare il valore delle proprie idee, altri che volevano raggiungere notorietà come cantante o pittore. Cosa che le famiglie degli interessati non potevano sostenere o accettare…

[12] Non si creda che esagero quando faccio queste affermazioni. L’esperienza clinica di con­sulenza per richieste di annullamento del celibato in campo sacerdotale, o di annullamento di matrimonio in settore matrimoniale, spesso si sono concluse con la persuasione che gli interessati fossero proprio in queste condizioni. Anche nella psicoterapia delle difficoltà pa­storali o delle crisi matrimoniali si arriva quasi sempre a conclusioni simili. La grande azione pedagogico-terapeutica che si dovrebbe impostare sta proprio nella parola “prevenire” tutto questo. Cito uno per tutti un recente libro che narra una storia vera di preparazione al sa­cerdozio, inadeguata da tutti i punti di vista: F. Bollettin, Bianco e nera, amanti per la pelle, Gabrielli, Verona 2008.

[13] Ho scritto questi argomenti in modo più dettagliato in un libro abbastanza recente (ora purtroppo esaurito): U. Fontana, Senza perdersi. Professionalità e relazioni pastorali, Il Messaggero, Padova 1995.

[14] Sono considerati disturbi di personalità, che, a mio modo di vedere, sarebbero controin­dicazioni per la vita consacrata, tutti quei disturbi classificati sugli assi I e II del DMS-IV che comprendono i disturbi gravi dello sviluppo e i disturbi gravi di personalità. Per una compren­sione più facilitata rimando alla monografia che può andare in mano anche ai formatori non specialisti: F. Allen, M.B. First, Il libro della salute mentale, per riconoscere i disturbi della psiche, Pratiche Editrice, Milano 1999. Per un approfondimento più specialistico vedi: C. Scharfetter, Psicopatologia generale, una introduzione, Fioriti, Roma 2004.

[15] C.G. Jung, Gli stadi della vita, in Opere, vol. 8, pp. 415-432. Citazione, 415.416.