N.01
Gennaio/Febbraio 2011
Studi /

Creazione e Rivelazione: presupposti della chiamata divina

Nella voce «Rivelazione» del NDTB si inizia osservando che il concetto di rivelazione non è «terminologicamente fissato nella Bibbia. Non c’è quindi un vocabolario fisso cui attenersi, anche se non mancano espressioni privilegiate, prima fra tutte “parola di Dio”».[1] Proprio questa espressione pregnante ci permette di legare insieme Rivelazione e Creazione come dato in Gen 1. Qui la ‘parola di Dio’, meglio il ‘suo dire’, diventa momento rivelativo della sua natura e sorgivo dell’esperienza ‘mondo’. In Gen 1 e più estesamente in Gen 1-11, creazione e rivelazione si configurano come presupposti della chiamata divina che prenderà corso con Abramo.

Ora pensare i presupposti significa muoversi secondo una duplice direzione: da un verso sono presupposti perché vengono prima di ‘qualcosa’ e in tal senso la fondano, dall’altro lo sono perché ne determinano la finalità, in tal senso ne sono il progetto. La Bibbia – specialmente nelle pagine genesiache – parla di Dio come presupposto, come principio del mondo. Esso però non è ridotto a mero principio del mondo, ma bensì segna l’inizio di una relazione tra Dio e il mondo. È poi un principio che vuole «permeare e trasformare, in qualità di principio dinamico, tutto ciò che esiste. Esso è un principio, il cui dinamismo scaturisce dal fatto di essere costituito alla luce del fine a cui questa relazione collegante il Dio creatore e la ‘sua’ creatura tende».[2]

I narratori biblici erano affascinati dalla creazione non tanto perché essa esprime qualcosa che prima non c’era, ma bensì dal fatto che con la creazione si mette in movimento qualcosa di nuovo che prima della creazione così non esisteva né poteva esistere. Non sono interessati al fatto che qualcosa fu creato ma al che cosa fu creato e per che cosa fu creato. In questo senso, la creazione per gli uomini biblici porta in sé un progetto che è stato dettato da una parola che precede la creazione, ma nello stesso tempo ne costituisce anche la finalità.

Nelle pagini seguenti indagheremo due testi di creazione, Gen 1 e Gen 6-9, appartenenti a quella tradizione sacerdotale (siglata con P = Priesterschrift «scritto sacerdotale») che ha avuto il merito di fissare, più delle altre, la riflessione sull’origine del mondo e dell’uomo e per ciò stesso anche sulle loro finalità/progetto.[3]

Genesi 1 e il sogno di Dio

Uno strano personaggio

Nella prima pagina della Genesi protagonista indiscusso è Dio (’Elōhîm) e lo è in una forma del tutto particolare. Infatti in Gen 1 Dio, con il suo “dire” («E Dio disse») introduce ogni cosa, egli, però, non viene introdotto. Dio è già presente in scena con il primo versetto della Genesi. Ogni giorno si apre poi con Dio che parla. Tutte le dieci volte che Dio parla, egli chiama qualcosa all’esistenza. Il parlare di Dio costituisce qualcosa di inedito, di totalmente nuovo.[4]

In un racconto è normalmente il narratore a introdurre in scena i personaggi: è sempre la sua voce narrante a fornire le informazioni e a formulare le parole, i pensieri e le emozioni del personaggio, sia esso un uomo o un essere divino. Avviene così anche in Gen 1 perché il narratore introduce Dio facendolo parlare.

Ora, però, come racconto di creazione, Gen 1 si prefigge qualcosa di più: il suo valore e la sua funzione si fondano sul presupposto che si trascende il confine tra finzione e realtà. Nel processo di comunicazione tra il testo e il lettore, Dio non agisce esattamente come un personaggio rinchiuso nel mondo del testo. Quanto questo personaggio dice e fa nella fiction narrativa costruisce, a poco a poco, un mondo in cui il lettore scopre essere quello nel quale lui stesso vive. Col suo ‘dire’ e col suo ‘fare’ all’interno del racconto, infatti, Dio sistema e mette in ordine il mondo che il lettore può osservare nella realtà. Dio trascende quindi i limiti tra fiction e realtà, mentre la fiction del racconto appare fin dall’inizio capace di influenzare la realtà del lettore. Ad esempio, il detto di Dio «sia la luce» è un enunciato ‘performativo’: non si limita cioè a dire qualcosa, ma produce e instaura ciò che comunica; la sua frase fa sorgere, esistere la luce. Solo dopo che Dio ha detto: «Sia la luce» il narratore afferma: «E la luce fu», come se l’autorità dell’enunciato sia quella di Dio, non del narratore. In questo senso gli enunciati di Dio risultano costitutivi per quelli del narratore. Questo non è privo di conseguenze per l’interpretazione stessa.

Proviamo a leggere il testo tenendo fisso il ‘punto di vista di Dio’ che è quello fatto proprio dalla voce narrante. Dio crea attraverso un processo di separazione che viene sempre innescato dalla sua parola. Così, questo personaggio che non è descritto da nessuna parte, appare sotto la modalità di una ‘parola’ che opera e garantisce delle distinzioni, delle separazioni. Queste separazioni fondano la differenza di ogni realtà e di ogni essere ponendogli dei limiti. Ma lo fa per iscrivere ogni realtà creata in una rete di relazioni in cui trova il proprio posto, la propria utilità, la propria fecondità. Il personaggio divino appare perciò come un’istanza fuori campo – tutt’altro che fuori mondo – nella quale trova origine qualsiasi alterità, una ‘voce fuori campo’ che dice che l’uno non è l’altro, che fa e che pensa che questo è bene, molto bene.[5] Inoltre, questa istanza è onnipotente, perché la sua parola gode di una sovrana efficacia e ciò che vuole e fa si impone su tutto quello che esiste. Ne consegue che ogni creatura dalla più grande alla più piccola, non può essere diversa da quello che è e lo è perché lo riceve da un ‘altrove’.[6] Detto in altri termini, il creato con al vertice l’uomo non si autofonda, il mondo non è una realtà autofondata.

È per questa ragione che il racconto di Gen 1 travalica i confini del semplice ‘racconto di creazione’. Esso è un’interpretazione teologica di invariabili criteri di giudizio che caratterizzano ogni realtà creata com’è percepita dagli uomini: iscrizione nel linguaggio, origine inafferrabile, alterità, limite e relazioni.

Nel testo genesiaco si assiste a un capovolgimento: non sono gli esseri umani a elaborare una proiezione di Dio, ma è Dio che fa o ‘progetta’ gli esseri umani. In questo, il punto di partenza nella Bibbia diverge dalle nostre categorie mentali. L’illuminismo e le correnti soggettivistiche successive ci hanno insegnato ad attribuire una posizione centrale al soggetto umano: gli esseri umani immaginano Dio, se lo raffigurano con immagini umane. Il pensiero postmoderno, le scienze naturali, la letteratura e l’arte hanno in comune il fatto di prendere come punto di partenza le categorie, la percezione e l’esperienza umane. Ogni cosa dipende dalla prospettiva umana. Ora, al contrario, Genesi rivela un’ottica e una prospettiva fondamentalmente diverse. Ciò che è centrale non è l’essere umano che pensa, vede o parla, ma Dio che parla ed agisce. L’iniziativa nel parlare e nel creare, così come l’avvio, sono competenza di Dio, non degli esseri umani.

Le caratteristiche del personaggio divino ci permettono di evidenziare che la sua parola è fondamentale ed essenziale per le creature. È una parola ‘progetto’ che fonda ogni realtà.

Il progetto di Dio

Il primo racconto della creazione in Gen 1,1-2,3 contiene diversi elementi sul progetto divino. Mi limito a parlare della creazione dell’umanità perché riguarda da vicino il tema della parola-progetto. Ecco il testo:

26Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”. 27E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò. 28Dio li benedisse e Dio disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra”.

Due sono i punti interessanti: la creazione della persona umana a immagine di Dio e il dominio dell’umanità sulla terra. La Bibbia ha racchiuso in queste due espressioni l’essenziale del ‘sogno’ di Dio a proposito dell’umanità, un sogno che purtroppo non si è realizzato come il Creatore sperava.

L’immagine e la somiglianza di Dio

«Facciamo l’uomo secondo la nostra immagine (ṣelem), come nostra somiglianza (demût)». I due sostantivi in ebraico sono sinonimi. Il primo è un termine concreto che indica un’immagine plastica, in particolare una scultura (1Sam 6,5; 2Re 11,18), comprese delle statue di Dio (Ez 7,20; Am 5,26) proibite dalla legge (Dt 4,15-19). Si tratta quindi di una rappresentazione, di un ritratto. Per quanto riguarda il termine astratto demût, deriva dal verbo damah che significa «essere come, somigliare». Indica la «somiglianza» tra due realtà paragonabili per il loro aspetto (Ez 1,26; 2Cr 4,3) oppure tra una copia e l’originale (Is 40,18; Ez 23,15).

Vari sono stati i tentativi di spiegare questa doppia espressione «immagine e somiglianza».[7] Ne riportiamo due interessanti per il nostro studio.

Immagine e somiglianza come relazione

Una prima linea interpretativa mette a tema l’immagine come relazione. Infatti, l’uomo è creato a immagine di Dio per poter entrare in dialogo e in relazione con il suo Creatore; i Padri della Chiesa definiscono l’uomo capax Dei.[8] La Bibbia qualifica questa ‘relazione/capacità’ come alleanza (cf. Gen 9,1-17). È stato il teologo protestante K. Barth nella sua opera Dogmatica della Chiesa a formularla in modo sistematico (III,1,183-187).[9]

Immagine e somiglianza come rappresentante di Dio

Ispirandosi a un’idea diffusa nel Vicino Oriente Antico (= VOA) che utilizzava la terminologia dell’immagine applicata al re, si è proposto di vedere nell’essere umano il rappresentante di Dio sulla terra. Ma mentre in Mesopotamia ed Egitto si parla volentieri del re come ‘immagine di Dio’, il testo della Genesi, con un processo di democratizzazione, estenderebbe questo concetto a tutta l’umanità. Non è più il privilegio del sovrano, ma una qualità e una funzione di ogni essere umano.

Ora la funzione regale viene descritta soprattutto nel ‘dominio sugli animali’ (v. 28).[10] ‘Dominare’ è certamente una funzione del re, come mostrano 1Re 5,4 ed Ez 34,4. Il Sal 8 parla anch’esso della sovranità dell’essere umano sugli animali:

«6Tu lo hai fatto dominare sulle opere delle tue mani, hai posto ogni cosa sotto i suoi piedi:
7pecore e buoi tutti quanti e anche le bestie selvatiche della campagna; figli uccelli del cielo e i pesci del mare, tutto quel che percorre i sentieri dei mari».

Il verbo adoperato dal Sal 8 nel v. 6 non è il verbo che troviamo in Gen 1,28; il senso, tuttavia, è identico.[11]

Si può aggiungere che, nel VOA, la statua del re era vista come rappresentante dello stesso sovrano, allo stesso modo in cui l’immagine di un dio (un idolo) lo rappresentava nel senso letterale della parola, vale a dire, lo rendeva presente, per esempio nel tempio. Secondo Gen 1,26, pertanto, ogni persona umana rende Dio ‘presente’ in questo mondo ed è il suo ‘testimone’.[12]

L’elemento critico di questa interpretazione collima con l’originalità della proposta: l’estensione dell’idea di ‘rappresentanza’ a tutta l’umanità. Come può tutto il genere umano ‘rappresentare’ Dio? Non deve essere necessariamente un individuo? O almeno un piccolo gruppo scelto?[13] Dobbiamo ricordare che il mondo biblico ha dimestichezza con l’idea della ‘personalità collettiva’ e quindi l’obiezione non regge del tutto; inoltre Wenham argomenta che nel racconto di Gen 1 la prima coppia è ‘sola’ e così ‘rappresenta’ come tale tutta l’umanità.[14] Questa situazione permette di capire meglio il significato dell’espressione che si applica, in questo caso, a due individui.

Per quanto riguarda il dominio sugli animali, ci si può chiedere se questo dominio sia l’essenza dell’immagine di Dio o una sua conseguenza. Ma anche in questo caso, si deve dire che il pensiero biblico non distingue sempre chiaramente fra persona e funzione. Per esempio, il re è re perché regna.

In conclusione, come osserva Ska,[15] possiamo dire che l’espressione «a immagine e somiglianza di Dio» rimane difficile da spiegare con precisione. Poiché essa è polivalente e complessa, occorre resistere alla tentazione di restringere il suo significato all’uno o l’altro dei suoi aspetti.

Cerchiamo di cogliere nel testo elementi che permettono di elaborare un’interpretazione ragionevole e conveniente di questo difficile passo. Il passo si stacca dalla narrazione precedente, non solo per la presenza del plurale «facciamo», ma anche per altre variazioni.

Delle piante e degli animali il narratore dice che tutti sono creati «secondo la loro specie» (Gen 1,11-12.21.24-25), mentre l’essere umano è creato «a immagine e a somiglianza di Dio» (Gen 1,26-27). Vi è pertanto una differenza essenziale fra l’essere umano e le altre creature o ‘esseri viventi’. Non vi sono ‘specie umane’, ma una sola umanità, tutta unita perché creata a immagine di Dio. Questo elemento fonda l’unità dell’umanità davanti al suo Creatore.[16]

Se poi raffrontiamo il vv. 22 e 28 si coglie subito una differenza.[17] In entrambi i casi, Dio benedice esseri viventi con parole molto simili: «Siate fecondi e moltiplicatevi». L’introduzione dei due discorsi è tuttavia diversa. Nel primo caso (v. 22), si dice soltanto: «E Dio li benedisse dicendo», mentre nel secondo si dice: «E Dio li benedisse e Dio disse loro». Questa breve aggiunta sottolinea il fatto che Dio si rivolge personalmente agli esseri umani, come se volesse iniziare un dialogo. In questo senso allora il plurale, come sostiene Wénin, può essere inteso rivolto all’uomo nella sua singolarità e pluralità per invitarlo a cooperare col suo ‘fare’ al suo agire creatore in modo da portarlo a compimento.[18]

Dominare servendo

Nella seconda interpretazione si è detto che l’immagine e somiglianza sono segni della sovranità e della regalità dell’umanità sull’universo perché la persona umana impersona e rappresenta Dio nel mondo creato. Il testo di Gen 1 parla di due poteri: il primo è quello degli astri (Gen 1,14-19) specificato in 1,16:[19] «E Dio fece le due fonti di luce grandi: la fonte di luce maggiore per governare il giorno e la fonte di luce minore per governare la notte, e le stelle». Il secondo è quello affidato all’umanità da Dio al v. 28: «Dio li benedisse; e Dio disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra”».

I due testi non usano lo stesso verbo per descrivere la sovranità degli astri sul giorno e sulla notte, vale a dire sul tempo, e la sovranità dell’umanità sugli animali. Comunque è chiaro un parallelismo tra questi due poteri. Il sole e la luna, come due grandi orologi, dirigono il cosmo perché dominano sul tempo. Sulla terra, però, è l’uomo ad esercitare la sovranità («soggiogatela») e a dominare su tutti gli esseri viventi, ma non sugli elementi dell’universo come il cielo, il mare e gli astri. Il dominio dell’umanità si estende solo agli esseri ‘animati’ come gli uccelli, i pesci e gli animali, e a tutta la terra. Dio dona uno ‘spazio vitale’ all’uomo, la terra, e di questo spazio egli riceve il ‘dominio’ perché ha il controllo su tutti gli esseri che lo popolano.[20]

Si pone ora l’interrogativo cruciale circa il progetto di Dio: qual era il piano di Dio quando decise di sottomettere tutti gli esseri viventi all’umanità? Quale il suo scopo?

In 1,28 Dio, benedicendo l’umanità e invitandola a «fruttificare» e moltiplicarsi, affida all’umanità una missione espressa in termini di ‘soggiogamento’ e ‘dominio’. Ciò corrisponde all’intenzione divina nel momento in cui ideava il suo progetto (v. 26). Infatti il «secondo la nostra somiglianza» era seguito dall’intenzione di vedere l’umanità dominare gli animali e la terra (v. 26b).[21] La discussione sul ‘dominio’ è ampia e quindi ci limitiamo ad alcune annotazione a partire dal vocabolario.[22] Dio utilizza due verbi per esprimere il potere sugli animali. Il primo ripetuto due volte (v. 26 e v. 28) è il verbo rādah (hd”r”), «dominare». È spesso adoperato per descrivere il potere del re (1Re 5,4.30; 9,23; Is 14,6; Ez 34,4; Sal 72,8; 110,2). Una volta, esso descrive anche l’azione di calpestare, più concretamente di pigiare l’uva (Gl 4,13). L’altro termine è kābaš vbk, «sottomettere» ed esprime l’assoggettamento dei vinti (Nm 32,22.29; Gs 18,1; 2Sam 8,11) o l’asservimento degli schiavi (Ger 34,11.16). Il potere che Dio chiede agli uomini di esercitare non è privo di forza.

Due testi, però, dove viene usato il verbo ra„dah «dominare», sono abbastanza importanti perché mostrano che questo tipo di potere non è assoluto anzi è limitato. Inoltre sono testi marcatamente sacerdotali: si tratta di Ez 34,4 e di Lv 25,43.46.53. Ez 34 si configura come un lungo oracolo di Dio contro i «pastori d’Israele», cioè i suoi re. Il v. 4 recita:

«Non avete reso forti le pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete dominate (ra„dah) con crudeltà e violenza (perek)».

Dio condanna chiaramente il potere esercitato «con crudeltà e con violenza». Si potrebbe rendere il testo «con brutalità». La stessa parola ‘brutalità’ (perek) viene usata tre volte in Lv 25, dove si richiede ai padroni di non trattare i loro servi «con durezza (perek)» o, appunto, «con brutalità» (Lv 25,43.46.53). Al ‘potere’ umano viene posto un limite che non può essere superato senza incorrere nella condanna divina.

L’indagine sul vocabolario, se pur sommaria, ci permette di dire che il ‘potere’ dato all’uomo sugli animali esclude ogni tipo di violenza. L’idea è poi confermata dallo stesso testo genesiaco come si può evincere dalle disposizioni prese da Dio a proposito dell’alimentazione degli esseri viventi in Gen 1,29-30:[23]

«29Dio disse: “Ecco, io vi do ogni erba che fa seme sulla superficie di tutta la terra, e ogni albero fruttifero che fa seme; questo vi servirà di nutrimento. 30A ogni animale della terra, a ogni uccello del cielo e a tutto ciò che si muove sulla terra e ha in sé un soffio di vita, io do ogni erba verde per nutrimento”. E così fu».

Per Gen 1 tutti gli esseri viventi sono vegetariani. Di conseguenza non c’è nessun essere vivente che sia costretto ad uccidere – esercitando, quindi, un potere di vita e di morte – per nutrirsi. Inoltre non vi è nemmeno concorrenza per la stessa alimentazione vegetariana. Infatti Dio riserva all’alimentazione dell’umanità le piante con seme e gli alberi da frutta, mentre gli animali di ogni specie si nutrono di «erba verde». La distinzione non è forse del tutto chiara circa la tipologia delle piante, ma è chiaro che vige un doppio regime alimentare: uno per l’umanità l’altro per tutti gli altri esseri viventi. La motivazione di ciò non è data dal testo, ma è facile dedurla dal contesto. Lo scopo è di evitare la concorrenza, i conflitti e quindi la violenza. Questa idea sarà confermata più avanti nel racconto del diluvio.

Il potere dell’umanità sul mondo, specialmente animale, non si esaurisce solo nell’esclusione della violenza, ma comporta anche un’azione positiva. Anche per questo aspetto si deve far appello al contesto culturale di Gen 1, perché il testo qui è molto allusivo. ‘Governare’, ‘dominare’, ‘regnare’ significa, nella Bibbia come nel VOA, non soltanto esercitare il potere, bensì ‘essere responsabili’ davanti a Dio di chi ti è stato affidato. Ancora una volta è un testo di tradizione sacerdotale a prestarci una mano. Il già citato Ez 34 condanna i pastori d’Israele per due ragioni. Da una parte, perché hanno sfruttato il gregge per il proprio beneficio e l’hanno maltrattato:

«2[…] Guai ai pastori d’Israele che non hanno fatto altro che pascere se stessi! Non è forse il gregge quello che i pastori debbono pascere? 3Voi mangiate il latte, vi vestite della lana, ammazzate ciò che è ingrassato, ma non pascete il gregge».

Dall’altra parte, i pastori non hanno avuto cura del gregge (34,4-5):[24]

«4Voi non avete rafforzato le pecore deboli, non avete guarito la malata, non avete fasciato quella che era ferita, non avete ricondotto la smarrita, non avete cercato la perduta, ma avete dominato su di loro con violenza e con asprezza. 5Esse, per mancanza di pastore, si sono disperse, sono diventate pasto di tutte le bestie dei campi, e si sono disperse».

Leggendo insieme questi testi sacerdotali possiamo immaginare che l’umanità sia responsabile del ‘gregge’ degli animali che gli ha affidato Dio, così come il gregge d’Israele è stato affidato da Dio ai suoi re. La ‘somiglianza’ – dimensione mancante nella narrazione (v. 27), ma presente nelle parole divine (v. 26)[25] – l’umanità la porterà a compimento nella misura in cui dominerà servendo, dominerà promuovendo. Il ‘sogno’ di Isaia 42 dove l’eletto, il prescelto, il messia governerà senza spezzare la canna piegata, senza spegnere il lumino ormai smunto… Gen 1 lo esprime attraverso le immagini del cibo vegetariano e del dominio servizio e lo prospetta come progetto originario di tutta l’umanità. E l’umanità dovrà rendere conto della sua ‘amministrazione’ del gregge, così come i re d’Israele hanno dovuto rendere conto della loro ‘amministrazione’ del gregge al Signore, Dio d’Israele. Di questo parla il racconto del diluvio.

Una speranza mancata

Prima di riposarsi il settimo giorno a conclusione del sesto, Dio «vide tutto quello che aveva fatto ed ecco, era molto buono» (Gen 1,31). Dio è, quindi, soddisfatto di quanto ha fatto. Il suo progetto è andato a buon fine. Alcuni capitoli più avanti, però, quando incontriamo il te­sto di Gen 6,12, la situazione è totalmente rovesciata: «Dio vide la ter­ra ed ecco, essa era corrotta perché tutti gli esseri viventi avevano corrotto le loro vie sulla terra».[26] Dov’è finita la ‘bontà’ di Gen 1? I testi di Gen 3-6,11 mostrano con dovizia di particolare come mai la «terra si è corrotta». C’è la storia della caduta o della prima colpa (Gen 3), poi quel­la del primo omicidio (Caino e Abele: Gen 4,1-16) e infine la proli­ferazione della violenza brutale con Lamech, discendente di Caino (Gen 4,23-24). Il mondo è diventato violento e la violenza ha contaminato tutti gli esseri viventi, uomini e animali. La causa della corruzione del­l’universo è quindi la ‘violenza’ (Gen 6,11.13). Ed è qui che possia­mo individuare l’elemento che, secondo questo testo della Genesi, ha provocato il diluvio e la quasi scomparsa del mondo creato.[27]

Poco prima un altro testo di tradizione più antica, quello di Gen 6,5-8,[28] propone una spiegazione diversa sulle cause del diluvio e, inoltre, descrive molto più esplicitamente la ‘delusione’ divina.

5Il Signore (Jhwh) vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male, sempre. 6E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo. 7Il Signore disse: “Cancellerò dalla faccia della terra l’uomo che ho creato e, con l’uomo, anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo, perché sono pentito di averli fatti”. 8Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore.

Dio aveva fatto un mondo perfetto, ben organizzato, tutto puli­to, nitido e armonioso, e ritrova un mondo corrotto. Gli esseri umani non sono riusciti a mantenere l’armonia voluta da Dio. All’armonia è subentrata la violenza (Gen 6,11.16) e la malvagità (Gen 6,5). Da qui la sentenza di condanna:

Il Signore disse: “Cancellerò dalla faccia della terra l’uomo che ho creato e, con l’uomo, anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo, perché sono pentito di averli fatti”. Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore» (Gen 6,7).

Allora Dio disse a Noè: “È venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco, io li distruggerò insieme con la terra” (Gen 6,13).

Non tutta l’umanità però è corrotta e un uomo con la sua famiglia si salva. È il giusto Noè (Gen 6,9; cfr. 6,8; 7,1). Il giusto nella Bibbia non è solamente colui che è retto ed integro, ma è anche colui che è capace di salvare, di ‘giustificare’. Questa è la funzione di Noè nel racconto del diluvio. Grazie a lui, l’umanità si salva e, con essa, il mondo animale e tutto l’universo. Noè è l’esempio dell’essere umano che compie la missione affidata da Dio all’umanità in Gen 1,28: essere responsabile del mondo e in particolare del mondo animale. Noè però non è il protagonista assoluto della salvezza, in un certo senso egli partecipa della salvezza messa in atto da Dio. Infatti diversi commentatori vedono in Gen 8,1 il punto di svolta del racconto: «Dio si ricordò di Noè». Nel linguaggio biblico il ‘ricordare’ ha un senso pregnante; il verbo ebraico zākār non significa semplicemente richiamare alla memoria qualcosa che si era dimenticato, ma piuttosto prendersi cura di persone o di situazioni che stanno particolarmente a cuore.[29] Dio si ricorda di Noè perché si prende a cuore la sorte dell’umanità e quindi in lui salva tutti gli uomini. In questo senso si può affermare che la ‘giustizia’ di uno solo basta per salvare l’universo. La malvagità universale non è stata abbastanza forte da distruggere l’universo perché vi era almeno un giusto, chiamato Noè, e Dio ‘si ricorda’ di lui. Un uomo almeno ha risposto alla sua attesa.

Il sacrificio di Noè: Gen 8,20-22

Il testo prosegue osservando che Noè offre un sacrificio a Dio, Dio gradisce questo gesto e promette di non sconvolgere mai più l’ordine dell’universo:

20Allora Noè edificò un altare al Signore; prese ogni sorta di animali puri e di uccelli puri e offrì olocausti sull’altare. 21Il Signore ne odorò il profumo gradito e disse in cuor suo: “Non maledirò più il suolo a causa dell’uomo, perché ogni intento del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza; né colpirò più ogni essere vivente come ho fatto. 22Finché durerà la terra, seme e mèsse, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte non cesseranno”».

Dio non maledirà più l’universo e l’ordine delle stagioni non sarà più perturbato. D’altronde, Dio è senza illusioni. Il Dio della Bibbia non corrisponde sempre alle nostre rappresentazioni, ma una cosa è sicura: non è ingenuo. Non si lascia ingannare facilmente. Ha capito che la malvagità si è ormai radicata nel cuore degli uomini: «Il cuore dell’uomo è incline al male fin dall’adolescenza». Malgrado tutto, Dio non demorde dal suo progetto iniziale. Per quale ragione? Il testo ci offre una ragione superficiale e scontata, perché Dio ha bisogno dei sacrifici offerti da Noè, come gli dèi del VOA avevano bisogno dei sacrifici degli uomini. Ma possiamo andare più a fondo. Osserviamo che da parte di Dio non c’è nessuna richiesta di offrire un sacrificio, è Noè che prende l’iniziativa di fare un’offerta, ed è questo che è piaciuto a Dio. Dio è placato dalla sua ira proprio dalla decisione di Noè.[30] «Dio è rassicurato sulla sorte dell’universo perché Noè ha trovato al momento giusto la cosa giusta da fare».[31] E si può sperare con Dio che i discendenti di Noè abbiano ereditato la sua intelligenza.

Alleanza di Dio e il ritorno della Benedizione: Gen 9,1-17

La parte conclusiva del racconto segna un nuovo inizio dell’universo. Dopo il diluvio con la conseguente eliminazione della generazione corrotta tutto è pronto per il nuovo avvio. Segnale chiaro ne è il ritorno della benedizione. In Gen 9,1 Dio benedice Noè e la sua famiglia come aveva benedetto la prima coppia: «Dio benedisse Noè e i suoi figli, e disse loro: “Crescete, moltiplicatevi e riempite la terra”», chiaro richiamo a Gen 1,18. Il mondo può essere di nuovo popolato. Questa volta, però, gli abitanti della terra saranno tutti discendenti di Noè, il giusto (Gen 6,9; 7,1) e Dio può sperare che questa generazione si comporti meglio della precedente.

Dio continuerà a non far mancare la sua benedizione all’umanità. Diventa qui importante la figura di Abramo. Il Signore, infatti, assicura ad Abramo, ai suoi discendenti e a tutte le famiglie della terra la sua benedizione gratuita (cf. 12,3; 18,18; 22,18; anche 26,4; 28,14). Siamo nuovamente di fronte ad una promessa che opera una nuova creazione perché una nuova luce illumina la storia umana: in Gen 1,3-5, di tradizione P, era risuonato per cinque volte il termine «luce», mentre in Gen 3-11 (testi attribuiti a J) è ripetuta per cinque volte la parola «maledizione». Ora in Gen 12,3 risuona cinque volte la «benedizione»: salva l’umanità dalla maledizione, materializzatasi nel diluvio, e vi inserisce una nuova possibilità di vita.

Conclusioni

I due racconti di creazione ci mostrano come Dio sia all’origine della creazione e della nuova creazione venuta alla luce dal diluvio grazie anche alla figura del ‘giusto’ Noè di cui Dio si ‘è ricordato’. Origine che non è solo traiettoria dal presente al passato, ma ancor più dal presente verso il futuro. I testi di creazione ci dicono certo da dove veniamo, ma ancor più ci indicano ciò verso cui andiamo: qual è il progetto di Dio sul creato e sull’umanità che vive sempre nel ‘già’ aperto sul ‘non ancora’ da cui tutto prende senso.

Se poi spingiamo lo sguardo oltre i primi undici capitoli di Genesi ci accorgiamo che essi fanno da premessa e fondamento al racconto delle origini di Israele (sono i patriarchi con capostipite Abramo: Gen 12-50). L’alleanza con Abramo (Gen 17), con cui comincia la storia della vita d’Israele e sulla quale questa poggia, è a sua volta fondata sull’alleanza con Noè (Gen 9), cioè sull’alleanza benigna del Dio misericordioso con tutti gli esseri viventi.

Il racconto delle origini d’Israele, che va da Abramo fino a Mosè, è una esplicitazione di ciò che ha mosso e muove il Dio creatore a compiere la sua creazione: Jhwh ha creato la terra affinché essa sia la casa della sua presenza. Quel che la proposizione «in principio Dio creò il cielo e la terra» significa, nel senso dello scritto P, questo lo si esplica nella teologia della Shekhina del racconto del Sinai, dove Jhwh affida a Mosè «nel settimo giorno», sul Sinai concepito come il monte della creazione, il compito di erigere un santuario, in cui egli vuole abitare come il Dio liberante in mezzo al suo popolo. Questo ci dice qual è il messaggio della teologia della creazione: il ‘progetto’ della creazione si realizza lì dove il mondo diventa il luogo dell’amore e della sollecitudine concretamente sperimentate dal Dio misericordioso. Che questo sia possibile sulla terra – e non solo in cielo – è motivato e narrato, nello scritto P, dal racconto delle origini del mondo. Come e a che scopo ciò avvenga, è motivato e narrato dal racconto delle origini di Israele, che va da Abramo a Mosè.

 

 

 

[1] NDTB, 1361. La voce è stata curata da B. Maggioni.

[2] K. Löning – E. Zenger, In principio Dio creò. Teologie bibliche della creazione, Brescia 2006, 17.

[3] La composizione dello scritto o documento della tradizione sacerdotale risale al periodo esilico o immediatamente dopo (580-500 a.C.). Per una sua presentazione cfr. E. Cortese, Le tradizioni storiche di Israele da Mosè a Esdra (La Bibbia nella Storia 2), Bologna 2001, 139-157; J.-L. Ska, Introduzione alla lettura del pentateuco. Chiavi per l’interpretazione dei primi cinque libri della Bibbia (Collana biblica), Roma 1998, 165-181.

[4] Cfr. E. van Wolde, Racconti dell’inizio. Genesi 1-11 e altri racconti di creazione (Biblioteca biblica 24), Brescia 1999, 25.

[5] Cf. A. Wénin, Da Adamo ad Abramo o l’errare dell’uomo. Lettura narrativa e antropologica della Genesi. I Gen 1,1-12,4 (Testi e commenti 14), Bologna 2008, 24.

[6] Wénin, Da Adamo ad Abramo, 24.

[7] Una sintesi delle diverse interpretazioni è presentata da J.-L. Ska, Il libro sigillato e il libro aperto (Collana Biblica 11), Bologna 2005, 217-221.

[8] Per una presentazione del pensiero dei padri della Chiesa cfr. E. Bianchi, Adamo, dove sei? Commento esegetico-spirituale ai capitoli 1-11 del libro della Genesi, Magnano (BI) 1990, 138-139. Per un approfondimento di questo passo importanti sono gli articoli di J. Barr, «The Image of God in the Book of Genesis: A Study of Terminology», BJRL 51 (1968-1969), 11-26; J.F.A. Sawyer, «The Meaning of‎ beṣelem ’elohim (“in the image of God”) in Genesis I-XI», JTS 25 (1974), 418-426 P.-E. Dion, «Ressemblance et Image de Dieu» in DBSup, X, 378-379.

[9] La stessa interpretazione è quella preferita da C. Westermann, Genesis 1-11. A commentary (Continental Commentary), I, Minneapolis 1984, 158.

[10] Per Groß, il dominio sugli animali è l’aspetto essenziale dell’immagine di Dio. Nel v. 26 i due aspetti, immagine di Dio e dominio sugli animali, sono giustapposti e pertanto collegati: W. Groß, «Die Gottebenbildlichkeit des Menschen im Kontext der Pristerschrift», TQ 161 (1981), 244-264.

[11] Il verbo utilizzato è mšl, «governare», che in Gen 1 è utilizzato a proposito degli astri del cielo (1,16).

[12] D.J.A. Clines, «The Image of God in Man», TB 19 (1968), 53-103.

[13] Westermann, Genesis 1-11, 153.

[14] G.J. Wenham, Genesis 1-15 (WBC 1), Nashville 1987, 31.

[15] Ska, Il libro sigillato, 221.

[16] La tradizione sacerdotale riprenderà il tema e ne farà il fondamento della sacralità della vita (Gen 9,6).

[17] Wenham, Genesis 1-15, 33.

[18] Wénin, Da Adamo ad Abramo, 29.

[19] Su questo argomento cfr. B. Jacob, Das erste Buch der Tora: Genesis, Berlin 1934, 59 e Wénin, Da Adamo ad Abramo, 24-25.

[20] Cfr. Ska, Il libro sigillato, 22; ma anche Dion, «Ressemblance et Image de Dieu», 395-397.

[21] Nel testo ebraico il waw di 26b può essere inteso come «di scopo». La traduzione sarebbe: «A nostra immagine, come nostra somiglianza, affinché dominino…». Cfr. W. Gesenius, Gesenius’ Hebrew Grammar, as edited and enlarged by the late E. Kautzsch, second english edition, rivised in accordance with the twenty-eighth german edition (1909) by E. Cowley, Oxford 1960, § 165a.

[22] Vi è poi la polemica con alcune correnti ecologiste che accusano il testo della Genesi di essere il fondamento ideologico per lo sfruttamento indiscriminato del mondo. Su questo si veda J. Blenkinsopp, Tesori vecchi e nuovi. Saggi sulla teologia del Pentateuco (Studi biblici 156), Brescia 2008, 58-79.

[23] Su questo vedi le belle pagine di P. Beauchamp, Parler d’Éscritures saintes, Paris 1987, 75-91; P. Beauchamp, «Création et fondation de la loi en Gn 1,1 – 2,4a: le don de la nourriture végétale en Gn 1,29s», in P. Beauchamp, ed., Pages exégétiques (Lectio Divina 202), Paris 2005, 105-144; Wénin, Da Adamo ad Abramo, 29-30.

[24] Su questo si può vedere altre reprimende profetiche: Ger 23,1-3; Mi 4,6-7; Sof 3,19; Zc 11,4,17.

[25] Su questo vedi il grafico di Wénin, Da Adamo ad Abramo, 27.

[26] Nel racconto del diluvio il testo fondamentale è quello di P a cui vengono aggiunte delle redazioni successive, è l’ipotesi di J.-L. Ska, «El relato del diluvio: un relato sacerdotal y algunos fragmentos redaccionales posteriores», EstBib 52 (1994), 37-62.

[27] Per il termine ḥamas vedi GLAT, II, coll. 1111-11122.

[28] Il testo viene spesso attribuito a una fonte più antica di P e denominata jahwista perché utilizza il nome divino di Jhwh.

[29] Sul verbo zākār cfr. GLAT, II, coll. 631-637; per W. Brueggemann, Genesi (Strumenti/commentari 9), Torino 2002, 111-112 centrale è il ricordarsi di Dio.

[30] Vi sono paralleli nell’epopea di Gilgamesh e di Atrahasis. Ma c’è una differenza sostanziale: nei poemi mesopotamici, il gesto ha un altro valore: dopo il diluvio e la distruzione del genere umano, gli dèi affamati sono felici di sentire l’odore della carne proprio quando si chiedono chi darà loro da mangiare. Solo allora si accorgono che qualcuno è sopravvissuto e quindi il genere umano continuerà a svolgere una delle mansioni più importanti: lavorare per gli dèi oziosi. Per i testi cfr. G. Ravasi, ed., L’Antico Testamento e le culture del tempo. Testi scelti (Studi e ricerche bibliche), Roma 1990; N.K. Sandars, L’epopea di Gilgames (Piccola Biblioteca Adelphi 194), Milano 1986.

[31] Ska, Il libro sigillato, 229.